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L'indagine sulla natura

Inizio

Lo sguardo sul mondo

La politica culturale di Pericle, aperta alle novità e intenzionata a rendere Atene il centro politico della Grecia, causò nel volgere di pochi decenni il convergere degli eredi delle più importanti proposte culturali fino ad allora sviluppate nella periferia del mondo greco. Anzitutto si riuniscono i seguaci di Eraclito e Parmenide. Tra i primi Cratilo, che interpreta la dottrina del maestro come una teoria del continuo divenire della realtà. Tra i secondi Melisso, che riformula in termini esatti e argomentati l'unicità di «ciò che è», e Zenone, che per difendere il maestro sviluppa la dialettica come strumento di competizione intellettuale, per esempio tramite le celebri contestazioni della possibilità del movimento. Si crea così per la prima volta quella contrapposizione tra «essere» e «divenire» che avrà tanta parte nella storia della filosofia, spostando progressivamente le dottrine dei due sapienti sul piano dell'interpretazione della natura e delle sue difficoltà. 

Questa tendenza allo studio della natura trova la sua massima espressione in Anassagora. Egli sviluppa una acuta teoria fisica in cui le diverse percezioni vengono interpretate supponendo «semi» di infinite qualità che costituiscono ogni cosa. La prevalenza dell'uno o dell'altro spiega il fatto che in ogni cosa percepiamo solo alcune qualità, la presenza di tutti in ogni cosa spiega come sia possibile (per esempio nei processi biologici di nutrimento) che una sostanza si tramuti in un'altra. La stessa teoria viene utilizzata anche per delineare una storia del cosmo in cui da un'originaria mescolanza caotica si passa ad una aggregazione dei semi simili. Questa viene provocata da un movimento circolare, opera di un «intelletto» che conosce ogni cosa e può quindi dirigere in modo sapiente l'evoluzione della realtà. Lo spregiudicato spirito scientifico di Anassagora, che non si fermò di fronte ai fenomeni tradizionalmente interpretati come divini, causò il primo celebre processo per «empietà», in cui motivi ideologici si mescolavano a motivi politici. 

La stesso orientamento scientifico dà vita dopo pochi anni ad una delle più notevoli realizzazioni della civiltà greca: la nascita della medicina come scienza autonoma. Ippocrate, fondendo osservazione empirica e classificazione metodica dei risultati, concepisce ambiziosamente la medicina come una scienza dell'uomo, attenta a tutte le circostanze fisiche, psichiche e sociali della sua esistenza, e per questo in grado di sfidare la «filosofia» nella sua stessa pretesa di conoscere l'uomo. L'importanza di tale prospettiva giustifica l'importanza dei princìpi morali che il medico deve seguire, codificati in un giuramento ancora oggi in uso.  

Sommario

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Due ragazze in tunica sospese in aria

Coro di nuvole (circa 475 a.C.). «Nuvole eterne, / splendenti di rugiada leviamoci / dal padre Oceano mugghiante, / sulle vette alberate / dei monti; a vedere / le cime lontane / e i raccolti e la terra sacra irrigata, / il fragore dei fiumi divini, / il mare dal cupo rimbombo. / L'occhio instancabile dell'Etere / risplende di fulgido raggio; / e noi, scuotiamo la nebbia piovosa / dal volto immortale, e guardiamo / con occhio lontano la terra» (Aristofane, Le nuvole, 275-290 [greco]).

La celebre commedia di Aristofane (della quale la giocosa leggerezza dell'immagine a figure rosse può essere scelta come illustrazione) mette in scena in maniera eccellente lo sconcerto e la diffidenza per la diffusione ad Atene dell'indagine sulla natura: un cosmo antropomorfico e sacralizzato diventa improvvisamente il teatro di forze naturali anonime, che tuttavia ispirano agli uomini la fiducia nella capacità di comprendere, intervenire e trasformare.


1. La difesa dell'antica sapienza

1.1 Zenone di Elèa

La fama di Zenone, discepolo prediletto di Parmenide (pare anche in senso amoroso), è legata ad uno scritto le cui intenzioni sono bene messe in luce da Platone, che gli fa pronunciare questa significativa dichiarazione:

In verità questo scritto è un soccorso al discorso di Parmenide, contro coloro che intendono sbeffeggiarlo affermando che, se «ciò che è» è uno, accadrebbe al suo discorso di cadere in molte ridicole conseguenze e contraddizioni. Questo mio scritto replica appunto a coloro che affermano molte cose, e li ripaga con la stessa moneta (e anche di più), volendo mostrare che cadrebbe in conseguenze ancor più ridicole la loro ipotesi che le cose che sono siano molte, piuttosto che quella di un'unica cosa che è, se uno la discute a sufficienza. È quindi per una simile voglia di vincere (philonikía) che venne scritto da me giovane, e qualcuno me lo rubò una volta scritto, così che neppure mi fu possibile consigliarmi se fosse da fare uscire alla luce o no (Parmenide, 128 c6-e1 = DK 29 A 12 [greco]).

In questo modo lo spirito agonistico greco, già applicato alla sapienza intellettuale da Senofane, vi entra come componente creativa: quando un'affermazione viene contestata, è la «voglia di vincere» che spinge ad elaborare nuove armi intellettuali per replicare agli avversari. Proprio da qui nascerà la fama di Zenone come inventore della «dialettica», ovvero dell'arte della discussione. Queste nuove armi erano certo già anticipate da Parmenide, che sosteneva tutte le sue affermazioni su «ciò che è» con argomentazioni logiche. Tipica di Zenone sembra però la chiara coscienza di quel procedimento dimostrativo oggi chiamato «dimostrazione per assurdo»: la presenza di conseguenze contraddittorie mostra la falsità dell'ipotesi che le ha generate. Ci si potrebbe del resto domandare se in questo modo Zenone sia realmente fedele al maestro, che aveva vietato qualsiasi indagine sulla strada del «non è» e della falsità: di fatto, poco dopo le armi elaborate da Zenone potranno essere ritorte contro Parmenide da Gorgia.

