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La grande sapienza individuale

Inizio

La realtà tra guerra e amore

Tra la fine del 6º sec. e l'inizio del 5º, la sapienza della periferia del mondo greco produce tre modelli che avranno una notevole influenza sulla nascita della filosofia ad Atene. Non si tratta affatto di fondatori di «scuole filosofiche», ma piuttosto di personaggi carismatici che esercitano un forte peso culturale, politico e religioso nelle loro città. 

Il primo di tali personaggi è Eraclito: aristocratico di Efeso, in uno scritto presto diventato oscuro per gli stessi greci avanza una radicale contestazione del buon senso popolare. Riagganciandosi a temi di natura orfica, viene proposta come alternativa l'attenzione alle leggi naturali che governano l'universo (esse devono costituire un modello anche per le leggi cittadine), e la conoscenza di sé come ritorno all'interiorità. In questo modo è possibile scoprire la nascosta armonia che governa ogni cosa: essa deriva dalla coesistenza necessaria (la «guerra») di ciò che apparentemente è opposto e inconciliabile. Questo vale anche nell'esistenza umana, nella quale i valori della vita e della morte sono relativi l'uno all'altro. Questo principio di unità e di conflitto viene ravvisato, per quanto riguarda la vita dell'universo, nel fuoco, concepito come una sorta di materia attiva primordiale. 

Contemporaneamente ad Eraclito, Parmènide di Elea presenta in un poemetto le parole della dea Giustizia, che insegna a distinguere la verità dalle fragili opinioni degli uomini. Il punto di partenza è una riflessione sul verbo «essere», che domina il linguaggio umano: esso esclude assolutamente il «non essere», il quale è anzi addirittura impensabile. Scoprire la verità equivale dunque a comprendere le caratteristiche di «ciò che è». Esso è anzitutto «ingenerato»: oltre a «ciò che è», c'è infatti solo il nulla, ma da questo non può nascere alcunché. Sulla base di tale opposizione al nulla si può dimostrare che «ciò che è» è anche unico, immobile e perfetto. Ciò significa aver mostrato come le «opinioni», che credono di riconoscere una pluralità di cose che nascono e muoiono, si lasciano ingannare dalle apparenze. Solo il pensiero è in grado di rivelare che il cuore della realtà è immobile e perfetto, immune da qualsiasi mutamento storico. 

La terza grande figura della sapienza greca è il siciliano Empèdocle. D'accordo con Parmènide nel ritenere nascita e morte delle cose una semplice apparenza, egli individua però quattro «radici» (qualcosa come «elementi chimici») che rimangono sempre identiche, dando origine alle diverse cose tramite processi di composizione e scomposizione. Le radici, ricavabili dall'esperienza degli stati fisici della materia, sono terra, acqua, aria e fuoco. I processi non possono però a loro volta essere causati dagli elementi: bisogna postulare dunque una forza di unione, l'«Amorevolezza», e una di divisione, l'«Odio». Queste due permettono non solo d'interpretare la storia del mondo come un susseguirsi di influenze contrastanti, ma anche di fondare una morale basata sull'amicizia, sulla non violenza, sull'armonia universale di tutti gli esseri.  

Sommario

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Statua di arciere mentre tende l'arco

Statua di Ercole arciere (Egina, 5º sec. a.C.). La naturalezza, l'armonia e il realismo appaiono tipici dell'arte figurativa greca. Tali elementi sono però spesso l'espressione esteriore di un mondo fatto anche di inquietudini, di oscurità, di guerra e di morte. Gli dèi e gli eroi che combattono sanguinosamente rappresentano bene la tensione di una cultura oscillante tra l'aspirazione all'eternità e la percezione dell'inguaribile fragilità di ogni cosa.

L'arco colpisce da lontano, e il suo nome (bios) significa anche paradossalmente «vita». Per questo Eraclito lo considera come uno dei simboli della sapienza, con il suo carico di profondità e ambiguità.


1. Eraclito di Efeso

Efeso, 5º sec. a.C. Parteggiò contro i democratici. Scrisse un trattatello senza titolo, a cui nell'epoca ellenistica venne assegnato il titolo convenzionale Sulla natura.

1.1. Il nuovo «discorso»

Posto nella tradizione del vivace pensiero ionico, Eràclito rappresenta uno dei punti di partenza fondamentali per la nascita della filosofia greca. La sua importanza contrasta curiosamente con la difficoltà d'interpretazione che il suo unico scritto mostrò già nell'antichità, al punto da far meritare all'autore il soprannome di «oscuro» (skoteinós). Non è però certo che Eraclito abbia composto con intenzionale oscurità il suo scritto: è anche possibile che molti riferimenti che dovevano apparire chiari ai concittadini siano divenuti inintellegibili per i posteri. Fatto sta che la nostra situazione non è molto migliore di coloro che indicarono in Eraclito l'«oscuro» per eccellenza: malgrado il grande numero di frammenti pervenuti (più d'un centinaio), la loro brevità e la completa impossibilità di ricostruirne l'ordine primitivo rendono poco chiare le sue intenzioni precise. L'unico brano di una certa ampiezza che ci è pervenuto è l'esordio:

Questo discorso (tou de lógou tóude) che c'è sempre gli uomini mancano di comprenderlo, sia prima di ascoltare sia una volta che hanno ascoltato. Infatti, pur nascendo tutte le cose secondo questo discorso, essi assomigliano ad inesperti, anche se sperimentano parole e fatti tali quali io li espongo distinguendo ciascuna cosa secondo natura (katá phýsin) e dicendo com'è. Ma agli altri uomini è nascosto ciò che fanno da svegli così come dimenticano ciò che fanno dormendo (DK 22 B 1 = Colli 14 [A 9]).

