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La sapienza anonima

Inizio

Una nuova civiltà e i suoi dèi

Affacciatasi circa quattro secoli dopo il crollo del mondo miceneo, la civiltà greca ha tra le sue caratteristiche principali lo spirito d'avventura, che la porterà a sbarcare su molte coste del Mediterraneo, e il pluralismo nelle forme espressive, sia politiche sia culturali. Tale pluralismo non impedì tuttavia una forte coscienza dell'unità, alimentata in buona parte da una lingua unitaria malgrado le differenze dialettali. Proprio nella lingua sono da individuare alcune delle caratteristiche che favorirono la sviluppo di un pensiero razionale e astratto: per esempio la facilità di formare neologismi, la presenza dell'articolo, la possibilità di esprimere complessi rapporti sintattici. 

Anche le forme religiose greche sono segnate da una notevole variabilità, che favorì la nascita di speculazioni originali. Il punto di partenza è comunque costituito da una religione politeista, in cui gli dèi sono sentiti contemporaneamente molto simili agli uomini e abissalmente lontani per la loro potenza. Tale peculiare rapporto conferisce valore sacrale a due atteggiamenti apparentemente contraddittori: da una parte la «moderazione» consistente nel non scavalcare i limiti dell'umanità, dall'altra l'agonismo tramite il quale si possono fare risaltare le proprie migliori caratteristiche e mostrare di essere simili agli dèi. Ben presto si precisarono tuttavia i confini di un agonismo «buono» che avesse come risultato il miglioramento proprio anziché la sconfitta altrui. 

In assenza di una classe sacerdotale, il mondo degli dèi viene descritto ed esaltato soprattutto dai poeti. Essi sono posti sotto la protezione delle Muse, divinità figlie di Zeus, il sovrano degli dèi, e di Mnemosýne, la dea «Memoria» che assicurava la verità dei poemi. Tra gli altri dèi importanti per il loro rapporto con la sapienza vi sono Apollo, che presiede alla divinazione, Diòniso, il cui culto viene esercitato in riti collettivi di carattere estatico. Probabilmente legati a Dioniso erano anche altre forme di religiosità, note come «misteriche» e «orfiche»: in esse veniva annunciata la possibilità di raggiungere, tramite una conoscenza superiore, la salvezza personale, che consisteva nella sottrazione della propria anima al ciclo delle reincarnazioni. Gli dèi più venerati erano però Afrodìte ed Eros, la cui forza irresistibile viene cantata dai poeti che esaltano il fascino della bellezza che innamora.  

Sommario

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Maschera mortuaria d'oro

Maschera di Agamènnone (Micene, 15º sec. a.C.). Benché l'identificazione con il volto del sovrano acheo sia frutto solo della suggestione romantica dell'archeologo Schliemann, lo scopritore di Troia, i ricchissimi corredi delle tombe di Micene fanno comprendere perfettamente lo stupore con cui i greci, secoli più tardi, guardavano all'antica civiltà ormai scomparsa, al punto da assegnarla ad una «età degli eroi» a metà strada tra uomini e dèi.

Questo stupore non si tramuta però in una inerte soggezione, ma contribuisce al nascere di una civiltà giovane e dinamica, che nel volgere di poche generazioni raggiungerà uno splendore fondato principalmente sui valori dello spirito, condivisi in un modo eccezionalmente democratico per l'antichità.


1. Le origini della civiltà greca

La civiltà greca (o ellenica) comincia ad assumere i propri contorni intorno all'800 a.C., alla fine dei cosiddetti «secoli oscuri» che seguirono al disfacimento della civiltà achea (o micenea), le ragioni del quale rimangono poco chiare. Certo è che il crollo di quest'ultima, avvenuto intorno al 1200 a.C., lascia il posto ad un popolo in condizioni di vita scarsamente progredite, che durante i secoli dello splendore doveva essere stato appena sfiorato da una società monarchica e centralizzata. Da qui viene a configurarsi con notevole rapidità una nuova cultura, probabilmente stimolata sia dal ricordo del passato splendore degli achei, sia dal dinamismo del mondo fenicio che in quegli stessi secoli conosceva il suo maggiore sviluppo ed era in contatti con la Grecia. Dai fenici la nascente civiltà greca apprese non solo il fondamentale strumento dell'alfabeto, ma anche quello spirito di avventura che condurrà fin da quel periodo, sotto la spinta della crescita demografica, a sbarcare sulle coste della Ionia e iniziare così quella «colonizzazione» che avrà un ruolo tanto importante nello sviluppo della cultura greca.

