1. Il perché di un confronto
Nella ricerca di un’etica compatibile con la condizione postmoderna (se vogliamo mantenere questo termine come capace di descrivere il nostro tempo), i progetti filosofici di Emmanuel Levinas (1906-1995) e Paul Ricœur (1913-2005) si presentano come due candidati efficaci a ripensare l’etica in termini alternativi ad un puro esito nichilista della post-modernità.1
Pur appartenendo ad orizzonti filosofici che si sono evoluti diversamente, una revisione radicale della fenomenologia per Levinas, una evoluzione in senso ermeneutico della stessa per Ricœur, la comune origine fenomenologica del proprio pensiero, ma anche la estrema vicinanza delle tematiche che hanno elaborato, ne rende inevitabile il confronto.
Il progetto filosofico di Levinas potrebbe essere ricondotto all’esigenza di fare dell’etica la filosofia prima,2 in sostituzione del tradizionale primato dell’ontologia.3 In questa prospettiva la filosofia di Levinas è indirizzata alla costruzione di una alternativa polemica alle filosofia della totalità e alla rivendicazione dell’unicità e originalità dell’io, negato in ogni «totalitarismo», politico o filosofico che sia.4 Il primato dell’etica non designa tanto il primato di un complesso di norme ed indicazioni, quanto il rinvio all’esperienza fondamentale che costituisce la soggettività, quella generata dal volto d’Altri, che Levinas definisce come responsabilità. L’io emerge della massa omogenea e indifferenziata della totalità solo in forza di una chiamata, di una chiamata carica di conseguenze, che è quella che egli riceve dall’incontro con il volto dell’Altro, che chiama a mantenere tale la sua alterità,5 caricandomi della conseguente responsabilità. Ciò che va evidenziato è che tale responsabilità non costituisce un accidente di un io sostanziale che si è già costituito precedentemente, ma la condizione di possibilità stessa dell’emergenza dell’io dall’indifferenza della totalità. Soltanto nella responsabilità per altri io esisto effettivamente. L’esistenza dell’io, nella sua singolarità, è quindi un’esistenza che accade come debito; debito vero un volto che chiama e chiede, che richiede ed esige. L’esistenza dell’io è frattura, frattura che non può essere ricomposta dall’assorbimento del volto nell’io, pena il decadimento dell’esistenza soggettiva stessa. Pensare l’io in questa forma richiede un uso iperbolico del linguaggio,6 che destrutturi la visione ego-centrica della tradizione occidentale per sostituirvi una visione del primato assoluto dell’altro, come unico spazio possibile alla costruzione dell’umanità.
Il progetto di Ricœur si presenta, fin dall’inizio del suo cammino,7 come il tentativo di porre le condizioni per la costruzione di una antropologia filosofica che superi l’ingenuità autoreferenziale della filosofia moderna, attraverso il purificatore incontro con i maestri del sospetto, ma anche con lo strutturalismo e la filosofia analitica. L’opera in cui Ricœur giunge ad una compiuta, per quanto non definitiva, sintesi del suo percorso è certamente Sé come un altro (1990). Questo testo enciclopedico è guidato costantemente, nei dieci studi che lo compongono, dalla domanda «chi?», come evidenzia la seguente tabella.
I-II | Di chi si parla? Chi parla? | Una filosofia del linguaggio | La persona come particolare di base |
III-IV | Chi agisce? | Una filosofia dell’azione | Il soggetto come agente |
V-VI | Chi si racconta? | La questione dell’identità personale | Idem e Ipse. Temporalità e identità narrativa |
VII-VIII-IX | Chi è il soggetto morale d’imputazione? | Etica e morale. Buono e obbligatorio | Tendere alla vita buona… → Stima di sé Con e per l’altro… → Sollecitudine All’interno di istituzioni giuste… → Giustizia |
X | Chi? → il «sé» | Il modo d’essere del Sé | L’attestazione. Ipseità e alterità |
La polisemia dell’io che emerge non è tale da produrre un effetto dissolutivo, né in termini che rinviino ad una qualche oscuro fondo da cui la soggettività emerge come pure epifenomeno transitorio, né in quelli di una anarchica plurificazione dei soggetti e del soggetto. Ricœur rinviene l’elemento costitutivo della identità soggettiva nella contrapposizione fra l’immediatezza dell’Io e la mediatezza del Sé. L’accesso alla nostra identità più autentica non avviene attraverso un atto di introspezione intuitiva, ma attraverso una più lunga deviazione che implica il linguaggio, la capacità di agire, la narrazione, l’emergenza della responsabilità morale. Il sé, pronome accusativo e riflessivo accede alla propria identità solo attraverso l’esperienza dell’alterità che lo attraversa, come dice il titolo dell’opera di Ricœur, quindi solo comprendendosi come altro, superando il primato-privilegio dell’autoreferenzialità, per cogliersi attraverso gli atti che egli pone nel mondo, e che sono la manifestazione indiretta della sua identità. Il sé si comprende quindi, nella dialettica di atto ed interpretazione, con un movimento inevitabilmente ermeneutico. Ciò a cui Ricœur punta è una fenomenologia ermeneutica dell’homo capax, come egli lo definisce, che apra ad una comprensione del suo originale modo di essere, e quindi ad una ontologia della soggettività.
In termini molto schematici potremmo dire che il primato dell’etica filosofica che Levinas propone (etica come filosofia prima) corrisponde ad un primato assoluto etico dell’altro, primato che Levinas tematizza già in Totalità ed infinito e radicalizza in Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, in cui il soggetto è descritto con termini come ostaggio e l’altro come signore. L’etica della responsabilità giunge al parossismo della sottomissione e sostituzione.8
Ricœur ha contrapposto a questo il tentativo di costruire un immagine dell’homo capax, la cui determinazione ontologica fondamentale sta nel conatus essendi. Ma l’uomo che vuole essere capace non è un uomo ripiegato nell’esclusiva attenzione al sé. La piccola etica di Sé come un altro9, mostra il nesso fra la vita buona, l’essere con e per l’altro, all’interno di istituzioni giuste.
Levinas e Ricœur sono effettivamente su fronti opposti? che cosa può nascere dall’incontro fra le loro prospettive?10
2. Tappe di un dialogo
È proprio l’estrema vicinanza tematica, oltre che genetica, dei due progetti, che spinge alla inevitabilità del loro confronto, tanto più quanto l’approfondimento di questa vicinanza porta a ravvisare elementi di profonda eterogeneità, almeno ad un primo sguardo.
Levinas e Ricœur, potrebbero essere visti come portatori di progetti profondamente alternativi, se si sottolinea l’assoluto primato del volto d’Altri rispetto alle capacità autonome del soggetto, nella proposta levinassiana, e il movimento che dall’io ritorna, al sé, pur attraversato dall’altro, con un movimento di identificazione per quanto mediata, proposto da Ricœur.
Il confronto fra i due filosofi francesi non avviene però solo sulla scorta dei contributi dei loro commentatori,11 ma fortunatamente anche attraverso un confronto diretto delle loro posizioni, che ha preso talvolta i tratti del confronto diretto, come emerge dalla seguente tabella.
1985 | P. Ricœur, E. Levinas, Giustizia amore responsabilità12 | Si tratta di un lungo dialogo diretto fra i due filosofi, in cui emerge una pluralità di sintonie, nel contesto di una differenza fondamentale, che resterà tale anche nei confronto successivi. |
1989 | P. Ricœur, Levinas pensatore della testimonianza13 | Il testo è apparso originariamente in una raccolta di saggi dedicata a Levinas; Ricœur propone, in particolare alla del suo contributo, una via di convergenza. |
1990 | P. Ricœur, Sé come un altro14 | È il testo dove il confronto con Levinas è più articolato e ritorna in più luoghi (pp. 284-287, 451-457, 472-473); è in particolare messa a fuoco la relazione fra alterità e ipseità, nella distinzione ricœuriana fra idem e ipse, che appare assente in Levinas. |
1990 | P. Ricœur, E. Levinas, L’unicità del pronome «io»15 | Scambio epistolare su Sé come un altro, un confronto breve, ma dove appare una certa possibilità di conciliazione fra le due visioni. |
1997 | P. Ricœur, Altrimenti16 | Testo su Altrimenti che essere, in cui Ricœur mostra le conseguenze più problematiche del parossismo di Levinas. |
Come si può notare dalla tabella più sopra il confronto fra i due autori è per lo più asimmetrico, non trovandosi, al di là del dialogo del 1985 e del breve scambio epistolare del 1990, seguente alla pubblicazione di Sé come un altro da parte di Ricœur, alcuna presa di posizione diretta di Levinas rispetto alla prospettiva ricœuriana.17
2.1. Giustizia, amore, responsabilità
Nel dialogo del 1985, svoltosi a casa di Emmanul Levinas, i due autori confronto in modo abbastanza analitico le loro posizioni attorno ad alcuni temi fondamentali del loro pensiero, val la pena di ricordare che questo incontro avviene nel 1985, prima della pubblicazione di Sé come un altro, il testo in cui si confronta più analiticamente con il pensiero di Levinas.