Con queste parole viene introdotto uno dei temi più importanti dello scritto: la polemica contro coloro che non comprendono la realtà. Ma qual è il «discorso» cui si riferisce Eraclito? Non è impossibile che egli si riferisca al suo stesso scritto. È più probabile però che egli alluda a qualcuno dei «discorsi sacri» di natura orfica, che presumibilmente a quell'epoca cominciavano a diffondersi. La sua opera si presenterebbe allora come un chiarimento e un approfondimento di dottrine di natura religiosa, il che non è dissonante con i contenuti che effettivamente conosciamo. È difficile essere più precisi.

Integrazione: Questa interpretazione è coerente con ciò che le testimonianze più antiche riferiscono: nessuna in effetti attribuisce in Eraclito una qualche importanza al concetto di lógos in sé e per sé. La situazione muta con l'età ellenistica, quando gli Stoici vedranno in Eraclito un precursore della loro teoria del lógos universale (ora inteso come «ragione»), che è la più alta facoltà intellettuale dell'uomo e contemporanemante il principio che governa il cosmo. Benché questa interpretazione venga ancor oggi spesso accettata, sembra da respingere in quanto anacronistica. Ancor meno convincenti sono i tentativi di mostrare che il lógos possiede in Eraclito un triplice riferimento: da una parte alla realtà (lógos oggettivo), dall'altra al pensiero (lógos soggettivo), dall'altra ancora al linguaggio (lógos espressivo). La corrispondenza di questi tre piani è infatti tutt'altro che abituale nella mentalità greca, dove al contrario è frequente la contrapposizione tra épea ed érga, «parole» e «fatti», proprio come si esprime Eraclito nel frammento or ora visto. È solo con Parmènide che si tenterà di dimostrare questa triplice corrispondenza, presto nuovamente negata da Gorgia di Lentini. Fine dell'integrazione

La polemica di Eraclito acquista un volto più preciso nei frammenti in cui vengono contestati sia la saggezza popolare, sia i più stimati maestri di sapienza, sia i consueti riti religiosi:

Qual è il loro intelletto e il loro animo? Confidano negli aedi del popolo e usano il volgo come maestro, non sapendo che la gente è cattiva, e pochi sono buoni (DK 22 B 104 = Colli 14 [A 72]).

L'erudizione (polumathíe) non insegna l'intelletto: altrimenti l'avrebbe insegnato ad Esiodo e Pitàgora, e poi a Senòfane ed Ecateo (DK 22 B 40 = Colli 14 [A 67]).

Si purificano contaminandosi con altro sangue [cioè con i sacrifici], come se uno caduto nel fango si lavasse con il fango. E pregano queste statue, come se qualcuno parlasse con le case, non sapendo per niente chi sono gli dèi né gli eroi (DK 22 B 5 = Colli 14 [A 21]).

Una volta eliminate queste forme sapienziali, sembra restare una duplice possibilità. In primo luogo bisogna dare importanza a ciò che è «comune». Con questo termine (che indica anche il «pubblico» in contrapposizione al «privato») Eraclito non si riferisce alla mentalità «comune», ma alla «legge» universale che governa l'universo, concepito evidentemente come una sorta di grande polis. Tale legge è testimoniata ed espressa dal «discorso»:

Per questo è necessario seguire ciò che è comune (xynón). Ma pur essendo il discorso comune, la gente vive come avendo una propria privata saggezza (idían phrónesin) (DK 22 B 2 = Colli 14 [A 13]).

Bisogna che chi parla con intelletto si faccia forte di ciò che è comune a tutte le cose, così come fa una città con la legge e molto più fortemente ancora. Infatti tutte le leggi umane si alimentano di una sola, quella divina: essa infatti governa tanto quanto desidera e basta e avanza per tutte le cose (DK 22 B 114 = Colli 14 [A 11]).

D'altra parte ci sono diversi frammenti che sottolineano il carattere interiore della saggezza che viene proposta. Echeggiando alcuni motivi tipici dell'orfismo (ma anche della sapienza apollinea del tempio di Delfi), è anzitutto la conoscenza della propria anima (psyché) che mette l'uomo in grado di raggiungere un «discorso» prezioso quanto quello degli oracoli che venivano tradizionalmente consultati:

A tutti gli uomini è possibile conoscere sé stessi ed essere saggi (DK 22 B 116 = Colli 14 [A 50]).

Dell'anima è un discorso che accresce sé stesso (DK 22 B 115 = Colli 14 [A 10]).

I limiti dell'anima camminando non li puoi trovare, percorrendo ogni strada: così profondo il discorso che ha (DK 22 B 45 = Colli 14 [A 55]).

Ho consultato me stesso (DK 22 B 101 = Colli 14 [A 37]).

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1.2. Armonie e opposizioni

Ma qual è il contenuto del discorso sapienziale che viene ascoltato o portato alla luce dalla propria interiorità? Un frammento è molto esplicito al proposito:

Per chi ha ascoltato non me, ma il discorso, sapienza è sapere che tutte le cose sono una sola (DK 22 B 50 = Colli 14 [A 3]).

L'«unità» di cui parla Eraclito non sembra però da intendere nel senso di una indistinzione, ma piuttosto di una universale connessione di tutte le cose, invisibile ad un primo sguardo ma ciononostante forte ed efficace:

L'armonia non apparente è più forte di quella apparente (DK 22 B 54 = Colli 14 [A 20]).

La natura (phýsis) ama nascondersi (DK 22 B 123 = Colli 14 [A 92]).

