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La prima sapienza individuale

Inizio

Verso un sapere umano

Un'importante svolta verso la costituzione della filosofia avviene quando, intorno al 6º sec., cominciano ad emergere personalità individuali che propongono in prima persona visioni originali della realtà. Ciò avviene soprattutto nella periferia del mondo greco, dove le condizioni sociali e politiche delle nascenti colonie in parte favorivano e in parte imponevano la ricerca di nuovi modelli di pensiero e di azione. La ricostruzione di questo periodo della cultura greca è resa incerta dalla scarsità delle fonti. Sembra in ogni caso da prendere con molta cautela la celebre opinione di Aristòtele che vede in queste antiche espressioni la ricerca di dottrine di carattere «fisico». 

Molto limitate sono le notizie che abbiamo di Ferècide, di Talete, di Anassimandro. Di Ferècide è una narrazione in prosa sull'origine degli dèi, che suggerisce il carattere illusorio del mondo: tutto ciò che vediamo è il mantello con cui Zeus celebra il suo amore per la dea Terra. Talete, entrato nella leggenda per l'ampiezza delle sue conoscenze in ogni campo, sembra aver sostenuto il carattere divino dell'intera realtà. Di Anassimandro è conservato un frammento nel quale si afferma l'esistenza di un ciclo universale di tutti gli «enti», la cui morte è la pena da scontare per il delitto di essere nati. In tutte queste testimonianze è possibile comunque osservare un progressivo distacco dalle antiche forme di espressione sacrale e la ricerca di un linguaggio più astratto. 

Difficile è anche la ricostruzione del pensiero di Pitagora. I suoi interessi erano comunque principalmente di ordine teologico, e diedero origine ad una comunità di tipo etico-religioso che ebbe vita lunghissima. La funzione sacra attribuito alla musica nell'antichità diede probabilmente occasione ai suoi discepoli di iniziare lo studio della matematica, usata per comprendere le leggi dei rapporti numerici tra i diversi suoni. Gradualmente si giunse così ad una interpretazione matematica dell'intera realtà, concepita come un «cosmo», cioè un insieme ordinato. Più sicure invece le testimonianze su Senòfane, il quale rivendica orgogliosamente il primato delle virtù intellettuali su quelle fisiche e contesta l'antropomorfismo della religione greca proponendo la visione di un dio supremo che conosce ogni cosa.  

Sommario

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Busto di una statua raffigurante una fanciulla

Kore di Eutidico (Atene, 6º sec. a.C.). Tra le forme artistiche tipiche del mondo greco arcaico sono immagini di ragazzi e di ragazze a figura intera e mediamente grandezza naturale, denominate rispettivamente kúroi e kórai. Se è sicuro il loro uso cultuale, più incerto è l'esatto significato: le fattezze non rendono possibile la loro identificazione con dèi e dèe, ma i loro tratti convenzionali non le lasciano neppure interpretare come ritratti degli offerenti.

Ciò che è certo è che in tali immagini si vede progressivamente affiorare lo studio della figura umana nella sua individualità. Sarà l'esperienza maturata in queste immagini, la loro ricerca di una bellezza umanizzata ma ciononostante universale, che permetterà alla statuaria successiva di realizzare i suoi capolavori.


1. La scoperta dell'individualità

Le manifestazioni che abbiamo finora considerato sono state caratterizzate o dall'anonimato o almeno dall'impersonalità: anche i poeti con una propria chiara personalità (come Esìodo) non vogliono far altro che dare voce ad una sapienza che non nasce da loro, ma è piuttosto espressione diretta del mondo divino. Una tappa molto importante verso la costituzione della filosofia, che ebbe luogo intorno al 6º sec. a.C., è rappresentata invece dall'emergere di personalità individuali che si fanno portatrici della sapienza. Non si tratta in realtà di un processo che interessa solo la sapienza: qualcosa di molto simile si verifica anche nella letteratura, dove all'epica succede la forma spesso estremamente personale della poesia lirica. Il fatto che tali forme di sapienza individuale siano localizzate per lo più nella periferia del mondo greco, e cioè nelle colonie, non è casuale. Sembra infatti naturale cercare là quell'intraprendenza e quell'apertura di orizzonti che si può presumere sia la migliore condizione per la libera espressione della propria individualità: dove il proprio mondo appare sostanzialmente nuovo e non più legato alle antiche tradizioni, è naturale che ne risulti favorita la ricerca di nuovi stili di pensiero.