Ripercorrere il dialogo del 1985 significa fare la scoperta di una notevole serie di convergenze fra i due autori e di qualche differenza, non meno rilevante, nella loro impostazione. Il dialogo affronta i temi come l’origine dei valori, il rapporto fra etico ed epistemologico, la relazione fra reciprocità ed universalità, la costituzione del soggetto responsabile, l’amore, l’ordine politico, la temporalità.
Si può dire che l’inizio della discussione è anche il luogo dove emerge immediatamente la polarità fra Levinas e Ricœur. All’interrogativo posto da Levinas, se altri valga quanto me stesso o sia fonte di valori, Ricœur risponde evidenziando la presenza di una divergenza, pur nell’incontro di una comune sensibilità: l’essere costituito responsabile è necessario per poter capire l’esigenza dell’altro, la responsabilità implica, quindi, la possibilità di trasferire il pronome io sulla seconda persona; soltanto se il tu è un «alter ego» vi è la possibilità di accoglierlo e comprenderlo. A questa ricerca della simmetria fra io e tu, fra ego ed alter ego, Levinas reagisce ponendo Altri come valore primo, da cui derivano gli altri valori e di conseguenza le azioni. Il primato assiologico di Altri sembra volersi svincolare dalla identificazione con l’ego.
È suggestiva la successiva mossa argomentativa di Ricœur, che suggerisce di affiancare al primato etico del tu un primato epistemologico dell’io, «se io non avessi la prova in me stesso di ciò che significa dire “io”, non potrei dire “tu”»,18 si tratta, per Ricœur, di istituire una duplice dissimmetria all’interno del campo etico e di quello conoscitivo. Il primato assiologico del tu sembra richiedere una autocomprensione dell’io come soggetto, che solo a questa condizione può riconoscere l’altro come persona e, allo stesso tempo, il suo primato etico.
A questo punto, pur senza una formale dichiarazione di accordo sulla proposta di Ricœur, il dialogo si sposta sul rapporto fra universalità e reciprocità, per giungere a concordare sul primato della seconda rispetto alla prima, cioè il primato della concreta relazione io-tu rispetto all’astrattezza della legge. A questo Levinas aggiunge solo l’esigenza di porre la dissimmetria fra io e tu (ovviamente a favore del tu) come situazione che precede la stessa reciprocità.
La priorità di altri richiede che io abbia obblighi non sono solo con altri, c’è il terzo; bisogna che io sappia chi è il mio prossimo chi è l’altro per eccellenza per me; passare dallo stadio dell’obbligo per l’unico altro allo stadio del confronto di questo unico con altri unici.19
La costituzione di un soggetto responsabile diviene, a questo punto il terreno di confronto: la individuazione della responsabilità come fatto epistemologico e non solo etico. A Ricœur, che sposta l’argomentazione di nuovo sul piano della caratteristica del soggetto responsabile, sostenendo che «per instaurare l’ordine dell’etica è necessario un soggetto del desiderio… un tu che mi rivendichi e un neutro che incarni una norma di ricambio e dunque di relazionalità e reciprocità»,20 Levinas reagisce ponendo una precisa gerarchia fra le due, sotto la forma della deduzione, l’epistemologico deriva dall’etico:
Uno stadio dell’umano che precede la reciprocità e che diventa reciprocità per il fatto che c’è una molteplicità di persone … costretto a confrontare i molteplici altri, quindi a ridurli alla conoscenza e a me stesso … di conseguenza l’epistemologico deriva dell’etico.21
Questo non è di per se in contrasto con quanto ha appena detto Ricœur; forse l’alternativa radicale è fra primato del desiderio e primato della responsabilità come motore dell’agire (etico), quindi fra antropologia del desiderio22 ed etica della responsabilità. Fra uomo che desidera e uomo che è convocato c’è alternativa o compatibilità? Il desiderio si può radicare nella responsabilità o la responsabilità nel desiderio? Bisogna verificare se l’evento del dono, che richiameremo alla fine di questa riflessione, possa costituire una sorta di antecedente a questa apparente divisione e permetta il superamento di un’alternativa secca fra desiderio e responsabilità, mostrandone la complementarietà.23
La tensione fra le due argomentazioni sembra trovare un punto di equilibrio quando la discussione passa ad evidenziare le caratteristiche dell’amore, di cui i due dialoganti evidenziano la capacità di rendere singoli, rispetto all’azione universalizzante della giustizia,24 che si manifesta in modo peculiare nell’ordine politico. Allo stesso modo la fraternità precedere l’eguaglianza.25 Ma è proprio nella conseguenze che il politico implica che emerge nuovamente la tensione fra la posizione di Levinas., che parla della responsabilità
come coscienza della unicità della persona; elezione di colui che non può farsi sostituire […] è in questa impossibilità di farsi sostituire che consiste l’io prima dell’uguaglianza, l’io che entra in una relazione asimmetrica. Relazione fra due unici […] la mia responsabilità lo fa uscire dal genere dove sarebbe soltanto un individuo… e io stesso sono unici perché non posso dire a qualcun altro «fa» ciò che è necessario per altri […] non posso farmi sostituire26
e Ricœur, che sente di dover replicare, dicendo che
chiunque dice io vuol dire che incontra tu soltanto come colui di cui sa che dice io per se stesso e che è come me nella posizione di essere responsabile delle sue proprie enunciazioni e azioni; l’io è universalizzabile perché si carica del discorso e dell’azione, è colui che si riconosce responsabile.27
Rispetto a questo Levinas torna a segnare la peculiarità del suo punto di vista:
Ho cercato un’altra ermeneutica d’altri; ciò che mi colpisce dell’altro non è prima di tutto che è come me, ma che è mortale, volto nudo… quanto al mio proprio individuo io è l’unico responsabile.28
Infine i due filosofi affrontano il complesso concetto di temporalità, che si costituisce a partire dalla dissimmetria fra io e altro, come tensione fra una responsabilità che sorge dal mio stesso passato, responsabilità che mi istituisce responsabile di ciò che non ho mai fatto, un passato segnato da una responsabilità immemoriale e un avvenire minacciato dalla morte dell’altro.29
Un bilancio di questo dialogo non è facile, perché se la contabilità dice che le vicinanza prevalgono sulle discordanze, resta l’insistenza dei due pensatori sul primato di Altri, da una parte, e sulla costituzione della responsabilità nella reciprocità, dall’altra. Responsabilità e desiderio sono in assoluta contrapposizione? Fra l’equivalenza dell’altro a me stesso e il suo essere fonte di valori, c’è necessariamente un’alternativa? La proposta ricœuriana della duplice dissimmetria può raggiungere l’obiettivo di conciliare le due posizioni? Torneremo più oltre su questi interrogativi.
2.2. La testimonianza di Levinas
Di poco precedente alla pubblicazione di Sé come un altro, ma corrispondente alla avanzata elaborazione di questo testo, è il contributo che Ricœur propone ad una raccolta di testi dedicata a Levinas.30 Di questo complesso testo, dedicato a porre in relazione Altrimenti che essere di Levinas, con Essere e tempo di Heidegger e Le Désir de Dieu di Jean Nabert, ci soffermiamo sulla terza parte e soprattutto sulle conclusioni.
Ricœur affronta la costituzione della filosofia della testimonianza in Levinas, segnando la decisa rottura fra il filosofo francese e M. Heidegger: al primato heideggeriano della coscienza, come luogo di autoposizione e principio del senso, si oppone frontalmente, per Levinas, quello dell’assegnazione alla responsabilità dell’altro, che pone drasticamente fine ad ogni tentativo di fondare una autoreferenzialità del soggetto. Questo spinge Ricœur ad interrogarsi sulla possibilità di una filosofia dell’altrimenti-che-la-coscienza.
