Cento anni dalla nascita sono pochi per tracciare un bilancio di un pensatore, soprattutto di chi come Paul Ricœur ha avuto una vita intellettuale così lunga, senza per di più mai risparmiare le forze per intraprendere nuove strade. Se già negli anni ’60 egli teorizzava una «via lunga» come esito dell’innesto dell’ermeneutica nella fenomenologia, alla fine della sua opera non si può che costatare che essa è stata ancora più lunga del previsto: è difficile trovare un solo campo vitale della riflessione antropologica e sociale che non sia stato visitato da Ricœur, più con la forza della passione che con quella della pur lecita curiosità. Alcune delle sue idee sono oggi diventate quasi luoghi comuni: forse oggi molti parlano di «maestri del sospetto» senza neppure sapere da chi viene questa brillante (ancorché discutibile) definizione, dànno per ovvia la necessità di una riflessione filosofica su Freud senza ricordare da chi essa sia sostanzialmente iniziata, usano l’ermeneutica come una lingua franca filosofica senza aver presente chi ha dato un contributo decisivo (forse in fin dei conti più ancora del caposcuola Gadamer) a disegnare i lineamenti dell’«età ermeneutica della ragione» (l’espressione è di Jean Greisch), trattano con accortezza metodologica la «demitizzazione» di Bultmann dando per ovvia la riflessione da lui condotta in merito. Un pensatore, insomma, che volenti o nolenti è presente nel discorso attuale della filosofia.
Qual è il centro di questa foresta affascinante di analisi? Tentare di elaborare di un ricco itinerario una sintesi sistematica, o per lo meno di mettere in luce la intuizione generativa, è un compito impegnativo, ma nel caso di Ricœur ciò è evidentemente davvero difficile. Non perché gli sia mancato un certo sano spirito di sistema: nulla è più lontano da lui che l’annotazione rapsodica, non argomentata e non connessa ad altre. Ma piuttosto perché i sistemi appaiono molti, stratificati e rivisti per adattarsi al tema, un po’ come nelle cattedrali la cui costruzione è durata per secoli. Si tratta di una complessità che ha saputo anche scavalcare molti confini: le distinzioni tra discipline filosofiche sotto la sua penna diventano sfumate, la stessa differenza tra filosofia e religione (differenza alla quale pure egli teneva molto) diventa meno importante sotto lo sforzo di comprensione e interpretazione che le accomuna entrambe, perfino le barriere confessionali sembrano in lui diventare meno impenetrabili (solo la morte gli impedì, a lui cristiano evangelico, di ricevere una laurea honoris causa in teologia già deliberata da un’istituzione pontificia!).
Cento anni dalla nascita sono inguaribilmente pochi per tracciare un bilancio di Paul Ricœur, forse però sono sufficienti per capire quali siano le strade che egli ha aperto. Le persone della mia non vecchia generazione lo rammentano nitidamente nelle sue presenze in Italia, sempre modesto e disponibile ad ogni domanda, fino all’ultima occasione in cui solo l’evidente difficoltà di camminare ricordava agli astanti che chi parlava non era un brillante giovane con ancora tanti progetti da portare avanti. Forse questi progetti incompiuti sono la sua eredità più stimolante. I quattro studi che qui raccogliamo vogliono accennare ad alcune di queste possibilità. Il saggio di Vinicio Busacchi prende in esame uno dei punti centrali del pensiero di Ricœur: la sua attenzione alla persona. Lucido nel comprendere l’esaurimento dei presupposti storici e culturali del «personalismo», egli tenta però continuamente un discorso sulla persona umana: questa ricerca vale più come un contributo alla fenomenologia ermeneutica del sé o alla filosofia del persona? È la domanda che questo saggio affida al lettore. La seconda ricerca, di Marco Innamorati e Luigi Pastore, prende in esame la rilettura filosofica che Ricœur effettua della psicoanalisi di Freud. Essa è strettamente connessa con con il fatto che «la comprensione che ognuno ha di se stesso è narrativa: non posso cogliere me stesso al di fuori del tempo e, dunque, fuori dal racconto», come Ricœur disse in un’importante conferenza del 1988. Ma qual è il senso di tutto ciò quando si considera che noi non conosciamo mai la fine della nostra storia, e che quindi la nostra vita è costituivamente definita da ciò che attendiamo? La ricerca di Filippo Righetti si sposta su uno dei temi più importanti nel primo Ricœur, cioè il problema del male. Dopo aver preso in esame le molteplici fonti delle sue analisi, non si può che concludere che, malgrado ogni tentativo di comprensione, il male rimane un essenziale buco nero nel pensiero: «La saggezza non consiste forse nel riconoscere il carattere aporetico del pensiero sul male, carattere aporetico conquistato dallo sforzo di pensare di più e altrimenti?» Il saggio successivo, di Stefano Curci, prende in esame uno dei temi più frequentati da Ricœur negli ultimi anni: quello del riconoscimento. Si tratta di un tema inseparabilmente legato al crescere di problemi sociali e politici, per i quali però egli pone in primo piano il piano etico: «Il percorso del riconoscimento di sé e dell’altro procede parallelamente con una vita etica, sempre esposta però alla tentazione del misconoscimento. Il percorso approda al dono, dove non è fondamentale l’oggetto donato ma il fatto che nel dono c’è anche il donatore». Ma fino a che punto è concepibile il dono? L’ultimo articolo, di Placido Sgroi, studia i rapporti tra Paul Ricœur ed Emmanuel Levinas, due dei migliori «candidati efficaci a ripensare l’etica in termini alternativi ad un puro esito nichilista della post-modernità». Le due prospettive sono indubbiamente diverse e soprattutto il primo ha a più riprese marcato la sua distanza. Anche qui l’autore approda al dono: non potrebbe questa «meta-categoria» rendere ragione delle esigenze antropologiche ed etiche avanzate da entambi?
Accanto ad ogni risposta c’è una nuova domanda, dunque. Ma almeno si tratta delle domande che, di fronte alle ricorrenti tentazioni e spinte contrarie, inducono a ricordare che l’essere umano è un problema, e che dunque anzitutto egli esiste, e che probabilmente la sua esistenza ha qualcosa a che fare con l’amore.
- Vinicio Busacchi, Forza teoretico-pratica dell’antropologia filosofica di Paul Ricœur
- Marco Innamorati e Luigi Pastore, Il buon uso dei fantasmi. Ricœur e la versione ermeneutica della psicoanalisi oltre Freud e verso Jung
- Filippo Righetti, Il problema della confessione del male: l’antropologia di Paul Ricœur e le sue fonti filosofico-religiose
- Stefano Curci, Riconoscimento. Dal conflitto al dono. Il terzo studio dei Percorsi di Ricœur
- Placido Sgroi, L’altro come eccezione: Ricœur e Levinas a confronto