In tale luce può anche essere valutata un'importante circostanza: di molti antichi sapienti viene testimoniato un ruolo come «legislatori» nelle proprie polis. A prescindere dalla difficoltà di valutare caso per caso l'attendibilità di queste notizie, non è per nulla inverosimile che coloro che possedevano nell'opinione cittadina un'eccezionale sophía venissero ad assumere anche una funzione politica centrale. La sapienza poteva infatti essere considerata come il bene maggiore di cui la città doveva servirsi per giungere all'eunomía, cioè al buongoverno. Il fatto che talvolta nelle opere dei sapienti risuoni una terminologia giuridica o politica può anzi suggerire che la sapienza è socialmente utile perché porta a conoscere quel «governo» dell'intero cosmo alla luce del quale dev'essere progettato il governo della polis. Anche da questo punto di vista, dunque, si comprende come le nuove sapienze individuali possano più facilmente nascere nei luoghi dove è possibile o addirittura necessario elaborare nuovi modelli e nuove soluzioni. Fin qui possono giungere le osservazioni generali. Più fragili sono i tentativi compiuti (Antonio Capizzi) per ricostruire, soprattutto in mancanza di affermazioni esplicite, quale sia stata l'effettiva proposta politica dei diversi sapienti.

Integrazione: Per sottolineare il passaggio dall'«anonimato» all'«individualità» si può preferire al termine «religione», che abbiamo finora per lo più usato, quello di «sapienza» (sophía), che è del resto un concetto schiettamente greco. Bisogna però osservare che anche questo termine dev'essere adoperato con qualche cautela. È vero che esso venne in importanti occasioni usato proprio per indicare quel carattere definitivo e ultimo che dovremo poi riconoscere alla «filosofia» in senso stretto, la quale è appunto nella sua stessa etimologia «amore di sophía». Infatti in uno scritto di scuola platonica essa è definita «scienza anipotetica [che non ha cioè alcun'altra scienza sopra di sé], scienza degli enti eterni, scienza teoretica della causa degli enti» (Definizioni, 414 b5-6). È però altrettanto vero che il significato di sophía è in greco molto ampio, e va a ricoprire qualsiasi abilità o «bravura»: un sophós tékton è semplicemente un bravo costruttore. Fine dell'integrazione

I più antichi sapienti, la cui influenza diretta nella successiva storia della cultura greca rimase globalmente modesta, si presentano con contorni piuttosto incerti. I frammenti superstiti delle loro opere sono spesso scarsi o addirittura inesistenti, e la loro interpretazione necessariamente congetturale. Spesso anche i dati biografici attendibili sono quasi nulli. L'interesse che ciò nonostante la cultura greca dedicò a loro, talvolta avvolgendo nella leggenda la loro figura, è evidentemente il segno di un atteggiamento misto di nostalgia e ammirazione nei confronti di un tempo che veniva visto ancora abitato da una sophía di origine divina.

Integrazione: Sulla ricostruzione del pensiero dei primi sapienti greci (i cosiddetti «presocratici») e soprattutto sull'interpretazione del loro senso ha avuto e spesso continua ad avere un'influenza eccessiva la presentazione che fece di essi un paio di secoli dopo Aristòtele (384-322 a.C.) nel primo libro della sua Metafisica. Su essa si basa l'affermazione -- divenuta comunissima -- che la filosofia sia sorta con la «scuola ionica» di Mileto, e cioè con Talete, Anassimandro e Anassimène. Secondo Aristòtele essi avrebbero iniziato l'indagine sulla «natura» (donde il nome di physiológoi e il titolo convenzionale Sulla natura attribuito alle loro opere), della quale avrebbero cercato il «principio» (arché), cioè quasi la materia prima. Talete l'avrebbe individuato nell'acqua, Anassimandro nell'«illimitato» o «infinito» (ápeiron), Anassimene nell'aria. Ecco il celebre inizio di questa ricostruzione:

La maggior parte di coloro che per primi fecero filosofia credettero che i princìpi di tutte le cose fossero solo quelli di tipo materiale. Infatti ciò di cui sono costituiti tutti gli enti e da cui all'inizio nascono e in cui infine periscono -- giacché l'essenza permane ma si trasforma nelle affezioni -- questo dicono che sia elemento (stoichéion) e principio (arché) di tutti gli enti, e per questo credono che nulla nasca né muoia, giacché una tale natura si conserverebbe sempre. ... Talete, l'iniziatore di tale filosofia, afferma che [il principio] è l'acqua (per la qual cosa dichiarò che anche la terra sta sull'acqua), traendo forse quest'ipotesi dall'osservare che il nutrimento di tutti [i viventi] è umido, e il caldo stesso nasce dall'acqua e vive di essa (e ciò da cui nascono è il principio di tutte le cose) (Metafisica, I 983 b6-25 [greco]).

È questa una testimonianza degna di fede? Bisogna anzitutto dire che la presentazione di Aristòtele è nel suo insieme sfumata e cauta. Ma soprattutto è il suo valore che dev'essere stimato con molte precauzioni. In primo luogo, Aristòtele non è mosso da preoccupazioni storiche (i testi degli antichi sapienti erano del resto ancora accessibili ai suoi tempi), ma piuttosto teoretiche: egli vuole cioè mostrare come nei pensatori precedenti si trovino già anticipate le sue proprie dottrine, seppure in maniera sempre parziale. Per fare ciò non può far altro che scegliere alcuni elementi isolati e «tradurli» nella sua terminologia. In secondo luogo e soprattutto, Aristòtele appartiene ad un mondo culturale ormai distante, più ellenistico che greco, nel quale era inevitabile che le antiche voci dei sapienti fossero spesso fraintese. In conclusione, malgrado molte singole indicazioni siano esatte e preziose, il quadro d'insieme va sostanzialmente respinto: non è vero che la «filosofia» in senso tecnico sia nata con Talete, e soprattutto non è vero che tale primitiva sapienza indagasse la phýsis nel senso aristotelico di realtà materiale. Questa la conclusione cui sono giunti diversi studi negli ultimi decenni (celebri quelli di Harold Cherniss [p]). Altre ricostruzioni sono quindi state proposte; nel sèguito seguiremo in buona parte quella di Giorgio Colli, che ha valorizzato soprattutto il rapporto tra la nascita della filosofia e l'antica sapienza religiosa. Fine dell'integrazione

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2. Ferècide di Siro

Un primo nome che può essere citato è quello di Ferècide di Siro. Ricordato come un eccellente divinatore -- e dunque sotto la protezione di Apollo -- a lui viene attribuita la composizione della prima opera in prosa della storia letteraria greca. Si tratta di una teogonia, che possiede delle risonanze orfiche ma è indubbiamente originale nei suoi contenuti. Di essa sono conservati due frammenti. Il primo è l'esordio, nel quale il dio supremo e il Tempo sono annunciati come originatori di tutta la realtà:

Zas [= Zeus] e Tempo furono sempre, e anche Ctonie: ma Ctonie ebbe il nome di Terra, dopo che Zeus le diede la terra in omaggio (DK 7 B 1 = Colli 9 [A 1]).