Levinas ha messo in campo due diverse mosse per giungere a questo risultato di rifiuto dell’autoposizione della coscienza: la prima attraverso lo scavo nell’al-di-qua, in ciò che precede l’arché stesso: vi una an-archia della coscienza, una sua passività originaria che non rappresenta l’inverso dell’attività e che si congiunge con la responsabilità, ciò mostra come la coscienza sia sostanzialmente posta e continuamente spostata nel suo movimento, verso l’infinito; la seconda strategia corrisponde all’accumulazione di espressioni eccessive, iperboliche, destinate a far deragliare il pensiero comune, quali ossessione, lacerazione, sostituzione, ostaggio, espiazione. L’obiettivo di tutto ciò è la de-posizione del soggetto dalle sue pretese di autoposizione nella filosofia della coscienza.
È proprio all’incrocio fra le due strategie che si pone, secondo Ricœur, la fondazione di una filosofia della testimonianza in Levinas. La testimonianza è quella resa all’infinito, all’infinita trascendenza del volto d’Altri; essa, come alternativa alla filosofia della coscienza e all’ontologia dice il modo di manifestare la verità di un soggetto che si espone all’appello dell’altro, senza nessuna certezza preliminare che lo garantisca. Testimonianza è un dire che non tematizza l’infinito, non lo cattura in ciò che ho già detto, ma lo lascia libero per il dire successivo. Testimonianza è al contempo modo di esistere del soggetto e riferimento alla trascendenza che lo costituisce: io-sono-testimone, cioè preceduto da colui a cui rendo testimonianza e allo stesso tempo esisto nella forma della responsabilità per colui che testimonio.
È solo nella conclusione che Ricœur si spinge a cercare un confronto diretto con Levinas: Ricœur si chiede se nella filosofia della testimonianza di Levinas, quella che presenta una identità del soggetto sotto la forma grammaticale dell’accusativo, del me, dell’eccomi chiamato ad essere responsabile, in alternativa all’autoreferenzialità dell’io, non vi sia una forte analogia con la distinzione, che egli propone fra identità-idem e identità-ipse. Il soggetto nella forma del me è assegnato alla responsabilità verso Altri, ma questo assegnazione è anche la radice della sua insostituibilità. Vi è in questo l’annuncio di una paradossale unicità dell’io, che ritroveremo anche più avanti, nel confronto fra i due pensatori. Così Ricœur si può chiedere, conclusivamente, se l’attestazione del sé e la gloria dell’assoluto31 non possano essere co-originari, ristabilendo quindi quella simmetria fra sé e l’altro che sta a cuore a Ricœur.
2.3. Sé come un altro: domande a Levinas
Sono tre i luoghi in cui Ricœur si confronta con Levinas in Sé come un altro. Tutti e tre meritano di essere brevemente recensiti.
Il primo è posto all’interno del settimo studio, Il sé e la prospettiva etica, che avvia la trilogia detta piccola etica.32 Il confronto con Levinas inizia dalla necessità di approfondire il concetto di sollecitudine, che rappresenta per Ricœur la seconda gamba del tripode con cui egli descrive l’immagine dell’etica.33 Ricœur si chiede in che cosa la sollecitudine34 vada oltre la reciprocità dell’amicizia; egli la interpreta, come una condizione media fra due estremi, quello rappresentato dall’iniziativa dell’altro e quello della sofferenza.
L’iniziativa dell’altro rinvia a Levinas, il cui pensiero Ricœur più che esporre interroga. Il primo interrogativo riguarda l’assenza della relazione: l’altro resta esteriorità assoluta rispetto all’io, una esteriorità in cui il volto dell’altro assume i tratti del maestro di giustizia, di colui che insegna in modo etico (cioè proibisce e comanda). Da questo insegnamento giunge la convocazione alla responsabilità, ma la responsabilità può essere assolta da un io convocato, puramente passivo? o non esige una capacità di rispondere, di dare in cambio, per quanto attività dall’iniziativa dell’altro?
Ricœur vede nel primato levinassiano dell’ingiunzione una troppo frettolosa acquisizione del momento morale, cioè normativo, rispetto a quello etico e ritiene che la sollecitudine per e con l’altro debba radicarsi in una «spontaneità benevola, intimamente connessa alla stima di sé all’interno della prospettiva della “vita buona”».35
Il secondo e il terzo approccio all’opera di Levinas sono contenuti nel decimo studio, Quale ontologia?, quello in cui Ricœur si interroga sulle condizioni ontologiche della soggettività fino a questo punto così variamente descritta. Nel paragrafo dedicato a Ipseità ed alterità36 Ricœur riprende il confronto a partire dalla riflessione sul movimento che dall’altro giunge a me. Ricœur descrive l’approccio levinassiano come un tentativo di fondazione radicale, che oppone all’identità del Medesimo, l’alterità dell’Altro, intesa come assoluta esteriorità. Per Levinas questa opposizione radicale è resa necessaria dal pericolo di cadere in una ontologia della totalità, che ogni filosofia dell’identità contiene. Il totalitarismo implicito in ogni filosofia della rappresentazione, in cui l’altro è assimilato a me, può essere vinto solo da una frattura radicale, quale quella rappresentata da una relazione etica che eccede ogni rappresentazione. È nella «pratica sistematica dell’eccesso nell’argomentazione filosofica»,37 che Levinas cerca la via alla costituzione dell’etica. L’eccesso non si ferma alla definizione, pur paradossale, dell’io come colui che viene raggiunto soltanto nel caso accusativo, cioè come oggetto dell’ingiunzione, mai come nominativo, come colui che compie l’azione. L’eccesso è particolarmente presente in Altrimenti che essere, dove l’uso dell’iperbole giunge al parossismo, ben rappresentato dalla categoria della sostituzione. Il soggetto è ostaggio dell’altro è talmente responsabile di lui da doverne prendere il posto, anche quando l’altro si presenta non come il maestro di giustizia, ma come colui che offende e che comunque richiede «il gesto che perdona ed espia».38 Solo nell’espiazione, per Levinas, si supera la frattura fra identità e alterità.
Rispetto al parossismo levinassiano Ricœur si pone, ancora una volta, nella modalità dell’interrogante: chiedendosi se la visione di una identità come assolutamente contrapposta all’alterità non impedisca lo stesso accoglimento della manifestazione dell’altro. Se il Medesimo non contenesse già una possibilità di apertura come potrebbe rispondere dell’Altro?
Merita di essere posta qui un’osservazione che Ricœur lascia cadere quasi distrattamente all’inizio del confronto con Levinas e che riguarda il confronto fa l’identità del Medesimo, autoreferenziale e totalizzante, secondo Levinas, e la possibilità di intravvedere nel soggetto una dialettica fra identità-idem e identità-ipse, che Ricœur ha posto fin dall’inizio della sua opera. Non è forse questa distinzione mancante in Levinas, che vede dell’identità dell’io soltanto la dimensione dell’identità-idem, appunto incarnata nel genere del Medesimo, assolutamente contrapposto all’Altro?39
Ciò che Ricœur fa, è proprio il tentativo di riconoscere la presenza operativa dell’ipse nella costituzione paradossale della soggettività levinassiana, un Sé che nella forma dell’ipse si manifesta attraverso la stretto passaggio del soggetto posto sotto forma di accusativo: me e non io, convocato alla responsabilità e non agente originario.
Che la struttura riflessiva della soggettività sia fondamentale lo rivela anche il successivo interrogativo che Ricœur pone a Levinas, e cioè quello che riguarda la possibilità di distinguere, nella manifestazione dell’Altro le due figure antitetiche del maestro e del boia. Ricœur parla dell’esigenza di porre nel sé una capacità di accoglimento, nella forma del discernimento e del riconoscimento, tanto più necessaria quanto, in Levinas, non si dà una forma riassuntiva dell’Altro. L’Altro appunto, può essere il maestro di giustizia di Totalità e infinito, ma anche colui che offende di Altrimenti che essere.
