Non può esservi alcun dubbio sul fatto che Freud considerasse la propria creatura teorica, la psicoanalisi, come una disciplina scientifica in senso stretto. Freud rifiutò apertamente di considerare la psicoanalisi come una Geisteswissenschaft e, ancora nel tardo Compendio, poteva scrivere: «La concezione […] secondo cui lo psichico è in sé inconscio ha permesso di sviluppare la psicologia fino a farne una scienza naturale come tutte le altre» (Freud, 1938, p. 585). Un simile asserto implica addirittura che tutta la psicologia in senso lato dovrebbe il proprio statuto scientifico alla psicoanalisi.
È probabile che un simile atteggiamento sia del resto inquadrabile in una generale diffidenza nei confronti della filosofia, che sempre caratterizzò Freud. Egli spesso evitò accuratamente di menzionare filosofi che aveva ampiamente utilizzato e addirittura parafrasato senza citare la fonte (tipico è il caso di Schopenhauer; Assoun, 1976); o all’inverso dichiarò espressamente di non voler leggere pensatori dai quali rischiava di essere fortemente influenzato (come Nietzsche; Assoun, 1980; Innamorati, 1998). Lo stesso tipo di atteggiamento fu del resto a lungo condiviso dalla maggior parte degli analisti, inducendo del resto un analogo distacco da parte dei filosofi). Scriveva Roger Money-Kyrle negli anni cinquanta: «Naturalmente ci sono sempre state eccezioni, ma, nell’insieme, i filosofi, posto che prendessero in considerazione la psicoanalisi, qualificavano i suoi concetti vaghi e auto-contraddittori. E gli analisti rispondevano considerando la filosofia, o almeno la filosofia classica, come un sintomo della nevrosi ossessiva» (1956).
Freud si era, in verità, concesso alcuni voli pindarici nel campo della speculazione pura, soprattutto con la teoria antropologica dell’orda primitiva in Totem e tabù (1912-1913) e con la teoria dell’istinto di morte in Al di là del principio del piacere (1920). Tutto il lavoro della cosiddetta Ego psychology, tuttavia, era stato rivolto a modellare il lascito freudiano nella direzione della massima accettabilità scientifica (e tale corrente, compattandosi intorno alla figura di Heinz Hartmann, era divenuta in vero mainstream della psicoanalisi). Quando però si concretizzò la prima vera possibilità di un dialogo tra psicoanalisti ed epistemologi, nel corso di un famoso convegno di New York del 1958 (Hook, 1959), le tranquille certezze di Hartmann e colleghi entrarono in crisi. Sotto il fuoco delle critiche di Ernest Nagel (1959) e altri illustri colleghi, la psicoanalisi dimostrava di non rispettare i criteri imposti dal neopositivismo logico (allora il verbo dell’epistemologia) per rientrare nel novero delle vere scienze. Nuove difficoltà, nella prospettiva di una diversa epistemologia, divengono universalmente note dopo la traduzione inglese della Logica della scoperta scientifica di Karl Popper (1959). Dopo un maldestro tentativo di ridare dignità scientifica alla metapsicologia freudiana ridefinendone la struttura in modo più rigoroso affidato al più brillante allievo di Hartmann, ovvero Davi Rapaport (1959), la psicoanalisi si avvia verso una crisi epistemologica destinata a durare a lungo, nonostante tale crisi non comportasse a breve termine soverchie conseguenze sul piano del successo «di mercato». Per un paradosso storico, peraltro, anche il primato del neopositivismo logico nella filosofia della scienza stava per tramontare, sotto la spinta, oltre che di Popper, di autori come Hanson (1958), Polanyi (1958), Toulmin (1961) e soprattutto Kuhn (1962).