Le origini popolari della civiltà greca avranno conseguenze importanti sia dal punto di vista politico sia da quello culturale. Da una parte infatti la mancanza di una tradizionale autorità centrale causerà la tipica frammentazione del popolo greco: le diverse póleis rimarranno sempre sostanzialmente autonome l'una dall'altra, reggendosi con ordinamenti differenti e tendendo inoltre ad istituzioni aristocratiche o democratiche basate su un'ampia partecipazione alla gestione della cosa pubblica. D'altra parte al pluralismo politico corrisponderà un pluralismo culturale, evidente fin dalla lingua: ogni polis aveva il suo dialetto proprio, e solo in età ellenistica si giunse ad una lingua greca «comune» (koiné). Tutto ciò non impedì però ai Greci una forte coscienza della propria unità come popolo contrapposto ai bárbaroi: lo storico Eròdoto (484-430 ca. a.C.) poteva ricordare con soddisfazione «la nostra comunanza di sangue e di lingua, i nostri comuni templi degli dèi e i nostri riti, i nostri costumi affini» (Storie, VIII 144.2 [greco]).

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2. La lingua greca

È facile ammettere che la letteratura di una civiltà è legata alle caratteristiche della sua lingua (in effetti, specialmente nella poesia, càpita che opere molto belle in una lingua perdano d'interesse quando vengono tradotte). Qualcosa di simile vale anche per la filosofia e le forme che chiameremo genericamente sapienziali. Quest'idea è stata approfondita e sostenuta soprattutto nell'età contemporanea, in gran parte sulla base dello studio di lingue appartenenti a ceppi molto differenti tra loro, che paiono manifestare concezioni dello spazio, del tempo e della realtà molto differenti l'una dall'altra. La forma più estrema è stata quella assunta dalla cosiddetta «ipotesi Sapir-Whorf» [p] (due linguisti statunitensi attivi nella prima metà di questo secolo): secondo essa linguaggio e pensiero sarebbero completamente inseparabili, al punto che la struttura della lingua determinerebbe completamente il pensiero e la visione del mondo del parlante. Se questa tesi estrema è discutibile, certamente accettabili sono le versioni più moderate, che si basano se non altro sulla costatazione che in genere l'uomo pensa «parlando con sé stesso» (questa è già la definizione del pensiero che venne data dalla filosofia greca). Conviene dunque anzitutto dare uno sguardo alle caratteristiche della lingua greca che ebbero maggiore importanza sulla nascita della filosofia.

In primo luogo, nel greco colpisce la facilità con cui è possibile coniare nuove parole, sia tramite prefissi e suffissi, sia tramite la combinazione di diversi temi in parole composte. In questo modo era molto facile sia giungere a concetti astratti, sia più in generale elaborare una terminologia sottile e precisa nella distinzione dei diversi aspetti della realtà. Al confronto, il latino appare ad esempio più limitato, e Lucrezio (98?-55? a.C.), volendo esporre in un poema la filosofia di Epicuro lamenterà più di una volta la povertà del vocabolario latino:

Non sfugge al mio animo che le oscure scoperte dei Greci
è difficile chiarirle con versi latini,
soprattutto perché molte cose sono da trattare con nuove parole
per la povertà della lingua e la novità della materia
(propter egestatem linguae et rerum novitatem) (De rerum natura, I 136-139).

Alcune parole oggi comunissime in italiano (per esempio «quantità», «qualità», «essenza») derivano del resto da faticose creazioni artificiali latine escogitate per tradurre ciò che in greco veniva detto con molta spontaneità (posótes, poiótes, ousía).

Un ulteriore ausilio era fornito in greco dall'articolo che, inesistente nella lingua omerica, entrò nell'uso forse intorno all'8º sec. a.C. L'articolo non soltanto dava la possibilità d'individuare un oggetto cogliendolo nella sua generalità («l'uomo» è per esempio cosa diversa tanto da «un uomo» quanto da «questo uomo»), ma permetteva inoltre di sostantivare nella sua forma neutra qualsiasi altro termine: verbi, aggettivi, avverbi o locuzioni più complesse (anche la mancanza dell'articolo venne sentita in latino: per tradurre un semplice to agathón i latini furono costretti a parafrasare con id quod est bonum).

Tra le parole che svolsero un ruolo centrale nella storia della filosofia greca, citiamo per ora due verbi. Il primo è «essere» (éinai). Esso originariamente aveva solo il valore di predicato verbale, nel senso cioè di «esistere», inteso come «presenza» e «stabilità» (dal punto di vista grammaticale ciò è reso evidente dalla mancanza del perfetto e dell'aoristo, grosso modo paragonabili al nostro passato prossimo e passato remoto). Nell'evoluzione della lingua il verbo éinai venne però usato anche come copula, e al posto dell'originario ho ánthropos agathós cominciò a potersi dire ho ánthropos agathós estin per significare «l'uomo è buono». Inoltre, dato l'eccezionale sviluppo assunto dal participio in greco (unico tra tutte le lingue indoeuropee), anche ogni predicato verbale poteva essere trasformato in una copula seguita da un predicato nominale (anziché ho ánthropos tréchei poteva dirsi quindi ho ánthropós estin tréchon per intendere «l'uomo corre»). In questo modo, il verbo éinai cominciò ad essere percepito come l'autentico fulcro di ogni proposizione. Un altro verbo che svolse un ruolo importante fu gígnesthai: originariamente significante «nascere», il suo uso fu esteso fino a voler dire in generale «venire ad essere», e dunque anche «diventare» (ciò che diventa infatti «viene ad essere» ciò che prima non era). In questo modo gígnesthai assume un rapporto peculiare con il verbo éinai: da una parte funge quasi da suo sostituto nel perfetto e nell'aoristo, dall'altra viene sentito nettamente opposto ad esso: se éinai indica la permanenza e la stabilità, gígnesthai significa la transizione e la fuggevolezza.

