1. Introduzione
Il problema del male affligge da sempre la riflessione filosofica, come per sempre la consapevolezza del male affliggerà il grado di percezione che l’uomo ha di se stesso. La domanda su cui tanti pensatori hanno riflettuto è la stessa domanda che il soggetto mestamente si pone senza saper rispondere: Unde malum? Si è in cerca di un’effettiva provenienza del male, poiché l’uomo ammette di subirne la forza obbligante: proviene dal di fuori dell’orizzonte della responsabilità pratica, come una sostanza metafisica e perniciosa che infetta? Risponde all’interiorizzazione triste della propria naturale finitezza, o alla consapevolezza dell’assoluta distanza dalla trascendenza? È una realtà etica, ovvero un effetto unicamente dipeso dalla nostra libertà d’azione? In questo caso, se fossimo realmente liberi di fare e non fare il male, perché macchiarci di colpe inaudite, perché scegliere il male se ci è dato di scegliere? Dovremmo davvero ipotizzare l’esperienza penosa di una schiavitù passiva che nutre misteriosamente l’intenzione malvagia? Dare conto di tali problematicità è direttamente proporzionale alla speranza disillusa della loro risoluzione. Nonostante la coscienza compia una lotta costante contro la sofferenza dell’esistere e contro la tendenza ad agire male, la caratteristica d’ingiustificabilità sembra alludere all’insuperabilità del male in antropologia.
Da un punto di vista speculativo-sistematico, non siamo in grado di offrire una risposta a nessuna delle domande poste; al di là di un’opposizione pratica, l’unica plausibile trattazione teoretica della radicalità del male, resta l’attestazione della sua insondabilità, ovvero il rispetto del mistero che esso rappresenta. Di questo avviso è il filosofo francese Paul Ricœur, la cui attitudine ermeneutica sull’argomento la si può riassumere attraverso la citazione del passo conclusivo di una piccola opera del 1986, a carattere fenomenologico, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, risultante sintetica degli studi approfonditi sul tema, inaugurati negli anni ’60 con la pubblicazione de La simbolica del male prima, e con gli articoli ad essa successivi, raccolti ne Il conflitto delle interpretazioni sotto il titolo di Simbolica del male interpretata.1 Ricœur ha sostenuto il valore di questa tesi: «La saggezza non consiste forse nel riconoscere il carattere aporetico del pensiero sul male, carattere aporetico conquistato dallo sforzo di pensare di più e altrimenti?».2
Atteggiamento che si fonda sul riconoscimento/misconoscimento, in accordo con la confessione (Aveu) sentimentale che il soggetto ne fa. Tuttavia, Ricœur non si è distinto in alcun modo come il filosofo della resa razionale; in quanto esponente di spicco dello stile riflessivo ermeneutico, si intuisce fin da subito la presenza di una strategia, anche teoretica non solo etica, parallela alla dichiarata insondabilità del male; possiamo desumerla attraverso la tipicità del pensare di più e altrimenti, che nell’affermazione svolge emblematicamente un ruolo anteriore alla conclusione addotta. Come a voler suggerire che, ammettere il mistero equivale prima a sfidare il problema, presumibilmente, per far sì che la resa conclusiva non indichi un’insuperabilità assoluta del male, nemmeno a livello teoretico. Vi è del resto una saggezza — una verità che pare inseguire un fine — che legittima la resa del pensiero; per identificare l’intenzione seconda della resa teoretica, è necessario attingere innanzitutto al modello antropologico difeso in quegli stessi anni dal filosofo francese.
A tal proposito, rispetto ad un paradigma in cui il male è evidente e sostanziale, poiché, ad esempio, similmente al primo esistenzialismo sartriano (spesso oggetto di critiche da parte di Ricœur), data l’assenza di una prospettiva escatologico-religiosa, l’operare dell’uomo viene stimato come un insieme di atti nullificanti — giudizio che finisce per investire l’essere soggetto nella sua totalità — la tipicità di una riflessione che pensa enigmaticamente il male, include la strategia ottimistica dell’altrimenti dal (male). La chiave di volta per un possibile cambiamento di paradigma si basa sulla constatazione che il soggetto non deve tacere, quando rivolge lo sguardo su se stesso: nel testo di riferimento per la disciplina antropologica dell’autore, Finitudine e colpa (1960),3 in controtendenza rispetto ad una tradizione culturale che ha stigmatizzato miseramente il carattere finito dell’esistenza, Ricœur ha tentato di evidenziare l’originarietà affermativa, quindi positiva e infinita della sfera del volontario soggettivo, cosicché la realtà del male potesse conseguire, a livello pratico, come degenerazione da un’origine, mentre a livello ontologico, ancora come enigma, ma dell’ordine della scoperta, restando nascosto rispetto ad un’essenza decisa sulla natura tutta affermativa — viene detto originariamente benevola — dell’atto. Ci chiediamo se l’autore sia riuscito nell’impresa di una descrizione verace, in grado allo stesso modo di obliterare, fino al punto di risolvere, il problema del male in antropologia. In generale, il metodo dell’altrimenti dal ha il potere di dimostrare l’inesistenza del male nell’uomo?
Restando il male un enigma che la coscienza scopre, la risposta risulta negativa. In particolare, obiettivo di questo articolo è quello di mettere a confronto i due momenti distinti di Finitudine e colpa — le due sezioni antropologiche che coincidono ad una prima parte eidetica, intitolata L’uomo fallibile, in cui sembra che tale ipotesi possa realizzarsi, e ad una seconda parte detta empirica, la già citata Simbolica del male — che al contrario la smentisce. Valutare il rapporto dialettico che sussiste tra di esse è importante, poiché è sulla base di questo che sarà possibile ricostruire quei contenuti che orientano, verso una certa verità, la saggezza del metodo sopra indicato: il pensiero di Ricœur sul male, nascosto dietro la difesa del suo carattere enigmatico, affiora dal fallimento, non completo ma parziale, della premessa ottimistica descritta dall’autore nella prima sezione del testo, rivolta alla descrizione dell’essenza umana. Ovvero, vedremo come, nel tirare le somme della sua antropologia, per Ricœur, riconoscere la realtà del male sarà un atteggiamento, purtroppo, più verace della sua iniziale obliterazione; quindi, come questa testimonianza sconfessi in parte l’arduo tentativo iniziale di descrizione del carattere neutrale della soggettività, tentativo quest’ultimo solo eticamente necessario, dato che in esso si dimostra un’alternativa al (sebbene non un’effettiva neutralità dell’esistere), nel marcare la tendenza contraria al bene, ma allo stesso tempo un’operazione descrittiva ontologicamente insufficiente, in virtù del fatto che la strategia dell’altrimenti, cioè dell’obliterazione del male, non potrà servire in alcun modo ad eliminare la costatazione della sua presenza.
Sebbene sia inevitabile arrendersi alla costatazione della presenza del male, al termine dell’articolo le domande sorte nell’incipit non resteranno completamente irrisolte, nella misura in cui, come già annunciato, in Ricœur vi è implicita alla saggezza del mistero, tutta la profondità di un preciso pensiero sul male, che ha nell’asse filosofico-religioso composto da S. Paolo, S. Agostino, Kant, Lutero, una fonte privilegiata d’orientamento ermeneutico. Tra l’altro, gli autori citati sono accomunati dal medesimo approccio, che oscilla tra inesorabile attestazione del e necessario impegno contro l’insuperabilità del male.
2. La comunicabilità del mistero del male: il pensiero riflessivo francese
Il tipo di rappresentazione enigmatica rende il problema del male comunicabile per Ricœur, secondo due tendenze descrittive simili e contrastanti, che estrapoleremo, come annunciato, confrontando tra loro le due sezioni del testo di riferimento Finitudine e colpa; inoltre, se possiamo definirle come due specifiche tendenze, ciò è dovuto al fatto che le due parti in esame dimostrano una certa affinità con le linee guida tracciate da esponenti chiave del pensiero riflessivo francese della prima metà del novecento. Ricœur non poteva non tener in considerazione una letteratura contemporanea molto attenta sul tema; in effetti, ne segnaleremo i punti di convergenza quali segni di un’eredità interpretativa che è stata mantenuta, così da operare anche una contestualizzazione dell’originalissimo contributo filosofico del maestro di Valence sul tema.
1) Il primo modus descrittivo riguarda l’ipotesi della netta separazione rispetto al sentirsi originario. In senso strategico, la conoscenza del male si attesterebbe solo nel mal agire di un’azione concreta, non nella consapevolezza legata al proprio essere; così, esperienze come il dolore, l’angoscia e la sofferenza, non assumerebbero più alcun posto essenziale in antropologia, se non come sentimenti ingiustificabili. In Le figure del male e della sofferenza nella filosofia francese del novecento, Fabio Rossi individua in Luis Lavelle, in particolare nel testo del ’40 Le mal et la souffrance, colui che più di altri, nella Francia di quegli anni, ha marcato radicalmente la distinzione del problema del male secondo la sola malvagità dell’arbitrio.4 Al di fuori di tale contesto, il regno dell’ingiustificabile, al cui interno ritroviamo quelle esperienze della sofferenza, del dolore o dell’angoscia, non vanno affatto considerate dei mali. Tuttavia, lo stesso Rossi nota come l’effetto sia contraddittorio rispetto al grado di riflessività che il soggetto ha di se stesso e come questa contradizione si rifletta anche nel testo di Lavelle;5 nel caso della netta separazione, l’ammissione dell’enigma assume, nell’opera, una forma altrettanto contraddittoria, sfociando paradossalmente in una dichiarazione d’inesistenza dell’enigma stesso; infatti, se spetta unicamente alla coscienza definire il male, esso non è più un principio invincibile, radicale e perciò enigmatico, ma esiste solo per essere riconosciuto e soppresso in un’azione contraria a quella malvagia?6 La strategia della separazione netta è dunque lontana dalla realtà empirica: nonostante sia possibile delimitare il male all’intenzionalità, mostrando così un’alternativa, il problema resta irrisolto, poiché affianco all’ammissione di quelle esperienze annoverate nel regno neutrale dell’ingiustificabile, di esse, la sfera del sentimento suggerisce tutt’altro dall’inesistenza di un male posto al di qua dell’agire.
In Finitudine e colpa, nella prima sezione, Ricœur ha progettato un’eidetica esistenziale della distanza, in cui l’ordine delle possibilità concesse al soggetto, ovvero lo schematismo trascendentale che fonda l’agire, sta ad indicare soltanto l’occasione del, con l’effetto di una disgiunzione dal dominio empirico (l’agire concreto), il quale dovrebbe designare l’unico luogo atto alla constatazione dell’esistenza del male nell’uomo. Nelle pagine conclusive de L’uomo fallibile, così viene sintetizzato il tentativo compiuto, notiamo, similmente al tentativo di giustificazione divisoria di Lavelle: «Questo scarto tra la possibilità e la realtà corrisponde allo scarto fra la semplice descrizione antropologica della fallibilità e un’etica; la prima è al di qua del male, la seconda trova l’opposizione reale del bene e del male».7 Sembra inizialmente sussistere, per il filosofo francese, un salto8 tra descrizione della fallibilità e il concetto della colpa.
La seconda tendenza esplicita ciò che la prima dimentica in senso strategico; specularmente, la seconda sezione di Finitudine e colpa, la Simbolica del male, viene in soccorso dell’eccesiva astrattezza realizzata dall’eidetica antropologica (L’uomo fallibile). Vedremo di seguito perché la particolarità di un linguaggio simbolico può aiutare a correggere i limiti interni ad un’eidetica. Introduciamo intanto l’altro orientamento, che potremmo definire come la tendenza descrittiva della 2) filiazione genealogica; essa allo stesso modo mantiene la saggezza dell’enigma, tende cioè ad obliterare la radicalità del male nell’arbitrio dell’azione singola, ma non dimentica, piuttosto esplicita, l’unione segreta tra il mal agire e la consapevolezza della propria essenza ontologica, procurando una differenziazione di grado della natura stessa del male.
La terminologia utilizzata da un altro autore contemporaneo a Ricœur, Jankélévitch, può aiutarci a comprendere meglio: nell’opera Le Mal (1947), si parla di un indistinto male dell’assurdo, unito e separato dal più evidente male dello scandalo,9 termini quest’ultimi che ritroviamo anche nel linguaggio ricœuriano. La differenza semantica è rilevante, in quanto lo scandalo annuncia ad una colpa ed immediatamente al senso della ribellione etica che deve seguire. L’assurdo, rivela invece il dominio dell’ingiustificabile, il quale stavolta viene detto un male, poiché, l’ingiustificabilità non può non essere rappresentativa di una certa presenza, certificata dal sentimento del proprio Malheur.10
Riassumiamo: mentre il primo orientamento, al fine di salvaguardare la concezione dell’umana natura dal pericolo di un’ontologia costitutiva del male, punta tutto e troppo sull’ordine coscienziale etico della malvagità e in questo modo sacrifica la complessità del problema, tacendo la veracità innegabile di un sentimento più ampio, il secondo orientamento non detiene un fine completamente differente — intende lo stesso collocare la problematica dell’evidenza sul piano coscienziale empirico dell’intenzione concreta11 — ma ricuce lo strappo compiuto dal primo nei confronti della sfera sentimentale, assegnando una realtà invincibile, certamente misteriosa, a quel Malheur che il soggetto confessa, prima e a prescindere da ogni azione empirica. La seconda tendenza sembra la più coerente da un punto di vista descrittivo della realtà soggettiva, ma anche la più paradossale; ciò non toglie che la prima tendenza sia completamente estranea all’orizzonte di verità sul male, avendo indicato una strada da seguire: a testimonianza e contro l’insorgenza del male, l’orizzonte del volontario designa la dimensione soggettiva originaria che deve essere chiamata principalmente in causa. Eppure, la seconda tendenza ammonisce sul fatto che la testimonianza del male volontario è ben più complessa rispetto alla presunta separazione tra dominio ontologico ed empirico; la strategia dell’altrimenti dal ha, del resto, dei confini inaggirabili: qualora si voglia dimostrare un’alternativa ad un’ontologia del malvagità, sottolineando a livello eidetico il molto più che l’uomo è e soprattutto il molto di più di cui l’uomo è capace, si è compiuto un’operazione ontologica necessaria e insufficiente a far sì che si rimuova in senso pieno, sia l’effettività dell’azione malvagia, sia la profondità del sentimento del proprio male. Per di più, quando il soggetto agisce contrariamente al bene, avverte in modo spontaneo la sussistenza di qualcosa che oltrepassa la semplice intenzione, avverte il molto di più dell’azione malvagia, quasi si trattasse di una schiavitù, di una passività che lo obbliga ad agire in tal senso. Ricœur ha spesso indicato quest’esperienza tutta da approfondire — vero oggetto d’indagine di Finitudine e colpa — mediante la formula suggestiva del Dejà là du mal,12 sotteso all’azione.