Il secondo frammento contiene quello che doveva essere un punto chiave della teogonia: Zeus si sposa con Ctonie (la dea della profondità sotterranea). Mentre Ctonie si toglie il velo (così come era consuetudine nuziale presso i Greci), Zeus la ricopre del «mantello» che non è altro che questa terra con i suoi mari:

A lui fanno le case, molte e grandi. E dopo che terminarono tutte queste e gli arredi e i servi e le serve e tutte le altre cose di cui c'è bisogno, dopo che tutto risulta pronto, fanno le nozze. E quando giunge il terzo giorno delle nozze, allora Zas fa un mantello grande e bello e in esso ricama Terra e Oceano e il palazzo di Oceano. ... Volendo perciò che queste nozze siano tue, con questo ti onoro. Ma a te salute da me, e congiungiti. Questi dicono che furono per la prima volta i riti del disvelamento; da allora nacque la consuetudine sia per gli dèi sia per gli uomini. Ed ella gli risponde ricevendo da lui il mantello ... (DK 7 B 2 = Colli 9 [A 2]).

Sembra di poter capire che così Ferècide voglia indicare il carattere illusorio di quella che sembra realtà, ma non è altro che la «superficie» ricamata da Zeus per onorare la sua misteriosa inconoscibile sposa.

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3. Talete di Mileto

Storicamente difficile da definire è la figura di Talete di Mileto, il più antico tra i sapienti della Ionia di cui ci sia giunta notizia. In lui convergono numerose tradizioni che ne mettono in luce di volta in volta le conoscenze matematiche e astronomiche, l'abilità politica, la sapienza religiosa, al punto che il suo nome diventò proverbiale per indicare un uomo di sterminata cultura e fu sempre citato per primo nel gruppo (per altro poco definito) dei «sette sapienti». Attorno a Talete però comincia anche quella lunga tradizione che vede il sapiente come qualcuno staccato dal mondo e incapace nelle faccende quotidiane:

Si dice che una servitrice tracia, spiritosa e graziosa, canzonò Talete che mentre studiava le stelle e guardava in alto cadde in un pozzo, dicendo che si preoccupava di sapere le cose in cielo, ma quelle davanti a lui e ai suoi piedi gli sfuggivano (Platone, Teeteto, 174 a4-8 = DK 11 A 9 = Colli 10 [A 8] [greco]).

Le idee di Talete sono comunque molto difficili da ricostruire, data la totale assenza di frammenti di sue opere (ammesso che ne abbia mai scritte e che il suo insegnamento non sia rimasto solo orale). Probabilmente va scartata come storicamente inattendibile la testimonianza di Aristòtele secondo cui Talete avrebbe affermato che l'acqua è il «principio» di tutte le cose. Più solida pare invece l'attribuzione a Talete della visione di una natura totalmente abitata dal divino:

Tutte le cose sono piene di dèi (DK 11 A 22 = Colli 10 [A 14]).

Ciò sembra significare che tutta la natura è vivente, ogni cosa possiede un'anima in quanto ha una forza intrinseca. Impossibile essere più precisi. In questo modo viene forse supposta la divinità dell'anima. È difficile dire in quale misura l'insegnamento di Talete abbia avuto influenza sui sapienti suoi concittadini, e se questi siano stati più «allievi» in senso lato o piuttosto «concorrenti» (secondo lo spirito agonistico greco). Tra essi citiamo sùbito Anassìmene, che pare aver sostenuto in maniera simile a Talete l'identità tra il principio dell'uomo e il principio del cosmo. Questo l'unico frammento conservato:

Come la nostra anima (psyché), che è aria, ci governa assieme, così il respiro e l'aria avvolgono l'intero cosmo (DK 13 B 2 = Colli 12 [A 1]).

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4. Anassimandro di Mileto

Del libro di Anassimandro di Mileto è conservato un importante frammento (o forse parafrasi), che permette d'intuire almeno alcuni elementi della sua visione sapienziale:

Gli enti (ónta) vengono ad avere la morte in ciò stesso da cui hanno la nascita (génesis), secondo la necessità: infatti essi rendono l'uno all'altro giustizia e punizione dell'ingiustizia, secondo il decreto del Tempo (DK 12 B 1 = Colli 11 [A 1]).