In altri termini non è forse necessario che la voce dell’Altro che mi dice: «Non uccidere», sia fatta mia, al punto di diventare mia convinzione, questa convinzione che equipara l’accusativo dello «Eccomi!» al nominativo del «Qui, io mi arresto»?40
È nello stesso tema della sostituzione che Ricœur intravvede la presenza in Levinas di questa istanza, dato che la sostituzione si presenta come uno slancio del sé verso l’altro, sia pure in termini di abnegazione per l’Altro. Ne è prova il ruolo che Levinas assegna alla testimonianza, testimonianza resa all’Altro, che rappresenta la più autentica manifestazione di un sé non più prigioniero dell’io, posto, quindi, ma consistente proprio per questa sua posizione; tanto che Ricœur intravvede nella categoria della testimonianza una rilevante affinità con quella da lui proposta dell’attestazione.41
Infine, proprio nelle ultime pagine di Sé come un altro,42 il percorso di Ricœur ritorna ad intrecciare quello di Levinas. La considerazione di Ricœur è brevissima, ma densa, nella ricerca di una alternativa sia alla riduzione heideggeriana della coscienza dell’altro a spaesamento che a quella levinasiana ad esteriorità.43 Tale alternativa è fondata sulla rivendicazione del «carattere originale e originario di ciò che mi sembra costituire la terza modalità di alterità, e cioè l’essere-ingiunto in quanto struttura dell’ipseità».44
È necessario, per Ricœur, non dimenticare il legame costituito fra ingiunzione che viene dall’altro ed attestazione del sé «pena che l’ingiunzione non sia accolta e che il sé non sia affetto sul modo dell’essere-ingiunto».45 Un comandamento posto senza la capacità di recepirlo, perde il suo stesso carattere di un’ingiunzione, che necessita della attestazione del sé per compiere il suo percorso.
2.4. L’unicità dell’io
La pubblicazione di Sé come un altro non poteva lasciare indifferente Levinas, che nel maggio del 1990 reagisce all’opera del suo collega, dando vita ad un breve scambio epistolare.
Nella propria lettera Levinas appare preoccupata dell’accusa, mossagli da Ricœur, di negare la stima di sé favore della relazione con l’altro, quando essa invece dovrebbe appartenere necessariamente alla generosità del «per l’Altro» contenuta nella formula ricœuriana dell’etica come vita buona, con e per l’altro, all’interno di istituzioni giuste. In effetti, Levinas riconosce il suo tentativo di pensare il «per l’Altro» in termini di carità originale e primordiale, «come gratuità di fronte al volto d’Altri».46 La stima di sé, però, non si riduce alle forme della carità della relazione io-tu o della giustizia (che si presenta quando entra in campo anche il terzo della relazione, verso cui l’io e il tu sono insieme responsabili), essa piuttosto traspare, secondo Levinas, dalla responsabilità iniziale, nella forma «della dignità dell’eletto che […] si enuncia nella unicità umana del pronome io».47
Nella lettera di risposta, Ricœur precisa che il suo rapporto al pensiero del collega è determinato dalla scelta iniziale della categoria di sè. Una categoria che non si riduce al me, ma si ripartisce su tutti i pronomi personali, nella forme della stima di sé, della sollecitudine per l’altro e della giustizia per ciascuno. Ricœur insiste sulla povertà di un sé privo di uno sviluppo intersoggettivo, sviluppo che è reso possibile dall’emergere dell’altro. La possibile differenza fra sé e Levinas, si riduce al fatto che Ricœur sostenga che il volto d’altri non sarebbe riconosciuto come luogo d’interpellazione se non fosse capace di risvegliare la stima di sé, anche se questa resterebbe effettivamente atrofica senza l’azione di risveglio promossa dall’altro. È a partire da questo che Ricœur condivide l’affermazione della unicità umana del pronome io, che sfugge ad ogni integrazione.
Uno scambio brevissimo, quindi, ma che mette ben in luce, a mio giudizio, l’estrema vicinanza delle due posizioni e la loro compatibilità.
2.5. Altrimenti
L’ultimo passo del confronto fra Ricœur e Levinas ha ancora come protagonista il solo Ricœur, che nel 1997, due anni dopo la morte dell’amico e collega, torna ad interpretare il suo libro più provocatorio, in un testo che, non a caso, si intitola Altrimenti.
Anche in questo caso prevalgono gli interrogativi che Ricœur pone alla filosofia di Levinas: è possibile la relazione con l’altro se non si riconosce al soggetto la capacità necessaria a sorreggere tale relazione e rispondervi? L’altro nella sua manifestazione puramente epifanica, attraverso il volto, non è ridotto, rispetto alla possibile polisemia del suo significato? È possibile un’etica che rinunci ad uno sforzo ontologico?
Esaminiamo in particolare questa ultima questione, partendo dall’affermazione di Ricœur, per cui in Levinas si può trovare una quasi-ontologia post-etica, che egli rinviene in quattro temi propri di Altrimenti che essere:
- quello della bontà, o meglio del bene, come ciò che è al di là dell’essenza, quindi assolutamente trascendente,
- quello dell’infinito, che Levinas presenta, sulla scorta della riflessione di Descartes, come trascendente il prossimo e il terzo,
- quindi l’illeità della terza persona, che supera il tu della relazione duale, letto come minaccia di una chiusura in un egoismo, per quanto duplice,
- per ultimo il Nome di Dio, che in quanto nome eccezionale, «che non tematizza e tuttavia significa»48 e che apre, secondo Ricœur, al possibile recupero di tutti i nomi, dei nomi che rispondono all’interrogativo molteplice del «chi?», che Ricœur stesso ha posto a motivo di Sé come un altro.
Si tratta di una ontologia particolare, in qualche modo dovuta alla stessa scelta di Levinas di fare dell’etica la filosofia prima, ma proprio per questo ancora più significativa e che va nella direzione di completare il discorso sull’etica e sul soggetto con l’indicazione di una ontologia, per quanto spezzata, come quella che Ricœur stesso ha proposto alla conclusione di Sé come un altro.
3. Il confronto messo a bilancio
Concentrerei il possibile bilancio di questo confronto su mosse successive, entrambe di origine ricœuriana:
- la distinzione fra epistemologico ed etico;
- il riconoscimento dell’essere-ingiunto come struttura dell’ipseità.
La prima mossa, che Ricœur proponeva, già nel 1985, ha il pregio di approfondire la riflessione sul rapporto fra epistemologico ed etico e quindi non contesta il primato del tu, del volto d’Altri, ma lo colloca nella sua corretta posizione, che è appunto quella etica. Il tu è primo dal punto di vista morale, è origine di valori, come dice Levinas, è ciò da cui deriva la chiamata alla responsabilità dell’io, ma ciò non implica che esso sia necessariamente anche primo da un punto di vista epistemologico, cioè ciò non significa che il tu dell’Altro sia l’atto primo della conoscenza: altro è il riconoscimento della priorità assiologica di Altri, altro è il percorso, spesso accidentato con cui questo primato si afferma nella coscienza morale, pur essendovi presente in modo inconsapevole. Se questo primato epistemologico dell’io viene poi pensato nelle forme di una complessa mediazione del sé con l’altro, quale possiamo riscontrare nella proposta ricœuriana di una identità narrativa,49 allora esso a fortiori non intacca il primato etico del tu. È attraverso la riflessione su di sé, in particolare sulle forma molteplici della propria passività,50 che emerge, appunto, il primato etico del tu. Certamente questo primato è condizionato dalla disponibilità del sé a percorrere fino in fondo il cammino del riconoscimento,51 ma questo corrisponde a quella peculiare modalità d’essere del sé, che si manifesta nella forma dell’attestazione-testimonianza, una modalità precaria, perché aperta alla richiesta dell’incontro e affermata soprattutto in termini morali,52 coerente con l’immagine dell’identità che Ricœur e Levinas disegnano.
Un cenno va fatto, in questa riflessione sul primato asimmetrico dell’io e del tu, alla questione dell’ontologia. Sembra che proprio il duplice primato possa dare luogo al riconoscimento dell’etica come filosofia prima, da una parte, e di una metafisica (meglio che ontologia) del sé dall’altra. La riflessione sulle condizioni ontologiche del sé appare effettivamente come seconda, seconda al riconoscimento del primato d’Altri dal punto di vista etico, seconda alla riflessione del sé sulle proprie modalità di presenza e comprensione. In questo senso l’ontologia assume il suo ruolo appropriato di scienza di servizio, funzionale alla piena esplicazione dell’identità nella responsabilità: è l’esigenza di rispondere alla chiamata d’altri che pone la necessità di conoscere le strutture della realtà, per quanto in modo provvisorio e derivato, dove si eserciterà la mia azione a favore d’Altri.