Un ulteriore contributo filosofico ci consente di introdurre il seguito di una soluzione ermeneutica elaborata da Ricœur, nella seconda parte di Finitudine e colpa. Jean Nabert, la cui influenza sul metodo riflessivo ricœuriano è indiscutibile, nel famoso scritto del 1955, Essai sur le mal, come Jankélévitch, ha privilegiato il secondo degli orientamenti descrittivi: da un lato «l’ingiustificabile non è ancora male»13 reale, dall’altro, ancor più nettamente, egli ha sottolineato come quell’ingiustificabile contro cui la coscienza combatte e si ribella, non è semplice non-essere. Nabert era in effetti convinto che la terminologia dell’enigma non desse prova dell’inesistenza del male, poiché i termini Mystère e Absurd sarebbero stati in tal modo fuorvianti. Al contrario, la via dell’ingiustificabile è vicina ad una valutazione di diritto, è vicina all’ammissione dell’esistenza di ciò che conferisce al male volontario la sua forma più radicale e disperata.14 La strategia che elabora un altrimenti assoluto, subisce un ridimensionamento a causa della presenza misteriosa di qualcosa che continuiamo a chiamare male, anteriormente alla coscienza; inoltre, di esso la spontaneità suggerisce che vi è un legame con il male volontario. Difronte alla natura del mistero, Nabert è giunto alla conclusione che è ancora possibile comunicare qualcosa di vero circa la soggettività, se ci rifiutiamo «d’accogliere le suggestioni del pensiero speculativo quando si sforza di comprendere con i suoi mezzi ciò che fa scandalo innanzitutto nei confronti della coscienza spontanea».15 Un’affermazione decisiva, che ha aperto la strada al metodo d’indagine del nostro autore. Qualora tentassimo di giustificare razionalmente il male entro una lineare ottica di senso, come spesso accaduto attraverso i tentativi gnostici delle ontoteologie e teodicee, falliremmo sempre. È utile mantenerne il mistero, veniva detto in quel piccolo testo del 1986 richiamato sopra, di seguito ad un’accurata fenomenologia del male dedicata proprio alla dimostrazione dei fallimenti delle ontoteologie e teodicee; ma già nell’antropologia del ’60, Ricœur ha dato prova di seguire la linea metodologica tracciata da Nabert, mediante un suo originalissimo approfondimento: in breve, una volta intuito che «la filosofia non dà luogo ad alcun cominciamento assoluto: portata dalla non filosofia, essa vive sostanzialmente di una realtà, che è stata già compresa, seppure non ancora attraverso la riflessione»,16 egli ha saputo volgere lo sguardo verso un tipo linguaggio maggiormente verace, non teoretico ma più originario, nella fattispecie quello simbolico-mitologico, poiché è grazie ad esso che sarebbe stato possibile mettere a nudo (Mettre à nu)^[17] il mistero del male. La sua confessione rappresenta ancora un enigma ineliminabile, incontrastabile, irrisolvibile per i canoni sistematici della ragione; così, il linguaggio altro serve alla comunicabilità possibile di questa attestazione: se il simbolo o il mito non risolvono, esplicitano la presenza complessa del male, se non giustificano razionalmente, ne contrassegnano l’aporeticità, se non obliterano nettamente il male, al contrario ne mettono in luce la presenza. In Finitudine e colpa constatiamo infine il passaggio necessario da un’eidetica che postula teoreticamente l’assenza e la separazione (in linea di continuità con il primo orientamento), ad una simbolica che dispiega concretamente la presenza complessa della confessione del male (in linea di continuità con le correzioni che il secondo orientamento apporta). In quelle stesse pagine conclusive de L’uomo fallibile, utilizzate sopra per sintetizzare la strategia della semplice separazione eidetica, scopriamo ora l’esigenza d’introdurre una correzione. Il filosofo francese, al termine dell’eidetica, ha dovuto ammettere:
Bisognerà partire di bel nuovo, impegnare una riflessione di nuovo tipo, che verta sulla confessione che la coscienza ne fa e sui simboli del male nei quali essa esprime questa confessione […]. La simbolica del male farà allora un lungo giro, al termine del quale sarà forse possibile riprendere il discorso interrotto e reintegrare gli insegnamenti di questa simbolica in un’antropologia veramente filosofica».17
Naturalmente, la Simbolica del male non ha assunto la forma di una semplice rassegna di simboli e di miti; l’introduzione delle istanze dell’ermeneutica, ha apportato delle conseguenze implicite alla dichiarata saggezza dell’aporia. L’ermeneutica in quanto azione detiene lo stesso un’intenzione interpretativa, segue quindi una traiettoria ed impone un orientamento di senso, dal quale è possibile estrapolare una linea precisa di pensiero, la possibile verità sottesa al mistero della radicalità del male. In seno alla semplice separazione o in seno alla complessa filiazione genealogica, gli autori riportati nel paragrafo hanno cercato di approfondire il nesso che sussiste tra dimensione volontaria, presenza del male ed essenza soggettiva. Dal canto suo Ricœur è giunto ad una conclusione sintetica delle soluzioni a lui contemporanee, ispirata principalmente alla dottrina luterana, che ha nel concetto di servo arbitrio il suo nucleo principale: il mistero del male è ben più complesso della sola empirica; ciò non significa che tale complessità possa trascendere l’essenzialità del volontario soggettivo. L’insorgenza del male, non rispondendo solo ad un fare concreto, non può non originarsi che alla luce dell’essenza dell’uomo, la quale — lo costateremo nel paragrafo successivo — è per Ricœur ancora un agire. Al termine di un lungo détour ermeneutico, per il filosofo francese, quel mistero riconosciuto prima del volontario che agisce, che è lecito tradurre secondo la categoria dell’assurdo, non rappresenterà altro che il destino interno (la schiavitù, la passività) alla stessa libertà d’azione. È l’uomo che, essendo tale, compie ancora il male, ben prima di aver agito per il male. Si tratta di una delimitazione importante della categoria in esame, che affianca speculativamente la confessione dell’enigma.
3. L’uomo fallibile
Nel titolo Finitudine e colpa, la congiunzione avverbiale pare contrapporre le categorie richiamate, oggetti di studio della prima e seconda parte. Quest’ultime mantengono una loro autonomia disciplinare: la prima si distingue, usufruendo di un linguaggio eidetico-ontologico, mentre alla seconda viene assegnato il ruolo di empirica del volontario. Attraverso una lettura più attenta, la congiunzione deve però essere interpretata come il segno di una vitale intersezione tra le parti, rappresentativa del tema al centro dell’opera: nel determinare la finitudine senza colpa non sfugge affatto la confessione di una colpa segreta, mentre nel dominio della sola colpa è possibile scorgere il segreto della finitudine.
Il problema del male e il pensiero implicito che ne seguirà, sono direttamente proporzionali alla costatazione di questo paradosso, quindi, sono direttamente proporzionali al rapporto dialettico, assai complesso, intrattenuto tra le sezioni del testo. Per semplificare, mentre l’eidetica — la parte intitolata L’uomo fallibile — stabilisce l’essenzialità umana, offrendo all’ermeneutica del male quel principio che le serve per disciplinare i simboli e i miti entro il contesto antropologico, dal canto suo la simbolica integra la descrizione ontologica, in base ad un ideale di maggior veracità. Secondo la chiave di lettura della dialettica, comprendiamo meglio il motivo per cui, dicevamo sopra, la prima parte è la risultante di una descrizione esistenziale parzialmente fallita: nonostante i suoi limiti d’astrattezza — il suo fallimento rispetto alla confessione del male — l’eidetica ha il merito di tracciare la via giusta per una corretta comprensione ermeneutica della stessa confessione.
Innanzitutto, veniamo ad una caratterizzazione più precisa della fallibilità, per poi valutare, nel prossimo paragrafo, il grado di effettiva separazione realizzato rispetto all’insorgenza dell’annoso problema che affligge il discorso sull’uomo.
L’uomo fallibile coincide ad un progetto di antropologia filosofica,18 dal carattere essenzialmente fenomenologico ermeneutico,19 il cui principio portante, la fallibilità, è «il risultato e non l’origine»20 dell’analisi. Più a fondo, ciò significa che tale concetto è emerso solo a conclusione di un altrettanto preciso percorso speculativo, diverso dal cammino che spesso ha condotto al ben più tradizionale concetto del finito. È necessario sfruttare una logica neutra e in tal senso la descrizione dello schematismo trascendentale umano ha evitato quelle tonalità proprie del cosiddetto patetico della miseria.21 La maniera culturale di considerare la finitudine come già irrimediabilmente compromessa entro la categoria del male, non appartiene alla strategia eidetica, piuttosto, l’ordine trascendentale ha rappresentato per Ricœur il luogo adatto per riscattare e ripensare la classica antropologia della sintesi. Confrontandosi direttamente con alcuni esempi, il Fedro e la Repubblica di Platone, i Pensieri di Pascal e le Meditazioni metafisiche di Cartesio, egli ha segnalato l’operazione da compiere per determinare il cambiamento di paradigma: contrapporsi alla cosiddetta statica dell’intermediario,22 attraverso la rivelazione di una dinamica dell’esistere; mentre il linguaggio patetico ha marcato la natura intermedia del soggetto, mediante una simbologia della stasi, localizzando e soffocando il finito in una posizione propria di discrepanza oggettiva rispetto al polo infinito dell’essere, come testimoniato una volta per tutte dalla famosa immagine pascaliana dei due infiniti,23 il dominio trascendentale e il linguaggio predisposto alla suo rilevamento, sono serviti a spostare l’accento, in particolar modo verso ciò che è davvero originario, verso la pregnanza di una dynamis costitutiva, segno dell’infinita tensione di trascendenza, insita nelle capacità affermative dell’uomo. Il linguaggio eidetico della prima parte ha messo in luce il dominio teleologico attivo della soggettività, non ha accentuato il senso del limite, ma lo ha rivelato soltanto a livello ontologico, predisponendo perciò al rovesciamento semantico della limitatezza in un significato alternativo alla miseria, ovvero in occasione, certamente anche del male, ma in quanto solo possibilità di quest’ultimo, anche in occasione per il superamento del limite stesso. Ricœur ha scelto di eleggere ad originario ontologico l’intenzionalità agente, mostrando l’essenzialità benevola che la contraddistingue, poiché, si legge, l’uomo non è posizionato (o localizzato)
tra l’angelo e la bestia: è intermediario perché è misto, ed è misto perché opera delle mediazioni. La sua caratteristica ontologica di essere intermediario consiste precisamente nel fatto che il suo atto di esistere è l’atto stesso di operare mediazioni tra tutte le modalità e tutti i livelli della realtà al di fuori di lui e in se stesso».24
Sfruttare l’ordine delle possibilità interne ha permesso di introdurre in antropologia l’aspetto spesso obliterato della tendenza benevola, allontanando il concetto del male dall’essenza ontologica, la quale invece sembra avere un origine del tutto affermativa, essendo apertura costante verso la trascendenza.25
Per disimplicare il trascendentalismo proprio dell’esistenza in atto, il filosofo francese ha attinto alla logica aprioristica inaugurata da Kant nella Critica della ragion pura; nello specifico, è la triade categoriale della qualità — realtà, negazione, limitazione — che viene trasposta dalla scienza del grado della sensazione, dall’uso kantiano rivolto alla determinazione dell’assiomatica propria della scienza fisica, al contesto dell’antropologia filosofica. La scelta è ricaduta su questa particolare serie categoriale, poiché essa è per Kant radicata al potere primo della coscienza, da Ricœur predisposta ugualmente ad elemento originario, seppur in base ad un obiettivo più ampio rispetto alla determinazione delle condizioni di possibilità dell’oggetto fisico. Piuttosto, sono le condizioni di possibilità dell’azione umana in generale, che sono poste al centro del riflettere, ma queste, non a caso, sono ancora le condizioni del potere dinamico della coscienza in azione. La trasposizione che ha condotto al concetto di fallibilità è la seguente: la categoria di realtà è mutata in affermazione originaria, quella di negazione in differenza esistenziale e la categoria sintetica di limitazione in mediazione umana. La fallibilità ha infine assunto il significato di mediazione, di sintesi dinamica tra le due facoltà dell’esistere. Ecco riassunto nelle parole di Ricœur il risultato concettuale che la sua antropologia ha inseguito: «Tale limitazione — non un’altra, ma soltanto quella corretta secondo lo schema categoriale kantiano — è l’uomo stesso. Non penso direttamente all’uomo, ma lo penso per composizione, come il misto dell’affermazione originaria e della negazione esistenziale».26
Nel suo primo momento la dialettica include il rifiuto del limite, in virtù della corrispondenza tra la categoria prima di realtà con l’esigenza di totalità, che è la potenza d’esistere e di far esistere propria del volontario, sia per ciò che concerne la prima delle capacità esaminate, il conoscere, per cui l’intenzione linguistica sulla cosa coincide al potere infinito di sovra-significazione del verbo, sia per la seconda delle capacità, l’agire etico-morale, che ha nel concetto aristotelico e kantiano di felicità, il suo momento tensivo. Alla prima ed essenziale constatazione di un potere forte, si contrappone il senso secondo del finito, decisamente meno essenziale, da attribuire invece al carattere di contingenza creaturale. In effetti, esso designa il freno operato sul potere della coscienza attiva, ma, sembrerebbe che solo dal lato dell’esistenza ricevuta, il soggetto sia costretto a riconoscere — spesso secondo una tonalità mesta — l’essere non volontario, cioè la vivente non necessità del suo esistere.27 Per le stesse capacità sopra elencate, la prospettiva finita del punto di vista e l’istanza ricevuta del carattere sono i momenti che dipendono dalla struttura detta differenza esistenziale.
Per la reinterpretazione del significato tradizionale della finitezza, si è inteso sottolineare proprio la componente propulsiva dell’essere: la fragilità effettiva dell’uomo non emerge, secondo Ricœur, dal solo contesto del finito, non scade perciò nel fallimento sempre agito o nella rinuncia ad agire, non scade nella categoria del male o nella generalizzazione di una colpa ontologica, piuttosto si misura correttamente alla luce di quel misto di resistenza negativa, ma anche azione positiva, che il soggetto interiorizza come sproporzione. La dinamica tra «mancanza di . . ., impulso orientato verso … »28 è il concetto neutrale di fallibilità, al cui interno è possibile discernere una spinta teleologica, per così dire, ancora innocente ed essenzialmente benevola, lontana dalla degenerazione immediata entro l’empirica del male: «l’innocenza sarebbe la fallibilità senza la colpa e questa fallibilità non sarebbe che fragilità, debolezza, ma non decadimento».29 Concludendo la descrizione che riguarda lo schematismo antropologico, per la capacità del conoscere, la sintesi si dà nel termine medio rappresentato dall’istanza complessa dell’io penso; per la capacità dell’agire, nell’istanza altrettanto complessa del rispetto pratico.