Dello scritto di Zenone è conservato molto poco e gli argomenti da lui elaborati (forse quaranta) sono destinati a rimanere in gran parte ignoti. Ecco uno dei frammenti più chiari:

Se ci sono molte cose, è necessario che siano tante quante sono e né di più né di meno. E se sono tante quante sono, sarebbero limitate. Se ci sono molte cose, allora le «cose che sono» sono illimitate: infatti ci sono sempre altre cose in mezzo alle cose che sono [per poterle separare l'una dall'altra], e ancora altre tra quelle. E così le «cose che sono» sono illimitate (DK 29 B 3).

Dunque, dall'ipotesi della pluralità si sono potute trarre due conclusioni contraddittorie: le «cose che sono» sono limitate e insieme illimitate. Bisogna dunque respingere la premessa. Così è completata la dimostrazione per assurdo. I più noti sono però i quattro argomenti contro il movimento, concepiti per difendere l'affermazione dell'immobilità di ciò che è:

Argomento della bisezione
Per percorrere una qualsiasi distanza bisogna percorrere separatamente le due metà in un certo tempo, e ciascuna metà può essere a sua volta divisa in due metà, e così all'infinito. Dunque bisognerà percorrere infiniti tratti: ma è impossibile percorrere una distanza illimitata in un tempo limitato.
Argomento di Achille
Il veloce Achille non potrà mai raggiungere una tartaruga che gareggia con lui e alla quale abbia dato un seppur minimo vantaggio. Infatti, quando egli avrà raggiunto il punto da cui è partita la tartaruga, questa avrà percorso un ulteriore tratto di strada; e quando poi avrà raggiunto questo secondo punto la tartaruga sarà ancora più avanti e così all'infinito.
Argomento della freccia
Una freccia per muoversi ha bisogno di attraversare infiniti istanti di tempo. Ma in ogni «istante» qualsiasi cosa è ferma: la freccia che si muove è dunque sempre ferma.
Argomento dello stadio
Due corpi che percorrono uno stadio in direzioni opposte avranno una certa velocità rispetto ad un punto fisso, ma velocità doppia l'uno rispetto all'altro: ogni velocità è dunque uguale al suo doppio (si tratterebbe dunque della prima embrionale formulazione della relatività del moto: ma questo argomento è di interpretazione controversa).

Integrazione: La confutazione più celebre degli argomenti contro il movimento venne offerta da Diogene di Sinope, che semplicemente si alzò a camminare. È evidente però che tale ricorso all'esperienza non avrebbe avuto alcun valore per Zenone, il quale non contestava l'apparenza sensibile del movimento, ma la sua pensabilità. La nascita di contraddizioni mostrerebbe appunto che il movimento non può essere attribuito a quella realtà che -- secondo la lezione di Parmenide -- è indagabile soltanto dalla mente. In questo senso, gli argomenti di Zenone furono estremamente fecondi, perché posero esplicitamente per la prima volta almeno tre problemi fondamentali, che impegnarono a fondo la filosofia futura e la cui discussione non è esaurita neanche oggi: l'infinito, lo spazio, il tempo. Fine dell'integrazione

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1.2 Melisso di Samo

Il principale merito di Melisso sembra essere stato quello di aver reso in linguaggio sobrio e puramente razionale la dottrina di Parmenide. Un ottimo esempio ci è offerto dal frammento con il quale viene argomentata l'illusorietà degli elementi materiali, i quali sembrano essere ma in realtà diventano soltanto:

Se ci fossero molte cose, bisognerebbe che esse fossero tali quali io dico che è l'uno. Se infatti c'è terra e acqua e aria e fuoco e ferro e oro, e il vivente e il morto, e nero e bianco e tutte le altre cose che gli uomini dicono che sono vere, se davvero queste cose ci sono, e noi vediamo e sentiamo bene, bisognerebbe che ciascuna di esse fosse tale quale prima ci è parso [ciò che è], e non muti né diventi diversa, ma che ciascuna cosa sia sempre tale quale è. Ora però diciamo di vedere e sentire e comprendere bene, e ci appare che il caldo diventa freddo e il freddo caldo e il duro molle e il molle duro e il vivente muore e che nasca dal non vivente, e che tutte queste cose si alterano, e che ciò che era e ciò che è non sono affatto uguali ... . È evidente dunque che non vedevamo bene, né giustamente ci appariva che quelle molte cose fossero: infatti non muterebbero, se fossero vere, ma ciascuna sarebbe tale quale appariva. Niente è infatti migliore di ciò che veramente è (DK 30 B 8,2-5).

La concezione di Melisso non è tuttavia completamente coincidente con quella di Parmenide. Uno degli aspetti più caratteristici è l'affermazione dell'«illimitatezza» temporale di ciò che è, che viene a modificare il concetto di «presenzialità». Ecco le parole di Melisso al proposito:

Poiché dunque non è nato, è e sempre era e sempre sarà, e non ha principio né termine, ma è illimitato (ápeiron). Se infatti fosse nato, avrebbe principio (perché sarebbe cominciato una volta nato) e termine (perché sarebbe terminato una volta nato): ma poiché né cominciò né finì, sempre era e sempre sarà e non ha principio né termine, perché non è possibile che sia sempre ciò che non è tutto (DK 30 B 2).