È anzitutto opportuno notare la risonanza di elementi di carattere orfico: le cose sono governate dalla «necessità» e dal «tempo». Contemporaneamente s'affaccia per indicare le «cose che sono» il participio sostantivato «ente» (ón), che avrà un'importanza straordinaria per l'intera storia della filosofia. Il governo della necessità e del tempo si rivela sotto forma di una «punizione» che tutti gli enti s'infliggono reciprocamente, sino a giungere alla morte. Ma qual è l'«ingiustizia» che così viene scontata? Dalle parole di Anassimandro pare di capire che essa sia nient'altro che la nascita, cioè la separazione dal sottofondo originario della realtà. Quale sia questo sottofondo, questa arché («principio» e anche «comando»), allusa ma non nominata in questo frammento, sembra di poterlo ricavare da altre testimonianze: esso è il «divino» (théion), la cui caratteristica è di essere «illimitato», «infinito» (ápeiron), cioè indefinibile e indelimitabile. Se questa lettura è corretta, la sapienza di Anassimandro è sulla linea di Ferècide: ancora una volta c'è infatti una contrapposizione tra la variegata superficie della realtà e il suo fondo unitario.

Integrazione: È qui il luogo opportuno per fare una prima importante osservazione sulla scrittura della filosofia. È evidente che lo scopo immediato della scrittura è la conservazione di un «discorso» (lógos) che altrimenti andrebbe perduto appena pronunciato. Si deve dunque dire che la letteratura può nascere solo con la scrittura? Niente affatto. Tutte le culture antiche conoscono uno strumento di trasmissione più antico rispetto alla scrittura: esso è la forma metrica, che sola permette di mandare a memoria facilmente e dunque perpetuare un testo. Ciò è per esempio senza dubbio vero nel caso dei poemi omerici, che hanno dovuto avere una lunga storia puramente orale prima della loro secondaria fissazione per iscritto (secondo la tradizione Omero era tra l'altro cieco). La scrittura diviene perciò indispensabile solo con l'avvento della prosa. Ma comporre in prosa significa abbandonare quella forma che dal suo sorgere era circondata da un'aura sacrale, proprio in quanto differente e più ricca («ipercodificata») rispetto al discorso comune. In conclusione, la scrittura è uno degli strumenti attraverso cui la sapienza allenta i legami con la sacralità e acquista più precisi legami con l'individualità dell'autore.

Un altro strumento -- evidente dal confronto tra i due prosatori Ferècide e Anassimandro -- risiede nel passaggio dai nomi degli dèi più «personali» a quelli più astratti (per esempio Tempo o Necessità). In effetti in molti casi è quasi impossibile decidere se in italiano vada o no usata la lettera maiuscola, giacché nella cultura greca quasi ogni nome concreto o astratto poteva essere considerato il nome d'una divinità. Ma la rapida esclusione dei nomi personali induce a credere che il discorso, seppur alimentato dalle tradizioni religiose, se ne sta rapidamente distaccando. Fine dell'integrazione

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5. Pitàgora di Samo e i pitagorici

Anche i problemi nella ricostruzione della figura storica di Pitàgora di Samo sono grandi. Della sua vita, presto assorbita dalla leggenda, si sa ben poco di preciso. Certo è solo il suo trasferimento da Samo a Crotone in Magna Grecia, dove esercitò il suo insegnamento, mentre dubbia è la consistenza storica di suoi presunti viaggi in Egitto e Mesopotamia. Sembra attendibile la tradizione che vuole che egli non abbia mai messo per iscritto le sue dottrine, la ricostruzione delle quali è complicata dal fatto che era abitudine dei suoi discepoli attribuirgli anche le loro proprie scoperte. Ulteriore ostacolo è costituito dalla segretezza dell'insegnamento, sulla quale le notizie concordano:

Le cose che diceva a chi stava con lui nessuno può illustrarle con certezza; e infatti non c'era tra loro un silenzio casuale. Però divenne soprattutto noto a tutti in primo luogo che affermava che l'anima è immortale, e che in secondo luogo essa si cambia in altri generi di esseri viventi; inoltre, che secondo certi cicli le cose avvenute una volta avvengono di nuovo e che quindi non c'è niente di assolutamente nuovo; e che è necessario ritenere omogenee tutte le cose che nascono con un'anima. Sembra infatti che Pitàgora abbia portato per primo in Grecia queste opinioni (Porfirio, Vita di Pitagora, 19 = DK 14 8a).