Qualcosa però ha impedito alla neutralità della descrizione antropologica di realizzarsi in modo pieno, nonostante l’intuizione strategica tesa a sfruttare il contesto apparentemente innocente della possibilità trascendentali. Oltre al conoscere e all’agire, un altro potere, quello sentimentale, ha assunto un ruolo portante per il modello di antropologia che stiamo analizzando, predisponendo addirittura ad una funzione decisiva: l’interiorizzazione della fallibilità. Mentre l’io penso e il rispetto realizzano la fallibilità al di fuori del sé, ovvero, nel primo caso, nell’oggetto da rappresentare mediante il linguaggio, nel secondo caso, nel riconoscimento dell’altro che mi sta di fronte, il sentimento diviene «il termine che rappresenta veramente l’umanità dell’uomo»;30 è in sé e per sé che la sproporzione può essere finalmente penetrata. L’interiorizzazione costituisce il contrario della riflessione che oppone fuori di sé un mondo, ma il rigorismo trascendentale ha già indicato nell’intenzionalità agente il momento originario, quindi, questa nuova capacità è ancora rappresentativa del ruolo preminente dell’intenzione. Certamente, il sentimento va in profondità, svela la consapevolezza che l’io può ottenere circa se stesso, ma Ricœur ha voluto stabilire come «la profondità non è il contrario dell’intenzionalità»;31 di nuovo, è il potere fallibile dell’uomo ad essere interiorizzato e ciò conduce alla suggestiva formula sintetica della fallibilità: l’uomo è infine la Gioia del Sì nella tristezza del finito.32 Qualcosa del patetico della miseria pare reintrodursi.
4. Possibilità o realtà dal male?
Una ferita segreta, un enigma33 interno alle possibilità attive, viene scoperto dalla spontaneità del sentimento. Nonostante la gioia della tensione, il problema del Malheur non abbandona l’antropologia della fallibilità; la strategia teoretica di Ricœur, non ha i mezzi per esplicitare la compenetrazione profonda che invece sussiste tra il concetto di fallibilità e quello della colpa: nel momento in cui l’uomo riconosce la sua fallibilità, egli avverte l’insorgenza implacabile di un inspiegabile senso di colpa, esteso oltre o posto prima dell’agire concreto. Va specificato che le tonalità tristi dell’esistere si mescolano al concetto di colpa, non in quanto circoscritte alla valutazione della sola dimensione finita — della propria carne — ma in quanto queste risultano paradossalmente dipendenti dal momento originario dell’affermazione tensiva. Al di fuori del rapporto tra finito e infinto il soggetto non è in grado di valutare se stesso; ciò significa che la realtà della dialettica, nel porre il momento della gioia esistenziale, allo stesso tempo o a causa di ciò, definisce i tratti di una tristezza inesorabile.
Il linguaggio della confessione religiosa, particolarmente emblematico è quello della tradizione testamentaria ebraica e poi cristiana, è maggiormente consono ad indicare la compenetrazione tra fallibilità e la colpa, dato il medio simbolico rappresentato dal concetto del peccato, che rende esplicito il segreto del destino tragico che affligge la libertà: il rapporto uomo-Dio, fa della tensione rivolta verso quest’ultimo, mai una sola dimostrazione della propria innocenza, ma anche una confessione sofferta della differenza che separa il finito dall’infinito, in base all’ostacolo della naturale finitezza. Il simbolo del peccato suggerisce inoltre che la costatazione misera del finito, attiene l’essenza attiva del soggetto. Ricœur, ne La simbolica del male, si è servito della predicazione paolina per esporre il problema interno all’etica — in particolare nella critica all’etica farisaica34 — per cui la vita tutta rivolta verso l’ideale, è una vita sottoposta ai divieti, quindi non è altro che la vita di un uomo peccatore. Indirettamente, attraverso la fonte paolina, il filosofo francese ha dimostrato i limiti interni di una trattazione antropologica soltanto eidetica, che ha inteso circoscrivere la miseria dell’esistere (la tristezza del finito) alla componente involontaria, e non alla componente attiva della fallibilità. Nella Lettera ai romani, Paolo ha sentenziato: «La legge del peccato è nelle mie membra […]. Io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me» (Rom. 7, 13-21).
Come si colloca l’azione del trovare rispetto alla constatazione misera della carne? Pare che si ponga successivamente e in virtù del volere.35 È il tendere verso, in questo caso il volere fare il bene, che scopre o determina la carne nella sua accezione negativa. La carne non costituisce la «parte originariamente maledetta dell’io»,36 poiché qualcosa la fa esser tale e quel qualcosa è riferito di nuovo all’intenzionalità rapportata ad un ideale, cioè all’intenzionalità che guarda a Dio. Il finito non costituisce di per sé la tristezza del finito; alla luce della differenza con l’infinito, la tensione che riflette su se stessa, al termine di un processo, si reputa come carnale. La benevolenza originaria dell’azione nasconde la radicalità del male. Il linguaggio altro da quello filosofico può essere utile, come in effetti è accaduto nella Simbolica del male, a mettere a nudo tutto ciò.
Tornando a L’uomo fallibile, l’ordine teoretico è a suo modo insufficiente a garantire che si realizzi una separazione netta dal male, ma, scopriamo, esso è anche necessario per disciplinare ermeneuticamente la compenetrazione tra fallibilità e colpa. Insufficiente a causa della polisemia semantica che attiene al concetto di possibilità: i tre livelli interni al potere del fallimento introdotti da Ricœur — l’occasione, l’origine e la capacità37 — in egual misura rappresentano i punti di maggiore e minor resistenza secondo cui il male può penetrare nel soggetto; così, non può sussistere un autentico salto tra eidetica ed empirica, se, come si intuisce, la possibilità è già in sé una realtà.
L’occasione è indice altresì di un legame necessario, l’origine può annunciare all’originario38 e la capacità degenerare forzatamente in azione: se la condizione del, costituisce il punto di forza che ha permesso di compiere il riscatto filosofico del finito, parimenti, l’ordine trascendentale di pensiero, costituisce ugualmente un punto di debolezza, in quanto esso non esclude il significato di impossibilità dell’altrimenti dal male. L’occasione testimonia anche della schiavitù dal male stesso, proprio essendone il luogo d’occasione privilegiato.
Vi è dunque un’ombra, ha ammesso Ricœur, stavolta mediante il supporto teorico di Bergson,39 sul termine fallibilità: la riflessione sulle condizioni di possibilità non ha obliterato il male come un nulla d’esistenza, ma come un enigma scoperto dalla coscienza spontanea, quindi come una presenza reale, avrebbe aggiunto Nabert:
Il male non è possibile se non perché è reale […] e che il concetto di fallibilità indica soltanto l’urto di ritorno della confessione del male già presente sulla descrizione della limitazione umana. È vero, è la colpa che ritaglia dietro di sé la propria possibilità e la proietta come la sua ombra sulla limitazione originaria dell’uomo facendola così apparire fallibile.40
L’elezione dell’orizzonte teleologico soggettivo ha prodotto un’antropologia che oscilla tra l’idea certamente positiva secondo cui il bene è possibile e realizzabile, e il segreto — che esplode tramite la capacità del sentimento e detto poi in una simbolica — secondo cui il male non è impossibile, ma assolutamente radicale. Risalire a questa circostanza negativa ci ha tutt’altro che allontanato dalla veracità dell’antropologia, così come non ha allontanato lo stesso Ricœur dal contesto concettuale della fallibilità. In effetti, la certezza tristemente innegabile del proprio essere, segna il ridimensionamento di una descrizione neutra; nel capitolo conclusivo della prima parte, intitolato paradossalmente Il concetto di fallibilità, l’autore francese ha ammesso: «in sé e per sé l’uomo rimane lacerazione».41 Siamo ben lontani dal linguaggio asettico dell’eidetica, sebbene il passo alluda all’essenza ontologica, alla dimensione de l’in sé e per sé.
Come ci è concesso decifrare l’anteriorità misteriosa, il Dejà là du mal? Al di fuori dei confini stabiliti da un’antropologia teoretica? Il quesito ha spinto Ricœur a constatare i limiti interni alla teoresi sistematica e ad attingere ai contenuti rivelatori dal linguaggio simbolico-mitologico, ma la prima sezione deve ora dimostrare la sua rilevanza, non più solo la parzialità descrittiva, nella misura in cui i suoi contenuti, come anticipato, svolgono la funzione di principali criteri dell’ermeneutica del male: in effetti, il principio stabilito in un’eidetica impedirà a sua volta che l’anteriorità del male comunicata dai simboli e dai miti, venga assunta secondo il significato metaforico e pericoloso dell’esteriorità, in base al quale il male risulterebbe un principio sussistente e metafisico, autonomo, distaccato dall’umana natura. In un sol colpo, si annullerebbe il peso di un’essenza avvertita misteriosamente come una colpa, facendo del Malheur una dimensione solo subita, un’alterità da noi stessi.
Ricœur ha scoperto che il male si colloca segretamente prima dell’uomo che agisce, ha poi individuato il linguaggio di questa confessione, ma non si è limitato ad esporre il problema, piuttosto ancora a comprenderlo ed interpretarlo entro i canoni di un’antropologia: egli è infine giunto alla conclusione, e dovremmo passo dopo passo risalire a tale verità, che quel prima detto dal simbolo non si colloca anteriormente al rapporto conflittuale finito-infinto, non si posiziona prima dello stesso ordine generale (non effettivo) della dynamis. La sfera del volontario costituisce l’elemento originario per valutare ancora l’origine enigmatica del male, poiché in definitiva, il fallimento appartiene alla fallibilità, il fallimento viene sempre reiterato rispetto ad un infinito inseguito dalla conoscenza e dall’etica, oggetto certamente di approssimazione e di speranza, ma, in quanto tale, anche radicalmente posto a distanza42 e separato dalla finitezza. Dunque, l’anteriorità del male denota solo in senso simbolico, il peso di una particolare colpa dal carattere eidetico: quel male posizionato prima, corrisponde di nuovo al rapporto tra affermazione e differenza, è di nuovo la limitazione che emerge dall’agire, teoreticamente neutrale, ma sentita in senso opposto e metaforicamente espressa come se fosse una passività esteriore.
L’oscillazione interna all’antropologia di Ricœur è chiara: la dimensione fenomenologica dell’agire è preminente; essa rappresenta sia la fonte del riscatto per la finitezza, un modo quindi per scongiurare un’ontologia della sola malvagità, sia il luogo privilegiato entro cui interpretare l’annoso problema della passività del male. Un passo da Il volontario e l’involontario, opera che precede Finitudine e colpa, ma che fa parte del medesimo progetto di una filosofia della volontà, ha a tal proposito anticipato il lato meno ottimistico del pensiero antropologico ricœuriano, il quale, come volevasi dimostrare, si attesta esattamente in ciò che ne L’uomo fallibile è sottolineato come fonte di gioia, cioè nell’essenza tensiva dell’uomo:
La lacerazione non è semplicemente un’incapacità dell’intelletto ad abbracciare il mistero dell’unità dell’anima e del corpo, ma fino ad un certo punto una lesione dell’essere stesso. L’unità vivente dell’uomo non viene lacerata se non per il fatto stesso che è pensata: è nell’atto umano dell’esistere che è inscritta una segreta ferita; o, se si vuole, è proprio pensando che spezziamo l’unità vivente dell’uomo; ma pensare, nel senso più largo, è l’atto fondamentale dell’esistenza umana e questo atto è la rottura di una cieca armonia, la fine di un sogno.43
L’analisi prima fenomenologica e poi ermeneutica del male condurrà alla verità per cui, il criterio utile al superamento, ma anche all’assunzione corretta del mistero, è ancora la dimensione prima ed essenziale dell’agire.
5. Fenomenologia del male
Si è tentato culturalmente e storicamente di risolvere il problema del male, mediante una facile via di fuga, composta da giustificazioni dal carattere gnostico, confluite fino alla modernità in sistemi logico metafisici noti con il termine di teodicee. L’affidamento metodologico al linguaggio rivelatore del simbolo e del mito, che nel testo Finitudine e colpa invita all’utilizzo di una razionalità non più logica, incerta di se stessa ed essenzialmente ermeneutica, sottintende giustappunto il fallimento di quei sistemi; perciò, in modo inverso rispetto all’ordine che la cosiddetta fenomenologia del male44 assume nella produzione saggistica ricœuriana (essendo successiva alla Simbolica del male), prima di attingere ai contenuti di una simbolica, è utile risalire fenomenologicamente alle ragioni che l’hanno ispirata, concentrandoci, insieme al filosofo francese, sui punti deboli della produzione gnostica e teodica. In particolar modo, la critica che egli ha rivolto ad alcuni dei loro fondamenti, permette di desumere quell’atteggiamento precisamente antignostico e antiteodico, che per Ricœur è necessario alla giusta interpretazione del mistero, o alla sua quasi giustificazione.
Che cosa intendiamo con quasi giustificazione? Si può semplificare così: di fronte al problema dell’assunzione dell’enigma, la gnosi si è tendenzialmente adoperata per una sostanzializzazione, che ha reso il male una realtà a sé stante, inconcepibile e irrisolvibile perché esterna alla fallibilità; invece, la saggezza aporetica che Ricœur è andato desumendo, soprattutto attraverso la lettura congiunta di due autori, Agostino e in particolar modo Kant, se non ha risolto in toto il mistero e se non ha spiegato in modo definitivo il perché della malvagità, ha però saputo delimitare il problema entro il contesto generale della responsabilità attiva, così da 1) relativizzare la forza obbligante del male, renderla di nuovo una responsabilità, introducendo inoltre la libertà di fare anche il bene, 2) dispensare, in senso antiteodico, il principio dell’onnipotenza di Dio dalla questione dell’origine (del male), e parallelamente a ciò — stavolta solo attraverso Kant — 3) stimare in chiave simbolico metaforica, l’indicazione di un’origine esteriore — esterna perfino a Dio e riconoscibile in un principio ad Esso opposto — attribuita in base alla costatazione di una passività sottesa all’agire. Di fronte alla schiavitù dal male, la colpa è ancora dell’uomo, sebbene egli confessi di essere tentato da qualcosa che pare non appartenergli, restando perciò inspiegabile. Laddove la gnosi ha fallito è necessario che il male rimanga un mistero, ha concluso saggiamente Ricœur. Ciò nonostante, secondo quanto pervenutoci in base al suo particolare approfondimento fenomenologico ed ermeneutico, dobbiamo aggiungere che per il filosofo francese non può trattarsi di un mistero inspiegabile in senso definitivo e irrazionale; al contrario, sussiste per l’autore una tendenza ermeneutica corretta, quella per cui il problema della radicalità è confermato e in qualche modo (quasi) risolto entro il contesto antropologico della fallibilità: se non ci è concesso definire ciò che il male è, si può stabilire il suo ambito d’appartenenza, di conseguenza stabilire quello che il male non è affatto: appartiene segretamente all’essenza dinamica dell’agire e non concerne altro. Se è detto mediante un linguaggio che ne sostiene l’alterità, è necessario interpretare questo altro come una proiezione di un mistero tutto interno allo schematismo intenzionale. Vedremo poi come La simbolica del male confermi o, secondo l’effettiva successione degli scritti ricœuriani, anticipi nello specifico questa chiave di lettura antignostica e antiteodica.