Questo aspetto della dottrina di Melisso è però anche il meno chiaro, giacché non si comprende bene quale sia il legame tra l'illimitatezza temporale, cioè l'eternità, e l'illimitatezza spaziale, suggerita nell'ultima riga. Simplicio suggerisce però che Melisso non si riferisca all'estensione, ma all'«elevazione della sussistenza» (DK 30 B 10). In effetti, quest'ultimo nega esplicitamente che «ciò che è» sia corporeo:

Se dunque è, è necessario che sia uno, ed essendo uno è necessario che non abbia corpo. Se invece avesse dimensioni, avrebbe parti, e non sarebbe più uno (DK 30 B 9).

Integrazione: Malgrado questa negazione, la presentazione di Melisso sembra porre la riflessione dell'essere a servizio di una interpretazione della natura fisica molto più di quanto avvenisse in Parmenide. In effetti, argomenti simili si ritrovano per esempio nel contemporaneo Diogene di Apollonia, che ad Atene porta e attualizza il pensiero di Anassimene, identificando il principio di tutte le cose con l'aria:

Per dirla in breve, mi pare che tutte le cose risultano dall'alterazione della stessa cosa e sono la stessa cosa. E questo è chiaro: infatti, se le cose che sono adesso in questo mondo: terra, acqua, aria e fuoco e tutte le altre cose che si vedono esistere in questo mondo, dunque, se una di queste fosse diversa dall'altra perché diversa per sua propria natura e non fosse la stessa che si muta in molte forme e si altera, non si potrebbero affatto mescolare tra loro, né all'una [verrebbe dall'altra] utilità o rovina, né mai pianta potrebbe nascere dalla terra né animale né alcun altro essere se non fossero composte in modo da essere lo stesso. Piuttosto tutte queste cose nascono ora in una forma ora in un'altra in quanto si alterano dallo stesso e in esso ritornano (DK 64 B 2).

Fine dell'integrazione

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1.3 Cràtilo di Atene

L'insegnamento di Eraclito suscitò molti seguaci, i quali probabilmente ad Efeso assunsero i caratteri di una comunità religiosa. Più importante è però Cràtilo di Atene, che diede una particolare lettura del pensiero del maestro. Il punto di partenza è l'affermazione che «nello stesso fiume non si può scendere due volte», affermazione che in Eraclito significava l'insuperabile frantumazione di tutte le cose. Ecco invece come questo pensiero è interpretato da Cratilo, secondo la testimonianza di Platone:

Eraclito dice in un punto che «tutto si muove e nulla rimane», e paragonando le cose che sono alla corrente di un fiume dice che non puoi scendere due volte nello stesso fiume (Cratilo, 402 a8-10 = DK 22 A 6 = Colli 14 [A1 125] [greco]).

All'idea della pluralità viene quindi sostituita quella un po' diversa del divenire: non vi sono innumerevoli fiumi che succedono l'uno all'altro, ma piuttosto un fiume che si trasforma continuamente. È questa interpretazione che dà vita al celebre motto «tutto scorre (pánta rhéi)», che venne spesso retrodatato e citato come il nòcciolo del pensiero di Eraclito.

Questo mutamento di prospettiva conduce ad importanti conseguenze sul piano conoscitivo: come può essere infatti vera un'affermazione riferita a ciò che di sua natura è instabile e mutevole? Ecco come Aristotele riassume il pensiero di coloro che affermano il divenire universale:

Vedendo che tutta la natura si muove e che di ciò che si trasforma non si può dire nulla di vero, conclusero che, almeno di ciò che si trasforma in ogni modo e completamente, non è possibile dire il vero. Da questa supposizione derivò la più estrema tra le opinioni menzionate, quella che hanno coloro che affermano ispirarsi ad Eraclito e anche Cratilo, il quale alla fine riteneva che fosse necessario non dire nulla, ma muoveva solo il dito [per indicare le cose], e rimproverava ad Eraclito di aver detto che non è possibile entrare due volte nello stesso fiume: lui infatti riteneva che non si può neanche una volta sola (Metafisica, 4, 1010 a7-15 = DK 65 4 [greco]).

Infatti, il fatto stesso che si parli di «fiume» suppone falsamente che esista qualcosa di stabile, degno di portare un nome parimenti stabile. La stessa idea, pur senza fare né il nome di Eraclito né quello di Cratilo, viene dettagliatamente riferita da Platone, il quale la collega anche alla relatività delle sensazioni:

Il loro principio ... è questo: che l'universo è movimento, e non c'è nulla oltre ad esso. ... E ciascuna qualità di per sé non è nulla ... ma tutte in tutte le forme nascono nell'incontro reciproco dal movimento, poiché, come dicono, non è possibile concepire saldamente neanche che l'agente e il paziente siano qualcosa di per sé. Infatti nulla è agente prima che s'incontri col paziente, né paziente prima che s'incontri con l'agente; e ciò che incontratosi con qualcosa è agente, quando poi s'imbatte in un'altra cosa appare paziente. Dunque da tutto ciò si deduce ... che nessuna cosa di per sé è una, ma sempre nasce rispetto ad un'altra; e che il verbo «essere» va soppresso dappertutto, benché noi molte volte e anche poco fa fummo costretti a servircene dall'abitudine e dalla mancanza di scienza. Invece, come dice il discorso dei sapienti, è necessario non concedere nulla, né di uno né di me, né questo né quello né qualsiasi altro nome che stia fermo, ma è necessario dire secondo natura che le cose nascono, vengono fatte, muoiono, si alterano; perché quando uno con il discorso mette qualcosa ferma, facendo questo può essere facilmente rimproverato (Teeteto, 155 a3 -- 157 b8 [greco]).