Il termine phýsis è in realtà tradotto molto imperfettamente con «natura». Esso è infatti un nomen actionis che deriva dalla radice phy- (avente un significato analogo a gen-), che indica il sorgere spontaneo delle cose. Nella lingua greca il verbo corrispondente (phýo) si specializzò poi per indicare il processo di sviluppo delle piante. Più che con «natura», quindi, nelle testimonianze più antiche potrebbe essere reso con «nascita», «origine». Il significato del frammento è così più preciso: ciò che «ama nascondersi» e rimanere «non apparente» è quel processo tramite cui ogni cosa giunge ad essere ciò che è, e nel quale solo può vedersi l'universale armonia ed unità dell'universo: il seme, donde proviene la pianta, deve nascondersi per cominciare il suo segreto sviluppo. Tale armonia ha un aspetto indubbiamente paradossale: essa infatti risulta da quelle opposizioni che paiono più di tutte dissonanti. Ecco le parole di Eraclito, in cui si giunge, sulla scìa orfica, a coinvolgere persino il dio in questo universale congiungimento degli opposti:

Ciò che si oppone concorda, e l'armonia più bella è data dalle cose discordanti, e tutte le cose nascono secondo la contesa (érin) (DK 22 B 8 = Colli 14 [A 5]).

Contatti: totalità e non totalità, concordante e discordante, consonante e dissonante: e da tutte le cose una sola e da una sola tutte (DK 22 B 10 = Colli 14 [A 27]).

La stessa cosa è vivente e morto, e sveglio e dormiente, e giovane e vecchio: queste cose infatti rovesciate sono quelle, e quelle di nuovo rovesciate sono queste (DK 22 B 88 = Colli 14 [A 115]).

Il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà carestia, e si altera così come il fuoco, quando è mescolato a spezie, viene chiamato secondo il profumo di ciascuna (DK 22 B 67 = Colli 14 [A 91]).

Un'idea simile viene espressa nei frammenti che personificano la «Guerra» (Pólemos), indicandola come il principio apparentemente distruttore ma in realtà all'origine dell'armonica distinzione di tutte le cose. È possibile che in questa teoria si nasconda anche da parte di Eraclito una presa di posizione relativa a questioni politiche della sua città, che verrebbe così invitata alla lotta:

Bisogna che la Guerra sia comune, e la giustizia sia contesa (DK 22 B 80 = Colli 14 [A 7]).

La Guerra di tutti è padre, di tutti è re, e gli uni mostrò dèi e gli altri uomini, gli uni fece schiavi e gli altri liberi (DK 22 B 53 = Colli 14 [A 19]).

Ma che cosa significa che gli opposti sono di loro natura congiunti e armonizzati? Alcuni frammenti offrono chiari esempi e similitudini. In alcuni casi si mostra che concetti apparentemente opposti possono in realtà coincidere mutato solo il punto di vista, in altri che ogni cosa può essere giudicata solo considerandola unita al proprio contrario:

La strada in sù e in giù è una e la stessa (DK 22 B 60 = Colli 14 [A 32]).

Comune è l'inizio e la fine nella circonferenza (DK 22 B 103 = Colli 14 [A 12]).

Il mare è acqua purissima e contaminatissima: per i pesci bevibile e salutare, per gli uomini imbevibile e letale (DK 22 B 61 = Colli 14 [A 39]).

È la malattia che rese la sanità piacevole e buona, e così la carestia la sazietà, la stanchezza il riposo (DK 22 B 111 = Colli 14 [A 111]).

Nello stesso fiume non si può scendere due volte (DK 22 B 91 = Colli 14 [A 45] a).

L'ultimo di questi frammenti richiede un breve commento. Se un fiume è composto da acqua, e l'acqua scorre continuamente, ogni fiume sarà in ogni momento un «altro», perché diverse saranno in ogni momento le sue acque. In questo modo Eraclito sembra affermare che la contraddizione s'insinua anche nelle cose che sembrano unitarie e indivisibili, ma che in realtà sono costituite dalla giustapposizione di innumerevoli elementi distinti. La realtà è -- per così dire -- irrimediabilmente frantumata.

Una serie di altri frammenti è dedicata a sviluppare, sullo sfondo dei princìpi ora esposti, una interpretazione del cosmo naturale e dell'uomo. Riguardo al primo tema, un posto di primo rilievo è assunto dal fuoco o dal fulmine, che viene individuato non solo come «governante» del cosmo, ma anche come elemento nel quale converge l'intero universo:

Il fulmine governa tutte le cose (DK 22 B 64 = Colli 14 [A 82]).

Il fuoco è saggio (DK 22 B 64 = Colli 14 [A 87]).

Questo cosmo, lo stesso di tutti, non lo fece nessuno degli dèi né degli uomini, ma era sempre ed è e sarà fuoco semprevivo, che si accende con misura e si spegne con misura (DK 22 B 30 = Colli 14 [A 30]).

Tutte le cose sono un baratto del fuoco e il fuoco di tutte le cose, come i beni dell'oro e dei beni l'oro (DK 22 B 90 = Colli 14 [A 29]).