Entriamo nel merito della fenomenologia ricœuriana del male. Non ne seguiremo tutti i passaggi, ma, in base a quanto detto sopra, ci limiteremo ad esporre i punti salienti, relativi ai difetti della produzione gnostica e teodicea. «Il pensiero non sarebbe passato dalla saggezza alla teodicea se la gnosi non avesse innalzato la speculazione al rango di gigantomachia».45 La necessità di rispondere alla domanda filosofica Unde malum? ha condotto alla «più fantastica mitologia dogmatica del pensiero occidentale, la più fantastica impostura della ragione».46 La corrente gnostica ha acquisito un tono essenzialmente pessimistico, attingendo come fonte principale al tema ellenistico del binomio male-materialità, differentemente dal Cristianesimo ed Ebraismo che invece celebrano il cosmo secondo il principio della creazione benevola, o differentemente dalla corrente dello stoicismo che ne ha esaltato solo la bellezza. Si è imposto così, nell’antichità, uno schema dualistico caratterizzante la gnosi, nel quale si è distinto un principio esteriore all’uomo, una sostanza che lo infetta dal di fuori e da cui è conseguito un sollevamento dal peso della colpa;47 agli occhi degli gnostici il male è una realtà autonoma, dotata di spessore ontologico, che coincide con il mondo misero della vita e della morte. Per Ricœur, tra tutte è la corrente manichea di origine iranico-zoroastriana, che ha celebrato storicamente l’angoscia dell’esistenza nel dualismo tra il principio del bene (il padre della grandezza) e il principio del male (il padre della tenebra).
L’impegno della dottrina cristiana contro la corrente gnostica non ha garantito la salvaguardia della religione stessa dal pericolo della gnosi. Lo sforzo si è fatto poi teologia; nella modernità ha raggiunto il suo culmine razionalistico, facendosi, con il supporto dei sistemi filosofici, teodicea, tentando cioè di assemblare secondo logica tre preposizioni tra loro inconciliabili: Dio è onnipotente, la sua bontà è infinita, il male esiste. Congruentemente al grado di problematicità che l’evidenza del male rappresenta all’interno di un’ottica di creazione giusta, la religione cristiana, dalla teologia tardo antica e medievale fino alla teodicea moderna, ha assunto gradualmente un carattere di giustificazione ermeneutica sempre più dogmatico. In generale, Ricœur ha sostenuto, citando Eliade e Geertz: «Le grandi religioni hanno avuto in questa ricerca di intelligibilità la funzione ideologica maggiore […], di integrare ethos e kosmos in una visione inglobante. È per questo che il problema del male diverrà, negli stadi successivi, la crisi più rilevante della religione».48
Ciò nonostante, l’idea che il male sia invincibile in quanto principio metafisico la cui provenienza è esterna al sé, ha costituito un ostacolo alla dottrina cristiana del libero arbitrio, quest’ultima difesa in particolare da S. Agostino. Il vescovo di Ippona, si è impegnato in un’apologia antimanichea, di poco successiva a quella antipelagiana, sorretta su basi filosofiche neoplatoniche. A sua volta, il neoplatonismo ha ricalcato l’ultimo platonismo e lo stoicismo, attraverso l’ipotesi gradualistica dell’Uno-Bene. È noto come il secondo libro dell’Enneadi contenga una condanna radicale alla corporeità, sostenuta dalla difesa dell’operato demiurgico. L’Uno è presente nel tutto per emanazione ipostatica; eppure, la materia esercita una certa resistenza all’affermazione del bene, ma non tale da farla coincidere ad una pura negatività. Agostino ha usufruito in senso teologico del concetto plotiniano di emanazione, al fine di ricucire lo strappo tra il creatore onnipotente (diverso dalla divinità greca) e l’uomo creato: tra di essi non sussiste una differenza ontologica, ma solo distanza ontica; sulla base di tale mancanza, è perfettamente comprensibile che creature dotate di libero arbitrio, possano inclinare (Defectus, Declinatio), lontano da Dio (Aversio a Deo), verso quel niente49 che ha soltanto minor valore ontico. Ecco che, ha sottolineato Ricœur, la strategia agostiniana si definisce un’onto-teo-logia.50
La conseguenza più importante segnalata dal nostro autore, riguarda lo scivolamento della domanda Unde malum? sul versante attivo (Unde malum faciamus? )^[52] del peccato e della colpa. Egli ha però riflettuto approfonditamente la teoria agostiniana, anche in senso critico: si è riusciti ad annullare ogni questione ontologica dal problema del male? Se sì, qual è il motivo dell’opposizione, ad esempio, contro il pelagianesimo, di cui veniva disapprovata l’eccessiva sottolineatura etica? Ricœur ha intuito che, formulando il concetto di peccato originale, ad Agostino si è legato un grande merito, in cui si può scorgere un demerito.
Riguardo al merito, nelle Confessioni e nel De Libero arbitrio (II, 19, 54), si è lasciata (per un attimo) insoddisfatta la domanda sul perché del male: lo scivolamento verso l’etica obbliga ad una risposta precisa: «Sciri non potest quod nihil est».51 Tale è il versante antignostico della sua teologia, motivato da una più ampia considerazione della responsabilità pratica, relativamente al suo aspetto più tenebroso, taciuto invece da Pelagio. Spieghiamoci meglio: se è vero che è impossibile individuare la ragione dell’avversione a Dio, ciò amplifica in modo pericoloso il potere obbligante di quel nihil privativum sul libero arbitrio che compie il male; così, questo tipo di esperienza complessa denunciata da Agostino, ha notato Ricœur, «ricorda San Paolo ed annuncia Lutero: una volontà che sfugge a se stessa e obbedisce ad un’altra legge diversa da se stessa».52 Per riassumere, il merito è stato quello di aver considerato in maniera approfondita lo scivolamento verso la dimensione pratica. Possiamo dedurre che, per Agostino, l’agire male fosse un problema ben più complesso rispetto alla sua collocazione entro la sfera intenzionale del volere, ma allo stesso tempo dobbiamo anche riconoscere che oltre la dimensione della scelta — l’Aversio a Deo — non è concesso, nella dottrina agostiniana, interpretare il problema del male. L’ermeneutica del male è debitrice dell’ontoteologia di Agostino, essendosi quest’ultima fermamente opposta all’idea metafisica della materialità del male e avendo posto al centro del riflettere la dimensione dell’agire, senza però aver annullato il problema di una passività interna all’agire stesso.
Tuttavia, e sarà per tale ragione che nel cammino fenomenologico ad Agostino farà seguito la riflessione kantiana, il vescovo di Ippona è caduto ugualmente nel tranello della gnosi: la soluzione fondata sul concetto di peccato originale, ha scritto l’autore francese, «appare come un falso concetto che si può assegnare ad una gnosi anti-gnostica. Il contenuto della gnosi è negato, ma la forma del discorso d’essa è ricostruita nel modo di un mito razionalizzato»,53 addirittura similmente alla mitologia gnostica, valentiniana e manichea. Il segreto di quel nihil che obbliga e che impone l’idea di un peccato di natura, viene poi risolto da Agostino sulla base dell’attinenza letterale alle Sacre Scritture, nello specifico attraverso la narrazione del primo uomo Adamo; la tenebra misteriosa del Malheur soggettivo, sarebbe l’effetto conseguito da una caduta storica, il primo peccato, che si riflette come caduta ereditata sulle colpe contingenti. In conclusione, alla domanda sul male passivo, si è infine risposto mediante un dogma, divenuto senso ecclesiale e ortodossia ragionata.
Prima di compiere l’integrazione dei limiti dell’agostinismo attraverso Kant, la fenomenologia di Ricœur si è concentrata sui limiti della teodicea, la quale a cavallo tra seicento e settecento ha ricevuto il suo principale fregio dal filosofo Leibniz. Con il il Saggio di Teodicea (1710), quest’ultimo ha inteso giustificare secondo logica, cioè secondo il principio di ragion sufficiente, il paradosso della presenza di Dio e della presenza del male. Il principio di ragion sufficiente costituisce la razionalità intrinseca alla scelta (non arbitraria) della creazione di questo e non di un altro mondo. In base alla teoria di Leibniz, nell’intelletto divino si sarebbe verificata una sorta di competizione tra una molteplicità di mondi ipotetici, di cui uno solo ha racchiuso il massimo di perfezione con il minimo di difetti. Dunque, il male, giudicato così dall’uomo, dipende da Dio, ma Egli lo ha limitato il più possibile, mediante una creazione ordinata. È chiaro come Leibniz si sia sforzato di difendere un concetto di ordine necessario, in grado di mantenere intatta la libertà della scelta, ma l’aver applicato i criteri della scelta anche a Dio, ha provocato una pericolosa antropomorfizzazione della sua natura sostanziale. In che senso Dio ha dovuto scegliere il mondo esistente? La sua onnipotenza risponde ad un principio di causa finale (alla maniera della metafisica aristotelico scolastica), e, quindi, ad un fine limitante la sua libertà? La perfetta libertà di Dio non è tale se è rimessa ad un fine di contingenza, cioè alla creazione di un mondo buono, laddove, soprattutto, l’aggettivo buono è il frutto di una categorizzazione umana che afferisce alla moralità.54 Inoltre, ha ricordato Ricœur come già Voltaire, nel Candide, schernì la definizione del migliore dei mondi possibili, in conseguenza al disastro del terremoto di Lisbona: di fronte a tali eventi, c’è bisogno di un forte ottimismo per affermare che in definitiva il bilancio della creazione risulta positivo.55
Risolvere il male dal punto di vista della logica di Dio è un atteggiamento ermeneutico che va incontro a notevoli contraddizioni; riportare il male sul terreno dell’antropologia, sembra invece un’operazione più consona alla verità del mistero. Agostino ha indicato il modo di porre la giusta domanda, tradendo poi la saggezza del mistero nel dogma; Kant ha ereditato la stessa tendenza, ma senza aver compiuto il medesimo errore segnalato. Il colpo più forte contro la logica meccanicistica interna al tipo di teologica razionalistico è stato inferto dal filosofo tedesco, sebbene non si è trattato di un colpo fatale, ma la strategia di Kant sarà, tutto sommato, condivisa appieno da Ricœur. Riteniamo che questa condivisione del kantismo sia l’elemento cardine che ci ha spinto ad individuare una radice teoretico-gnostica, implicita alla soluzione antignostica e simbolica elaborata dall’autore francese.
Kant ha superato e posto di nuovo una teodicea, stavolta non in riferimento alla giustificazione del male, ma in merito alla categoria opposta, il bene: in senso giuridico, Dio è concepito come il legislatore della legalità morale e non di quella naturale; se la teodicea risulta illegittima sul piano teoretico, come del resto insegna la dialettica della Critica della ragion pura che la fa cadere sotto la voce di illusione trascendentale, l’autentica giustificazione del male nella logica dell’onnipotenza divina, può essere correttamente riproposta sul piano attivo dell’agire umano56 — dunque in continuità con Agostino — in base al postulato dell’idea di Dio, necessario presupposto a priori della ragione pratica. All’ontoteologia si sostituisce una sorta di etico-teologia,57 confluita nel testo La religione nei limiti della semplice ragione (1793). Il cambiamento più evidente è anche il più importate, poiché, ha notato Ricœur, l’apologia dogmatica e teologica ha lasciato spazio all’istanza dell’ermeneutica, ovvero alla ricerca di un nucleo razionale del male, di carattere essenzialmente etico-morale. «Kant non ha messo fine alla teologia razionale: l’ha costretta ad usare delle altre risorse di questo pensiero — di questo Denken — che la limitazione della conoscenza oggettuale metteva da parte».58 L’approfondimento dell’ontoteologia agostiniana è giocato sull’utilizzo di una nuova strategia teoretica: non più sull’affidamento fideistico e scritturale, ma su una logica che guarda al trascendentalismo umano. Origine trascendentale significa che il male è radicato come quella
massima suprema che serve da fondamento soggettivo ultimo a tutte le massime malvage del nostro libero arbitrio; questa massima suprema fonda la propensione (Hang) al male dell’insieme del genere umano (in questo senso Kant è ricondotto al lato di Agostino), di contro alla predisposizione (Anlage) al bene, costitutiva della volontà buona.59
L’insondabilità favorisce ancora il supporto simbolico, ma Kant, abbiamo detto, ha saputo delimitare il male al contesto antropologico delle disposizioni naturali; di conseguenza, il simbolo deve essere interpretato come tale, non come verità dogmatica: non sapendo restituire con certezza l’autentica ragione della tendenza alla malvagità, e per rendere in qualche modo comprensibile un’idea in sé misteriosa, diventa necessario, come ha dichiarato lo stesso filosofo tedesco, interpellare figure simboliche, fra tutte quella biblica di un tentatore, il quale, secondo il mito, ha agito per noi e continua ad esercitare la sua influenza ogni qual volta compiamo il male.