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2. Anassàgora di Clazomène

Clazomene, circa 500 a.C. -- Lampsaco, 428 a.C. Nel 462 a.C. si trasferì ad Atene, dove strinse amicizia con Pericle, pur non avendo spiccati interessi politici. Durante il suo soggiorno ad Atene la sua ricerca suscitò molti interessi e anche avversioni. L'interpretazione naturalistica che diede degli astri (all'epoca ritenuti divini) fu il pretesto nel 432 a.C. per un processo per empietà, che si concluse con la condanna all'esilio. Scrisse un trattato a cui nell'epoca ellenistica venne assegnato il titolo convenzionale Sulla natura.

2.1 I semi della natura

L'arrivo di Anassagora ad Atene e il suo trentennale soggiorno segnano uno dei momenti più importanti nello sviluppo della cultura greca. Per la prima volta Atene diventa teatro di una ricerca intellettuale originale, benché opera di uno straniero e influenzata sicuramente dalla lettura dei precedenti sapienti (soprattutto Empedocle). Significativa è anche l'assenza in Anassagora di precise preoccupazioni politiche: essa comincia a delineare quello spirito di ricerca disinteressata che più tardi doveva avere tanto successo. Due testimonianze descrivono efficacemente questo orientamento:

Dicono che Anassagora rispose ad uno rimaneva incerto ... e chiedeva perché era preferibile il nascere al non nascere: «Per contemplare il cielo e l'ordine che esiste nell'universo intero» (Aristotele, Etica Eudemia, 1.5, 1216 a11-13 = DK 59 A 30 [greco]).

Beato colui che dell'indagine possiede l'apprendimento e non si mette a recar danno ai cittadini né in imprese scellerate, ma dell'immortale natura contempla l'ordine sempre giovane ... quando unita essa permane e dove e come. A costoro non posa mai vicino la preoccupazione di turpi imprese (Euripide, fr. 910 = DK 59 A 30).

Questo ideale scientifico non impedisce tuttavia ad Anassagora di entrare come protagonista nel circolo culturale promosso da Pericle, dominatore per decenni della scena politica ateniese. L'opinione comune -- testimoniata anche da Platone -- vedeva anzi in Anassagora una delle fonti dell'abilità politica di Pericle, sia dal punto di vista teorico che della fiducia nelle proprie forze che il nuovo spirito scientifico infondeva:

Tutte le grandi tecniche richiedono sottigliezza e discorsi astronomici sulla natura, perché è chiaro che da qui in qualche modo viene l'elevatezza d'intelletto e l'efficacia incondizionata dell'opera; e proprio questo Pericle si procurò aggiungendolo alle sue buone doti naturali. Infatti, imbattutosi in Anassagora (che credo fosse di tal genere), arricchitosi di discorsi astronomici e giunto alla natura dell'intelletto e della ragione, sui quali appunto Anassagora faceva un lungo discorso, da qui ricavò per l'arte dei discorsi quanto le era utile (Fedro, 269 e4 -- 270 a8 = DK 59 A 15 [greco]).

Analogamente ad Empedocle, anche Anassagora ritiene che solo una pluralità di elementi, da lui chiamati «semi (spérmata)» può spiegare la varietà della cose sensibili. La riduzione a quattro gli sembra tuttavia impossibile: essendo infinite le qualità (colori, sapori, odori e così via) che possono essere percepite, bisogna supporre infiniti semi diversi. In questo modo possono essere più correttamente interpretati il «nascere» e il «morire»:

Del nascere e del morire i Greci non hanno una giusta concezione, perché nessuna cosa nasce né muore, ma da cose esistenti ogni cosa si compone e si separa. E così dovrebbero propriamente chiamare il nascere comporsi, il morire separarsi (DK 59 B 17).

L'innovazione più notevole rispetto alla teoria di Empedocle si trova però nell'affermazione che in ogni cosa si trovano, in diverse proporzioni, tutti gli infiniti semi. Tale peculiarità spiega il termine tecnico che forse Aristotele coniò per indicare il «seme» di Anassagora: homoioméreia, ossia «elemento in cui ogni parte (méros) è simile (hómoion)». Ecco le parole di Anassagora in proposito:

E poiché uguali parti sono del grande e del piccolo, anche così in ogni cosa ci potranno essere tutte: non è possibile che esista separatamente, ma tutte partecipano a tutto. E poiché non può esistere il minimo, niente potrebbe starsene separato né venire ad essere in sé ma, come all'inizio, così anche adesso tutte le cose insieme. In tutte molte cose si trovano, e uguali per quantità e nelle più grandi e nelle più piccole delle cose che si separano (DK 59 B 6).

Essendo infiniti i semi, evidentemente un seme può essere presente in una cosa anche in una quantità infinitesimale e dunque non percepibile. Più in generale, anzi, oggetto dei sensi non è il singolo seme, ma piuttosto solo la loro combinazione: «Le parvenze fenomeniche sono l'aspetto visibile delle cose non appariscenti» (DK 59 B 12a). Tutto ciò, se spiega il fatto che le cose abbiano qualità distinte e determinate (corrispondenti ai semi in quantità prevalente), suppone anche l'idea problematica di divisione all'infinito, che era al centro già degli argomenti di Zenone e che sarà ancora oggetto di vivace discussione.

Ma perché dover supporre la presenza di «tutto in tutto»? Tale ipotesi si radica nell'osservazione dei processi biologici, in cui il cibo sembra trasformarsi in sostanze diverse, cioè quelle del corpo che lo assume:

A tale concezione Anassagora giunse perché riteneva che niente si produce da ciò che non è e che ogni cosa si nutre del simile. Vedeva infatti che tutto viene dal tutto, anche se non immediatamente, ma secondo un ordine. ... Perciò suppose che fossero nel cibo e che anche nell'acqua, se di questa si nutrono gli alberi, ci fossero legno, corteccia, frutta (DK 59 A 45).