Questa testimonianza di Porfirio (232-304 d.C.), di per sé molto tarda, collima sostanzialmente con le più antiche ed è attendibile. In particolare, la sottolineatura dell'aspetto principalmente teologico dell'insegnamento di Pitàgora coincide con i caratteri religiosi che contraddistinsero la comunità dei suoi discepoli. Tipica da questo punto di vista era la loro rigida divisione in almeno due gruppi: da una parte gli akousmatikói («ascoltatori»), che rappresentavano per così dire il gruppo dei «novizi» cui spettava solo ascoltare gli insegnamenti del maestro; dall'altra i mathematikói («apprenditori»), che partecipavano attivamente alla discussione e al progresso delle dottrine. Della notizia di Porfirio va però contestata l'affermazione di assoluta priorità dell'insegnamento di Pitàgora: esso viene piuttosto ad inserirsi bene nelle sfondo delle dottrine orfiche che abbiamo prima citato.

Alla cerchia dei discepoli di Pitàgora, comunemente chiamati «pitagorici» o «italici», devono risalire le dottrine che tentano un'interpretazione matematica della realtà. Essa divenne così tipica che il termine mathematikói venne ad assumere il significato tecnico mantenuto fino ad oggi. Particolarmente chiara al proposito è la testimonianza di Aristòtele:

I cosiddetti pitagorici, essendosi dedicati alla matematica, per primi la fecero progredire, e nutritisi di essa credettero che i princìpi di quella fossero i princìpi di tutte le cose. E poiché in essa i numeri sono per natura i primi [elementi], e nei numeri pareva loro di osservare molte somiglianze con gli enti e i divenienti (più che nel fuoco o nella terra o nell'acqua), perché proprietà dei numeri sarebbe in un caso «giustizia», in un altro «anima» e «mente», in un altro ancora «momento», e così via in ciascuno degli altri casi, e perché vedevano che le proprietà e i rapporti degli accordi erano nei numeri, poiché del resto sembrava che tutta la natura fosse assimilabile ai numeri, e quindi i numeri erano i primi [elementi] di tutta la natura, supposero che gli elementi dei numeri fossero elementi di tutti gli enti, e che l'intero cielo fosse accordo e numero (Metafisica, I 985 b23 -- 986 a3 [greco]).

Attraverso la matematica può essere così compreso e studiato l'ordine armonico del mondo. A questa idea va evidentemente collegata la testimonianza secondo cui Pitàgora fu il primo a chiamare l'universo (to pán) col nome di kósmos, cioè «ordine», «bellezza» (DK 14 21). Questo termine diventa molto importante nel pitagorico Filolao di Crotone (5º sec. a.C.), che dedica al «cosmo» il suo libro, tramandato molto frammentariamente. Eccone l'inizio:

La natura nel cosmo fu armonizzata da cose sia illimitate sia limitanti (apéiron te kai perainónton), e così l'intero cosmo e tutte le cose che sono in esso. ... È necessario che tutti gli enti siano o illimitati o limitanti o sia limitanti sia illimitati. Ma solo illimitati o solo limitanti non potrebbero essere. Poiché dunque gli enti mostrano di provenire da cose né tutte limitanti né tutti illimitate, è chiaro allora che da cose sia delimitanti sia illimitate venne armonizzato il cosmo e le cose che sono in esso. E anche i fatti lo mostrano: perché di esse quelle che provengono da cose delimitanti delimitano, quelle che provengono da cose delimitanti e illimitate delimitano e non delimitano, quelle che provengono da cose illimitate appaiono illimitate (DK 44 B 1-2).