Integrazione: Benché da alcune testimonianze sembra che Eraclito sostenesse solo che il cosmo è destinato alla fine a trasformarsi in fuoco, quest'ultimo frammento pare indicare il fuoco anche come «materia prima» dell'universo. Si è poi osservato (G. Thomson) che è solo un'economia mercantile, fondata su quello che verrà chiamato «valore di scambio», che può aver suggerito l'idea di una materia unica di tutte le cose, così come lo stesso denaro indica il valore di qualsiasi merce. Il suggerimento può essere giusto, ma la sua importanza non va sopravvalutata: sono così numerosi gli stimoli culturali che convergono in Eraclito e in generale nell'antica sapienza greca, che è impossibile ricondurli tutti a motivi di un unico carattere. Fine dell'integrazione

Riguardo all'uomo, i pensieri di Eraclito paiono bene in linea con le idee orfiche, nelle quali vita e morte acquistavano -- come abbiamo visto -- un valore relativo e persino contrario a quello loro comunemente attribuito:

Morte è quanto vediamo da svegli, sogno quanto vediamo dormendo (DK 22 B 21 = Colli 14 [A 32]).

Gli uomini morti li aspettano cose che essi non sperano né immaginano (DK 22 B 27 = Colli 14 [A 58]).

Una volta nati desiderano vivere ed avere morte, e lasciano figli affinché nasca morte (DK 22 B 20 = Colli 14 [A 62]).

Integrazione: Malgrado le difficoltà d'interpretazione, non è difficile individuare diversi aspetti del pensiero di Eraclito che avranno grande vitalità nella cultura greca. Si pensi per esempio al concetto di «legge fisica», che viene abbozzato per la prima volta sull'analogia delle leggi cittadine, oppure all'idea che l'intera realtà è distinta in elementi irriducibilmente distinti, oppure ancora alla visione di fondo secondo la quale il vero segreto della realtà è nascosto e va portato alla luce tramite una sapiente opera di decifrazione. Fine dell'integrazione

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2. Parmènide di Elea

Elea, 5º sec. a.C. Pare abbia svolto la funzione di legislatore. Scrisse un poemetto senza titolo, a cui nell'epoca ellenistica venne assegnato il titolo convenzionale Sulla natura.

2.1. Verità e opinione

Le notizie antiche indicano in Parmènide di Elèa (Velia in latino, in Magna Grecia) un discepolo di Anassimandro e Senofane. Tale legame -- benché spesso contestato dagli studiosi -- non pare inverosimile, giacché le idee di Parmènide rappresentano sotto diversi aspetti una versione radicale di quelle dei due sapienti: dal primo può aver tratto l'intuizione di un sottofondo nascosto della realtà, dal secondo l'affermazione dell'unicità del divino e la determinazione nell'affrancarsi dalle tradizionali concezioni mitiche. Non improbabili sembrano anche dei rapporti di Parmènide con la scuola pitagorica, che godeva di grande stima e diffusione in Magna Grecia.

Parmènide affidò l'esposizione del suo pensiero ad un poemetto composto nella solenne lingua omerica, piegata con non poca difficoltà alle esigenze di uno stile argomentato e astratto. Il testo esordisce con la narrazione di un viaggio compiuto attraverso la «via del dio». Pare che la descrizione dei luoghi sia ispirata alla reale topografia di Elea, in cui una strada poco frequentata costituiva l'unica possibilità di unione tra i due distanti quartieri che costituivano la città. I contorni reali sfumano però sùbito nel simbolo: il viaggio è scortato dalle figlie del Sole e conduce alla dea Giustizia -- rappresentazione delle immutabili leggi del cosmo -- che rivolge la parola a Parmènide:

O giovane, compagno d'immortali aurighi,
che giungi con le cavalle che ti portano a casa nostra,
salve, giacché non un cattivo destino ti spinse a percorrere
questa strada (infatti non è calpestata dagli uomini)
ma Norma e Giustizia. Bisogna che tu tutto venga a sapere,
sia il cuore immobile della tonda Verità (alethéie),
sia i pareri (dóxai) dei mortali, in cui non c'è vera credenza.
Ma tuttavia anche queste apparenze apprenderai, come bisogna
che le giudichi chi in ogni modo tutto indaga (DK 28 B 1,24-32).

In queste righe viene indicata espressamente quella contrapposizione che, già anticipata da altri sapienti, svolgerà un ruolo fondamentale nel resto della storia della filosofia: verità e parere (ovvero opinione). Sottintesa da questa contrapposizione è l'idea che, come si usa dire, le apparenze ingannano: è necessario oltrepassare la prima impressione per giungere a conoscere l'originaria verità delle cose, che in Parmènide -- come si vedrà -- è molto distante e diversa. Ciò però non significa che i «pareri» possano o debbano essere ignorati: sarà anzi la stessa dea a farli conoscere, e alla sapienza «secondo verità» si dovrà affiancare quella «secondo il parere».

Integrazione: È importante capire quale sia l'originario senso greco del termine «verità» (alétheia), In Omero essa non è contrapposta alla «falsità», ma alla «menzogna»: la verità è sempre quella che si dice, non quella che è. Nel sèguito si passa ad un senso più oggettivo: esistono cose «vere» così come cose «apparenti». L'etimologia può aiutare a precisare che cosa significhi in questo caso la verità: il termine greco sembra derivare dalla radice lath- di lanthánomai, preceduta dall'alpha privativo: dunque la verità è il «non nascondimento», il «disvelamento». Vero è dunque ciò che viene a perdere gli schermi ingannevoli che ne impediscono la conoscenza. Questo è evidentemente il significato in Parmènide. È anche possibile che ad un orecchio greco, oltre che al «nascondimento», la verità si opponesse all'«oblìo» (questo è il significato di léthe): in questo modo si stabilirebbe un legame con il carattere rivelativo della memoria (mnemosýne), tipico del pensiero arcaico greco. Fine dell'integrazione

La prima parte del poemetto è dunque dedicata alla verità. Eccone il piano fondamentale, espresso da Giustizia:

Ora io ti dirò, e tu ascoltando conserva il racconto (mýthon),
quali sono le sole vie di consultazione da pensare:
l'una [dice] che è e non è [possibile] che non sia
(he men hópos éstin te kai hos ouk ésti mé éinai):
è il sentiero di Convinzione (infatti è compagna di Verità);
l'altra [dice] che non è e che è necessario che non sia
(he de hos ouk éstin te kai hos chreón ésti mé éinai).
Questa ti spiego che è un sentiero inindagabile:
né infatti puoi conoscere il non ente (mé eón) (infatti è impossibile)
né spiegarlo: perché è lo stesso che può pensarsi ed essere
(to gar auto noein estín te kai éinai) (DK 28 B 2-3).