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2.2 Il cosmo e l'intelletto

Il principio della presenza di tutto in tutto viene sfruttato da Anassagora anche per delineare una teoria dell'origine del cosmo, in cui il momento iniziale è costituito da una totale e indistinta somma di tutti i semi, la «mescolanza» (mígma):

Insieme erano tutte le cose, illimitate per quantità e per piccolezza, perché anche il piccolo era illimitato. E stando tutte insieme, nessuna era evidente a causa della piccolezza: su tutte predominava l'aria e l'etere, essendo entrambi illimitati: sono infatti queste nella massa totale le più grandi per quantità e per grandezza (DK 59 B 1).

Prima che queste cose si separassero, essendo tutte insieme, neppure nessun colore era evidente: lo impediva la mescolanza di tutte le cose, dell'umido e del secco, del caldo e del freddo, del luminoso e dell'oscuro, e della molta terra che c'era e dei semi illimitati per quantità e in niente simili l'uno all'altro. Perché neppure della altre cose l'una è simile all'altra. Stando così le cose, bisogna supporre che nel tutto ci siano tutte le cose (DK 59 B 4).

La costituzione del cosmo si realizza dunque tramite la progressiva separazione e organizzazione dei semi. Il carattere naturale di questo processo suggerisce del resto che esso si sia compiuto anche altrove. Troviamo così in Anassagora, in termini che dovevano apparire molto sorprendenti ai contemporanei, la tesi della pluralità dei mondi:

Stando così le cose, bisogna supporre che in tutti gli aggregati ci siano molte cose e di ogni genere e semi di tutte le cose, aventi forme e colori e sapori d'ogni genere. E che gli uomini siano stati composti e gli altri animali che hanno vita, e che questi uomini abbiano città abitate ed opere costruite, come da noi, e abbiano il sole e la luna e tutto il resto, come da noi, e che la terra produca per loro molte cose e di ogni genere, che essi usano portando le migliori a casa. Questo io ho detto a proposito della separazione, che cioè non solo da noi si avrebbe il processo di separazione, ma anche altrove (DK 59 B 4).

Proprio il processo di separazione dei semi (e quindi di generazione del mondo) richiede però l'introduzione di un principio diverso, che occupa più o meno il posto che avevano in Empedocle Amorevolezza e Odio: si tratta dell'«intelletto (nóus)». Esso soltanto, in quanto principio di vita e conoscenza, non è universalmente mescolato ad ogni cosa, ma nella sua separazione e purezza ha potuto «conoscere» tutto e generare il movimento rotatorio che ha dato inizio alla separazione dei semi:

Tutte le altre cose partecipano a tutto, mentre l'intelletto è qualcosa di illimitato e autocrate e non è mischiato a nessuna cosa, ma è solo, esso in sé stesso. Se non fosse in sé stesso, ma fosse mescolato a qualcos'altro, parteciperebbe di tutte le cose, se fosse mescolato ad una qualunque. Perché in ogni cosa c'è parte di ogni cosa, come ho detto in quel che precede: le cose commiste ad esso l'impedirebbero, di modo che non avrebbe potere su nessuna cosa come l'ha quando è solo in sé stesso. Perché è la più sottile di tutte le cose e la più pura: ha cognizione completa di tutto e il più grande dominio e di quante cose hanno vita, quelle maggiori e quelle minori, su tutte ha potere l'intelletto.

E sull'intera rivoluzione l'intelletto ebbe potere, così da avviarne l'inizio. E dapprima ha dato inizio a tale rivolgimento dal piccolo, poi la rivoluzione diventa più grande e diventerà più grande. E le cose che si mescolano insieme e si separano e si dividono, l'intelletto le ha conosciute tutte. E qualunque cosa doveva essere e qualunque fu che ora non è, e quante adesso sono e qualunque altra sarà, tutte l'intelletto ha ordinato, anche questa rotazione in cui si rivolgono adesso gli astri, il sole, la luna, l'aria, l'etere che si vengono separando. Proprio questa rivoluzione li ha fatti separare e dal raro per separazione si forma il denso, dal freddo il caldo, dall'oscuro il luminoso, dall'umido il secco.

In realtà molte cose partecipano a molte cose. Ma nessuna si separa o si divide da tutto, l'una dall'altra, ad eccezione dell'intelletto. L'intelletto è tutto uguale, quello più grande e quello più piccolo. Nessun'altra cosa è simile ad altra, ma ognuna è ed era le cose più appariscenti che in essa sono in misura massima (DK 59 B 12)

Dopo che l'intelletto dette inizio al movimento, dal tutto che era mosso cominciavano a formarsi le cose per separazione, e quel che l'intelletto aveva messo in movimento tutto si divise. E la rotazione di quanto era mosso e separato accresceva di molto il processo di separazione (DK 59 B 13).

Integrazione: L'«intelletto» di cui parla Anassagora può apparire dunque simile al dio di Senofane, ma esso viene pensato come un elemento della natura presente in tutti gli esseri che hanno consapevolezza. È però rispetto al suo ruolo esplicativo che i pensatori delle generazioni immediatamente posteriori provarono perplessità. Queste ci vengono testimoniate da una celebre pagina di Platone in cui viene descritta la delusione di Socrate al proposito (Fedone, 96 a6 -- 100 c10 [greco]). Aristotele riassumerà la situazione osservando da una parte che «colui che disse che, così come negli animali, anche nella natura c'è un intelletto che è causa del cosmo e della armonica distribuzione di ogni cosa, sembrò il solo filosofo sobrio al paragone di predecessori che avevano parlato a caso» (Metafisica, 1.3, 984 b15-18 [greco]), dall'altra che «Anassagora si serve dell'intelletto come di un deus ex machina nella costituzione del cosmo, e quando non sa indicare una causa necessaria, allora lo mette in scena» (Metafisica, 1.4, 985 a18-20 [greco]). Fine dell'integrazione

L'aspetto che tuttavia dovette fare più impressione sui contemporanei fu l'ampio campo a cui Anassagora estese le sue osservazioni, soprattutto nel tentativo di dare una soluzione «naturale» -- spesso con successo -- a problemi astronomici e geologici tradizionalmente ricondotti nell'ambito mitico o lasciati inesplicati. Eccone un significativo elenco:

La terra ha forma piatta e rimane librata in forza della sua grandezza e perché non c'è vuoto e perché l'aria che è molto forte sorregge la terra appoggiata sopra.

