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Nella filosofia di Leibniz la questione della libertà dell'uomo assume contorni particolarmente netti e anche drammatici. Essa non è più la facoltà di riflettere e deliberare (Aristòtele), ma una sorta di autodeterminazione, di svincolamento dalla catena delle cause necessitanti. D'altro canto, però, tale autodeterminazione non è in grado di scegliere quale mondo possibile di volta in volta debba divenire reale, perché l'unico mondo reale è già deciso dall'atto creativo di Dio. Si tratta di un limite che annulla lo stesso concetto di libertà, o che piuttosto ne cancella un'idea ingenua? E inoltre: la concezione di Leibniz ha un senso anche al di fuori della concezione teologica in cui egli la inserisce? In altre parole: è concepibile un uomo «libero» come elemento di un universo totalmente necessario?
Le affermazioni di Leibniz sull'universale vita dell'universo possono essere confrontate con diverse tendenze contemporanee che vedono nel cosmo, o perlomeno nella Terra, un unico grande essere vivente di cui piante e animali costituirebbero solo elementi. I gravi problemi sollevati dall'ecologia sembrano dar ragione ad un approccio che viene chiamato «olistico», cioè basato sulla totalità. Quali guadagni e quali pericoli possono derivare da questa prospettiva? La gerarchia degli esseri viventi stabilita da Leibniz può aiutare ad una comprensione differenziata dell'universo o è piuttosto una vanificazione dell'intuizione iniziale?
Secondo Leibniz, la domanda metafisica fondamentale nasce dalla costatazione che il non essere è «più facile» dell'essere. È questo un punto di partenza realmente giustificato? Dal punto di vista del pensiero greco, si potrebbe obiettare che il confronto è privo di senso, perché ha come termini da una parte un dato di fatto positivo e innegabile (l'esistenza della realtà), dall'altra un puro ente di ragione, cioè un «nulla» ottenuto immaginando di negare ogni singola cosa esistente. D'altra parte, una parte importante della filosofia contemporanea (Heidegger, Wittgenstein) ha individuato nel sentimento di spaesamento e meraviglia di fronte alla possibilità del nulla l'origine della filosofia e di qualsiasi pensiero autenticamente umano.
L'ottimismo di Leibniz venne fatto oggetto di divertito sarcasmo da Voltaire nel racconto filosofico Candido. In esso non si conclude tanto che questo mondo non sia il migliore, quanto che i criteri del bene e del male sfuggono e non possono essere valutati dal limitato punto di vista dell'uomo. Su tale sfondo l'ottimismo di Leibniz sembra paradossalmente rovesciarsi in una pessimistica rassegnazione: il mondo migliore possibile è anche il mondo in cui nulla potrà mai diventare più giusto, più accettabile, più sereno. È possibile continuare ad essere filosoficamente «ottimisti» senza cadere in questa conseguenza?