Da un punto di vista sintattico è tipico del greco (come lo sarà anche del latino) lo sviluppo di particelle subordinanti che rendono facile la formulazione di pensieri anche complessi e la possibilità (anche maggiore del latino) di variare a piacimento l'ordine delle parole nella frase in modo da rendere più chiari i rapporti tra le diverse parti del periodo.

Integrazione: I primi caratteri con cui venne scritto il greco furono quelli d'un alfabeto sillabico (il «lineare B»), preso in prestito dalla lingua cretese (a noi del tutto ignota). Tale scrittura, usata nella civiltà achea, dovette avere una diffusione piuttosto scarsa e limitata a scopi amministrativi. Fu intorno all'800 a.C. che -- dopo secoli di dimenticanza della scrittura -- i Greci adottarono dai Fenici il loro alfabeto, introducendo un sostanziale miglioramento: sfruttando i segni di consonanti in greco inesistenti, venne introdotta la scrittura anche delle vocali, creando così il primo alfabeto completamente lineare e fonetico della storia. L'estrema facilità di apprendimento di questa scrittura ebbe soprattutto nel 5º sec. a.C. un ruolo fondamentale nell'evoluzione della cultura. Fine dell'integrazione

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3. Le forme religiose

Il pluralismo tipico della civiltà greca si manifesta anche nelle forme sapienziali che possono essere qualificate come «religiose». Benché l'uso di questo termine sia pressoché inevitabile, è bene ricordare che il concetto di «religione» è relativamente recente (in Occidente risale all'era cristiana). Esso era completamente assente nell'antica Grecia e mancava persino un termine preciso per indicarlo. Ciò suggerisce chiaramente quanto può essere confermato da un esame delle testimonianze: non esisteva affatto una «religione» percepita come campo culturale separato dalle altre espressioni dell'esistenza. Questa costatazione, che vale in una certa misura per tutte le civiltà antiche, ha tuttavia un peso eccezionale nella Grecia, dove non sono esistite una letteratura o un'arte specificamente sacre, né una classe sacerdotale distinta dalle altre. L'effetto di ciò è una grande variabilità sia nel pantheon adorato, sia nelle credenze, sia nei culti praticati. Non c'è dunque da meravigliarsi che la primitiva sapienza greca, che poi si svilupperà nelle forme propriamente filosofiche, trae origine nel campo religioso, in cui da una parte venivano concentrati i tentativi di comprensione del cosmo umano e naturale, dall'altra veniva implicitamente assicurato un considerevole spazio per una ricerca libera e originale.

I caratteri generali della religione greca -- come del resto sempre avviene -- sono strettamente legati alla formazione della civiltà che essa interpretò ed espresse. Anzitutto si tratta di una religione politeista. In questo la Grecia si allinea a quasi tutte le civiltà superiori dell'antichità: quando la vita sociale diviene più complessa e stratificata, solo un pantheon ricco e differenziato può costituire la giustificazione e il modello di riferimento per il comportamento umano. È così che Zeus (l'incontrastato dominatore degli dèi) può essere il modello e la giustificazione dell'esercizio del potere, Apollo il punto di riferimento dei giovani, Artèmide delle ragazze, e così via. D'altra parte l'esistenza di contrasti e «difetti» negli dèi (che contribuiscono a quel profondo antropomorfismo che è tipico della religione greca) offriva quasi una spiegazione dei conflitti e dei vizi nella convivenza umana. Assieme a tale somiglianza, il mondo degli dèi veniva tuttavia percepito come molto lontano, quasi abissalmente separato dall'universo umano (al punto che agli dei venivano attribuiti cibi e bevande particolari, l'«ambrosia» e il «nettare», e anche un sangue diverso da quello umano, l'«ìcore»). Questo strano contrasto viene bene espresso dal poeta lirico Pìndaro (ca. 520-435 a.C.):

Una la stirpe degli uomini e degli dèi, e da una sola madre
entrambi traiamo respiro; ma ci separa una potenza del tutto
distinta, così che l'una è un nulla, ma
l'incrollabile bronzea sede sempre
rimane: il cielo (Nemee, VI 1-4 [greco]).