Per l’ermeneuta francese, Kant ha riproposto Agostino superandolo. Il noto tema kantiano della radicalità del male, nonostante qualche somiglianza, si è opposto alla concezione agostiniana del peccato originale. Il merito di Kant è stato quello di aver evitato di conferire alla costatazione del male «una intelligibilità fallace»,60 basata sulla credenza di un’origine storico-temporale (la prima azione del primo uomo storico); dunque, positivamente «la ragione d’essere di questo male radicale è «inscrutabile»»,61 ha sancito Kant, ma soprattutto, ha sottoscritto Ricœur, il quale ha di seguito aggiunto in merito a tale conclusione:
Io ammiro quest’ultimo riconoscimento […], Kant ha visto il fondo demonico della libertà umana, ma con la sobrietà di un pensiero sempre attento a non trasgredire i limiti della conoscenza e a preservare lo scarto tra il pensare e il conoscere un oggetto. E tuttavia, il pensiero speculativo non disarma di fronte al problema del male. Kant non ha messo fine alla teologia razionale.62
La citazione risulta di straordinaria rilevanza, poiché introduce il tema del sostrato gnostico che si cela dietro una soluzione di stampo aporetico. In effetti, nascosta all’ammissione di insondabilità del male, vi è in Kant un senso preciso secondo cui interpretarne l’aspetto radicale, non oltre il trascendentalismo soggettivo e di conseguenza ancora pensato secondo il filtro dell’imputazione pratica. Si mescolano tra loro l’ammissione misteriosa del subire, che allude ad un origine quasi esteriore e sostanziale del male radicale, dato che esso sembra svolgere una funzione di corruzione — «questo male è radicale perché corrompe il fondamento di tutte le massime e a un tempo perché […] non può essere sradicato da forze umane»63 — e la precisa delimitazione ragionata, per così dire gnostica, dell’origine esteriore entro il dominio dell’agire, o più precisamente della colpa: «Ora, questa colpa, viene definita innata (reatus) perché si rivela appena nell’uomo si manifesti l’uso della libertà stessa, e proprio per questo è suscettibile di imputazione».64 Il doppio atteggiamento ermeneutico, dell’insondabilità sorretta dalla delimitazione del dominio del male, è il medesimo modus operandi che guiderà Ricœur nei vari passaggi della simbolica. Il riferimento necessario alla parola mitica, o meglio biblica, nella fattispecie al mito adamitico che ha fondato la giustificazione agostiniana, ha richiesto in Kant un’adesione non più di carattere fideistico, piuttosto razionale.65 L’insegnamento del filosofo tedesco è perfettamente riconoscibile nella seconda sezione di Finitudine e colpa, la quale ha dispiegato il problema della passività del male in maniera anti gnostica, ma implicitamente gnostica, data la forte propensione ermeneutica; ciò significa che l’oggetto di riferimento utilizzato contro il pericolo della gnosi da Ricœur, ovvero il linguaggio sovrasignificante e mai definitivo del simbolo e del mito — non a caso, il racconto del primo uomo Adamo ha focalizzato anche l’attenzione del filosofo francese — è stato affiancato da una traiettoria interpretativa e speculativa ben precisa: intendere le figure d’esteriorità e di passività del male dette dai simboli, esattamente mediante il filtro del trascendentalismo umano, il quale, lo ricorderemo, nella prima sezione dell’opera (L’uomo fallibile), si fondava precisamente sul potere dinamico e prioritario dell’intenzionalità agente. Quindi, come per l’apologia antimanichea di Agostino, ma soprattutto similmente all’antiteodicea ermeneutica di Kant, per Ricœur, la particolare esperienza del male subito, afferisce ancora al contesto attivo della dynamis antropologica.
In definitiva, subire il male non significa altro che subire se stessi agendo, subire cioè la propria fallibilità, la condizione trascendentale dello scegliere il male. Se ciò non è riconducibile ad una colpa reale, è pur vero che il soggetto non può essere sollevato dal peso della responsabilità: siamo colpevoli del male ancor prima di agire, poiché la categoria in esame appartiene essenzialmente all’uomo, nello specifico al suo libero arbitrio. Kant ha specificato a riguardo il legame che sussiste tra malvagità e il suo schema:
La malvagità della natura umana, dunque, non è vera e propria malignità […]. La malvagità umana, piuttosto, va chiamata perversità del cuore, il quale poi, per via delle sue conseguenze, viene detto anche cuore o animo malvagio. L’animo malvagio può coesistere insieme ad una volontà generalmente buona; esso scaturisce dalla fragilità della natura umana, la quale non è abbastanza forte da attuare i principi adottati, e questo perché è così legata all’impurità da non riuscire a separare l’uno dall’atro i moventi secondo una direttiva morale.66
Se, come ha giustamente sottolineato Ricœur nel suo progetto antropologico, la descrizione eidetica si distingue da un’empirica della colpa e, a tal proposito, Kant ne ha anticipato i fondamenti, distanziando (senza separare) l’innocenza dell’agire dalla premeditazione del male — «nei suoi primi due gradi (che sono la fragilità e l’impurità), tale colpa può essere giudicata come non premeditata (culpa). Nel suo terzo grado (che è la malvagità), invece, essa va considerata come colpa premeditata (dolus) »67 — resta tuttavia invariato il problema dell’attestazione di una certa responsabilità che trascende l’agire empirico, ancora intersecata alla stessa innocenza originaria. Ciò è valso per il nostro autore, secondo il quale è stato necessario integrare i limiti d’astrattezza della descrizione eidetica con una simbolica del male espressiva del problema, così come è valso per Kant, in base all’ultima citazione: la non colpa di primo grado, che afferisce alla fragilità, resta ugualmente circoscritta entro il dominio semantico della colpa.
Ricorderemo come, per Ricœur, un’ombra si celi nell’essenza antropologica dell’agire. L’ermeneuta francese ha dovuto infine constatare che la fallibilità umana non è affatto neutrale o solo originariamente benevola, ma anche originariamente compromessa, proprio in virtù di quello stesso principio che ha garantito il riscatto filosofico del finito: l’orizzonte della possibilità, certamente evita il decadimento assoluto, sia al livello ontologico che pratico; tuttavia, in quanto unica condizione del male, esso resta l’unica sua realtà. Il male è delimitato alla nostra iniziativa e al modo di essere di quest’ultima, non è quindi separabile dall’eidetica antropologica. La simbolica del male è servita ad integrare la riflessione antropologica, secondo il principio dialettico dell’intersezione tra inclinazione originaria al bene e destinazione altrettanto originaria al male.
6. La simbolica del male
La confessione del male costituisce la voluta dimenticanza de L’uomo fallibile; su di essa, la risposta simbolico-mitologica della seconda parte di Finitudine e colpa, ha focalizzato l’attenzione. In base ad una logica dell’aporia, ricorrere al discorso altro significa semplicemente mettere a nudo (Mettre à nu) il mistero del Déjà là du mal. Ma qual è il significato autentico di quest’operazione? Attraverso il cammino fenomenologico fatto fin qui, abbiamo intuito la presenza implicita di una strategia razionale sottesa all’aporetica, volutamente antiteodica e antignostica, che ora ritroviamo finalmente esplicitata nella simbolica, nella misura in cui quest’ultima non si è limitata ad esporre una rassegna di simboli e di miti, ma ad esercitare una forte funzione ermeneutica su di essi. Per intendere appieno la categoria dell’esser già del male, si deve rinunciare a molto del suo potere simbolico-evocativo, al fine di non incorrere nel medesimo errore commesso dalle produzioni gnostiche. Dunque, mettere a nudo il mistero ha un significato più profondo, rispetto al solo dispiegamento del mistero: si tratta anche di decodificare i simboli e i miti secondo un’antropologia insormontabile, cioè non oltre l’essenzialità dello schematismo intenzionale, sottolineato nella prima parte del testo; senza quest’intervento, la forza opprimente di un male la cui collocazione è percepita anteriormente all’agire, risulterebbe difficile da contrastare sia a livello filosofico che pratico, poiché ad esso verrebbe attribuito un valore metafisico, sostanziale e materiale. Diventa necessario decodificare il linguaggio della simbologia e della mitologia. Nell’ottica riflessiva ricœuriana, questa decodificazione assume il significato di demitologizzazione, o più precisamente di circolo ermeneutico: «“Bisogna comprendere per credere, ma bisogna credere per comprendere” […], l’interprete non si accosterà mai infatti a ciò che dice il suo testo se non vive nell’aura del significato interrogato».68
Non solo lasciando parlare il simbolo, ma è interpretando che possiamo di nuovo comprendere; è quindi nell’ermeneutica che il significato del simbolo viene sciolto, e si svolge l’impresa intellegibile della decodificazione.69 Riflettendo su questo termine, non possiamo non constare la presenza di una radice teoretica, contenuta nel metodo del circolo ermeneutico: sottintesa alla confessione simbolica del male, vi è un’operazione speculativa utile a scongiurare una deriva eccessivamente gnostica dello stesso linguaggio simbolico.
Le diverse fasi della Simbolica del male sono: 1) interrogazione della cosiddetta simbologia primaria; 2) demitologizzazione e non demitizzazione;70 nello specifico, riassunzione del potere semantico della simbologia primaria, mediante la lettura ragionata della simbologia secondaria,71 concernente i racconti mitologici sull’origine del male, i quali vengono disciplinati da Ricœur in base ad una 3) dinamica mitologica, il cui moto interno è deciso, esattamente in base al principio essenziale dell’antropologia, l’agire. In linea di continuità con i tentativi di Agostino e Kant, ci concentreremo soprattutto sull’interpretazione offerta da Ricœur di un mito, quello adamitico della caduta, dimostrando il ruolo cardine di quest’ultimo nella suddetta dinamica dei miti. In quanto racconto stimato come massimamente antropologico dal filosofo francese, il mito del primo uomo Adamo costituisce la stella intorno cui tutto il resto, cioè gli altri racconti dell’origine, si avvicinano o si distanziano.
Il linguaggio simbolico è detto anche della spontaneità, poiché è direttamente riconducibile all’esperienza viva72 del male. Il simbolo, ha più volte sancito Ricœur, dà a pensare,73 offre cioè l’originario al pensiero; esso costituisce la contingenza radicale della riflessione umana. Rappresentando la contingenza delle civiltà introdotta nel discorso, il soggetto che pensa il male, incontra e trova i simboli come oggetti arcaici, come se si trattasse di idee innate. La simbologia consta di una particolarità discriminante rispetto al linguaggio sistematico della ragione: ha un intenzione duplice, poetica, sovra-significante; il suo significato letterale nasconde un senso inesauribile, progressivo, aporetico, che ad un tempo è indice di ricchezza semantica — essendo un segno, come tale mira alla cosa che vuole significare — ma ancora in quanto tale, contiene una profondità opaca, che obbliga a trascendere lo stesso senso letterale. La stessa opacità caratterizza la mitologia, nettamente distinta da Ricœur dall’allegoria, non essendo la prima suscettibile di una traduzione immediata. Rispetto però alla simbologia, i racconti mitologici svolgono una funzione diversa: generalizzando sul versante temporale e umano, mediante lo schema storico-narrativo e l’utilizzo di modelli di singolarità, i miti prevedono un movimento tematico interno, perfettamente parallelo e rappresentativo dello sviluppo tensionale dell’esperienza umana: l’esperienza del male si fa storia, seguendo l’itinerario che dalla perdizione giunge alla salvezza.74 In un certo senso, il mito consta così di una portata ontologica, avendo di mira «il rapporto — cioè ad un tempo il salto e il passaggio, la rottura e la sutura — tra l’essere esistenziale dell’uomo e la sua esistenza storica».75
Ricœur ha individuato inizialmente tre forme primarie; queste forme concettuali sono i simboli dell’impurità, del peccato e della colpa, non determinanti alcunché di definitivo, piuttosto figuratamente rispondenti dello scandalo, della cecità e dell’equivocità che il problema del male rappresenta. Se sussiste una certa linearità di sviluppo tra le tre figure, per cui dall’orizzonte pre-etico suggerito dall’impurità, si passa gradualmente a quello etico della responsabilità pratica, è vero anche uno sviluppo inverso: i simboli del peccato e della colpa mantengono, trattengono e contengono equivocamente qualcosa della macchia, così come quest’ultima indica qualcosa in più del suo senso letterale, espressivo della materialità del male. In definitiva, tutti i simboli considerati includono un’intenzione seconda che testimonia di un significato interno essenzialmente dialettico, restituito e spiegato da Ricœur tramite il concetto, attribuibile per lo più a Lutero, del servo arbitrio,76 secondo cui l’essere dell’uomo è ad un tempo libero e schiavo di compiere il male. Ciò emerge dalla simbologia primaria, riflettendosi poi sulla simbologia secondaria.
Sintetizzando molto l’analisi, il simbolo della macchia comunica il «chiaroscuro di un’infezione quasi fisica, che addita un’indegnità quasi morale»;77 la parola êáèáñ? ò ha dominato tutto il vocabolo dell’impurità, contenendo più di altre l’equivoco della purezza che oscilla tra il fisico e l’etico. Con il simbolo del peccato si è determinato uno sviluppo in seno all’agire responsabile, ma non un superamento completo della simbologia precedente: il peccato concerne la categoria specifica dello stare davanti a Dio78 e in tal senso ogni azione risulta in sé peccaminosa, poiché nell’ottica del patto, che è di elezione ma anche di inevitabile distanza, di silenzio, di riprovazione da parte di Dio, la malvagità si posiziona originariamente nel cuore79 dell’uomo, non nell’azione. Volgere lo sguardo a Dio genera la consapevolezza interiore del peccato; quest’ultimo assume anche e soprattutto i tratti di realtà iper-soggettiva (comunitaria), di un’esteriorità sviluppata in seno all’interiorità, ricordando così l’impurità della macchia. Per Ricœur, il quale si è impegnato in un’interessante analisi filologica di alcuni termini ebraici, tutta l’etica ebraica ha mantenuto questa tensione costante tra l’agire responsabile che ci fa distanziare da Dio e il subire la distanza originaria con Esso. Infine, il simbolo più evoluto, quello della colpevolezza, ha introdotto un elemento di rottura: l’uomo è divenuto soggetto di imputazione, seppur non ancora un soggetto libero in modo definitivo. La colpevolezza infatti non è sinonimo di colpa,80 ha dichiarato il nostro ermeneuta: la colpevolezza
indica il momento soggettivo della colpa, come il peccato ne è il momento ontologico. Il peccato designa la situazione reale dell’uomo davanti a Dio, qualunque sia la coscienza che ne ha […]. La colpevolezza è la presa di coscienza di questa situazione reale; se così si può dire, è il «per sé» di questa specie di «in sé».81
Ora, quale sviluppo positivo ha introdotto la simbologia della colpa? Esattamente, la riassunzione ermeneutica della rimanenza simbolica della macchia, entro la dimensione soggettiva dell’agire, e il completamento dell’ottica ontologica espressa dal peccato in base ad un accento più marcato sulla responsabilità soggettiva (sono io che sono posto davanti a Dio); in altre parole, gli elementi di esteriorità più o meno esplicitamente detti attraverso il simbolo della macchia e del peccato, vengono tradotti in senso pienamente antropologico ed etico: l’infezione del male è una sorta di infezione esteriore, non effettivamente tale, piuttosto un auto-infezione del sé a causa di se stesso. Chiare sono le parole di Ricœur: «Lo schema dell’infezione […] significa che la seduzione dal di fuori è alla fine un’affezione del sé a causa del sé, un’auto-infezione».82
Se questa lettura della passività ha consentito a Ricœur di limitare speculativamente, contro la produzione mitologica della gnosi, la forza di un principio sostanziale che impedisce, in senso pratico, la ribellione al male83 e la realizzazione del bene, allo stesso tempo dobbiamo riconoscere che tale strategia è anche servita a sottolineare la forte implicanza tra radicalità del male e antropologia della fallibilità. In un sol colpo, l’idea teorizzata nella prima parte del testo si trova ad essere sconfessata: la simbolica ha fin qui appurato, attraverso la costatazione di uno sviluppo interno dei simboli primari, che l’infezione del male è ancora tutta interna all’essenza, è dipesa cioè dall’uomo. Ovvero, quel male posto prima dell’azione, non è altro che la percezione della schiavitù nei nostri confronti, la costatazione sofferta del nostro limite finito, sempre in difetto rispetto alla realizzazione dell’ideale. Ne siamo ancora responsabili, poiché esso dipende dall’esser già del soggetto, non da altro.