È in questa temperie che si inseriscono i tentativi di rilettura del freudismo in chiave ermeneutica, operati in prima battuta da filosofi (Ricœur e Habermas in prima fila), ma ben presto assecondati da una lunga schiera di analisti, guidati da Roy Schafer, a sua volta uno dei più importanti esponenti della scuola di Rapaport. Si deve osservare che, sin dall’inizio, gli intenti e le prospettive risultano assai divergenti; tanto da indurre chi ha proposto analisi storico-teoriche a distinguere, per esempio, tra «ermeneutica 1» e «ermeneutica 2» (Phillips, 1991) o tra «ermeneutica» ed «ermeneuticismo» (Strenger, 1991).
Gli analisti sembravano — almeno all’inizio — interessati soprattutto a un’operazione pragmatica: quella di ripartire dall’esperienza pratica e dalla scoperta di contenuti mentali inconsci da parte di Freud per costruire una teoria clinica della psicoanalisi (Schafer, 1976; Gill, 1976). Mettendo tra parentesi la metapsicologia, Schafer e altri scoprirono infine che la possibilità di «retelling a life» dell’esperienza psicoanalitica è ciò che ne fonda il valore soggettivo per il paziente (Schafer, 1982); e non tardò ad emergere che il valore narrativo del racconto esistenziale non è necessariamente fondato su una pretesa verità storica, ma sottende inevitabilmente un circolo ermeneutico (Spence, 1982). Si potrebbe affermare in questo senso, che il processo che porta alla revisione teorica dall’interno del movimento psicoanalitico è un processo bottom-up.
La rilettura del freudismo operata da Ricœur e Habermas è invece di tipo top-down. Habermas (1968) opera una riscrittura dei fondamenti della psicoanalisi, arrivando ad affermare che lo stesso Freud sarebbe stato vittima di un «autoinganno scientistico». La psicoanalisi infatti non è secondo Habermas «un processo naturale controllato, bensì, al livello dell’intersoggettività colloquiale tra medico e paziente, è un movimento dell’autoriflessione» (Habermas, 1968, p. 244). Che la psicoanalisi sia un movimento dell’autoriflessione sarebbe già implicito nel testo di Ricordare, ripetere, rielaborare (Freud, 1914), anche se Freud sarebbe rimasto ancorato ad un repertorio terminologico legato all’originaria idea della terapia per abreazione e condiviso con Breuer. Solo l’uso di una tale terminologia inappropriata farebbe scadere Freud «dal livello dell’autoriflessione […] al positivismo contemporaneo» (Habermas, 1968, p. 245). Inoltre la terapia psicoanalitica «non poggia […] su un utilizzo dei nessi causali noti, essa deve piuttosto la sua efficacia al superamento [Aufhebung] dei nessi causali stessi» (Habermas, 1968, p. 264). Il pensiero di Freud sembra divenire, in quest’ottica, una sorta di estrema propaggine della tradizione idealistica, come del resto ha potuto in seguito affermare esplicitamente Odo Marquard: «La psicoanalisi è, dal punto di vista filosofico, la prosecuzione dell’idealismo tedesco, salvo l’impiego di mezzi disincantati» (1981, p. 23).
Ricœur, nel suo scritto più noto sulla psicoanalisi (1965) colloca Freud invece vicino a Marx e Nietzsche in una tendenza che a posteriori qualifica come «scuola del sospetto» (espressione che ha conosciuto vasta eco e fortuna):
Il filosofo educato alla scuola di Cartesio sa che le cose sono dubbie, che non sono come appaiono; ma non dubita che la coscienza non sia come appare a se stessa; in essa, senso e coscienza coincidono: di ciò, dopo Marx, Nietzsche e Freud, noi dubitiamo (Ricœur, 1965, p. 47).
A partire da questi tre pensatori:
La comprensione è un’ermeneutica; cercare il senso non consiste più, d’ora in poi, nel compitare la coscienza del senso, ma nella decifrazione delle espressioni […] Tutti e tre iniziano col sospetto sulle illusioni della coscienza e continuano con l’astuzia della decifrazione, e infine, anziché essere detrattori della «coscienza» mirano alla sua estensione (Ricœur, 1965, pp. 48-49).