Si tratta di versi tutt'altro che trasparenti, dei quali sono possibili interpretazione alquanto differenti. Secondo quella più probabile, il punto di partenza per comprendere queste affermazioni è linguistico: la strada per oltrepassare le apparenze e comprendere il vero senso della realtà è secondo Parmènide una riflessione sui meccanismi dell'espressione verbale. Nella lingua greca il verbo dominatore (si potrebbe anche dire: l'unico verbo), è il verbo «essere» inteso come predicato. Tutte le affermazioni sulla realtà si possono dunque ridurre a due: «è» e «non è». Tali affermazioni sono contraddittorie, dunque l'una esclude assolutamente l'altra: è ciò che viene sottolineato da Parmènide quando egli afferma che «è» significa che «non è possibile che non sia», e che «non è» significa che «è necessario che non sia». È questa la prima enunciazione della legge logica che prenderà il nome di «principio di non contraddizione».

Vengono così individuate le sole due «strade di consultazione»: ad esse -- come fossero un oracolo -- bisogna chiedere ragione del senso della realtà. Una terza via non c'è e non può esserci: l'unica alternativa all'«è» e al «non è» è infatti il silenzio o l'assurdo, dai quali non può essere raggiunta alcuna verità. Ma le due strade non svolgono un ruolo simile. La seconda di esse va infatti sùbito abbandonata in quanto «inindagabile». Perché? Spiega la dea: perché ciò che «non è» non può essere in alcun modo pensato. Una cosa può essere pensata infatti solo in quanto esistente (o al limite come se fosse esistente). La pura negazione, il puro nulla, sono assolutamente impensabili e dunque inindagabili. Insomma: oggetto del pensiero è il soggetto dell'essere, e soltanto esso.

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2.2. Le caratteristiche di «ciò che è»

Dopo aver riassunto i termini della questione, Giustizia passa ad enumerare le tappe che si incontreranno lungo la strada dell'«è»:

Giammai sarà dimostrabile che i non enti siano:
ma tu da questa strada di consultazione allontana il pensiero,
né l'abitudine di molte esperienze ti costringa, su questa strada,
ad usare un occhio che non vede e un udito e una lingua
che rimbomba, ma giudica col discorso la confutazione battagliera
da me detta. E ancora un solo racconto di una strada
rimane: che è. E su questa vi sono segnavia
in gran numero: [1] che l'ente è non generato e immortale,
[2] completo, unigenito, [3] immobile e [4] perfetto (DK 28 B 7,1-8,4).

Una volta appurato che l'unica strada percorribile è quella dell'«è», si tratta insomma di comprendere quali siano le caratteristiche di «ciò che è», dell'«ente». In questo modo al centro del discorso di Giustizia viene posto quel participio presente che, già usato da Anassimandro, giocherà d'ora in poi un ruolo fondamentale nella filosofia. Le caratteristiche dell'ente che vengono enumerate prima di essere discusse in dettaglio, sono già a prima vista sorprendenti. Ma questo è proprio il segno del fatto che comunemente, piuttosto che affidarsi alla ragione, gli uomini preferiscono dar fiducia alle apparenze ingannevoli. La prima caratteristica dell'ente è dunque la sua atemporalità, o forse meglio «presenzialità»:

[1] Né mai era né sarà, poiché è ora tutto assieme,
uno solo, continuo. Quale mai nascita cercherai di esso?
Cresciuto come? e da dove? Né del non ente te lo lascerò
affermare né pensare, perché non è né dicibile né pensabile
che non è. E quale necessità l'avrebbe spinto
dopo piuttosto che prima, a nascere cominciando da niente?
Così bisogna o che esista del tutto o che non sia.
Né mai la forza della credenza ammetterà che dal non ente
nasca qualcosa di diverso. Per questo né nascere
né morire gli permise Giustizia sciogliendo le catene,
ma lo trattiene, e il giudizio su queste cose è in questo:
è o non è. Dunque è giudicato, come è necessario,
di lasciare una strada come impensabile e anonima (perché
non è vera), e che l'altra esiste ed è vera strada.
E come potrebbe morire l'ente? Come potrebbe nascere?
Se infatti nacque o se un giorno verrà ad essere, non è.
Così la nascita è spenta e di morte non si ha notizia (DK 28 B 8,5-21).