Lo stesso sviluppo in chiave antropologica che dalla materialità esteriore del male giunge al riconoscimento di una passività tutta interiore all’essenza attiva dell’uomo, si riflette sulla simbologia secondaria, ossia sulla produzione mitologica. Quattro sono le tipologie dei miti presi in considerazione: la prima fonte è sumerico-accadica e riguarda la narrazione teogonica dell’Enuma elish, incentrata sulla vittoria finale dell’ordine sul caos, da cui si sono generati il mondo e l’uomo. Il fatto che la cosmogonia completi la teogonia implica che, se il divino è divenuto in base ad una lotta, il caos è un fondo oscuro anteriore all’ordine; il principio del male è originario, co-estensivo alla generazione divina, quindi del tutto autonomo dalla simbologia della colpa, ma proponente un’idea di predestinazione. La seconda fonte è la tragedia greca, da cui Ricœur ha estratto come modello il Prometeo incatenato84 di Eschilo. La tragedia si fonda per l’appunto sul senso del tragico, sull’alternanza tra malvagità divina e colpevolezza eroica; l’azione dell’eroe è una grandezza oggetto di gelosia da parte del divino, è una libertà che purtroppo si scontra con un destino tragico: il coraggio ritarda soltanto l’emergenza di un destino, anch’esso fondato sulla distanza dalla trascendenza, spesso annunciato nel racconto dalle figure impersonali della Moira e dell’Erinni. Sfidando la divinità, l’uomo del tragico è responsabile nel bene e nel male, di conseguenza, dovrà sempre soffrire per imporsi. Terza fonte, il racconto dell’anima esiliata, che trae origine dalla religione greco-arcaica dell’orfismo, riflettendosi poi direttamente nella filosofia platonica. L’anima che non è del mondo ma di origine divina, conduce un’esistenza nascosta, da esiliata, essendo obbligata ad espiare una colpa anteriore, teogonica, in un luogo di punizione, il corpo; solo quest’ultimo condanna l’anima alla reiterazione della sofferenza. Secondo la tradizione religiosa orfica, il male è un’eredità rispondente ad un avvenimento teogonico; l’uomo trova il male e lo continua a fare per ragioni strettamente involontarie, poiché quest’eredità che fa il male si è riflessa nella corporeità, non nella spiritualità dell’uomo.
Per ordine di importanza, riportiamo l’ultima fonte da cui Ricœur ha attinto: il mito adamitico della caduta, afferente sia alla tradizione ebraica che cristiana. «Il mito adamitico è il mito antropologico per eccellenza; Adamo vuol dire Uomo».85 Rispetto alle altre narrazioni citate, il filosofo francese ha sottolineato il cambiamento di prospettiva radicale, che come nello sviluppo dei simboli primari, dall’idea di una materialità ha condotto ad un’eticità del male: «che vi sia un uomo, questo è il male; la genesi del male coincide con l’antropogonia»,86 nella misura in cui il monoteismo ebraico ha reso caduchi e impossibili la teogonia e il dio tragico, che è ancora teogonico. Le lotte, i crimini, le astuzie e gli adulteri sono espulsi dalla sfera divina.87 Ciò non significa che in questo racconto non si possano distinguere rimanenze simboliche, segno di influenze di tradizioni differenti. Sebbene il mito si faccia portatore di una verità per lo più etica, questa può emerge soltanto in base ad una lettura demitologizzante, basata principalmente su 1) la critica del simbolo eziologico e storico della caduta, davvero non autentico, e su 2) la riassunzione ermeneutica delle figure d’esteriorità, entro il paradigma originario dell’azione. Questi simboli, esattamente come per l’interpretazione offerta da Kant, e differentemente da quella offerta da Agostino, nascondono un senso ulteriore metaforico: non devono essere creduti, ma sono indispensabili alle mancanze della ragione, la quale non sa giustificare il mistero riguardante l’arbitrio, originariamente libero di fare il bene, ma in modo altrettanto originario, schiavo del male stesso. In una formula, il concetto luterano del servo arbitrio.
L’ingenuo autore del racconto,88 così lo ha definito Ricœur, ha posto erroneamente una distinzione temporale tra un tempo anteriore d’innocenza, che termina con l’azione disubbidiente nei confronti di Dio, e un tempo di maledizione successivo, inaugurato dallo stesso atto. Come può, del resto, inserirsi un racconto della caduta in un contesto della creazione giusta? Non è forse contraddittoria l’istanza del comandamento entro questo contesto iniziale? Lo jahvista fa pervenire il divieto di Dio come appartenente alla struttura dell’innocenza originaria, ma secondo logica, risulta superfluo parlare di peccato in un reale stato di innocenza. Una corretta interpretazione deve affidarsi alla logica dell’istante. Spieghiamoci meglio: l’innocenza di Adamo coincide con la sua libertà finita, la quale prevede la nozione del divieto, in quanto limitata dall’ottica stessa della creazione; come essere creato, l’uomo include in sé una vitale intersezione dialettica, non una successione storica, tra inclinazione al bene e destinazione al male. L’uomo è creato ad immagine e somiglianza di Dio, ma Egli non ha creato un altro Dio. È molto importante per l’interpretazione critica di Ricœur, aver stabilito che l’uomo decade radicalmente e non è decaduto storicamente; il tutto è avvenuto o avviene nell’istante, poiché egli ha concluso: «Il peccato ha un bell’essere più antico dei peccati, l’innocenza è più antica di lui. Quest’anteriorità dell’innocenza al peccato più antico, è la cifra temporale della profondità antropologica».89
Da notare come in questa dichiarazione, utile ad integrare la disciplina antropologica della fallibilità, il male non venga affatto separato o distanziato; piuttosto, si è inteso dimostrare la sua vitale intersezione con l’essenza innocente. Il male fa parte segretamente dell’essenza, poiché l’essenza è l’agire, il tendere verso l’ideale.
Per la dispersione della caduta come avvenimento, il mito ha offerto al lettore altri spunti simbolici utili. Si tratta delle figure di Eva e del Serpente, non affatto immuni dalle istanze della demitologizzazione. Per semplificare, il male non è il serpente in sé, né la donna in sé. Grazie all’ermeneutica, dall’idea di un agire storico, si è passati ad un significato di responsabilità ben più ampio, certificato ora dalla presenza di nuove figure, le quali, in effetti, anticipano nel racconto l’evento stesso della caduta. La loro presenza anteriore all’evento decisivo della caduta, viene considerata da Ricœur come il simbolo dell’interiorità di Adamo, quest’ultima intrappolata tra la percezione del Dejà là du mal — la schiavitù dal male, quindi, in senso figurato, la seduzione di Eva e del Serpente — e la libertà, la scelta del disobbedire a Dio, compiuta liberamente dal primo uomo. La caduta è da sempre, poiché la componente del femmineo e la seduzione malefica del serpente sono già là, appartengono cioè allo schema della creazione. Da un agire empirico, storico e circostanziato, la presenza del male si riflette e si riconosce nella dimensione estesa dell’agire, nell’essenza dell’uomo (Adamo), in virtù del fatto che «il mito biblico, malgrado Eva e il serpente, rimane «adamitico», cioè antropologico».90 Di conseguenza, ha aggiunto l’ermeneuta francese: «Il serpente sarebbe […] una parte di noi stessi che non riconosciamo; sarebbe la seduzione di noi stessi da parte di noi stessi, proiettata nell’oggetto di seduzione».91 Ben più diretto è il passo successivo, che ha reso finalmente esplicita l’idea di una responsabilità del male, intesa in modo ontologico esistenziale, non più empirico-volontario; se le figure simboliche della passività rappresentano un invito pericoloso alla gnosi, ciò implica che
il tema del Maligno non è se non una figura limite che designa quel male che io continuo quando anch’io lo comincio e l’introduco nel mondo. Il «sempre già qui» del male è l’altro aspetto di questo male di cui tuttavia io sono responsabile […]. L’uomo conosce il male solo come ciò che egli inaugura.92
In definitiva, il pensiero implicito all’aporetica del male si sintetizza in questa precisa convinzione, che però non annulla l’urgenza della domanda sul perché: incluso anche ogni suo aspetto di passività, il male è una categoria esclusivamente inaugurata dall’uomo. Proprio l’essenza antropologica determina il tono di passività del male; l’essenza umana indica cioè la responsabilità passiva, che anticipa la responsabilità empirica del male. Come prospettavamo nei paragrafi precedenti, la simbolica ricœuriana ha superato e integrato l’eidetica, attraverso il principio fondante l’eidetica stessa: l’ontologia, non solo è espressione della possibilità di fare o non fare il male, ma nasconde e include la realtà segreta del male radicale, che, lo possiamo ben dire, coincide alla confessione del nostro essere nature felici, spontaneamente tese verso l’ideale, ma allo stesso modo tristi, inesorabilmente distanti dall’ideale, proprio in quanto vi tendiamo. Come suggerito a Ricœur dalla predicazione paolina, teniamo ben a mente il fatto che, per Paolo, il voler fare il bene generava parallelamente la scoperta negativa della carne.
Un’ulteriore conferma di quanto detto fin qui ci giunge dall’ultima operazione compiuta dal maestro francese, l’esplicitazione di una dinamica mitologica, il cui fine è quello di mostrare le segrete assonanze intrattenute dai miti analizzati. Considerata più nel dettaglio, quest’idea originale contiene un forte peso teoretico, tale da eccedere quasi in un’operazione demitizzante, in certe sue traiettorie. Vogliamo dire che nella dinamica, se il centro di gravitazione resta il mito adamitico, e alcune forme narrative rispetto ad altre se ne distanziano, ciò significa che nei confronti della portata simbolica delle forme più distanti, l’attenzione ermeneutica è tendenzialmente critica, ovvero più teoretico-demitizzante che demitologizzante, poiché, questi stessi miti, narrando ancora dell’uomo, hanno però tradito l’essenziale che ne stabilisce l’essere: l’originario rappresentato dall’intenzionalità agente. In qualche modo, questi racconti necessitano di una sconfessione ermeneutica, per l’appunto, richiedono di essere distanziati da un pensiero sul male, il quale, in Ricœur, sembra prospettarsi in maniera precisa, seppur celato da un’aporetica. Veniamo alla descrizione della dinamica:
il ciclo dei miti può essere paragonato a uno spazio di gravitazione nel quale alcune masse si attraggono o si respingono a varia distanza. Visto a partire dal mito adamitico, lo spazio determinato dai miti presenta infatti una struttura concentrica che pone il mito tragico più vicino al mito adamitico e il mito dell’anima esiliata più lontano.93
Facciamo attenzione: il mito orfico dell’anima esiliata si pone a distanza dal mito adamitico — scopriamo emblematicamente — per aver trascurato la dimensione basilare del me94 intenzionale, nell’ottica della genesi e della passività del male. In effetti, il male si identificava nella macchia involontaria del corpo, procurando così una discolpa utile alla spiritualità tensiva dell’anima. Al contrario, il mito tragico, nonostante quelle componenti strutturali, narrative e contenutistiche che ne distinguono il genere dalla mitologia di stampo biblico, sul versante esistenziale, esso si accosta incredibilmente al mito della caduta. La motivazione è presto rintracciabile: «il mito tragico in particolare è depositario di questo Ineluttabile implicito nell’esercizio della libertà»,95 che nel mito adamitico viene detto attraverso le figure simboliche, esteriori a quella di Adamo. In sostanza, il male è una sorta di destino interno alla libertà fallibile e Ricœur ha confermato ancora di più l’estensione complessa del concetto di colpa all’orizzonte ontologico, in un’affermazione per noi decisiva:
Tutti questi aspetti del destino impliciti nella libertà e non a lei contrapposti, sono sentiti necessariamente come colpa. Sono io che provoco l’Ineluttabile, in me e fuori di me, sviluppando la mia esistenza. Non è più una colpa in senso etico, ma in senso esistenziale: divenire se stessi significa realizzare la totalità, che tuttavia rimane il fine, il sogno, l’orizzonte e che è indicata nell’Idea della felicità. Poiché il destino appartiene alla libertà come la parte non scelta di tutte le nostre scelte, sarà sentito come colpa.96
Se la difesa dell’originaria benevolenza dell’atto riproduce il risultato filosofico che ha distinto la produzione esistenzialistica ricœuriana, notoriamente impegnata in una rivalutazione speculativa della finitezza, secondo uno sguardo più analitico, è stato necessario circoscrivere entro certi limiti la portata effettiva del riscatto filosofico, poiché la concezione tendenzialmente ottimistica che ne emerge, non può servire in alcun modo ad indicare l’idea di una libertà immune dal peso del male e assolutamente libera di realizzare il bene. Ricœur ne era pienamente consapevole, avendo chiarito, mediante il supporto linguistico di una simbolica, che la capacità del bene risulta inefficace contro il riemergere costante del sentimento della propria lacerazione (Malheur). In seno al metodo del circolo ermeneutico, si è tentato di documentare come tutto il dominio simbolico afferente all’idea del tragico, risponda ai criteri che definiscono meglio un’antropologia, accostandosi semanticamente al dominio più evoluto della colpa e allontanandosi da quello più arcaico della macchia esteriore; il filosofo francese ha così confermato la natura del mistero e insieme disposto la costatazione dell’aporetica alla sua corretta interpretazione: la certa schiavitù dal male non può sfuggire al contesto dell’azione libera, esattamente in senso contrario a quanto proposto dalle produzioni gnostiche e teodiche. Ciò significa che, nella globalità del pensiero antropologico ricœuriano, la tensione costitutiva del soggetto non è mai del tutto neutrale, ma è rappresentativa in senso dialettico di un’attitudine originaria al bene e di un’inclinazione al male altrettanto originaria. Giunti al termine della nostra particolare lettura, possiamo concludere in una formula che la stessa condizione di possibilità del male — lo schematismo neutro che compone il nostro agire — designa l’unica realtà possibile di questo male che siamo costretti a subire, oltre ad esser l’unica condizione possibile di questo bene di cui siamo capaci. Tale è il pensiero, quasi gnostico, che è emerso dall’aporetica e dall’antropologia della fallibilità di Paul Ricœur.