In breve: «Nasce con loro un problema nuovo, quello della menzogna come coscienza e della coscienza come menzogna» (Ricœur, 1969, p. 115). La psicoanalisi, «come un’illuminazione sotterranea e una contestazione del nostro parlare» (Ricœur, 1965, p. 53) mira a rivelare il senso della vita simbolica dell’uomo e ad ipotizzare una «semantica del desiderio», strumento che dovrebbe essere utilizzato per una «archeologia del soggetto» (Ricœur, 1965, p. 461): dove è evidente che l’uso di locuzioni così intensamente metaforiche e allusive è volto a sottolineare come il campo psicoanalitico, nella visione ricœuriana, costituisca lo strumento di esplorazione sui generis di un ambito di ricerca altrettanto sui generis e opaco. Secondo Ricœur: «Comprendere il freudismo come un discorso sul soggetto e scoprire che il soggetto non è mai quello che si crede è un’unica impresa» (1965, p. 462). L’aspetto decisivo del contributo di Freud sarebbe da ricercare piuttosto nello smascheramento di false certezze sulla razionalità, che nell’acquisizione di una verità nuova e oggettiva o scientifica: è stato anzi perfino sostenuto che Ricœur abbia dimostrato l’estraneità della psicoanalisi ai metodi della scienza (Jervis, 1967, p. xiii). Dell’interpretazione propone di fatto che gli aspetti propositivi del freudismo siano vitali anzitutto nella sottesa pars destruens. Ricœur è qui tanto radicale, a questo riguardo, da poter affermare: «La tesi che il sogno ha un senso è innanzi tutto una tesi polemica» (Ricœur, 1965, p. 108). Il Freud che sognava una targa di bronzo sulla casa dove aveva per la prima volta spiegato a se stesso il sogno di Irma (il sogno chiave dell’Interpretazione dei sogni) non avrebbe certamente avallato una simile ipotesi. Notevole è anche la circostanza che, come compagni ideali di viaggio di Freud, Ricœur proponga, accanto a ai nomi di Nietzsche e Marx, quelli di Wittgenstein e Bultmann (1965, p. 53): il filosofo che ha costruito la più radicale negazione logica della Metafisica (nel Tractatus) e il primo teologo cristiano che ha proposto di sfrondare la religione dalla mitologia.
L’importanza della pars destruens rispetto alla pars construens viene ribadita da Ricœur nel Conflitto delle interpretazioni, non solo a proposito di Freud, ma anche di Marx e Nietzsche:
La parentela tra questi critici della coscienza «falsa» è clamorosa. Noi però siamo ancora lontani dall’avere assimilato questi tre stati d’accusa in cui vengono messe le evidenze della coscienza in sé, siamo lontani dall’aver integrato in noi stessi questi tre esercizi del sospetto. Siamo ancora troppo attenti alle loro differenze, cioè, in definitiva, ai limiti imposti a questi tre pensatori dai pregiudizi della loro epoca, e siamo soprattutto vittime della scolastica in cui vengono chiusi dai loro epigoni. Marx cioè è relegato nell’economismo marxista e nell’assurda teoria della coscienza-riflesso. Nietzsche viene tirato verso un biologismo se non addirittura verso un’apologia della violenza. Freud è accantonato dalla psichiatria ridicolmente camuffato con un pansessualismo semplicistico (Ricœur, 1969, pp. 163-164).
Adolf Grünbaum, forse il critico più feroce dell’interpretazione ermeneutica della psicoanalisi, ebbe già modo di notare che Ricœur si era già allontanato moltissimo dallo spirito freudiano, già a partire dalla nozione di «semantica del desiderio»:
Nella teoria psicoanalitica, sia i sintomi nevrotici in senso stretto, sia quelli micro nevrotici (ad esempio, il contenuto manifesto dei sogni, i lapsus freudiani, le battute di spirito) sono considerati formazioni di compromesso […], i sintomi sono stati anche tradizionalmente considerati «simboli» del rimosso, ma nel senso niente affatto semantico di formazioni sostitutive che forniscono soddisfazioni o sbocchi sostitutivi» (Grünbaum, 1984, p. 85; corsivi nell’originale).