Il ragionamento principale è chiaro: l'unica cosa diversa dall'ente è il non ente, cioè il nulla. Se l'ente dunque nascesse dovrebbe provenire dal nulla. Ma questo è impossibile, perché nulla proviene dal nulla. E poi, che cosa l'avrebbe dovuto far nascere? Dunque l'ente è ingenerato, e in maniera analoga si può concluderne l'immortalità. Ma ciò significa che l'ente è sempre presente, estraneo al tempo inteso come misura della trasformazione. Con questa conclusione viene argomentata quella opposizione polare tra l'essere (éinai) e il nascere (gígnesthai) che è già implicita nella stessa lingua greca: si può dire che è veramente soltanto ciò che esiste in una stabile presenza. Oltre alla presenzialità, in questi versi viene anche accennata quell'ulteriore sorprendente qualità dell'ente che nella tradizione posteriore sarà stabilmente legata al pensiero di Parmènide: esso è «uno» (o «unigenito», cioè «senza fratelli», come poeticamente è stato prima detto). Questo è l'aspetto sotto il quale il pensiero di Parmènide sembra collegarsi a quello di Senofane:

[2] Né è divisibile, perché è tutto quanto uguale:
non c'è qua un di più, che gli può impedire di essere continuo,
né un di meno, ma tutto è pieno di ente.
Perciò è tutto continuo, perché l'ente s'accosta all'ente (DK 28 B 8,22-25).

A parte alcune espressioni poco chiare, il senso complessivo pare questo: ammettere più enti significherebbe introdurre delle differenze di qualità o quantità. Ma le une e le altre sono proibite, perché l'alternativa all'esistenza è solo la non esistenza. In questo modo, l'ente di cui parla Parmènide viene ad avvicinarsi all'idea di «universo» (pán): esso è unico e sono inimmaginabili più universi contemporanei. Ma bisogna sempre ricordare che non si parla mai dell'universo come appare (che è -- come detto all'inizio -- incerto e illusorio), ma piuttosto l'universo come è nella sua verità. Ciò è confermato dalla terza caratteristica dell'ente, e cioè l'immobilità:

[3] Inoltre, immobile (akíneton) nei limiti di grandi vincoli,
è senza principio e senza fine, poiché nascita e morte
molto lontano errarono, e la credenza vera li cacciò.
Rimanendo lo stesso nello stesso luogo per sé stesso, giace
e così rimane fisso: infatti la forte Necessità
lo tiene nei vincoli d'un limite che lo stringe intorno,
poiché è norma che l'ente non sia incompiuto,
ché non è manchevole: ma il non ente manca di tutto (DK 28 B 8,26-33).

L'idea di fondo è qui simile al secondo argomento col quale era stato dimostrato che l'ente è ingenerato. Anche in questo caso bisogna infatti dire: che cosa lo dovrebbe far muovere o trasformare (kinómai significa in greco entrambe le cose), se al di fuori dell'ente c'è solo il nulla? Ecco infine la quarta e ultima caratteristica dell'ente, la perfezione:

[4] Ma poiché c'è un limite estremo (péiras), è perfetto
da ogni parte, simile alla massa di una sfera ben rotonda,
che dal centro ha lo stesso raggio: infatti né maggiore
né minore è necessario che sia di qua o di là.
Infatti non esiste il non ente che gl'impedisca di raggiungere
l'uguaglianza, né esiste un ente tale che sia
qua di più e là di meno, perché è tutto inviolabile.
Infatti dovunque è uguale a sé e preme ugualmente nei limiti (DK 28 B 8,42-49).

In altre parole: solo una pluralità di esistenze potrebbe attentare all'omogeneità e alla perfetta simmetria dell'ente. Si noti che essere perfetto equivale a possedere dei limiti (péirata) precisi, che nella maniera più armonica si mostrano nella sfera. Al contrario l'«infinito», l'«illimitato» è concepito come essenzialmente informe e imperfetto. Questa concezione -- malgrado le occasionali trasgressioni -- ha un'estensione universale nel pensiero greco.

È così terminata la dimostrazione delle quattro caratteristiche dell'ente: atemporalità, unicità, immobilità, perfezione. Ma che cosa dire allora del linguaggio umano che -- pur avendo in sé gl'indizi che permettono di raggiungere la verità -- tuttavia costantemente trasgredisce le leggi immutabili dell'ente? La sentenza pronunciata da Giustizia, dopo un breve riassunto dei risultati raggiunti, è molto severa:

È lo stesso ciò che si può pensare e ciò di cui c'è pensiero
(Táutón d'ésti noéin te kai hóuneken ésti nóema),
perché senza l'ente, in cui è espresso, non
troverai il pensare: infatti null'altro è o sarà
all'infuori dell'ente, poiché il Fato lo vincolò
ad essere intero e immobile. Perciò saranno solo nomi
che i mortali posero confidando che fossero veri:
nascere e morire, essere e non essere,
mutare luogo e cambiare per il colore luminoso (DK 28 B 8,34-41).

Con ciò siamo già giunti alla soglia dell'esposizione dei «pareri dei mortali», che costituisce la seconda parte del poemetto. Di questa, che si occupava soprattutto di problemi astronomici e biologici, sono rimasti frammenti scarsi. Le testimonianze aiutano di più, ma l'interesse di queste teorie, in cui Parmènide riconosce che non c'è «vera credenza», è ovviamente molto più limitato. Degna di menzione è almeno l'affermazione della sfericità della terra (il cui primato potrebbe però spettare a Pitàgora). Più interessante citare una lucida testimonianza di Aristòtele, in cui sembra bene individuato lo spirito con il quale Parmènide compose la seconda parte del poemetto:

Parmènide sembra parlare tenendo gli occhi più aperti [rispetto ad altri sapienti]: infatti ritenendo che oltre l'ente non ci sia affatto il non ente, di necessità ritiene che l'ente sia uno e non ci sia null'altro (...); costretto però a tener conto delle apparenze (tois phainoménois), e supponendo che l'uno sia secondo il pensiero (katá ton lógon) e il molteplice secondo la sensazione (katá ten áisthesin), pone di nuovo due cause e due princìpi: il caldo e il freddo, poiché parla del fuoco e della terra: di essi il caldo lo classifica come ente, l'altro come non ente (Metafisica, I 986 b27 -- 987 a2 [greco]).