La seconda mossa, il riconoscimento dell’essere-ingiunto come struttura dell’ipseità, tende ad interrogare la insuperabilità di quella opposizione originaria fra primato dell’altro e primato dell’io che percorre la riflessione levinassiana. La posizione di Ricœur è chiara: è la stessa esigenza di accogliere e rispondere all’appello dell’altro che richiede che vi sia un io in grado non solo di riconoscere nell’altro un altro io, ma anche di mobilitarsi a suo favore. L’ingiunzione è strutturale all’ipseità, proprio perché identità-ipse, dice una identità che si riconosce come tale nel contino intrecciarsi delle proprie esperienze, e in particolare in quella radicale della responsabilità per altri, e non un’identità statica e definitiva. Ma l’ipseità è anche strutturale all’ingiunzione, dato che essa non potrebbe giungere alla sua meta, sollecitare l’io ad uscire dal neutro della totalità, se non potesse effettivamente risvegliare le sue capacità più proprie. Sé (piuttosto che io) e Altri, sembrano poter quindi convergere nella costruzione di un’identità che si manifesti come deposta dalla sua assolutezza, ma vivificata dall’essere non tanto un dato, quanto un compito a cui il soggetto può mirare.53
L’interrogativo che muove oltre la riflessione riguarda piuttosto il confronto fra le categorie messe in campo da Ricœur e Levinas, nella loro polarità irriducibile, per Levinas, e nella loro interconnessione per Ricœur. Non vi è la possibilità di individuare una meta-categoria che dica, secondo l’esigenza posta da Ricœur, una ontologia del sé,54 per quanto essa stessa spezzata come il cogito che la promuove? Non potrebbe essere la categoria di dono quella a cui fare riferimento in questo tentativo insieme etico e metafisico?
Il fenomeno del dono ha profondamente interrogato la filosofia contemporanea,55 che ha intravvisto in esso il luogo di un’esperienza fondamentale di quella passività che sembra costituire l’umano (e l’essere stesso) prima di ogni, pur primordiale, attività. Il dono sembra dire allo stesso tempo origine come provenienza e passività come premessa di ogni attività successiva, liberando il soggetto dal peso eccessivo di una autoaffermazione, sia pure nei termini dell’individualismo autoreferenziale post-moderno. Il dono è quindi origine, come presa d’atto del fatto che ciò che sono l’ho prima di tutto ricevuto, senza poter effettivamente contraccambiare, sono quindi posto in una condizione di originaria asimmetria che non è mai definitivamente colmabile. Il dono non può essere restituito, pena l’ingresso nella logica dell’economica, reciprocità, che come tale implica una simmetria fra i due soggetti della relazione.
L’asimmetria del dono non significa però che esso non generi la responsabilità del donatario: è proprio nella acquisizione della condizione di donatario che il soggetto può farsi a sua volta donatore. Il dono ricevuto sollecita a non trattenerlo, ma a farlo circolare a propria volta, perché il dono è proprio ciò di cui non mi posso appropriare, in quanto è ciò che io ricevo senza che mi appartenga preventivamente. Il dono mi è affidato, mi è dato in consegna, ma non in proprietà. In questo modo si apre la possibilità di una paradossale economia del dono, che sarebbe in sé un ossimoro, cioè della responsabilità e della sollecitudine, per usare il termini di Levinas e Ricœur, che può implica anche la stima di sé (come risultato del dono ricevuto, che effettivamente mi costituisce donatore a mia volta) e la giustizia (come esigenza che il dono non si arresti, ma conintui a circolare ben oltre l’incontro diretto con il volto dell’Altro).
In questa prospettiva l’uomo può diviene effettivamente capax56 nell’atto di rispondere all’altro / dell’altro; questa, la responsabilità, è il primo motore delle sue stesse capacità. Ma mobilitarsi per l’altro richiede, per ragioni intrinseche, la sollecitudine per il sé, la responsabilità implica una adeguata consistenza del sé: se il sé fosse nulla non potrebbe essere responsabile, esso è effettivamente nulla senza l’altro, ma grazie all’altro sussiste nella sua capacità di essere responsabile. Il sé può allora essere pensato non tanto come atto primo, ma esso stesso come risultato di una convocazione/appello dell’altro: se l’altro mi chiama sono presente (ad-sum). Ma questa convocazione risulta essere dono, dato che essa provoca la mia presenza57 (ad-esse).
Il dono della mia presenza potrebbe essere pensato tanto originario quanto la responsabilità stessa: il dono dell’esserci58 ci pone all’essere (come essere-donati) nella condizione simmetrica di esseri capaci e responsabili (capaci perché responsabili).59 Capacità e responsabilità a questo punto emergono come due facce della stessa medaglia, complementari.
Questa apertura si dà appunto nell’appello dell’altro (non uccidermi). Esso ha una priorità etica (è la priorità dell’etica), è il fenomeno originario, ma non il primo atto dell’auto-coscienza, perché l’emergere di questa consapevolezza richiede un cammino lungo nel sé.60
L’incontro autentico con l’altro nella forma della responsabilità (fino alla radicalità della sostituzione) s-chiude l’ego-ismo dell’io (autoreferenzialità trascendentale) e consente di scoprire le proprie capacitates: «chiamato a rispondere» significa «realmente capace di rispondere». La chiamata non cade nel vuoto ma crea qualcosa di consistente, che può rispondere a partire dalla sua stessa struttura antropologica (idem-ipse / promessa).
La coppia capacità — responsabilità dovrebbe consentire l’emergere di una ancor più profonda antropologia (ed ontologia) del dono: entrambe sono attraversate da una intenzionalità che spinge il sé al di là di se stesso (forse al di là dell’agnosticismo filosofico dello stesso Ricœur). Entrambe puntano al dono:
- nella responsabilità sono chiamato, faccio esperienza della mia passività rispetto alla chiamata; la stessa responsabilità è ricevuta, la chiamata è inscritta nel mio modo di essere che in quanto non autosufficiente è aperto, si riceve grazie all’appello dell’altro (lato positivo della post-modernità rispetto al moderno) ;61
- nella capacitas scopro che il dono rende possibile la risposta, «eccomi», cioè alla tua chiamata posso rispondere perché mi è dato non solo di ascoltarti, ma anche di risponderti effettivamente, di ascoltarti perché possa risponderti, di risponderti grazie all’ascolto.
Non è quindi necessario rinunciare al primato filosofico dell’etica, quanto piuttosto individuare il fatto che tale primato non significa solitudine, ma apertura all’antropologico (capacitas) e all’ontologico (dono).62
In questa prospettiva merita anche di essere sottolineata una specifica caratteristica dell’antropologia biblica che incontra la riflessione di Levinas e Ricœur: l’attenzione alla singolarità dell’essere umano. Come l’analisi ricœuriana dei racconti di vocazione profetica ha ben messo in evidenza la dialettica costitutiva dell’antropologia biblica è quella di chiamata-risposta.63 La chiamata riguarda il singolo nella sua peculiare relazione con Dio, così come al singolo è affidata la risposta a questa chiamata. Anche la chiamata collettiva, quella del popolo di Israele, passa attraverso la relazione con il singolo (Abramo) e la sua risposta. Questa sottolineatura della singolarità può essere assunta concettualmente attraverso la categoria kierkegaardiana dell’eccezione: ogni singolo è un’eccezione perché nell’umanità il singolo precede la specie. Levinas ha dato alla singolarità un rilievo etico particolare in Totalità ed infinito, in cui la posizione etica del singolo è opposta alla massificazione della totalità: l’altro mi si rivolge e il suo volto mi estrae dall’anonimato.
4. Etica dell’eccezione
È proprio questo rilievo della singolarità-eccezione che merita di essere merita di essere approfondito nelle sue conseguenze etiche: la singolarità etico-relazionale che l’antropologia biblica propone può essere un potente antidoto all’individualismo postmoderno (ben rappresentato dall’oltre -uomo di Nietzsche). Se la prima pone il singolo in quanto essere-in-relazione di fronte alla chiamata di Dio e alle molteplici chiamate della vita, come essere che è messo in grado di rispondere, a partire da una ricchezza di risorse attinte dal percorso della sua stessa vicenda personale (identità narrativa), il secondo la chiude nella solitudine della propria volontà di potenza. Ma una antropologia della singolarità relazionale ha pure un carattere sovversivo rispetto a qualsiasi etica che faccia dell’universale il suo punto di riferimento privilegiato.64 Se il singolo-in-relazione è la figura che può abitare il postmoderno anche le sue scelte etiche saranno determinata dal rapporto fra singolarità e relazione: non è la legge morale nella sua astratta universalità, ma la sempre e inevitabile mediazione fra principi, situazioni, relazioni concretamente in atto e singolarità ultima del soggetto responsabile quella che costituisce la norma prossima della moralità. I termini dell’etica vanno pensati più in riferimento alla «metodologia» sapienziale (o se vogliamo alla phronesis aristotelica), che non al rigore logico della deduzione, sia essa quella che deriva dall’assoluto primato di una volontà autoreferenziale che da un astratto cielo stellato di norme trascendenti.65
5. Ricœur interprete di Kierkegaard: filosofia ed eccezione
In due conferenze tenute nel 1963 e pubblicate in italiano come Kierkegaard. La filosofia e l’eccezione,66 Ricœur ci propone un confronto con la filosofia di Kierkegaard non privo di interesse per il nostro percorso.