La critica di Grünbaum si trasforma in ironia sferzante allorché dichiara che «la sua [di Ricœur] ‘semantica del desiderio’ è essa stessa frutto di un errore semantico» (1986, p. 27). Si potrebbe sostenere che la visione di Ricœur possa essere giustificata da una certa riluttanza di Freud a fissare un «codice» interpretativo dei simboli onirici, riluttanza forse legata al potenziale rischio di ricadere nell’ipotesi junghiana dell’inconscio collettivo (cfr. Eco, 1981, pp. 890-91). Tuttavia, come venne notato, il ricorso all’idea di un campo semantico, piuttosto che semiotico, delle manifestazioni dell’inconscio avvicinava già decisamente Ricœur a Jung (Trevi, 1986). È infatti lo psicologo svizzero a sostenere che il simbolo in quanto tale non possa essere interamente esplicitato né verbalizzato (Jung, 1921; Cfr. Trevi, 2012).
In Image and Language in Psychoanalysis, comunque, Ricœur così ancora ribadiva che a suo avviso il carattere semantico del simbolo onirico potesse essere fatto risalire allo stesso Freud: «Il carattere semiotico del sogno sarebbe fondato solidamente se potesse essere dimostrato che il lavoro onirico stesso ponga in essere processi che abbiano loro equivalenti nel funzionamento del linguaggio. Ma Freud sembra fortemente scoraggiare questo assunto» asserendo l’irrazionalità, l’incompletezza, la mancanza di obiettivi di comunicazione linguistica del sogno stesso (Ricœur, 1978, p. 302). Si noti che, inversamente, Grünbaum sostiene che proprio se vi fosse comunicazione ‘linguistica’ vi sarebbe nel sogno una funzione semantica (1988, p. 27) e l’affermazione freudiana che il sogno non voglia dire niente a nessuno (Freud, 1916) possa invece dimostrare la funzione semiotica del sogno stesso.
Di fatto, malgrado l’apparente adesione originaria al modello psicoanalitico classico, Ricœur, si trovò negli anni a manifestare una «crescente insoddisfazione» verso la teoria di Freud (Ricœur, 1988, p. 8). Ricœur manifestò dapprima un interesse verso Kohut, del quale ebbe modo di apprezzare la nozione di Oggetto-sé, che configurava un’importanza dell’altro per la vita umana, assai meno strumentale rispetto all’impostazione freudiana (Ricœur 1986). Infine, egli ebbe anche modo di apprezzare — almeno in parte — la propria strutturale affinità con il discorso junghiano. Occasione di tale svolta fu il dialogo con il gruppo di analisti raccolti intorno a Mario Trevi nel comitato della rivista Metaxú, che culminò in una conferenza romana del 1987 (fondamentale quanto relativamente poco nota) dalla stessa rivista poi pubblicata per la prima volta (Ricœur, 1988).
Qui Ricœur si dice convinto che «la teoria freudiana è discordante con la propria scoperta, e cioè che nella scoperta freudiana c’è più di quanto appaia nel discorso tecnico che Freud propone» (1988, p. 8). Ricœur parte da una concezione dell’essere umano caratterizzato da un’identità narrativa:
Secondo la mia ipotesi finale, la comprensione che ognuno ha di se stesso è narrativa: non posso cogliere me stesso al di fuori del tempo e, dunque, fuori dal racconto; tra ciò che sono e la storia della mia vita c’è un’equivalenza. In questo senso, la dimensione narrativa è costitutiva della comprensione di sé. Essa possiede la duplice caratteristica di essere, ad un tempo, storica e di finzione (Ricœur, 1988, p. 7).