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4. Eccesso e agonismo

Dunque, è vero che l'uomo ha come modello un mondo divino a lui congenere: ma egli è tenuto a restare entro i confini della propria umanità. Questo è ciò che in genere viene indicato in greco come «moderazione» (sophrosýne), bene espressa dal senso originario di due celebri motti scolpìti sul tempio di Apollo a Delfi: «conosci te stesso» (gnóthi sautón), cioè «sappi chi sei», e «nulla di troppo» (medén ágan). La tentazione contraria è chiamata hýbris, ovvero «eccesso», «tracotanza». Essa è considerata il maggiore pericolo per l'uomo, che cedendo al suo fascino cade nella áte, l'accecamento nel quale egli compie azioni autodistruttive.

Tale sintesi di lontananza e vicinanza, con tutti i conseguenti pericoli, viene proiettata dai Greci soprattutto nel mondo degli «eroi» (detti anche «semidèi»). Figli di un dio e di un mortale, essi incarnano spesso modelli negativi, da non seguire, proprio per il loro «eccesso» e il loro funesto tentativo d'infrangere i confini immutabili della natura. È facile riconoscere quale sia il sottofondo storico del mondo eroico, cantato anzitutto nei due poemi attribuiti ad Omero, l'Iliade e l'Odissea (fissati nell'8º sec. a.C.): si tratta dell'antico mondo della civiltà achea, che dal popolo che venne a costituire la nuova civiltà greca doveva apparire come un'isola di sovrumano splendore in mezzo alle fatiche e alla mediocrità della vita comune: uno splendore del quale tuttavia si potevano ammirare solo i ruderi, segno di una caduta rovinosa e quasi inspiegabile. La più perfetta forma artistica del mondo eroico viene resa, nel secolo d'oro di Atene, nelle grandi tragedie di Èschilo (525-456 a.C.), Sòfocle (497-406 a.C.) e in parte Eurìpide (480-406 a.C.): esse sono per lo più la messa in scena di differenti hýbreis che si scontrano, finché attraverso sofferenze e sciagure può prepararsi un nuovo equilibrio.

Integrazione: Un esempio chiaro e suggestivo si ha nell'Antìgone (442 a.C.) di Sòfocle, una delle tragedie più ammirate in tutti i tempi, che da Aristòtele a Georg Wilhelm Friedrich Hegel [p] (1770-1831) sarà anche una ricca fonte di ispirazione per la filosofia. La vicenda prende le mosse all'indomani del duello nel quale sono morti alla porte di Tebe i fratelli Eteocle e Polinice: il primo per difendere la città patria dall'attacco degli Argivi, il secondo tentando di espugnarla tradendola. Il re di Tebe, Creonte, vieta di dare sepoltura a Polinice: ma in questo modo disobbedisce alle «leggi non scritte» degli dèi, che prescrivono la pietà verso tutti i morti. Antìgone, sorella di Polinice, dopo aver inutilmente tentato di convincere l'altra sorella Ismene ad associarsi alla sua impresa, va da sola a coprire il cadavere di Polinice, trasgredendo il decreto di Creonte (ma in questo modo anche lei fa qualcosa di «eccessivo», dando ascolto unicamente alla voce del proprio sangue). Scoperta, viene condannata a morte da Creonte. Emone, figlio di Creonte e promesso sposo di Antìgone, tenta invano di esortare alla «moderazione» il padre, ma Antìgone viene condotta in una caverna per esservi sepolta viva. Il divinatore Tiresia si reca da Creonte per comunicargli che gli dèi sono sdegnati, e gli predice terribili disgrazie. Questi, spaventato, autorizza la sepoltura di Polinice e dà ordine di liberarne la sorella, ma è troppo tardi: Antìgone si è impiccata, Emone dopo aver tentato di uccidere il padre si trafigge con la spada, e infine la moglie di Creonte, Euridice, si suicida. La tragedia termina con Creonte che invoca la propria morte, rimproverato dal coro di anziani:

Creonte: Venga, venga,
appaia la più bella delle morti
portandomi il giorno terminale,
l'ultima. Venga, venga,
che io più non veda un altro giorno.

Coro: Questo avverrà. Ma nel presente qualcosa bisogna
fare. Di queste cose se ne occuperà chi deve.

Creonte: Ma ciò che amo in questa preghiera l'ho racchiuso.

Coro: Non fare più preghiere adesso: quando è decretata
non c'è per i mortali scampo dalla sventura.

Creonte: Qualcuno porti via quest'uomo inutile,
che uccise te, figlio mio, senza volerlo,
e te, donna. Oh sventurato, neanche so
a chi dei due guardare, perché tutto
mi scivola tra le mani, e sul mio capo
un destino insopportabile s'è abbattuto.

Coro: Certamente esser saggi per la felicità
è il primo inizio. Poi bisogna contro gli dèi
non commettere empietà. I grandi discorsi
dei superbi, dopo aver scontato grandi
piaghe, in vecchiaia insegnano la saggezza (Antìgone, 1328-1352 [greco]).