Quasi gnostico, in quanto la demitologizzazione del discorso simbolico-mitologico, inclusa la critica alla teologia della gnosi, non ha offerto una soluzione assolutamente alternativa, ma come si può evincere dalle pagine introduttive della Simbolica del male, l’ordine riflessivo del filosofico, ha dovuto ripetere,97 secondo il criterio della verità, quella medesima teologia e quella medesima base simbolico-mitologica. La filosofia ricœuriana si è lasciata istruire dal suo altro, svolgendo contemporaneamente su di esso un sostanziale intervento teoretico; proprio alla luce del circolo vitale tra il credere e il comprendere, apprezziamo la riconferma speculativa del concetto tipicamente protestante del servo arbitrio: lo javhista nel mito adamitico, S. Paolo, S. Agostino e Kant, termini principali di confronto e ponti di collegamento concettuali con la dottrina luterana, hanno rappresentato quelle fonti utili per dispiegare la verità antropologico-paradossale di un agire libero che nasconde un subire; questa è infine una verità teologale, riconfermata dall’ermeneuta in qualità di autentico filosofo riflessivo, quindi ancora con mezzi razionali, non certo in base ad un semplice atto di fede.98
-
Cfr., P. Ricœur, La simbolica del male interpretata, in P. Ricœur, Il conflitto delle interpretazioni, tr. it. di R. Balzarotti, F. Botturi, G. Colombo, introduzione di A. Rigobello, Jaca Book, Milano 2007, pp. 285-380. ↩︎
-
P. Ricœur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, tr. it. di I. Bertoletti, Morcelliana, Brescia 1993, p. 46. ↩︎
-
Cfr., P. Ricœur, Finitudine e colpa, tr. it. di M. Girardet, introduzione di V. Melchiorre, Il Mulino, Milano 1970. L’attenzione per l’uomo è il tema di fondo della filosofia ricœuriana; Finitudine e colpa, ma ancor prima Il volontario e il volontario, hanno rappresentato l’esordio letterario per ciò che concerne la disciplina antropologica, le cui tematiche però, si sono sempre ripetute e sviluppate in tutte le opere successive. Ad esempio, nella prima parte di Sé come un altro (1990), vi è l’elaborazione di un’antropologia delle capacità, arricchita sul modello di quella del ’60. ↩︎
-
A proposito di Lavelle, Rossi sintetizza così: il male «“non risiede affatto nel dolore” ma “unicamente nella volontà”» (F. Rossi, Le figure del male e della sofferenza nella filosofia francese del novecento, Franco Angeli, Milano 2010, p. 29). ↩︎
-
Rossi, nel primo capitolo dell’opera di Lavelle, nota un linguaggio disorientante rispetto al progetto effettivo: da una parte il dolore non può essere male, ma dall’altra viene anche definito «un male sentito vivamente, che noi siamo costretti a subire» (Ivi, cit. p. 28). In definitiva, l’intenzione forte contro l’invincibilità del male, finisce per tradire la restituzione della realtà ontologica, che nel testo di Lavelle, incappa in una contraddizione (Cfr., Ibidem). ↩︎
-
Cfr. L. Lavelle, Le mal et la souffrance, Dominique Martin, Bouère 2000, p. 31. La posizione forte di Lavelle implica che la distinzione del bene e del male sia inseparabile dall’avvento della coscienza. ↩︎
-
P. Ricœur, L’uomo fallibile, in Finitudine e colpa, cit., p. 237. ↩︎
-
Cfr., Ibidem. ↩︎
-
La logica della filiazione genealogica è presto detta: «Assoluto plurale che è questo male dell’assurdo stesso di cui lo scandalo è la conseguenza» (V. Jankélévitch, Il Male, tr. it. di F. Canepa, Marietti, Milano 2003, p. 20). ↩︎
-
Se nel primo orientamento, la distinzione del bene e del male sembra essere inseparabile dall’avvento della coscienza, Jankélévitch ricorda che la sfera dell’ingiustificabile è ancora percepita dall’uomo come un male, aggiungendo inoltre che questa specifica valutazione, poiché resta misteriosa, non segue affatto dalla coscienza. Anteriormente ad ogni azione malvagia, sussiste un’ingiustificabile essenza malvagia, la quale, se non esplicitamente e concretamente un male, costituisce, in realtà, la ragione profonda dell’intenzione del male. ↩︎
-
Nonostante Jankélévitch ravvisi nella confusione «la prima assurdità costitutiva iscritta nella propria condizione umana» (V. Jankélévitch, Il Male, cit., p. 11), egli infine giunge alla conclusione che il male evidente «“letteralmente esiste nelle nostre intenzioni, in una certa maniera di prendere la vita o di guardare le cose”, sicché “l’unico male è la volontà del male”, o meglio la “cattiva volontà”» (F. Rossi, Le figure del male nella filosofia francese del novecento, cit., p. 63). ↩︎
-
«Il male è ad un tempo “posto” ora ed è sempre già là: cominciare è continuare» (P. Ricœur, Finitudine e colpa, cit., pp. 413-414). ↩︎
-
J. Nabert, Saggio sul male, tr. it. di F. Rossi, La Garangola, Padova 1974, p. 49. Ricœur ha dichiarato che la lettura del testo di Nabert rappresenta una vera prova del fuoco per la filosofia, costretta a salvarsi con difficoltà dalla sistematica metafisica: «Ce qui fait le prix de cet Essai sur le mal, c’est qu’il est mené à la façon d’une épreuve par le feu, à travers quoi la philosophie doit se sauver à grand peine et à grand frais» (P. Ricœur, Lectures 2, Éditions de Seuil, Paris 1992, p. 237). ↩︎
-
Cfr. J. Nabert, Saggio sul male, cit., p. 39. V. anche, F. Rossi, Op, cit., pp.15-16. ↩︎
-
J. Nabert, Saggio sul male, cit., p. 38. ↩︎
-
P. Ricœur, Finitudine e colpa, cit., p. 73. ↩︎
-
P. Ricœur, Finitudine e colpa, cit., pp. 238-239. ↩︎
-
Cfr., P. Ricœur, Finitudine e colpa, cit., p. 57. ↩︎
-
L’antropologia degli anni ’60 è derivata certamente dallo studio analitico e critico che Ricœur compie a cavallo tra anni ’40 e ’50, nelle Università di Strasburgo e Parigi, della scienza fenomenologica di Husserl, di cui egli traduce alcuni scritti inediti in Francia. Se della fenomenologia è possibile salvaguardare alcuni principi, altri, come ad esempio la deriva egologica ed idealistica che segue il suo trascendentalismo, devono essere assolutamente ripensati. Di certo però, il tema dell’intenzionalità, quale elemento originario dell’esistenza, resta un presupposto cardine per il pensiero riflessivo, anche ricœuriano, il quale, non a caso, si è reso artefice di un progetto sia eretico che ortodosso di fenomenologia ermeneutica: secondo tale sviluppo, il primato dell’intenzione non conduce affatto ad un’epocheizzazione del mondo, ma all’ammissione del sostrato del mondo stesso, luogo ed oggetto di questo agire originario. In altre parole, per Ricœur, l’Io della fenomenologia è l’io della sproporzione, il quale, attingendo costantemente ad altro da sé, è impegnato in una continua riduzione interpretativa, non costitutiva, sia del mondo che di se stesso. ↩︎
-
Ivi, cit., p. 230. ↩︎
-
Cfr. ivi, cit., pp. 75-85. ↩︎
-
È principalmente da Cartesio che Ricœur ha desunto la logica dell’intermediario: «Che io sono come un termine medio tra Dio e il nulla, ossia situato in tal guisa tra l’essere sommo e il non essere che in quanto sono stato prodotto de un Ente sommo non vi è nulla che in me possa trarmi in errore, ma in quanto partecipo in qualche modo al nulla o al non essere, vale a dire in quanto non sono io l’essere sommo, sono soggetto a mille errori, sì che non devo stupirmi se mi inganno […], ma accade che io erri solo perché non è infinita la facoltà, che ho da Dio, di giudicare correttamente» (Cartesio, Meditazioni metafisiche, tr. it. di S. Landucci, Laterza, Bari 1997, p. 89). ↩︎
-
Il linguaggio che localizza e fissa entro una posizione statica le possibilità umane, è ciò che per Ricœur ha impedito ad un’antropologia di prescindere da un tono, per così dire, patetico. Pascal, nei Pensieri, ha sostenuto giustappunto che l’uomo «è un luogo tra il nulla e il tutto, infinitamente lontano dal comprendere gli estremi. Il fine e il principio delle cose gli sono inesorabilmente nascosti da un segreto impenetrabile» (B. Pascal, Pensieri, tr. it. di B. Nacci, Garzanti, Milano 2002, framm. 185, p. 76). ↩︎
-
P. Ricœur, Finitudine e colpa, cit., p. 73. ↩︎
-
Per la sua antropologia Ricœur ha optato per alcune categorie classiche, tutte riassumibili dalla nota formula di Nabert desiderio d’essere e sforzo d’esistere: l’eros platonico, la dynamis aristotelica, il conatus spinoziano e l’appetizione leibniziana. ↩︎
-
Ivi, cit., p. 235. ↩︎
-
Cfr. ivi, cit., p. 234. ↩︎
-
Ivi, cit., p. 130. ↩︎
-
Ivi, cit., p. 240. ↩︎
-
Ivi, cit., p. 230. ↩︎
-
Ivi, cit., p. 173. ↩︎
-
Cfr. ivi, cit., p. 235. ↩︎
-
Cfr. ivi, cit., p. 238. ↩︎
-
Ivi, cit., p. 396. ↩︎
-
Quanto alla lettura della critica di Ricœur all’etica farisaica attraverso il medio della predicazione paolina, Maurizio Cinquetti ha confermato che la carne «non è all’origine dell’agire peccaminoso, ma è — appunto — la scoperta a cui si perviene nel momento in cui si confida troppo nella propria libertà» (M. Cinquetti, Ricœur e il male. Una sfida per pensare più e altrimenti, Seneca Edizioni, Torino 2005, p. 38). ↩︎
-
P. Ricœur, La simbolica del male, cit., p. 399. ↩︎
-
Cfr. ivi, cit., p. 237. ↩︎
-
«L’originario è […] l’originale, il modello, il paradigma, a partire dal quale io posso generare tutti i mali, per una sorta di pseudo genesi; l’uomo può essere malvagio solo lungo le linee di forza o di debolezza delle sue funzioni e della sua destinazione» (Ivi, cit., p. 239). ↩︎
-
Ricouer ha individuato in Bergson un interlocutore per poter introdurre i limiti interni alla prospettiva trascendentale. La definizione bergsoniana di ombra virtuale del reale è citata da Ricœur poiché, in definitiva, l’ordine della possibilità non esclude affatto il piano della realtà. (Cfr., Ibidem). ↩︎
-
Ivi, cit., pp. 239-240. ↩︎
-
Ivi, cit., p. 236. ↩︎
-
Cfr. ivi, cit., pp. 124-126. L’idea di totalità è l’oggetto sperato e separato dell’intenzione teleologica. Nel momento in cui il soggetto pensa o agisce, distanzia da sé e avvicina a sé un’ideale di completezza gnoseologica ed etica, coerentemente al suo carattere finito, limitato. ↩︎
-
P. Ricœur, Il volontario e l’involontario, p. 439. Il patetico della miseria non può abbandonare l’antropologia di Ricœur, seppur essa sia fondata sul dinamismo dell’essere. Sembra confermarlo anche Daniella Iannotta nel saggio Dalla colpa alla sofferenza. L’itinerario del male in Paul Ricœur, in cui l’autrice si interroga sui tratti distintivi dell’uomo ricœuriano: «Irrequieto e sovente lacerato […], è una siffatta sproporzione tra razionalità e sensibilità sia sul piano gnoseologico che su quello affettivo. Nello squilibrio di queste strutture si gioca e si consuma il paradosso «della libertà e della natura». In definitiva, la libertà di fare il male, che, essendo «già là», rende la scelta quasi inevitabile, affezione dell’agire e sua complicanza. È lo stadio del «patetico della miseria», dove il pathos non soltanto indica il sentimento della sproporzione, ma anche la tensione verso il suo superamento» (D. Iannotta, Dalla colpa alla sofferenza. L’itinerario del male in Paul Ricœur, in AA. VV. Il male, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. 19). Il patetico della miseria caratterizza anche la tensione del superamento, poiché la gioia che realizza la tensione non è infinita in senso compiuto, ma infinita in senso incompiuto; si tratta di una gioia labile, già e sempre pronta a scadere nella tristezza. ↩︎
-
La fenomenologia del male compiuta da Ricœur, come già detto, è coincisa con la rassegna di saggi raccolti ne Il Conflitto delle interpretazioni, con il titolo di La simbolica del male interpretata, e poi con la piccola opera Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia. ↩︎
-
P. Ricœur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, cit., pp. 23-24. ↩︎
-
Cfr., P. Ricœur, Il «peccato originale»: studio di significato, in P. Ricœur, Il conflitto delle interpretazioni, cit., p. 289. ↩︎
-
È interessante riportare le considerazioni di Jankélévitch sul dualismo manicheo, contrarie all’idea che il dualismo gnostico avanzi necessariamente un tono di angoscia esistenziale: «Egli ravvisa nella teoria manichea una forma di «ottimismo nel pessimismo», che in antitesi al «pessimismo nell’ottimismo» di Leibniz (ottimismo per l’insieme e pessimismo per le parti), «eleva il male a principio radicale», sollevando le coscienze dal peso della malvagità» (Cfr., F. Rossi, Figure del male e della sofferenza nella filosofia francese del novecento, cit., p. 105). Ciò nonostante, sappiamo come Jankélévitch abbia rivendicato proprio la complessità del male dell’assurdo, intersecato al male dello scandalo o della colpa; perciò egli è stato ugualmente critico nei confronti della gnosi, quale forma di teodicea che ha inteso risolvere il male sollevando un peso in realtà ineliminabile. Rossi ha riportato dal saggio di Jankélévitch: «L’essenza del male si concentra nell’istante preciso, arbitrario, accidentale della colpa; e come la caduta è causata, all’origine, dalla prima affermazione spontanea del volere, così quel volere da sempre vulcanico resta in noi un focolaio persistente di confusione e di innovazioni malvagie» (Cfr. ivi, cit., p. 106). ↩︎
-
P. Ricœur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, cit., p. 18. ↩︎
-