Ottimamente espresso anche il principio conoscitivo comune a tutti i pitagorici:

Tutte le cose che vengono conosciute hanno numero (arithmón échonti): infatti non è possibile che senza di esso qualcosa sia pensato o conosciuto (DK 44 B 4).

Sia nella testimonianza di Aristòtele sia nel frammento di Filolao è indicata esplicitamente o implicitamente la musica. Nella scuola pitagorica in effetti ne vennero studiate per la prima volta le basi matematiche, partendo dalla fondamentale scoperta che gli accordi sono «consonanti» quando le frequenze dei suoni (ovvero inversamente la lunghezza delle corde o delle canne che li producono) si trovano in un rapporto aritmetico semplice. Questa scoperta, accompagnata dal prestigio del pensiero pitagorico in Grecia, fu una tra le cause della grande stima in cui venne tenuta l'educazione musicale, ritenuta parte indispensabile del curricolo culturale del giovane. È anzi possibile che proprio la musica -- che nell'antichità rivestiva originariamente un valore magico e cultuale -- costituì l'anello di collegamento tra le originarie dottrine religiose di Pitàgora e le ricerche matematiche dei suoi discepoli.

Integrazione: Malgrado i Greci avessero elaborato una notazione piuttosto precisa, i frammenti di musica rimasti sono purtroppo molto scarsi e talvolta di dubbia interpretazione o autenticità. Ecco comunque un testo -- ancora di Filolao -- in cui viene descritta matematicamente la lyra a quattro corde (accordate in do-fa-sol-do') e viene stabilito il rapporto matematico che intercorre tra i tre principali intervalli:

La grandezza della scala (harmonía) è [la somma de]gli intervalli di quarta (syllabá) e di quinta (di'oxeián), e l'intervallo di quinta è maggiore di quello di quarta di un tono (epogdóo). Infatti dalla corda più grave [do] alla mediana [fa] c'è un intervallo di quarta, dalla mediana [fa] alla più acuta [do'] un intervallo di quinta, dalla più acuta [do'] alla terza [sol] un intervallo di quarta, dalla terza [sol] alla più grave [do] un intervallo di quinta; l'intervallo tra la mediana [fa] e la terza [sol] è di un tono. L'intervallo di quarta è in rapporto di quattro a tre, quello di quinta in un rapporto di tre a due, quello di ottava (diá pasán) in un rapporto di due a uno. Così la scala ha cinque toni e due semitoni (diéseis), l'intervallo di quinta tre toni e un semitono, l'intervallo di quarta due toni e un semitono (DK 44 B 6).

do fa sol do' Pentagramma

Accordatura della lyra a quattro corde. I suoni (do-fa-sol-do') sono raffigurati nella notazione moderna. Se il programma di navigazione lo consente, è possibile anche ascoltare le note selezionandole sul pentagramma.


Le altre note per completare l'ottava venivano calcolate con intervalli di quinta successivi (sol-re, re-la, la-mi, mi-si) riportando le note così ottenute all'ottava di base (questi in conclusione i rapporti con il do nelle note della scala: 1, 9/8, 81/64, 4/3, 3/2, 27/16, 243/128, 2). A seconda di quale venisse considerata la prima e più importante nota della scala si distinguevano poi i diversi «modi». La scala così formata, detta appunto «pitagorica», rimase in uso in Europa fino al Rinascimento, quando venne modificata nella «scala naturale», che mantenne tuttavia immutati i tre intervalli fondamentali (stabilendo questi rapporti: 1, 9/8, 5/4, 4/3, 3/2, 5/3, 15/8, 2). Contemporaneamente rimasero in uso solo il «modo di do» (o «maggiore») per le composizioni più allegre e il «modo di la» (o «minore») per quelle più tristi. L'alterazione concettualmente più importante nella scala musicale avvenne nell'età barocca, quando soprattutto ad opera di Johann Sebastian Bach [p] (1685-1750) entrò in uso la «scala temperata», nella quale l'ottava è divisa in dodici semitoni tutti uguali alla radice 12ª di 2. Solo così i due modi maggiore e minore possono essere trasposti in una qualsiasi delle dodici tonalità (le sette note naturali più le cinque alterate) senza introdurre dissonanze. Il prezzo da pagare è che più nessun intervallo (salvo quello di ottava) è espresso da un numero razionale. I pitagorici ne sarebbero molto dispiaciuti. Fine dell'integrazione