Nella prima conferenza il testo si concentra con due opere kierkegardiane, Il concetto dell’angoscia e La malattia mortale, e quindi con i due concetti chiave in esse contenuti, quelli di angoscia e disperazione, che Ricœur unifica sotto l’egida di quello di peccato; peccato che viene rubricato come una categoria teologica, piuttosto che morale, e cioè come la mancanza di fede in Dio che porta l’uomo alla derelizione. In questi termini il peccato è oggetto esso stesso di fede, è qualcosa che deve essere creduto anche se non può essere spiegato, dato che la spiegazione lo ridurrebbe ad una categoria logica, risolvibile attraverso una mediazione concettuale e non con la scelta esistenziale del pentimento.
Nella seconda conferenza, a partire dalla provocazione della paradossale logica di Kierkegaard,67 Ricœur si interroga sulla possibilità di filosofare dopo Kierkegaard. Ricœur rifiuta decisamente di considerare post-filosofica la stagione inaugurata da Kierkegaard, quasi che, per motivi diversi ma convergenti, i maestri del sospetto (e Kierkegaard stesso) avessero potuto dichiarare finita la filosofia (che a questo punto si identifica con l’idealismo). Una rilettura «filosofica» di Kierkegaard impone anche una riconsiderazione post-idealistica dell’idealismo e in particolare della tradizionale successione «sistematica» fra Kant, Fichte, Schelling ed Hegel.
Questa operazione conduce Ricœur ad individuare tre condizioni che rendono possibile il filosofare dopo Kierkegaard, ma anche a partire da Kierkegaard:
- il rapporto fra la filosofa e la non-filosofia,
- l’acquisizione della critica delle possibilità esistenziali,68
- la difficile relazione con l’esigenza di un sistema filosofico.69
È in particolare sulla prima condizione che ci vogliamo soffermare, dato il contesto di questo paragrafo.
Il rapporto fra filosofia e non-filosofia è indicato da Ricœur come un rapporto essenziale per lo stesso procedere del discorso filosofico, dato che se la filosofia può determinare il proprio punto di partenza, ad essa però non spetta individuare le proprie fonti. La filosofia è interpretazione di fonti non filosofiche e riceve da esse i materiali della propria riflessione, dato che essa non ha un oggetto proprio, ma ha un compito riflessivo e speculativo rispetto alla ricerca della verità e nei confronti della realtà.70
Questo spiega il continuo confronto di Ricœur con il testo biblico, particolarmente esplicito in Come pensa la Bibbia,71 ma che ha accompagnato tutta la sua opera: Ricœur ha ritenuto che fosse possibile una esposizione rigorosamente filosofica, che non rinunciasse alla ispirazione biblica che stava alle spalle della sua biografia personale, non solo perché la Bibbia costituisce il quadro complessivo dell’autocomprensione dell’autore stesso, delle sue personali «convinzioni», ma perché essa è un deposito di simboli, che esigono di essere decodificati alla ricerca del loro sovrappiù di senso, come prevedeva la prima fase della sua ermeneutica.
Non dovrebbe sorprendere la confessione di Paul Ricœur, riguardo al fatto che la sua fede biblica sia nutrita più di esegesi che di teologia72: essa deriva certamente dalla sua appartenenza al mondo protestante, ma anche dalla convinzione che «vi è un pensiero fuori dalla filosofia [… e quindi] i generi letterari dei quali in seguito si parlerà danno di che pensare filosoficamente», ma questo è solo uno dei presupposti che spingono il filosofo ad avvicinarsi all’esegeta, poiché egli ritiene anche che il presupposto «che anima il filosofo ermeneuta è che questo pensiero si legge in un corpus di testi irriducibili a quelli che egli è solito scandagliare quando fa “filosofia”»73 e che il circolo ermeneutico che si crea fra il corpus biblico e le comunità storiche che adesso fanno riferimento meriti di essere «fonte di stupore e anche di perplessità, soprattutto quando in lui la critica prevalga sulla convinzione» .74
È possibile creare lo spazio per quella forma mista di pensiero che nasce dall’intersecarsi del pensiero biblico con le forme di pensiero delle culture che lo accolgono, diverse da quelle di ebrei e cristiani.75
È all’esegesi, quindi, che il filosofo ritiene di dover fare riferimento per appropriarsi del mondo del testo che la Bibbia offre e ricevere da esso una nuova comprensione di sé e del mondo. Ed è proprio all’esegesi che Ricœur offre un sostanzioso contributo attraverso il proprio progetto ermeneutico-testuale, dato che il testo biblico merita altrettanta attenzione e scavo interpretativo che gli altri testi della tradizione occidentale.
Senza il legame vitale fra filosofia e non-filosofia, la prima si trasforma in un puro nichilismo linguistico ed è invece al suo senso di operazione volta ad interpretare il reale nella ricerca della verità, che si volge l’appello a mantenere il legame con le fonti non-filosofiche. Per questo Ricœur cerca di sfuggire all’alternativa, secondo lui disastrosa, fra razionalismo ed esistenzialismo: la domanda «che cosa significa esistere?», non può essere separata da «che cosa significa pensare?», pena la morte della filosofia stessa. L’eccezionalità del «genio» di Kierkegaard, alla cui scuola Ricœur si pone, sta proprio nell’aver cercato di evitare questa separazione.