Fine dell'integrazione

Alla necessità per l'uomo di mantenersi nei confini dell'umano fa da contrappunto lo spirito agonistico, il desiderio di primeggiare, che nella cultura greca non solo veniva considerato moralmente buono, ma riceveva addirittura una connotazione sacrale. Alcune delle più solenni e celebri feste religiose erano caratterizzate dalla presenza di competizioni di ogni tipo: anzitutto atletiche, ma anche musicali, teatrali, poetiche, perfino di bellezza. Del resto, gli stessi poemi del ciclo troiano costituiscono la celebrazione di una cruenta rivalità: sul suo sfondo si alza la lode dell'«eccellenza» o «virtù» (areté), intesa soprattutto in senso fisico, che è la più piena realizzazione dell'uomo. Non è difficile intuire in che cosa consistesse il senso religioso dello spirito agonistico: colui che riesce a far valere la propria superiorità mostra nei confronti del mondo divino quella maggiore vicinanza che costituisce di per sé atto di culto. Così medita Pìndaro celebrando il vincitore di una gara:

Effimeri: che si è? che non si è? Sogno di un'ombra
l'uomo. Ma ogni volta che viene il fulgore divino
uno splendente bagliore ricopre gli uomini e soave è la vita (Pitiche, VIII 95-97 [greco]).

In Esìodo (8º sec. a.C.), rappresentante di una cultura pacifica e contadina, si ha una significativa variante nella concezione della «contesa» (éris), concepita ora come emulazione nei confronti dell'altro uomo. Secondo Esìodo bisogna perciò respingere la contesa che tende a danneggiare l'altro, per accettare solo quella che porta a migliorare sé stessi:

Non c'è solo un genere di Contesa, ma sulla terra
ve ne sono due: una la può lodare chi la conosce,
l'altra è riprovevole: hanno infatti spirito diverso.
Una favorisce la guerra cattiva e la discordia,
ed è quella crudele: nessun mortale l'ama, ma per necessità,
per volere degl'immortali, onorano questa pesante Contesa.
Ma la Notte tenebrosa generò per prima l'altra,
e il Cronìde abitatore dell'etere dall'alto trono la pose
nelle radici della terra, e molto migliore per gli uomini.
Essa infatti sveglia anche il pigro al lavoro:
perché uno che è senza lavoro guarda un altro
che è ricco e si affretta a seminare o coltivare
e a ben governare la casa; il vicino emula il vicino
che attende all'abbondanza. Questa Contesa è buona per i mortali:
il vasaio gareggia col vasaio, l'artigiano con l'artigiano,
il povero rivaleggia col povero, l'aedo con l'aedo (Opere e giorni, 11-26 [greco]).

In modo simile, anche la hýbris non viene più intesa come un'offesa verso gli dèi, ma verso gli uomini: è la sopraffazione nei confronti del proprio simile, alla quale quindi è contrapposta la giustizia (díke). Non bisogna però pensare che éris e hýbris, così mutate di significato, vengano private del loro valore sacrale: qualsiasi disordine nella convivenza umana è anzitutto una violazione dell'ordine voluto da Zeus, e tanto Éris quanto Díke diventano in Esìodo dèe.

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5. Il mondo degli dèi

L'assenza di una classe sacerdotale custode della sapienza religiosa è controbilanciata in Grecia dall'aura sacrale che circonda l'attività degli artisti e in particolare dei poeti. Essi con la loro parola sono contemporaneamente cantori del mondo divino ed educatori del mondo umano, nel momento stesso in cui raccolgono un'antica tradizione dando ad essa nuove forme secondo la propria sensibilità. Questo è il motivo per cui svolsero a lungo un ruolo centrale nell'educazione greca i due poemi di Omero. L'attività dei poeti era considerata posta sotto la diretta protezione delle Muse, divinità figlie di Zeus e di Mnemosýne (cioè «Memoria»). Se la figliolanza da Zeus sottolinea l'importanza del loro ruolo, quella da Mnemosyne indica quale sia la radice ultima da cui attingere la verità: essa è anzitutto il ricordo del passato, nel quale si svolgono le vicende degli dèi e che costituisce continua fonte d'ispirazione per il presente. Il valore della memoria che si manifesta nel canto poetico è bene espresso dalle parole di congratulazione che Ulisse rivolge all'aedo Demòdoco:

Demodoco, io ti onoro al di sopra di tutti i mortali.
Certamente Apollo o la Musa figlia di Zeus ti hanno istruito,
perché molto bene hai cantato la sorte degli Achei,
ciò che subirono e fecero, quanto soffrirono gli Achei,
quasi fossi stato presente o qualcuno te l'avesse narrato (Odissea, VIII 487-491 [greco]).