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6. Senòfane di Colofone

Con Senòfane sembra che per la prima volta la sapienza individuale prende chiaramente coscienza della propria originalità e si distacca polemicamente dalla tradizione, per lo meno in alcuni suoi elementi. Le notizie che dànno Senòfane in continua peregrinazione nel mondo greco (dopo Colofone, Zancle [Messina], Catania, Elea, Paro, Malta, Lipari) suggeriscono in effetti la presenza di un forte spirito critico maturato forse proprio dal confronto di diverse forme di pensiero e stili di vita. La prima critica è verso la concezione dell'areté basata sulla forza e abilità fisica, concezione risalente ad Omero e celebrata nell'agonistica sacra. Colui che vince nelle gare atletiche ottiene gloria e ricchi premi, secondo Senòfane,

non essendone degno come lo sono io. Ché migliore della forza
di uomini o di cavalli è la nostra sapienza.
Invece ciò viene ritenuto inutilissimo, ma non è giusto
preferire la forza alla buona sapienza (agathé sophía).
Perché né se ci fosse nel popolo un buon pugile
né un buono nel pentatlon o nella lotta,
né nella velocità dei piedi, che è la più stimata
tra le dimostrazioni di forza che ci sono nelle gare di uomini,
certo non per questo la polis sarebbe di più nel buon governo (DK 21 B 2, 11-19).

Qui si precisa l'idea di una sapienza intellettuale, che possa essere realmente utile alla gestione di una polis non basata sulla sopraffazione ma sull'ordinata convivenza regolata da leggi (eunomía). Senòfane è cosciente della novità di questa «buona sapienza» orgogliosamente rivendicata, che non va attinta dal passato ma piuttosto richiede continua ricerca e miglioramento:

Gli dèi non mostrarono certo ai mortali tutto dal principio,
ma questi, cercando, col tempo trovano cose sempre migliori (DK 21 B 18)

Il più importante campo di applicazione di questa nuova sapienza sembra esercitarsi nel campo religioso. I frammenti conservati del poema di Senòfane contengono infatti il primo consapevole attacco all'antropomorfismo tipico della religione greca:

Ma se avessero mani i buoi e i cavalli o i leoni
o disegnassero con le zampe e facessero lavori come gli uomini,
i cavalli ai cavalli e i buoi ai buoi disegnerebbero
figure uguali degli dèi e ne farebbero i corpi
tali e quali, per la forma, ciascuno di essi stessi li ha (DK 21 B 15).

Bisogna quindi respingere l'attribuzione agli dèi da parte di Omero ed Esìodo -- i grandi educatori della Grecia -- di tutti i difetti e i vizi umani (DK 21 B 10-12). Ecco la proposta alternativa:

Un solo dio, il più grande tra gli dèi e gli uomini,
né per la figura simile ai mortali né per il pensiero.
Tutto intero vede, tutto intero pensa, tutto intero ascolta.
Ma senza fatica col senno dell'intelletto muove ogni cosa.
Sempre rimane nello stesso luogo, non movendosi per nulla,
né gli si addice di spostarsi ora in un posto ora in un altro (DK 21 B 23-26).

Non sembra trattarsi tanto di una forma di monoteismo, quanto della consapevole identificazione del divino con il principio della realtà, che proprio per essere principio non può ammettere un pluralismo indifferenziato: come testimonia Simplicio (6º sec. d.C.), «nel caso che ci fossero più dèi, è necessario che spetti a tutti in modo uguale il governare: ma [solo] il più forte e migliore tra tutti è dio» (DK 21 A 31).

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Pronuncia