Il filosofo francese parla di finzione perché il racconto, di per sé, perde il carattere dell’oggettività nel momento in cui è possibile narrare la propria vita con diversi ‘intrecci’, da prospettive diverse. Si comprende quindi già il disagio di fronte a una teoria secondo la quale sarebbe possibile ricostruire oggettivamente il passato storico di una persona, come è la teoria freudiana. Conviene qui aprire una parentesi per dimostrare un altro aspetto dell’affinità di Ricœur con Jung, peraltro non colto dal primo. Il momento del definitivo distacco di Jung da Freud si ebbe proprio nel momento in cui il primo rivendicò per la prima volta e pubblicamente il carattere necessariamente euristico di ogni teoria nel campo della psicologia del profondo. Nel suo intervento al Congresso di Monaco del 1913, infatti, Jung ebbe l’ardire di presentare le due teorie già esistenti — quella di Adler e quella di Freud — come ambedue legittime. La diversità era legata al tipo psicologico del teorico (estroverso Freud, introverso Adler). Dal testo dell’intervento Sulla questione dei tipi psicologici (Jung, 1913) potrebbe ricavarsi che le due teorie si applicherebbero ognuna meglio dell’altra, rispettivamente al tipo psicologico di riferimento per il teorico. Nella Psicologia dei processi inconsci, all’inverso Jung (1917) dimostra come un medesimo caso clinico possa essere interpretato, apparentemente, in maniera convincente dal punto di vista di entrambe le teorie. Le stesse azioni possono essere lette sia partendo dal presupposto che (freudianamente) la loro motivazione risieda nella sessualità inconscia rimossa, sia dalla convinzione (adleriana e prima nietzschiana) che il movente di fondo sia sempre la volontà di potenza. A partire dai Tipi psicologici (Jung, 1921), poi il moltiplicarsi dei tipi apre la possibilità di un moltiplicarsi delle teorie dotate di legittimità, possibilità che dal punto di vista quantitativo fu perfino sottovalutata dallo psicologo svizzero.
Avendo posto a fondamento dell’identità umana la dimensione narrativa, Ricœur ridefinisce il contributo della psicoanalisi alla comprensione dell’uomo a partire dall’esperienza clinica (ripercorrendo quindi, un tracciato già parzialmente aperto dagli analisti americani sopra citati). Quattro elementi sembrano a Ricœur decisivi a tal fine. In primo luogo, «L’esperienza analitica è possibile a condizione di ritenere l’affettività profonda […] come non estranea al linguaggio» (Ricœur, 1988, p. 9). In secondo luogo, «il desiderio umano possiede una struttura dialogica» (p. 10). In terzo, «il nostro rapporto alla realtà attraversa l’immaginario, ma l’immaginario può essere ingannevole, può essere luogo di illusione» (p. 12). Ricœur ha ben presente la dialettica tra desiderio e godimento teorizzata da Lacan e la sua descrizione dell’autoinganno dell’essere umano che, alla ricerca dell’Altro, si trova sempre alla caccia di un obiettivo parziale, illusorio, un falso obiettivo, insomma, che la terminologia lacaniana identifica con la locuzione «oggetto a» (il riferimento implicito è a Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi; Lacan, 1953). Ricœur rileva che:
L’uomo non entra in rapporto con gli altri in modo puro e semplice bensì attraverso i fantasmi che possono consentire od ostacolare lo stesso incontro degli altri. Il problema è di sapere se l’uomo può vivere con questi fantasmi, se può sopportarli, se può trasformarli in qualcosa di creativo oppure se, al contrario, quei fantasmi gli precludono l’accesso alla realtà, diventando, così, fonte di sofferenza (Ricœur, 1988, p. 12).
Secondo Ricœur è qui che si innesta il contributo decisivo della psicoanalisi:
A mio avviso, l’elemento che consente di innestare la psicoanalisi al livello più profondo della cultura morale e psicologica dell’occidente è di aver visto nell’immaginazione una specie di Giano bifronte con l’aspetto dell’illusione e quello della creazione. Ed è, forse, questo il genio dell’immaginazione: guardare da due versanti (Ricœur, 1988, p. 13).
Soprattutto, però, Ricœur insiste sulla dimensione narrativa dell’essere umano che verrebbe recuperata dalla psicoanalisi insieme alla sua dimensione temporale. Grazie alla psicoanalisi diviene chiaro che la malattia psicologica è una «desimbolizzazione», ovvero una perdita della funzione simbolica del linguaggio (il termine è mutuato da Alfred Lorenzer), che si traduce anche come una «denarrativizzazione», ovvero nell’incapacità «di costruire un racconto della propria vita che sia intellegibile e accettabile» (p. 14).