Quanto alle parti liquide che stanno sulla superficie del mare, il mare si formò dalle acque che erano in essa, evaporate le quali, il resto di conseguenza si depositò, e dai fiumi che vi si gettano.

I fiumi prendono consistenza anche dalle piogge e dalle acque sotterranee. Infatti la terra è cava e contiene acqua nelle cavità. Il Nilo cresce d'estate per le acque che vi sono trasportate in seguito allo scioglimento delle nevi nelle zone antartiche.

Il sole, la luna e tutte le stelle sono pietre infuocate, mosse insieme in circolo dalla rotazione dell'etere. Al di sotto delle stelle ci sono alcuni corpi trascinati in giro insieme al sole e alla luna, invisibili a noi.

Il calore delle stelle non lo avvertiamo per la loro grande distanza dalla terra: e poi esse non hanno calore come il sole, perché occupano una regione più fredda. La luna è più bassa del sole, più vicina a noi.

Il sole per grandezza supera il Peloponneso. La luna non ha luce propria, ma la riceve dal sole. La rivoluzione delle stelle avviene sotto la terra.

Si hanno eclissi di luna quando le si oppone la terra o talvolta anche i corpi più bassi della luna; di sole, invece, durante il novilunio, quando gli si oppone la luna. Il sole e la luna compiono le loro rivoluzioni spinti dall'aria: la luna si volge di frequente perché non riesce a superare il freddo.

Anassagora per primo determinò le questioni riguardanti le eclissi e l'illuminazione. Diceva che la luna è di terra e ha in sé pianure e scoscendimenti e che la galassia è la rifrazione della luce delle stelle non illuminate dal sole. Le stelle vaganti sono, per così dire, delle scintille che sprizzano a causa del movimento della volta celeste.

I venti si producono quando l'aria è rarefatta dal sole e la parte infiammata si spinge verso il polo e ne è respinta. I tuoni e i fulmini sono prodotti dal calore che irrompe nelle nuvole (DK 89 A 42).

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3. Ippòcrate di Cos

Cos, circa 460 a.C. -- Làrissa, circa 370 a.C. Appartenente per famiglia alla corporazione medica (gli Asclèpiadi), studia medicina sotto la guida del padre, assimilando anche gli insegnamenti della scuola fiorente nella vicina Cnido. Compie alcuni viaggi in Egitto e in Libia, fonda nell'isola natale la più importante scuola medica greca, ma visita anche Atene e vi tiene corsi che gli procurano fama. Nel cosiddetto Corpus hippocraticum, che raccoglie tutta la produzione dell'antica medicina greca (circa 70 testi), la paternità di alcune opere può essergli attribuita con una certa probabilità: Sull'antica medicina, Sulle arie, le acque e i luoghi, Sulla malattia sacra, Prognostico, Sul regime delle malattie acute, Epidemie, Aforismi, e alcune altre dedicate ad argomenti chirurgici.

3.1 Lo specifico della medicina

L'opera di Ippocrate presenta tratti tanto innovativi da poter egli essere considerato il fondatore della scienza medica. In questo modo egli diede per la prima volta un carattere autonomo e specifico ad una pratica empirica, conferendole la dignità di una tecnica (téchne) fondata su un metodo scientifico. Tale innovazione appare chiara soprattutto nelle osservazioni che Ippocrate rivolge all'indirizzo della scuola di Cnido. Questa, sotto l'influenza delle prime osservazioni scientifiche compiute in area ionica (Talete, Anassimandro) aveva rafforzato lo spirito di osservazione tipico dei primi medici itineranti greci, nominati fin nei poemi omerici. Da una parte Ippocrate ha grande stima di tale approccio sperimentale: egli ritiene che grazie ad esso l'intera verità potrà gradualmente essere scoperta (con un ottimismo che riecheggia analoghe osservazioni di Senofane):

La medicina da gran tempo ormai dispone di tutto, e sono stati trovati il principio e la via grazie ai quali in lungo tempo sono state fatte molte e notevoli scoperte, e il resto nel futuro sarà scoperto se qualcuno, in grado di farlo e a conoscenza di quanto già è stato scoperto, cercherà prendendo le mosse da queste (Sull'antica medicina, 2).

Dall'altra parte egli critica nella scuola di Cnido il fatto che le osservazioni empiriche non siano congiunte in un quadro scientifico complessivo, che metta ordine nell'infinita varietà dei fenomeni con i quali il medico si deve confrontare. Solo questa conoscenza di tipo universale rende il medico veramente tale:

Coloro che scrissero le cosiddette Sentenze cnidie hanno sì descritto correttamente ciò che soffrono i malati in ogni malattia e come qualcuna di esse si risolve: e fin qui, anche il non medico potrebbe scrivere correttamente se s'informasse bene presso ciascuno dei malati su ciò che egli ha sofferto; ma di ciò che il medico deve ancora sapere -- né lo dice il malato -- molte cose sono state omesse; e sono conoscenze diverse nei diversi casi, alcune anche importanti come sintomi. ... A me piace invece che si ponga mente all'intera tecnica (Sul regime delle malattie acute, 1-2).