Sebbene forse non del tutto esplicita, a Parmènide risalirebbe allora anche la contrapposizione tra pensiero e sensi: il primo raggiunge la verità, i secondi solo l'apparenza. Anche questa è un'opposizione che avrà un futuro fecondissimo.

Integrazione: Già più volte si è accennato alla straordinaria influenza del poemetto di Parmènide. Oltre a porre alcuni dei punti di partenza della filosofia occidentali, esso verrà costantemente ammirato come esempio di un pensiero così rigoroso e coraggioso da non fermarsi neanche di fronte alle affermazioni più paradossali e contrarie all'esperienza. Neanche gli elementi religiosi sono più invocati a sostegno delle proprie opinioni, e l'inquadramento mitico del poema sembra avere un aspetto quasi solo decorativo. Ecco le parole ammirate che Platone porrà in bocca a Socrate:

Parmènide mi sembra, con le parole d'Omero, che sia insieme «venerando e terribile». Infatti mi avvicinai a quell'uomo quando io ero molto giovane e lui molto vecchio, e mi parve avere una profondità eccezionalmente nobile» (Teeteto, 183 e5 -- 184 a1 [greco]).

È significativo che ancora oggi c'è chi può definirsi «parmenideo» e ritenere unico compito del pensiero quello di ripensare con radicalità l'«essere» (Emanuele Severino). Ciò non toglie che gran parte della storia della filosofia -- se non addirittura tutta -- sarà animata dal tentativo di demolirne le tesi capitali: che linguaggio, pensiero ed essere si corrispondono in maniera potenzialmente perfetta, che il non essere è assolutamente impensabile, che il divenire è illusorio. Già Platone, malgrado tutta la sua ammirazione, si vedrà costretto a compiere quello che temeva fosse giudicato un «parricidio» (Sofista, 241 d3 [greco]), e forse lo era veramente. Fine dell'integrazione

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3. Empèdocle di Agrigento

Agrigento, 5º sec. a.C. A capo dei democratici, venne successivamente mandato in esilio. Compose due poemetti: il primo noto con il titolo convenzionale Sulla natura, il secondo con il titolo Purificazioni.

3.1. Le quattro radici

È ancora nella Magna Grecia, ad Akragas (Agrigento), che troviamo la terza grande figura di sapiente dopo Eraclito e Parmènide: Empèdocle. Le notizie che abbiamo su di lui sono abbastanza ricche e complesse. Le indicazioni che ne fanno un indagatore della natura si affiancano a quelle che sottolineano il carattere religioso del suo insegnamento e persino la sua fama di taumaturgo. Tale duplicità -- che del resto non doveva apparire sorprendente nella cultura greca -- è testimoniata anche dai due poemi che gli sono attribuiti (di entrambi dei quali sono rimasti solo pochi frammenti): il primo recante il titolo convenzionale Sulla natura, il secondo dedicato alle Purificazioni.

Il pensiero di Empèdocle si presenta con tratti molto ricchi e precisi. Anzitutto è evidente che nel suo pensiero convergono differenti tradizioni sapienziali: perlomeno l'influenza di Parmènide e di Pitàgora può essere considerata certa. D'altra parte gli stimoli ricevuti vengono rielaborati in quello che può ritenersi il primo sistema compiuto e coerente, destinato ad esercitare una grande influenza -- diretta o indiretta -- lungo due millenni. In effetti, del rilievo del propria figura sia Empèdocle sia i suoi contemporanei furono ben coscienti:

O amici, che la grande città lungo il biondo Akragas
abitate nell'alto della polis, occupati in opere buone,
venerabili porti di stranieri, inesperti di cattiveria,
salve! Io tra voi come un dio imperituro, non più mortale,
cammino onorato da tutti, come pare,
cinto di nastri e di corone fiorite.
E da quelli cui giungo in fiorenti città,
uomini o donne, sono riverito: essi mi seguono
a miriadi, cercando qual è la via verso il ventaggio,
gli uni consultando la divinazione, gli altri per malattie
d'ogni genere chiedono di udire la voce guaritrice,
trafitti da tempo da aspri dolori (DK 31 B 112).

Il punto di partenza della dottrina naturale di Empèdocle risiede nell'individuazione di quattro «radici» (rhizómata) di tutte le cose, vale a dire elementi di base che nella loro combinazione costituiscono ogni realtà:

Ascolta anzitutto le quattro radici di tutte le cose:
Zeus lo splendido, Era la vivificante, poi Edoneo
e Nesti, che con lacrime alimenta la sorgente mortale (DK 31 B 6).

I nomi divini simboleggiano rispettivamente fuoco, aria (o etere), terra, acqua. È dalla loro combinazione che deriva tutto ciò che cade sotto i sensi. In questo modo si riesce a mettere d'accordo il principio razionale affermato da Parmènide, che negava ogni vera realtà alla nascita e alla morte, con la costatazione sensibile di una perenne trasformazione di ogni cosa:

Ti dirò un'altra cosa: nascita (phýsin) non c'è di nessuna
cosa mortale, né alcun termine di morte distruttrice,
ma c'è solo mescolanza e scambio di cose mescolate,
e questa viene chiamata «nascita» tra gli uomini (DK 31 B 8).