La coscienza dell'importanza della verità della poesia ispirata diviene centrale in Esìodo. Accingendosi nella Teogonia (il poema dedicato soprattutto alle genealogie degli dèi) ad una grandiosa impresa di sistemazione e interpretazione dei caratteri del mondo divino, Esìodo narra l'incontro grazie al quale un semplice pastore viene trasformato nel migliore cantore degli dèi:

[Le Muse] una volta ad Esìodo insegnarono un bel canto,
mentre pascolava gli agnelli sotto il divino Elicone.
Questo racconto anzitutto mi dissero le dee,
le Muse dell'Olimpo, figlie dell'egioco Zeus:
«O pastori della campagna, cattiva razza, solo ventre!
Noi sappiamo dire molte menzogne simili a cose vere,
ma quando vogliamo sappiamo anche cantare il vero».
Così dissero le faconde figlie del grande Zeus,
e per scettro mi diedero un ramo d'alloro fiorito,
staccato dall'albero, meraviglioso, e m'ispirarono il canto
divino, perché celebrassi sia ciò che sarà sia ciò che è stato,
e m'ordinarono d'inneggiare alla stirpe dei beati che sempre sono,
e di cantare sempre loro stesse, all'inizio e alla fine.
Ma perché queste parole sulla quercia e sulla roccia?
Sù, iniziamo dalle Muse, che inneggiando
a Zeus padre rallegrano la grande mente nell'Olimpo,
dicendo sia ciò che è, sia ciò che sarà, sia ciò che è stato
(éirousai tá t'eónta tá t'essómena pró t'eónta) (Teogonia, 22-38 [greco]).

Platone (427-347 a.C.), che pur manifesta molte perplessità verso la poesia tradizionale, sembra pienamente d'accordo sul suo carattere divino, e ne sottolinea il carattere «contagioso», che ne trasmette il potere dagli dèi fino agli ultimi ripetitori e infine agli ascoltatori. Queste sono le affermazioni che Platone mette in bocca a Socrate, immaginandone un dialogo con il rapsodo Ione:

Questa capacità ... non è, come dicevo, un'arte che viene da te, ma un potere divino che ti muove, come nella pietra che Eurìpide chiamò «magnete» ... . Infatti questa pietra non solo attrae gli anelli di ferro, ma comunica il proprio potere agli anelli stessi, cosicché essi possono fare la stessa cosa della pietra: attrarre altri anelli, cosicché a volte si forma una catena molto lunga di pezzi di ferro e d'anelli pendenti l'uno dall'altro. Ma in tutti questi il potere dipende da quella pietra. Così anche la Musa crea gli ispirati, ma attraverso questi ispirati si forma una catena di altri posseduti. ... Il poeta infatti è un essere leggero, alato e sacro, e non è in grado di poetare se prima non sia ispirato e fuori di senno e la mente non sia più in lui. ... E mi pare che il dio, affinché non ne dubitassimo, ci ha mostrato come questi bei poemi non siano umani né di uomini, ma divini e di dèi, e i poeti non sono nient'altro che interpreti degli dèi, posseduti da quel dio da cui ciascuno di essi è posseduto. E per mostrarci questo, il dio cantò il più bel canto tramite il poeta più insignificante (Ione, 533 d1 -- 535 a1 [greco]).

Oltre alle Muse, nel pantheon greco due altri dèi paiono particolarmente importanti per il loro rapporto con la sapienza. Il primo di essi è Apollo. Oltre ad essere il dio del sole e della musica della lira, era unanimemente considerato dai Greci il dio della mantica (cioè divinazione): particolarmente importante al riguardo il tempio di Apollo Pizio a Delfi, il cui culto diventò panellenico intorno al 700 a.C. La mantica consisteva principalmente nella previsione del futuro, ma nel significato più ampio riguardava tutto ciò che esiste: secondo la formula omerica (che abbiamo già visto ripresa da Esìodo), il mántis conosce «sia ciò che è, sia ciò che sarà, sia ciò che è stato» (Iliade, I 72 [greco]). L'arco che veniva attribuito ad Apollo diventa così anche il simbolo di uno sguardo che arriva lontano e permette di contemplare una realtà distante. Il rapporto di Apollo con il mántis viene inteso dai Greci come una possessione che, interrompendo le normali facoltà razionali -- di loro natura incerte ed opache --, rende capaci di conoscere la totalità della realtà. È Platone a fornirci le osservazioni più precise in merito:

I maggiori beni ci giungono per mezzo di una follia (manía), concessa per un dono divino. Mentre erano folli la profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodòna, in privato e in pubblico, hanno reso alla Grecia molte belle cose, mentre invece erano assennate poco o nulla. ... Anche tra gli antichi, quelli che imposero i nomi non giudicarono la follia un male o una vergogna, altrimenti non avrebbero chiamato proprio con il nome di «folle» (maniké) l'arte più bella, quella per cui si giudica il futuro. ... Mentre quella indagine del futuro che gli uomini assennati fanno per mezzo d'uccelli e d'altri segni, poiché con la ragione cercano di dare alla congettura umana intuizione e conoscenza, la chiamarono «conoscitivo-congetturale» (oionistiké). ... Ora, di quanto più degna di lode è l'arte «folle» di quella «conoscitivo-congetturale» ... di tanto gli antichi testimoniano che la follia che è divina è più bella dell'assennatezza che nasce tra gli uomini (Fedro, 244 a6-d5 [greco]).