Questo quadro scientifico deve permettere anche di affrontare razionalmente qualsiasi manifestazione morbosa. Celebre è la discussione sull'epilessia, chiamata all'epoca «malattia sacra» perché ritenuta di origine divina e quindi non curabile con mezzi naturali. Ippocrate ritiene invece che l'appello alla divinità sia solo un modo per mascherare l'ignoranza ed esimersi dalla ricerca delle vere cause:

Per quanto riguarda la malattia detta «sacra», a me non appare in nessuna maniera più divina o più sacra di altre malattie, ma piuttosto ha una natura dalla quale si nasce, come le altre malattie. Gli uomini le attribuirono una natura e causa divina per imperizia e stupore, perché non somiglia per nulla ad altre malattie. E questa concezione della sua divinità è mantenuta dalla loro incapacità a comprenderla, e la facilità della maniera con cui è curata (gli uomini ne sarebbero infatti liberati tramite purificazioni e incantesimi). ... Coloro che per la prima volta divinizzarono questa malattia mi sembrano essere stati simili a quegli uomini che ora sono i prestigiatori, i purificatori, i saltimbanchi e i ciarlatani, che fingono di essere molto pii e più colti degli altri. Tali uomini, dunque, usando la divinità come un pretesto e una copertura della loro incapacità ad offrire ogni assistenza, hanno diffuso l'opinione che la malattia è sacra, aggiungendo argomentazioni appropriate allo scopo (Sulla malattia sacra, 1-2).

La ricerca di una sistemazione scientifica complessiva non deve però sconfinare in teorie sull'uomo astratte e lontane dall'esperienza: la medicina non ha bisogno di una «nuova ipotesi», che avrebbe senso solo se si dovesse indagare su «cose invisibili e inspiegabili» dei quali è impossibile avere esperienza diretta (Sull'antica medicina, 1). In questo modo non soltanto viene rifiutata una medicina «filosofica», ma la filosofia stessa, intesa come sapienza sulle prime cause, viene sfidata nella sua pretesa di conoscere l'uomo:

Ma alcuni medici ed esperti di sapienza (sophistái) dicono che non è possibile che conosca la medicina chi non sa che cos'è l'uomo, ma questo deve capire chi intende curare correttamente gli uomini. Il loro discorso tende alla filosofia (es philosophíen), come per Empedocle e altri che hanno scritto sulla natura partendo da che cosa è l'uomo e da come si formò all'inizio e da che cosa è costituito. Ma io anzitutto ritengo che tutte le cose dette da un esperto di sapienza o da un medico, o scritte sulla natura, si avvicinino più alla pittura che la medicina: ritengo invece che non è possibile conoscere qualcosa di chiaro sulla natura [dell'uomo] da nessun'altra fonte che dalla medicina. E questo si sarà in grado di apprenderlo quando si abbraccerà tutta la medicina stessa correttamente (e finché ad allora mi pare che ci mancherà molto): intendo questa indagine: sapere che cosa è l'uomo e per quale genere di cause si forma e tutto il resto, esattamente (Sull'antica medicina, 20).

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3.2 Il metodo della medicina

L'ampio compito assegnato alla medicina richiede un metodo di indagine altrettanto aperto. Anche qui distanziandosi dalla scuola di Cnido, Ippocrate ritiene che solo una considerazione globale di tutto il contesto di vita del malato permette di comprendere e sconfiggere la malattia, le cui varie manifestazioni sarebbero altrimenti destinate a rimanere enigmatiche. Tale esame complessivo deve estendersi anche al passato (anámnesis, ricordo), per poter individuare il male (diágnosis, conoscenza) e ipotizzarne ragionevolmente il decorso (prógnosis, previsione). Ciò implica un discernimento, che viene esercitato applicando una definizione empirica di «causa»:

Bisogna in realtà che si ritengano cause di ciascuna [malattia] quelle cose presenti le quali è necessario che sorga in un certo modo, e cambiate in un'altra mescolanza è necessario che cessi (Sull'antica medicina, 19).

Se tale prospettiva è rimasta ancora oggi come tipica della pratica medica, la ricchezza degli elementi che Ippocrate chiama in causa (dietetici, atmosferici, psicologici, perfino sociali) suggerisce un'ampiezza di vedute che ben raramente sarà in seguito praticata:

Questi i fenomeni relativi alle malattie, dai quali traevo le conclusioni, fondandole su quanto c'è di comune e quanto di individuale nella natura umana; sulla malattia, sul malato, sulla dieta e su chi la prescriveva ... ; sulla costituzione generale e specifica dei fenomeni atmosferici e di ciascuna regione, sui costumi, il regime, il modo di vita, l'età di ognuno; sui discorsi, i modi, i silenzi, i pensieri, sul sonno e sull'insonnia, sui sogni -- come e quando --, sui gesti involontari ... e sulla concatenazione delle malattie -- quali derivino dalle passate e quali si generino in futuro --. ... Sulla base di tutto ciò, si estenda l'analisi anche a quanto ne consegue (Epidemie, 1,23).

La necessità di una considerazione globale vale anche in senso inverso: ogni elemento nella natura umana ha ripercussioni sull'intera esistenza. Ciò vale in modo specialissimo per il cervello, al quale Ippocrate attribuisce un ruolo centrale nella vita psichica, distanziandosi da coloro che la ponevano ad esempio nel cuore o nel sangue. Lo studio del cervello dovrebbe così condurre perfino ad una comprensione della radice dei giustizi estetici e morali:

Da null'altro si formano i piaceri e la serenità e il riso e lo scherzo, se non dal cervello, e così i dolori, le pene, la tristezza e il pianto. E soprattutto grazie ad esso pensiamo e ragioniamo e vediamo e udiamo, e giudichiamo sul brutto e sul bello, sul cattivo e sul buono, sul piacevole e sullo spiacevole. ... Ed è a causa del cervello stesso se impazziamo, e deliriamo, e ci insorgono incubi e terrori, e insonnia e smarrimenti strani, e apprensioni senza scopo, e incapacità di comprendere cose consuete, e atti aberranti (Sulla malattia sacra, 17).