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Il nichilismo nasce dalla presa di congedo rispetto alla possibilità di un ordine definito del reale, di un universo, come appare nella metafora nicciana della «morte di Dio». Il nichilismo si presenta, dal punto di vista etico, non tanto come rifiuto di ogni orizzonte morale, quanto piuttosto come riconduzione di tale orizzonte ad una creatività spontanea e sorgiva, che non abbia altro limite se non quello che essa stessa vuole porre, secondo l’indicazione della, ancora nicciana, volontà di potenza. In un certo senso il nichilismo fra propria una filosofia dell’indifferenza e della riduzione al soggetto finito di ogni orizzonte e, in questi termini, esso si presenta come un relativismo radicale. ↩︎
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Levinas E. — Peperzak A., Etica come filosofia prima, Guerini e associati, Milano 1989, ma anche: «L’etica, al di là della visione e della certezza, delinea la struttura dell’esteriorità come tale. La morale non è un ramo della filosofia, ma la filosofia prima»; vedi Levinas, Totalità e infinito, p. 313. ↩︎
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Levinas preferisce utilizzare il termine di metafisica, che egli attribuisce alla stessa etica. V. La metafisica precede l’ontologia, in Levinas, Totalità e infinito, p. 40ss. ↩︎
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Vedi ad esempio Contro la filosofia del Neutro in Levinas, Totalità e infinito, p. 306, ma anche Levinas, Quelques réflexions sur la philosophie del l’hitlérisme, Rivage Poche, Paris 1997 (orig. 1934!). ↩︎
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Il volto, secondo Levinas, si presenta dicendo «Non uccidermi». ↩︎
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Questo uso iperbolico del linguaggio sarà in qualche modo «rimproverato» a Levinas da Ricœur, come vedremo più oltre. ↩︎
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Il volontario e l’involontario, pubblicato nel 1950, non rappresenta solo la sua tesi di dottorato, ma la parte iniziale di un grande progetto filosofico (La filosofia della volontà), mai effettivamente compiuto, in cui all’esplorazione delle relazioni fra l’espressione della volontà e i suoi limiti, avrebbero dovuto seguire un’indagine della condizione umana a partire dalla categoria della colpa (Finitudine e colpa), come luogo in cui evidenziare il ruolo della passività e della negatività nella costruzione della soggettività e una poetica della trascendenza che aprisse ad una fenomenologia del rapporto del volere umano con la Trascendenza, allargandosi in una poetica «delle esperienze di creazione e ri-creazione miranti ad una seconda innocenza» (Ricœur, Riflession fatta, p. 36). ↩︎
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Sarebbe anche interessante esplorare gli eventuali nessi fra l’etica bonhoefferiana della responsabilità, che implica anch’essa la figura della sostituzione vicaria e quella di Levinas. ↩︎
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Costituita dagli studi VII, VIII e IX. ↩︎
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Assumo, per alcuni aspetti, un obiettivo simile a quello che si propone Luca Margaria in Passivo e/o attivo. L’enigma dell’umano fra Levinas e Ricœur, in cui l’autore si propone di esplorare i due rispettivi percorso sotto l’egida della tensione fra passività e attività, «il modo più consono per poter, da un lato, seguire il progredire del loro pensiero e, dall’altro, la possibilità di cogliere in profondità le istanze più vere delle loro filosofie. […] Pensiero che lascia intravedere due modi diversi di concepire il ruolo della filosofia e contemporaneamente il ruolo dell’uomo filosofo all’interno della storia» (p.15). Diversamente dalle conclusioni a cui giunge Margaria e che propendono per una sostanziale inconciliabilità fra le due filosofie, cercheremo di evidenziare la possibilità di una loro feconda integrazione, pur nella discussione critica fra i due filosofi, quale sembra emergere dai testi del loro confronto, almeno per quanto riguarda l’elaborazione che ne propone Ricœur stesso. ↩︎
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Oltre al già citato Margaria, possiamo far riferimento a due saggi contenuti in R.A. Cohen — J.L. Marsh, Ricœur as Another: The Ethics of Subjectivtiy, SUNY, Albany (N.Y.) 2002: Patrick L. Bourgeois, Ricœur e Levinas: Solicitude in Reciprocity and Solitude in Existence (pp. 109-126) e Richard A. Cohen, Moral Selfhood: A Levinasian Response to Ricœur on Levinas (pp. 127-160), e a F. Brezzi, Introduzione a Ricœur (in particolare pp, 101-105). ↩︎
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Contenuto in F. Riva (ed.), Il pensiero dell’altro, pp. 73-94. ↩︎
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P. Ricœur, Emmanuel Levinas, penseur du témoignage, in Lectures 3. Aux frontières de la philosophie, pp. 80-103. ↩︎
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P. Ricœur, Sé come un altro (1990). ↩︎
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Emmanuel Levinas — Paul Ricœur, L’unicité humaine du pronome je, in J.-Ch. Aeschlimann (ed.), Éthique et responsabilité. Paul Ricœur, pp. 35-37. ↩︎
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P. Ricœur, Altrimenti. Lettura di Altrimenti che essere o al di là dell’essenza di Emmanuel Levinas (1997). ↩︎
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Una difesa d’ufficio di Levinas viene operata nel saggio, più sopra citato di Richard A. Cohen, Moral Selfhood: A Levinasian Response to Ricœur on Levinas: «The object of this chapter is to show how and why Ricœur criticizes Levinas, and how and why these criticisms miss their marks» (p. 127). ↩︎
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P. Ricœur, E. Levinas, Giustizia amore responsabilità, p. 74. ↩︎
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P. Ricœur, E. Levinas, Giustizia amore responsabilità, p. 76. ↩︎
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P. Ricœur, E. Levinas, Giustizia amore responsabilità, p. 77. ↩︎
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P. Ricœur, E. Levinas, Giustizia amore responsabilità, p. 77. ↩︎
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Lo sviluppo di un’etica a partire dal desiderio umano è stato compiuto da C. Vigna, Etica del desiderio umano (in nuce), in C. Vigna (ed.), Introduzione all’etica, p 119ss., che si colloca in una tradizione che risale a Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso. ↩︎
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In una prospettiva che vorrebbe ricalcare il duplice primato dell’io e del tu, richiamato da Ricœur. ↩︎
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Ricœur ha sviluppato questo riflessione nel suo Amore e giustizia. ↩︎
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Si tratta di due dei termini che costituiscono il motto della rivoluzione francese (Libertà — Uguaglianza — Fraternità) che Levinas e Ricœur reinterpretano in modo originale. ↩︎
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P. Ricœur, E. Levinas, Giustizia amore responsabilità, p. 87. ↩︎
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P. Ricœur, E. Levinas, Giustizia amore responsabilità, p. 87. ↩︎
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P. Ricœur, E. Levinas, Giustizia amore responsabilità, p. 88. ↩︎
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Levinas chiama questi «anelli del tempo». V. P. Ricœur, E. Levinas, Giustizia amore responsabilità, p. 89. ↩︎
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P. Ricœur, Emmanuel Levinas, penseur du témoignage, originariamente in AA.VV. Répondre d’Autrui — Emmanel Levinas, Editions de la Baconnière, Boudry-Neuchâtel 1989, ora in P. Ricœur, Lectures 3, pp. 80-103. ↩︎
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Nel senso levinassiano, della trascendenza dell’Altro. ↩︎
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Costituita dagli studi VII VIII e IX di Sé come un altro. ↩︎
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Vita buona (stima di sé), con e per l’altro (sollecitudine) all’interno di istituzioni giuste (giustizia). ↩︎
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«La riflessività […] sembra portare con sé la minaccia di un ripiegamento su di sé, di una chiusura […] la mia tesi è che la sollecitudine non si aggiunge dal di fuori alla stima di sé, ma che essa ne dispiega la dimensione dialogale […] Per spiegamento […] intendo certaente una rottura nella vita e nel discorso, ma una rottura che crea le condizioni di una continuità di secondo grado, tale che la stima di sé e la sollecitudine non possano viversi e pensarsi l’una senza l’altra» (Ricœur, Sé come un altro, p. 275). ↩︎
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Ricœur, Sé come un altro, p. 286. ↩︎
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Ricœur, Sé come un altro, p. 431, in cui esplora il tripode della passività: il corpo proprio, l’alterità dell’altro e la coscienza (morale). ↩︎
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Ricœur, Sé come un altro, p. 453. ↩︎
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Ricœur, Sé come un altro, p. 454. ↩︎
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Così afferma, ad esempio Bourgeois, Ricœur e Levinas: Solicitude in Reciprocity and Solitude in Existence in R.A. Cohen — J.L. Marsh, Ricœur as Another, p. 114. ↩︎
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Ricœur, Sé come un altro, p. 455. ↩︎
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Cioè la capacità di parlare, agire, raccontare, promettere… propria di ciascuno. Essa corrisponde alla sicurezza di poter essere presso di sé in ogni circostanza, per quanto questa sicurezza sia priva delle garanzie del cogito di Descartes. Si tratta, per Ricœur, di una credenza, priva di fondazione ultima, vulnerabile, più prossima alla testimonianza che alla prova, ma anche più forte di ogni sospetto. V. Attestation in O. Abel — J. Porée, Le vocabulaire de Paul Ricœur, p. 15. ↩︎
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Siamo nell’ultimo paragrafo del libro, dedicato alla coscienza morale. ↩︎
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«Alla riduzione, caratteristica della filosofia di M. Heidegger, dell’essere in debito allo spaesamento connesso alla effettività dell’essere nel mondo, E. Levinas oppone una riduzione simmetrica dell’alterità della coscienza all’esteriorità dell’altro che si manifesta nel suo volto» (Ricœur, Sé come un altro, p. 472). ↩︎