L'altro dio importante è Diòniso. Apparentemente opposto al solare Apollo per le sue caratteristiche più oscure e misteriose, veniva in realtà concepito a questi strettamente connesso: nei mesi invernali egli sostituiva Apollo nel santuario di Delfi, e alcune tradizioni giungono addirittura ad identificare i due. Come Apollo è il dio della mantica, così Dioniso è il dio della possessione «iniziatica», sperimentata in riti collettivi. Essa è vissuta anzitutto dalle «baccanti» o «mènadi», che onorano il dio in uno stato di temporanea alterazione psichica. Anche in questo caso essa è il segno di una irruzione del mondo divino nell'animo dell'uomo: il posseduto da Dioniso giunge addirittura ad identificarsi con il dio, vivendo in un'estasi mistica il superamento dei confini naturali. L'universale proibizione della hýbris non impedisce quindi che venga considerato desiderabile e fonte di felicità quel contatto tra l'uomo e gli dèi che deriva da una iniziativa di questi ultimi. Così dichiara Eurìpide nelle Baccanti, una cupa ed enigmatica tragedia dedicata al culto di Dioniso:

Beato chi ha un buon dèmone
e conoscendo le iniziazioni divine
santifica la vita
e introduce l'anima nel coro di Dioniso
delirando nelle montagne
con sante purificazioni
............................
e incoronato d'edera
dà culto a Dioniso (Baccanti, 73-82 [greco]).

L'analogia tra Apollo e Dioniso permette poi di associare anche alla possessione indotta dal secondo un carattere divinatorio:

Questo dio è un divinatore, perché ciò che è delirante
e folle ha una grande divinazione:
quando infatti il dio entra violento nel corpo
fa dire il futuro ai folli (Baccanti, 298-301 [greco]).

Il primato nella venerazione popolare non spettava tuttavia a nessuna delle figure divine finora nominate, ma piuttosto ad Afrodìte, la dea dell'amore, spesso situata accanto alla sua controparte maschile Eros. Quest'ultimo viene annoverato da Esìodo tra le divinità primordiali, «il più bello tra gli immortali, che scioglie le membra, e di tutti gli dèi e tutti gli uomini sopraffà nel petto il pensiero e il saggio consiglio» (Teogonia, 120-2 [greco]). A lui non viene assegnata una discendenza propria, evidentemente perché svolge una funzione più universale: quella di forza cosmica che presiede alla generazione di tutti i viventi. Afrodìte viene invece così celebrata:

La accompagnano Eros e la segue il bel Desiderio
da quando appena nata andava verso la tribù degli dèi:
fin dal principio ha quest'onore e ha ricevuto,
in sorte tra gli uomini e gli dèi immortali,
compagnia di fanciulle e sorrisi e seduzioni
e soave piacere e amorevolezza e dolcezza (Teogonia, 201-6 [greco]).

Caratteristico della comprensione greca dell'amore è il ruolo svolto dalla vista: è ciò che è bello di aspetto che fa innamorare. La lirica della poetessa Saffo testimonia questa sensibilità in modo molto attraente:

Mi appare simile agli dèi
quell'uomo che davanti a te
siede e ode le tue parole dolci
e il tenero tuo riso (Diehl 2,1-5).

Alcuni l'esercito di cavalieri, altri di fanti,
altri di navi dicono che sulla nera terra
sia la cosa più bella, ma io ciò
che si ama. ...
Di lei vorrei vedere il passo amato
e lo scintillìo lucente del suo volto
piuttosto che i carri dei Lidi e i fanti
con le loro armi (Diehl 27a).

Ti prego, vieni da me,
Gongila, con la grande cetra.
Ancora Desiderio e Amore
volano attorno
a te, bella: anche la tua veste
emoziona chi la vede, e io ne gioisco (Diehl 36,1-6).

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6. Misteri e orfismo

Sembra che il culto tributato a Dioniso avesse stretti legami con i riti celebrati ad Elèusi sotto la protezione delle dèe Demètra e Core (ovvero Persèfone), riti che prendevano il nome di mystéria. Essi mostrano un'evidente analogia con i cosiddetti «riti di passaggio», presenti in molte civiltà primitive. Se però in queste ultime si tratta di celebrazioni che permettono il passaggio socialmente riconosciuto dalla fanciullezza all'età matura, nella cultura greca esse diventano riti liberamente scelti dal singolo per conseguire una salvezza personale. La più antica testimonianza si trova nell'omerico Inno a Demetra (ca. 600 a.C.), nel quale viene anche bene sottolineato il carattere dell'assoluta segretezza che doveva circondare i mystéria:

... e [Demetra] a tutti mostrò i riti (órgia)
..............................................
santi, che non è permesso trasgredire né apprendere
né dire, ché il grande rispetto per gli dèi impedisce la voce.
Felice chi tra gli uomini terrestri ha visto queste cose.
Ma chi è senza iniziazione ai sacri riti e senza questa sorte,
mai avrà uguale destino, da morto, nelle umide tenebre (Inno a Demetra, 476-482 = Colli 3 [A 1] [greco]).