Il posto dell'unico ente di Parmènide viene così preso dalle quattro radici, che ne possono rivendicare la qualifica dell'eternità:

Stolti: infatti non hanno pensieri a lungo riflettuti
coloro che s'aspettano che nasca il precedente non ente
o che muoia qualcosa o che si distrugga del tutto.
Perché dal non ente non c'è modo di nascere
e che l'ente si distrugga è impossibile e incredibile:
sempre infatti sarà così come uno ogni volta lo fissa (DK 31 B 11-12).

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3.2. Amorevolezza e Odio

Le quattro radici sono tuttavia insufficienti per spiegare la realtà della trasformazione, che suppone un movimento che non può derivare da elementi statici. Empèdocle introduce perciò due princìpi, Amorevolezza (Philótes) e Odio (Néikos), che spiegano l'alternarsi di unione e disunione degli elementi:

Dirò due cose: talora cresce per diventare uno
da più cose, talaltra di nuovo si scinde per essere più cose da una.
.........................................................................
E questo scambio continuo delle cose non cessa mai,
talora convergendo tutte quante in una cosa sola con Amorevolezza,
talaltra di nuovo separandosi ciascuna nell'inimicizia dell'Odio (DK 31 B 17,1-8).

Tra questi due princìpi il posto d'onore va evidentemente riservato all'Amorevolezza (un sinonimo poetico di Eros), che è anche la base del piacere e della concordia nei rapporti umani:

Tu osservala con la mente, e non essere stupito con gli occhi:
essa è ritenuta innata nei corpi mortali,
grazie ad essa desiderano amicizia e compiono opere concordi,
chiamandola con l'appellativo di Delizia e Afrodite.
Nessun uomo mortale la riconobbe mentre a loro
si volgeva: ma tu senti le parole veritiere del discorso (DK 31 B 17,21-26).

La supremazia dell'Amorevolezza diviene la base per abbozzare una sorta di storia cosmica, che sarebbe segnata dall'alternarsi del predominio dei due princìpi: quando aumenta la forza dell'Odio gli elementi tendono a separarsi, differenziarsi e combattere; quando giunge il predominio dell'Amorevolezza essi si riconciliano e convergono in una «Sfera» omogenea, simile all'ente di Parmènide:

Là né del sole si riconosce il corpo veloce,
né la fiorita potenza della terra né il mare:
così è fissata nella solida prigione di Armonia
la Sfera rotonda che gode da ogni parte di solitudine (DK 31 B 27).

Il poema sulle Purificazioni, del quale restano pochi frammenti, doveva sviluppare, in uno spirito non lontano da quello orfico, le conseguenze etiche delle teorie fisiche. Amorevolezza e Odio divengono così i princìpi del bene e del male. Chi segue l'Odio è destinato ad una lunghissima serie di rinascite, presentate da Empèdocle come una conseguenza meccanica (prevista da Necessità) della preferenza data al principio della disgregazione:

È oracolo di Necessità, decreto degli dèi antico
ed eterno, suggellato con grandi giuramenti:
quando uno contamina il suo corpo con un assassinio,
e chi con Odio erri infrangendo un giuramento,
essi, dèmoni che hanno in sorte una lunga vita,
trentamila stagioni stiano lontani dai beati,
nascendo in questo tempo in ogni forma di mortali
che mutano i difficili sentieri della vita.
Perché la forza dell'etere li insegue nel mare,
e il mare li sputa sul suolo terrestre, e la terra nei raggi
del sole splendente, e questo ai vortici dell'etere:
l'uno li riceve dall'altro, ma tutti li detestano.
Ora anch'io sono di essi, fuggiasco dagli dèi ed esule,
affidatomi al folle Odio (DK 31 B 115).

Empèdocle può così vagheggiare un'età passata in cui prevaleva il principio dell'Amorevolezza, e Afrodite -- la dea dell'amore che detesta i sacrifici cruenti -- era ritenuta la prima dea:

Per loro non c'era nessun Ares né Tumulto
né Zeus re né Crono né Poseidone,
ma Cipride [Afrodite] regina. ...
Lei propiziavano con pie offerte,
con dipinti di animali ed essenze profumate,
con immolazioni di pura mirra e fragrante incenso,
gettando a terra gocce di miele giallo,
e l'altare non si bagnava del puro sangue dei tori,
anzi questo era per gli uomini grandissimo delitto:
strapparne lo spirito e mangiarne il forte corpo (DK 31 B 128).

Alla preferenza attribuita all'unione dell'Amorevolezza possono essere ricondotti anche i sentimenti democratici di Empèdocle, sui quali c'informano le testimonianze.

Integrazione: Le difficoltà nell'esatta ricostruzione e interpretazione del pensiero di Empèdocle si ripercuotono anche nella valutazione della sua importanza storica. Che alcuni elementi abbiano avuto una vita straordinaria nella cultura occidentale è fuori di dubbio. In particolare la teoria delle quattro radici rimarrà fondamentale lungo quasi due millenni (anche grazie alla ripresa da parte della scuola medica di Cos) e costituirà il punto di partenza per l'elaborazione del concetto di «elemento chimico», sostanzialmente accettato fino ad oggi. C'è però un aspetto più sottile che merita di essere sottolineato. Esso consiste nella chiara coordinazione che Empèdocle stabilisce tra dottrine etiche e dottrine fisiche: il principio dell'Amorevolezza che anima l'aggregazione delle radici e conduce alla Sfera perfetta è lo stesso che deve guidare il comportamento virtuoso. In questo modo non solo l'etica viene razionalizzata e liberata dai legami autoritari con la tradizione, ma vengono anche gettate le basi per quella valutazione positiva della realtà che, spesso nella forma dell'identificazione tra «essere» e «bene», costituirà nelle sue molte varianti uno dei capisaldi del pensiero europeo. Fine dell'integrazione

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