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Ricœur, Sé come un altro, p. 473. ↩︎
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Ricœur, Sé come un altro, p. 473. ↩︎
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Così Levinas in J.-Ch. Aeschlimann (ed.), Éthique et responsabilité. Paul Ricœur, p. 36. ↩︎
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«Attestando in qualche modo un significato religioso del volto d’altri e, a partire da questo, tutta l’identità di un individuo non integrato nella generalità del genere» (Levinas in J.-Ch. Aeschlimann (ed.), Éthique et responsabilité. Paul Ricœur, p. 36). ↩︎
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P. Ricœur, Altrimenti, p.43. ↩︎
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V. il sesto studio di Sé come un altro: Il sé e l’identità narrativa, p. 231ss. ↩︎
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Quelle che Ricœur analizza nell’ultimo studio di Sé come un altro, in particolare nel paragrafo Ipseità e alterità, p. 431ss. ↩︎
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Che Ricœur ha sviluppato nella sua ultima opera pubblicata Parcours de la reconaissance (2005). ↩︎
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Come mostra l’analisi ricœuriana della promessa; v. Ricœur, Sé come un altro, p. 212ss. ↩︎
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Che l’identità sia un compito è il risultato dell’analisi ricœuriana della scuola del sospetto. Su questo v. C. Ciancio, Libertà e dono dell’essere, p. 264. ↩︎
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Il riferimento è al decimo studio di Sé come un altro: Verso quale ontologia?, p. 409ss. ↩︎
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I riferimenti obbligati sono a Jacques Derrida, Donare la morte (1999) e Donare il tempo. La moneta falsa (1991), ma soprattutto a Jean-Luc Marion, Dialogo con l’amore; Ricœur evoca l’economia del dono, come prospettiva meta-etica propria dell’agape biblica nella prefazione a Sé come un altro, p. 101. ↩︎
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Le diverse capacità dell’uomo, che rispondono alle domande che riguardano la sua identità (chi parla? Chi agisce? Chi racconta? Chi è responsabile?) si manifestano esse stessa nella forma di una attestazione (io credo di poter…) e presuppongono una medesima forza di affermazione. Ma la loro radice non poggia nell’individuo stesso, nel se stesso, ma richiede anche il riconoscimento da parte di altri. «È un altro, che contando su di me, mi costituisce responsabile dei miei atti» (P. Ricœur cit. in Homme capable, in Abel — Poreé, Vocabulaire de P. Ricœur, p. 35). ↩︎
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Potremmo dire Respondeo ergo ad-sum, piuttosto che cogito ergo sum, correggendo Descartes. ↩︎
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Da interpretare come ad-esse, piuttosto che Da-sein, dove l’essere è presente appunto nella forma di una risposta all’appello. ↩︎
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In questo senso vanno sia le conclusioni di Sé come un altro e che dei Parcours de la reconnaissance. ↩︎
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I lunghi detours di Ricœur. Va mantenuta anche la distinzione fra coscienza morale (Gewissen) e auto-coscienza (Bewußtsein) che Ricœur richiama nel X studio di Sé come un altro. Solo la prima è una delle manifestazioni originarie della mia passività, quindi luogo essa stessa di costituzione del dono che io sono. ↩︎
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«Questa identità dell’io che si costituisce nell’essere per l’altro è stata descritta da Levinas come responsabilità che non può essere delegata ad altri, responsabilità soltanto mia nella quale non posso farmi sostituire […] Poiché è specifica e non generica, è per il mio prossimo, allora è una responsabilità che individualizza e che identifica. Ciò non esclude che vi siano elementi indentitari attribuibili alla costituzione dell’essere dell’uomo, alla sua concretezza naturale e storica, all’unità del suo organismo,ai processi psicologici di identificazione, alla sintesi che nella sua continuità l’io compie nei diversi momenti della sua costituzione nella sua relazione con ciò che è al di fuori di lui. Ma l’identità corporea e psichica che ne risulta non è che una condizione di esercizio di quella responsabilità per altri attraverso la quale si definisce una più forte e più vera, nel senso di più inalienabile, identità […] Sono le stesse forze che prendono una piega e un impiego diverso, che ricevono l’impronta identitaria definita dall’appello dell’altro, dal suo essere per me domanda ineludibile» (C. Ciancio, Libertà e dono dell’essere, p. 270s) ↩︎
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La costituzione dell’identità per mezzo dell’incontro originario con l’alterità è uno dei risultati dell’ontologia della libertà che C. Ciancio propone nel suo Libertà e dono dell’essere, proseguendo il progetto filosofico del suo maestro Pareyson. Ciancio propone una visione più ottimistica della libertà, rispetto ai timori levinassiani che essa significa una esclusiva autonomia dell’io, e ne fa, in contrapposizione alla necessità, comunque sia pensata, la radice ultima dell’essere, l’evento che dà luogo all’essere ponendolo e scegliendo nel contempo il bene-essere rispetto alla possibilità del nulla-male. La libertà originaria di autoafferma non in modo autoreferenziale, quanto ponendo l’altro da sé come risultato stesso dell’esercizio di sé. L’essere è dono della libertà: dono perché nasce da una posizione non necessaria, ma gratuita, ma anche dono non arbitrario o casuale, perché nasce dalla scelta della libertà di attestarsi nella posizione dell’essere, rifiutando la «tentazione» del nulla, rifiutata, ma appunto come tal posta. L’incontro con l’altro come libertà originaria irriducibile all’identità dell’io è ciò che consente all’io il processo dell’identificazione, attraverso l’assuzione di una responsabilità per la libertà che l’altro manifesta. Ciancio propone un denso legame fra libertà e dono che costituisce un suggestivo approfondimento dei temi levinassiani, in una cornice di dialogo con le istanze poste da Ricœur, anche se l’ermeneuta francese non riceve praticamente quasi nessuna attenzione nel testo. ↩︎
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P. Ricœur, Il soggetto convocato. Alla scuola dei racconti di vocazione profetica in D. Jervolino, Ricœur. L’amore difficile, p. 155ss. L’uomo profetico è reso abile dalla chiamata di Dio, che lo precede e invia, potremmo dire, seguendo Bonhoeffer, che è reso responsabile della parola stessa di Dio perché ha risposto positivamente a Dio e ad accettato, non senza conflitti interiori, di prestare a Dio la sua parola umana. L’antropologia biblica, insegna Ricœur, individua una modalità diversa rispetto alla dialettica domanda-risposta che caratterizza il percorso filosofico, da Socrate fino all’ermeneutica contemporanea, in essa la coppia significativa è quella chiamata-risposta: l’uomo biblico risponde ad una chiamata di Dio, e in questo mobilità le proprie risorse (quelle stesse che scopre di aver ricevuto da Dio stesso, sotto forma di talenti). La dialettica domanda-risposta non elude la dinamica dell’interrogativo: la chiamata di Dio interroga l’uomo sulla sua condizione e sulle sue convinzioni, soprattutto quando egli si confronta con l’esperienza del limite, ma l’interrogativo è reciproco, come ci ha insegnato Giobbe, è lo stesso Dio che chiama che è chiamato dalla creatura a rispondere del senso di ciò che avviene nel creato. Così la figura della relazione appare come quella che meglio caratterizza, nella sua poliedricità il modo biblico di parlare dell’uomo: mai l’uomo senza Dio, ma anche Dio senza l’uomo. ↩︎
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La fraternità preceda l’uguaglianza, hanno sostenuto insieme Ricœur e Levinas. ↩︎
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Va in questo senso la lettura che Ricœur propone di Kierkegaard; v. P. Ricœur, Kierkegaard. La filosofia e l’eccezione. ↩︎
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Morcelliana, Brescia 1996 (2). ↩︎
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Kierkegaard pensa, dice Ricœur, e non si limita ad esprimere sentimenti; anche se il suo pensiero segue una logica esistenziale diversa da quella concettuale dell’idealismo, e che approda ad una dialettica spezzate e senza mediazioni (la stessa dialettica briseé che anima il pensiero di Ricœur). ↩︎
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Che Ricœur interpreta nel senso di completare la critica kantiana con una critica delle possibilità esistenziali, come ricerca delle condizioni di possibilità della realizzazione del nostro desiderio e della nostra tensione ad essere; questa critica dell’esistenza può essere utilmente condotta attraverso il confronto con Fichte (la filosofia pratica) e Schelling (una filosofia dell’esistenza finita). ↩︎
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Che Ricœur interpreta nel senso di una dialettica irrisolvibile tra l’esigenza di un sistema, come richiesta ultima della filosofia e la consapevolezza che questa è una meta inaccessibile alla stessa filosofia. Vale qui il rapporto fra filosofia e religione, per cui la rappresentazione esige permanentemente di essere trascesa in concetto, ma risulta appunto impossibile congedarsi da essa. Ricœur fa giocare dialetticamente le istanze di Hegel e di Kierkegaard. ↩︎
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Questa mi pare anche la sostanza anti-idealistica del pensiero di Ricœur, che rifiuta l’autoreferenzialità della filosofia, alla pari del rifiuto della autoreferenzialità del soggetto. ↩︎
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[CpB] Paideia, Brescia 2002 (orig. 1998), scritto con André La Cocque. ↩︎
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V. Paul Ricœur, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, Jaca Book, Milano 1998 (orig. 1995), p. 98. ↩︎
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CpB p. 15. ↩︎
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CpB p. 15. ↩︎
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CpB p. 16. ↩︎