Qui si allude anche alla tappa finale dei riti di Elèusi: essa consisteva in una silenziosa «visione» (epoptéia) di qualcosa (non sappiamo che cosa) che procurava una conoscenza superiore e rendeva quasi immuni dalla comune sorte degli uomini, cancellando il timore della morte e donando una vita più felice. (Il valore salvifico della conoscenza resterà quasi una costante in tutto il pensiero greco.) La visione finale di Elèusi poteva però del resto essere raggiunta solo dopo riti preparatori che presentavano invece un carattere di fatica e sofferenza. L'atmosfera che doveva regnare nei mystéria viene resa magistralmente da Platone, che parafrasa il linguaggio di Elèusi per descrivere l'esistenza dell'anima umana prima della sua incarnazione:

Là si presenta all'anima la fatica e la lotta ultima. Le anime che si dicono immortali infatti, ogniqualvolta giungono alla sommità, uscendo fuori si fermano sul dorso del cielo: e fermandosi vengono condotte dal moto circolare mentre contemplano (theoróusi) le cose fuori del cielo. ... E la bellezza era allora splendente a vedersi, quando col coro felice vedemmo la beata vista e visione (noi al sèguito di Zeus, altri con un altro dio), ed eravamo iniziati in quella che è lecito dire la più beata delle iniziazioni, che celebravamo segretamente quando noi eravamo perfettissimi e immuni dai mali che ci aspettavano nel tempo successivo, quando venivamo iniziati e contemplavamo (epoptéuontes) in un puro splendore immagini perfettissime e semplici e immobili e felici, quando eravamo puri e non seppelliti in questo che ora chiamiamo «corpo», uniti ad esso come un'ostrica (Fedro, 247 b5 -- 250 c6 [greco]).

Come suggeriscono queste ultime righe, nei riti eleusini confluivano quelle idee religiose generalmente indicate come «orfiche», dal nome del mitico poeta Orfeo che ne sarebbe stato l'ispiratore. In esse riceveva attenzione soprattutto il problema della sorte ultraterrena. All'orfismo -- che non può essere separato nettamente dalle altre manifestazioni della religione greca -- è dovuta soprattutto la concezione di un'anima immortale, racchiusa nel corpo come in un sepolcro e desiderosa di trovare la sua definitiva liberazione dopo aver attraversato diverse reincarnazioni e aver subìto di volta in volta il giudizio divino per la propria esistenza corporea. Alcuni testi di carattere magico-funerario rinvenuti incisi su lamelle testimoniano bene le idee sulla morte nella spiritualità orfica. Eccone uno:

Troverai a sinistra delle case di Ade una fonte,
e accanto ad esse piantato un bianco cipresso:
a questa fonte non accostarti neanche vicino.
E ne troverai un'altra, fresca acqua che scorre
dallo stagno di Mnemosìne: e i custodi stanno davanti.
Di': «Sono figlia di Gea e di Urano stellato,
e la mia stirpe è celeste: lo sapete anche voi.
Sono riarsa di sete e muoio: ma datemi sùbito
fresca acqua che scorre dallo stagno di Mnemosyne».
Ed essi ti lasceranno bere dalla fonte divina,
e poi regnerai con gli altri eroi (Colli 4 [A 63]).

La prima fonte da evitare è evidentemente quella dell'oblìo, (léthe), che condurrebbe ad una nuova reincarnazione. Solo dissetandosi di «memoria» (mnemosýne) l'uomo può recuperare la conoscenza completa di ciò che ha fin dall'inizio contemplato e dunque raggiungere la vita perfetta e felice.

Tipiche dell'orfismo sono anche diverse «teogonie», ovvero narrazioni dell'origine delle divinità e di tutte le cose. Composte sull'esempio dell'antica Teogonia di Esìodo, esse rielaborano però in maniera originale la mitologia greca. Un grande rilievo viene assunto dalle forze cosmiche: Notte, Caos, Giustizia (Díke). Un ruolo molto importante sembra poi giocato da Tempo (Chrónos) e Necessità (Anánke), talvolta individuati come le due divinità primigenie. La figura di Zeus sembra invece essere reinterpretata come il principio universale nel quale tutte le opposizioni e le differenze vengono a riunirsi:

Zeus nacque per primo, Zeus col fulmine splendente l'ultimo.
Zeus la testa, Zeus il medio, da Zeus tutto è compiuto.
Zeus il fondo della terra e del cielo stellato.
Zeus nacque maschio, Zeus immortale fu sposa.
Zeus il soffio d'ogni cosa, Zeus il balzo del fuoco infaticabile.
Zeus la radice del mare, Zeus il sole e la luna.
Zeus il re, Zeus col fulmine splendente il capo di tutte le cose.
Infatti, dopo aver nascosto tutti, di nuovo alla luce gioiosa
dal puro cuore li sollevò, compiendo rovine (Colli 4 [A 71]).

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