Va detto che l’intuizione di Ricœur trova diversi riscontri nell’ambito delle teorie psicodinamiche. Da un lato, infatti, diversi teorici hanno teso progressivamente ad attribuire molta più importanza alla verità narrativa della teoria, e quindi alla sua possibilità di offrire un punto di riferimento per una ricostruzione del passato che offra al paziente la possibilità di trovarvi una coerenza e un significato, al fine di poter attuare un cambiamento esistenziale a sua volta dotato di senso soggettivo (per una sintesi, si veda Innamorati, 2000). D’altra parte le ricerche di Mary Main (largamente ispirate dal filosofo del linguaggio Grice [1975]) hanno evidenziato che perlomeno la condizione di «attaccamento sicuro» (Bowlby, 1969-1980) implica una capacità di coerenza narrativa, che può essere riscontrata allorché l’adulto rievoca la propria infanzia e in particolare le relazioni avute con le figure di attaccamento più significative (di solito i genitori). Tale coerenza si esprime soprattutto nei riscontri tra memoria semantica (che nella fattispecie rievoca l’atmosfera generale del periodo infantile) e memoria episodica (che può invece rievocare singoli episodi che confermino la prima). La Main ha infatti ideato un’intervista semi-strutturata (la Adult Attachment Interview) che grazie alla sua capacità di «sorprendere l’inconscio» dovrebbe essere in grado di far cogliere (attraverso la valutazione con specifiche rating scales) proprio il livello di coerenza narrativa dell’intervistato (Main, Goldwin e Hesse, 2002).
Sulla base delle premesse sopra indicate, comunque, Ricœur, sollecitato — come si è detto — dal gruppo di Metaxú, rivaluta finalmente il ruolo di Jung e ne riscopre in prima persona l’affinità con la propria posizione (Ricœur, 1988, pp. 17-19). Ricœur, infatti, comprende alla luce di Jung quello che si potrebbe definire l’etnocentrismo di Freud, che si riflette nella sua tendenza a costruire una teoria sulla natura umana sulla base di un’esperienza clinica estremamente caratterizzata nel tempo e nello spazio (una Vienna segnata da mentalità vittoriana). Oltre ad abbandonare la concezione classica della libido, Ricœur si spinge a far proprio quello che Jung considerò sempre il suo principale motivo di contrapposizione a Freud, la visione finalistica in opposizione a quella «causalistica» dell’essere umano:
Comprendo, allora, perché Jung fosse sempre meno soddisfatto della definizione sessuale della libido dal momento in cui aveva scoperto che i problemi più drammatici della vita non sono un residuo della relazione edipica ma sono connessi al senso che la vita viene acquistando nel suo progredire verso la fine. Ora, cosa ne concludo a titolo di correttivo di tutta l’analisi precedente? Che il momento narrativo non può funzionare da solo al di fuori quello che chiamo l’elemento proiettivo. Poiché la nostra vita non è terminata e non conosciamo la fine della storia, il racconto che narriamo di noi stessi è sempre in relazione con ciò che attendiamo ancora dalla vita (Ricœur, 1988, p. 18).
Questo significa, si può aggiungere, accettare che l’analisi ha senso in quanto è in grado di accompagnare l’essere umano nel cammino che Jung chiama il processo di individuazione (Jung, 1921), che già Mario Trevi (1986) aveva visto come strettamente legato alla funzione simbolica. L’individuazione è, per Jung, il processo attraverso il quale «si diventa ciò che si è» (dove la suggestione nietzschiana è del tutto intenzionale da parte sua); è quel percorso che l’essere umano può percorrere dopo la fase di adattamento alla realtà (che caratterizza la prima parte dell’esistenza. Il buon uso dei fantasmi consiste quindi nella possibilità di evocarli con la prospettiva di scrivere le pagine successive della propria esistenza, non con quella di rileggere e riprodurre le pagine già scritte.
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