Integrazione: Il programma estremamente ambizioso spiega l'evoluzione che la scuola di Cos subì dopo la morte del fondatore. Il suo metodo, così aperto a qualsiasi tipo di dato empirico, era semplicemente al di sopra delle possibilità della pratica del tempo (e forse anche di oggi!), come lo stesso Ippocrate sembrava temere, riecheggiando lo scetticismo di Protagora: «La vita è breve, la tecnica è lunga, l'occasione è fugace, l'esperienza è fallace, il giudizio è difficile» (Aforismi, 1.1). Si andò così rapidamente verso una semplificazione, uno dei cui elementi più caratteristici si trova nella teoria dei quattro umori. Essi vengono determinati per analogia con le quattro radici di Empedocle e sono posti in corrispondenza con i caratteri, le stagioni e le età della vita; il loro squilibrio determina le diverse malattie. Tale schema appare debitore del tentativo di legare più strettamente l'immagine dell'uomo ad una comprensione del cosmo e concede alla «filosofia» senza dubbio di più di quanto Ippocrate avrebbe ammesso.

Radici Qualità Umori Caratteri Stagioni Età
aria umido caldo sangue sanguigno primavera infanzia
fuoco secco bile bilioso estate giovinezza
terra freddo bile nera malinconico autunno maturità
acqua umido catarro flemmatico inverno vecchiaia

D'altra parte però il pensiero di Ippocrate con tutta la sua complessità esercitò una grande influenza in altri campi culturali: sia la filosofia (Platone cita il suo procedimento come proprio modello, Fedro, 270 c9 -- d7 [greco], gli stoici si ispirarono a lui per la loro concezione dell'anima), verso la quale paradossalmente Ippocrate aveva poca simpatia, sia soprattutto la storia: pare certo che il metodo di Tucidide, che inaugura la storiografia in senso moderno, sia ispirato proprio al metodo medico di Ippocrate, il primo che conferì dignità di oggetto di scienza a qualcosa di così variabile come la realtà umana empirica. Fine dell'integrazione

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3.3 L'etica del medico

Se la mancanza di qualsiasi vincolo legislativo rese possibile lo sviluppo rapido della ricerca medica, d'altra parte essa rendeva più urgente la riflessione sui doveri morali del medico. In diverse passi delle opere di Ippocrate si insiste perciò sull'esigenza che il medico conduca una vita regolare e riservata, non speculi sulle malattie dei pazienti ma anzi li curi gratuitamente se bisognosi, stabilisca un legame di sincerità con i malati. È a questo tipo di prescrizioni che pensa Platone quando descrive l'immagine del «medico libero»:

Il [medico] libero per lo più cura e sorveglia le malattie dei liberi, ed esaminandole dal principio e secondo natura, discorrendo con il paziente stesso e con i suoi amici, da una parte s'informa personalmente dai malati, dall'altra per quanto è capace istruisce il malato stesso, e nulla prescrive di cui non sia persuaso anche lui stesso. E allora, tenendo sempre il malato tranquillo grazie alla persuasione, cerca di completare l'opera conducendolo alla salute (Leggi, IV, 720 d1-e2 [greco]).

Il testo più celebre che codifica l'etica medica è però il Giuramento (ancor oggi in uso), in cui vengono enumerati i princìpi fondamentali che deve seguire chi esercita questa professione: diffusione responsabile del sapere, impegno a favore della vita, senso del proprio limite e rettitudine, segreto professionale. Benché l'attribuzione ad Ippocrate sia fittizia (esso pare provenire da circoli pitagorici), nella sua ispirazione generale esso si sposa bene con la sua ambiziosa concezione della medicina come «conoscenza dell'uomo»:

Giuro per Apollo medico e per Asclepio e per Igea e per Panacea e per tutti gli dèi e le dee, chiamandoli a testimoni che adempirò secondo le mie forze e il mio giudizio questo giuramento e questo patto scritto.

Terrò chi mi ha insegnato questa tecnica in conto di genitore e dividerò con lui i miei beni, e se avrà bisogno lo metterò a parte dei miei averi in cambio del debito contratto con lui, e considerò i suoi figli come fratelli, e insegnerò loro questa tecnica se vorranno apprenderla, senza richiedere compensi né patti scritti. Metterò a parte dei precetti e degli insegnamenti orali e di tutto ciò che ho appreso i miei figli e i figli del mio maestro e i discepoli che avranno sottoscritto il patto e prestato il giuramento medico, ma nessun altro.

Sceglierò il regime per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio, e mi asterrò dal recar danno e offesa. Non somministrerò a nessuno, neppure se richiesto, alcun farmaco mortale, e non prenderò mai un'iniziativa del genere; e neppure fornirò mai a una donna un mezzo per procurare l'aborto.

Conserverò pia e paura la mia vita e la mia tecnica. Non opererò neppure chi soffre di calcoli, ma cederò il posto a chi è esperto di questa pratica. In tutte le case che visiterò entrerò per il bene dei malati, astenendomi ad ogni offesa e da ogni danno volontario, e soprattutto da atti sessuali sul corpo delle donne e degli uomini, sia liberi che servi.

Tutto ciò ch'io vedrò e ascolterò nell'esercizio della mia professione, o anche al di fuori della professione nei miei contatti con gli uomini, e che non dev'essere riferito ad altri, lo tacerò considerandolo cosa segreta.

Se adempirò a questo giuramento e non lo tradirò, possa io godere dei frutti della vita e della tecnica, stimato in perpetuo da tutti gli uomini; se lo trasgredirò e spergiurerò, possa toccarmi tutto il contrario.

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