«Così Agostino può dire, nel Contra Secundinum, che il male è «inclinazione di ciò che ha più essere verso ciò che ha meno essere» (inclinat ab … ad); o ancora: «venir meno (deficere) non è essere già nulla, ma è tendere verso il nulla»» (P. Ricœur, Il «peccato originale»: studio di significato, in Il conflitto delle interpretazioni, cit., p. 290). ↩︎
-
P. Ricœur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, cit., p. 25. ↩︎
-
Cfr. ivi, cit., p. 291. V. anche, Agostino, Confessioni, a cura di Luigi Alici, SEI, Torino 1992, VII, pp. 179-217. ↩︎
-
P. Ricœur, Il «peccato originale»: studio di significato, cit., p. 295. Le implicazioni della ontoteologia agostiniana con la dottrina luterana, si possono comprendere meglio, proprio alla luce di questa particolare disamina compiuta da Ricœur: «Nessuno sa perché Dio fa grazia a questo o a quello e non a quell’altro. All’opposto, non c’è mistero della riprovazione: l’elezione è per grazia, la perdizione è per diritto, ed è per giustificare questa condanna di diritto che Agostino ha costituito l’idea di una colpa di natura, ereditaria dal primo uomo, come un atto e punibile come un crimine» (Ivi, cit., pp. 296-297). ↩︎
-
P. Ricœur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, cit., p. 28. ↩︎
-
In virtù di queste contraddizioni, si ridimensiona la forza della teodicea settecentesca. Stefano Brogi, in I filosofi e il male, ha difeso la teoria per cui «Malebranche e Leibniz rappresentano il canto del cigno dell’epoca delle teodicee» (S. Brogi, I filosofi e il male, Franco Angeli, Milano 2006, p. 64). Ha aggiunto inoltre che i loro sistemi sono stati preceduti dalle loro confutazioni: ancor prima di Leibniz, vi è Spinoza e la sua critica spietata all’antropomorfismo applicato alla divinità. Così, «Leibniz può considerarsi, col tentativo titanico di impedire il naufragio della teodicea ed in generale della metafisica moderna, un pensatore tragico. Tragico perché afferma che il nostro mondo così imperfetto è quanto di meglio fosse in potere di Dio; perché sembra compromettere, al tempo stesso, la bontà e la libertà divine; perché la sua logica così stringente si rivelerà non solo poco persuasiva, ma di fatto controproducente, finendo per rendere più trasparenti le contraddizioni a lungo rimaste celate nelle teodicee tradizionali» (Ibidem). ↩︎
-
Cfr., P. Ricœur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, cit., p. 31. ↩︎
-
Ivi, cit., p. 32. V. anche, P. Ricœur, L’offuscamento della riflessione e il ritorno del tragico, in Il conflitto delle interpretazioni, cit., pp. 322-323. ↩︎
-
Cfr., S. Brogi, I filosofi e il male, cit., p. 114. ↩︎
-
P. Ricœur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, cit., p. 34. ↩︎
-
Ivi, cit., pp. 33-34. Roncoroni, nell’introduzione al testo di Kant, così ha sintetizzato in merito alla teoria kantiana del male radicale: «La possibilità che l’uomo sia cattivo dipende dal fatto che egli assume come principio di determinazione della propria azione una massima contraria alla legge morale e ciò dipende in ultima istanza proprio da quell’arbitrio che è il «fondamento soggettivo dell’uso della libertà», che è e resta un fattore imprevedibile e incalcolabile, in quanto ultimativamente insondabile (Unerforschlich)» (Cfr., M. Roncoroni, La religione entro i limiti della semplice ragione: riflessioni per una critica e un’esegesi storico-filosofica dell’opera kantiana, in I. Kant, La religione entro i limiti della semplice ragione, tr. it, di V. Cicero, Rusconi, Milano 1996, p. 19). L’uomo ne è responsabile, perché, seppur il male non appartiene alla ragione dell’uomo che non lo sa dire, il male appartiene al libero arbitrio dell’uomo. Il soggetto patisce e agisce male, poiché quest’ultimo è intimior intimo homine: la facoltà del poter scegliere male è innata, un principio di natura insondabile che, contrariamente alle conclusioni di Agostino, ha per Kant un’origine metastorica. ↩︎
-
P. Ricœur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, cit., p. 34. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ibidem. V. anche, I. Kant, L’origine del male nella natura umana, in La religione entro i limiti della semplice ragione, cit., pp. 117-127. ↩︎
-
Ivi, cit., p. 111. ↩︎
-
Ivi, cit., p. 113. «In ogni caso, però, è necessario che tale tendenza possa essere vinta, giacché essa si presenta nell’uomo in quanto essere che agisce liberamente» (Ibidem). Si tratta di una tendenza invincibile, ma contrastabile, in quanto appartenente al contesto del libero arbitrio. Non a caso, Kant ha rivelato come in esso si attesti un altrettanto originaria predisposizione al bene. ↩︎
-
La moralità rappresenta il criterio di ragione entro cui la religione deve essere interpretata, secondo Kant. L’atteggiamento ermeneutico del filosofo tedesco, nella misura in cui è circoscritto ai limiti della ragione, intende l’appello al simbolo come un bisogno della ragione stessa di comunicare ciò che non è capace di spiegare. L’ermeneutica, sottintende un atteggiamento d’ascolto, di attenzione, non solo di critica. «L’elemento storico rivelato della tradizione cristiana, in quanto interpretato dalla semplice ragione, viene incontro, seppure sul solo piano di una fede razionale riflettente, alla difettività teoretica, ma anche pratica, della ragione umana di dar conto del male radicale e di porvi rimedio» (M. Roncoroni, La religione entro i limiti della semplice ragione: riflessioni per una critica e un’esegesi storico-filosofica dell’opera kantiana, cit., p. 9). Ciclicamente, l’ascolto necessita poi di un intervento di ragione; Kant ha proposto la sua personale visione ragionata del mito adamitico, i cui capisaldi sono stati essenzialmente riconfermati dall’interpretazione di Ricœur ne La simbolica del male (Cfr., I. Kant, La religione entro i limiti della semplice ragione, cit., pp. 121.127). ↩︎
-
Ivi, cit., pp. 112-113. Il corsivo è il nostro. V. anche, Ivi, cit., pp. 91-99. ↩︎
-
Ivi, cit., p. 113. ↩︎
-
P. Ricœur, La simbolica del male, cit., p. 628. ↩︎
-
Cfr. ivi, cit., p. 627. ↩︎
-
Ricœur ha distinto il metodo della demitologizzazione dalla demitizzazione, in virtù del fatto che l’intenzione teoretica della prima restituisce vita al linguaggio mitico, mentre la natura teoretica della seconda consta di una finalità esattamente opposta. La svolta ermeneutica che il pensiero riflessivo moderno ha vissuto si è fondata sulla netta separazione del mito dalla storia; tuttavia, egli ha aggiunto con la particolarità del suo pensiero riflessivo: sebbene «occorre che il mito non sia né storia accaduta in un tempo e in un luogo determinati, né spiegazione» (Ivi, cit., p. 423), il mito dà a pensare, poiché concentra in sé la funzione sovrasignificante del senso. Paradossalmente, il mito ha più senso, o più peso, di una storia vera; esso rappresenta il linguaggio originario da cui è possibile un’apertura ermeneutica per una continua scoperta di noi stessi. Tutto è stato già detto nella forma del mito; ecco perché la filosofia, per cominciare, è costretta a volgere lo sguardo dietro di sé, precisamente verso un linguaggio altro. Per approfondire il tema della demitologizzazione, il saggio intitolato Prefazione a Bultmann risulta essere un ottimo strumento (Cfr., P. Ricœur, Prefazione a Bultmann, in Il conflitto delle interpretazioni, cit., pp. 393-413). ↩︎
-
«Il linguaggio del mito e quello della speculazione sono riassunzioni di secondo e di terzo grado» (P. Ricœur, La simbolica del male, cit., p. 251), rispetto alla prima fonte rappresentata dal linguaggio primitivo dei simboli. ↩︎
-
«Il simbolo è il movimento a partire dal senso primario che fa partecipare al senso latente e così ci assimila al simboleggiato, senza che noi possiamo dominare intellettualmente la similitudine» (Ivi, cit., p. 261). ↩︎
-
Cfr. ivi, cit., pp. 623-634. ↩︎
-
Quanto a questa tensività interna al mito, rispecchiante la teleologia dell’uomo, possiamo ad esempio ribadire i limiti dell’interpretazione agostiniana del mito adamitico, eccessivamente concentrata sulla storicità del primo evento peccaminoso, il peccato originale, divenuto un evento insuperabile, che blocca entro una concezione tendenzialmente misera il moto antropologico della speranza. Ricœur ha notato come, al contrario, l’interpretazione paolina del mito, spostando l’accento dalla storicità dell’evento al simbolismo de l’ideal-tipo, abbia permesso anche una migliore restituzione della dinamica antropologica; infatti, se Adamo è il tipo, non il primo uomo storico, del vecchio uomo, l’evento, ovvero la venuta di Cristo, ha svolto la funzione simbolica del secondo Adamo, su cui confluisce l’attesa della rigenerazione: «L’apostolo — ha affermato Ricœur — non si limita a confrontarle e ad opporle: «come dunque per la colpa di uno solo si è riservata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riserva su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita» (Rom. 5, 18)» (P. Ricœur, La simbolica del male interpretata, in P. Ricœur, Il conflitto delle interpretazioni, cit., p. 326). ↩︎
-
P. Ricœur, La simbolica del male, cit., p. 421. ↩︎
-
Maurizio Chiodi, nel suo magistrale lavoro di sintesi critica della produzione filosofica di Paul Ricœur fino agli anni ’90, riassumendo nel concetto di servo arbitrio il fulcro dell’opera La simbolica del male, ha mostrato anch’egli la profonda compenetrazione, non la separazione, che sussiste tra l’agire e l’essere, nel processo di generazione del male. «L’identificazione di un atto e di uno stato ci permette di spiegare meglio l’enigma del concetto di servo arbitrio: esso è un atto dell’uomo, perché l’atto di legare viene dall’uomo stesso, ed è precisamente l’atto di legare se stessi, ed è anche uno stato, perché questo stesso atto si tramuta in stato, cioè in una situazione subita, in servitù. Il servo arbitrio è la situazione voluta dell’atto dell’uomo» (M. Chiodi, Il cammino della libertà. Fenomenologia, ermeneutica, ontologia della libertà nella ricerca filosofica di Paul Ricœur, Morcelliana, Brescia 1990, p. 181). ↩︎
-
Ivi, cit., p. 282. ↩︎
-
Ivi, cit., p. 298. ↩︎
-
Il peccato, dal punto di vista di Dio, assume i caratteri di una realtà positiva: «il peccatore è nel peccato […]; il peccato è così un male «nel quale» l’uomo è preso, per quanto «interno» al cuore dell’uomo sia il principio di questa schiavitù, essa costituisce infatti una situazione avvolgente, una specie di trappola in cui l’uomo è preso; qualcosa del contatto impuro è così rimasto in questa idea della cattività del peccato» (Ivi, cit., p. 345). ↩︎
-
Cfr. ivi, cit., p. 353. ↩︎
-
Ivi, cit. 354. ↩︎
-
Ivi, cit., p. 414. ↩︎
-
«Infettare non è distruggere, offuscare non è devastare. Il simbolo punta qui verso il rapporto del male radicale con l’essere dell’uomo, con la sua destinazione originaria; vuol dire che il male, anche positivo, anche potere di seduzione, per quanto colpisca in effetti non potrà mai fare dell’uomo qualcosa di diverso dall’uomo; l’infezione non può essere una defezione, nel senso che le disposizioni e le funzioni che fanno l’umanità dell’uomo siano disfatte, distrutte al punto di produrre un’altra realtà diversa dalla realtà umana» (Ivi, cit., p. 414). ↩︎
-
Se Prometeo non è ancora un uomo, egli è un titano che rappresenta l’umanità dell’uomo (Cfr. ivi, cit., p. 486). Nella mitologia orfica, la congruenza tra l’uomo e il titano è perfettamente restituita attraverso un racconto antropogonico: l’uomo si sarebbe generato dalle ceneri dei titani e da quelle di Dioniso. ↩︎
-
Ivi, cit., p. 497. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Cfr. ivi, cit., p. 505. ↩︎
-
Cfr. ivi, cit., p. 516. ↩︎
-
Ivi, cit., p. 518. ↩︎
-
Ivi, cit., p. 527. ↩︎
-
Ivi, cit., p. 523. ↩︎
-
Ivi, cit., p. 527. ↩︎
-
Ivi, cit., p. 583. ↩︎
-
Cfr. ivi, cit., p. 606. ↩︎
-
Ivi, cit., p. 585. ↩︎
-
Ivi, cit., p. 586. ↩︎
-
Ivi, cit., p. 247. ↩︎
-
Nel testo intervista del 1995, La critica e la convinzione, Ricœur ha affermato a proposito della fede: si tratta di un «caso trasformato in destino, attraverso una scelta continua» (P. Ricœur, La critica e la convinzione. A colloquio con François Azouvie e Marc de Launay, tr. it. di D. Iannotta, Jaca Book, Milano, p. 204). Nell’alternanza dialettica tra l’elemento del destino e quello della scelta, vi rientra l’oscillazione ciclica che sussiste tra filosofia e fede. Più volte, l’autore francese, nell’arco della sua vita accademica, ha stabilito fermamente la sua essenziale natura di filosofo, ma la religione è rimasta il destino della sua filosofia. Egli ha perciò lasciato in eredità uno stile analitico che ha saputo coniugare ricerca teoretico-pura con l’esegesi biblica. La sottolineatura delle categorie principali del finito e della colpa, dimostrano anche e non solo l’appartenenza casuale di Ricœur ad una cultura ben precisa, quella cristiana nel suo orientamento protestante, la cui scelta, però, non è stata altrettanto casuale, ma giustificata secondo i canoni filosofici. La filosofia e la religione ottengono la comprensione di se stesse dalla comprensione del loro altro, limitando i loro vizi di fondo: da una parte, l’iper-criticismo del dubbio metodico e dall’altra l’ipostatizzazione del teologale sul piano dell’assoluto e del totale. Entro l’ottica ermeneutica del circolo, Ricœur ha proposto un cristianesimo quasi gnostico, un «cristianesimo da filosofo» (Cfr. ivi, cit., p. 213). ↩︎