Il silenzio del divenire. Severino, Husserl e la coscienza del tempo

1. Il tempo come flusso di coscienza

La questione del tempo è una tra le cifre più importanti per capire la fenomenologia di Husserl. Il tema husserliano cruciale della soggettività trascendentale e della struttura intenzionale che la caratterizza, non può assolutamente prescindere dal fatto essenziale di essere sia costituente che costituita nella coscienza del tempo. La coscienza del tempo, intesa fenomenologicamente, come emerge progressivamente nella riflessione husserliana già a partire dalle lezioni del 1905, è l’esito di un’analisi che mette fuori gioco il tempo obbiettivo con tutte le affermazioni che lo riguardano, un’analisi, nelle intenzioni husserliane, in grado di mettere tra parentesi quel tempo mondano, reale, delle scienze della natura nonché della psicologia stessa, per lasciare emergere il vissuto del tempo colto nella sua purezza come il trascorrere immanente alla coscienza: si tratta dell’« assumere un tempo che è, ma questo non è il tempo del mondo dell’esperienza bensì il tempo immanente del flusso di coscienza».1 Non si tratta però di un indifferenziato trascorrere. L’assunzione del tema del flusso di coscienza in Husserl va inteso secondo quanto affermava Merleau-Ponty nella Fenomenologia della percezione: «il tempo presuppone una veduta sul tempo. Esso non è quindi come un fiume, non è una sostanza fluente. Se questa metafora ha potuto conservarsi da Eraclito sino ai giorni nostri, è perché noi mettiamo surrettiziamente nel fiume un testimone della sua corsa».2 Lo sguardo husserliano è sia riflessivo che descrittivo: riflessivo, attraverso l’esercizio della riduzione che disvela le strutture intenzionali in cui e tramite cui si costituiscono gli oggetti di esperienza e descrittivo, nel rendere i dettagli degli elementi strutturali, le forme eidetiche che stanno alla base del costituirsi degli oggetti d’esperienza, i fenomeni nel loro darsi nei corrispettivi atti intenzionali di coscienza:

Rientra nell’ambito della fenomenologia, proprio la descrizione che determinati atti intendono […] il rilevamento delle verità aprioriche che appartengono ai diversi momenti costitutivi dell’obbiettività. Per quanto riguarda l’apriori del tempo, noi cerchiamo di metterlo in chiaro perlustrando la coscienza del tempo, mettendone in rilievo la costituzione essenziale ed estraendone gli eventuali contenuti apprensionali e caratteri d’atto riguardanti specificamente il tempo, cui le leggi del tempo essenzialmente appartengono […] Mi riferisco a leggi di tipo ovvio come queste: che l’ordine temporale stabile è una serie bidimensionale infinita, che il loro rapporto non è reversibile, che c’è transitività, che ogni tempo ha un prima e un poi, ecc.3

L’approccio fenomenologico si distingue allora nettamente da quello delle scienze naturali e richiede dunque per Husserl la messa fuori circuito del tempo oggettivo.4 Tramite tale operazione emerge la coscienza del tempo immanente come coscienza di puri vissuti, vissuti intenzionali che si dirigono verso le determinazioni temporali di un oggetto immanente. E in virtù di tale correlazione, ogni determinazione temporale oggettuale deve darsi in un proprio atto intenzionale. Inizialmente l’analisi della coscienza del tempo si svolge secondo lo schema apprensione-contenuto d’apprensione della percezione trascendente, secondo cui la cosa viene appercepita nella sua totalità potendo cogliere direttamente solo i suoi lati particolari (verificabili), i suoi adombramenti. L’analisi del tempo immanente, quella degli oggetti temporali e della loro durata implica, analogamente che ogni fase attuale della percezione rimandi ininterrottamente, per la propria completezza, tramite la ritenzione, alla fase passata e, tramite la protensione, a quella futura. In base a questo schema apprensionale, il ricordo sarebbe ciò che fa riemergere quelle realtà passate progressivamente in ombra e poi dissoltesi nel continuo alternarsi delle ritenzioni. In tale analisi, l’oggetto temporale possiede per Husserl due significati, uno in senso lato ed uno più ristretto. In senso generale è riferito a qualsiasi oggetto percettivo (ad es. un albero in un giardino, una lampada accesa etc.) che appare nel tempo ed occupa un ora definito in una relazione spaziale del là rispetto al qui assoluto del mio corpo vivo (Leib) ed è un’unità sintetica, apprensione unitaria, appercezione di quei tratti necessariamente parziali, quegli adombramenti percettivi, via via verificabili, tramite cui si offre l’oggetto percepito. Il significato ristretto va invece riferito ad un oggetto percettivo individuale che contenga intrinsecamente un’estensione temporale, una durata, le cui parti siano distribuite nel tempo (ad esempio quella di una successione di note all’interno di una melodia). Per entrambi i sensi, si rende necessario un atto di coscienza oggettivante, come forma di apprensione piuttosto che una mera sensazione. Un’analisi dell’attività intenzionale della coscienza del tempo richiede quindi una descrizione di come gli oggetti temporali pervengano a costituirsi in atti percettivi di coscienza. Vi è qui un triplice intreccio di correlazione intenzionale: l’oggetto di percezione attualmente rimemorato era presente come percepito nel passato e l’oggetto dell’attesa futura sarà appreso come un oggetto di percezione presente. Il tratto essenziale di tale operazione è la scoperta che ciò che lega e annoda questi differenti fili del tempo è sempre il presente che si svolge all’interno di una trama continua.

Ma a partire dalle lezioni del semestre invernale 1906-1907,5 tale descrizione viene progressivamente trasformata, con l’introduzione dell’idea di una coscienza del tempo assoluta, pura intenzionalità in cui la coscienza ritiene, trattiene l’oggetto temporale e, simultaneamente, si ritiene: ritiene gli oggetti passati nel presente e ritiene se stessa in quel che già non è più. Husserl chiama la ritenzione della durata passata dell’oggetto temporale, intenzionalità trasversale (Querintentionalität) e la ritenzione del flusso trascorso della coscienza assoluta, intenzionalità longitudinale (Längsintentionalität). Per Husserl le due intenzionalità formano un’unità indissolubile in cui la temporalità del rapporto a sé e del rapporto alle cose è strettamente correlata: «vi sono, quindi, intrecciate nell’unico flusso di coscienza due intenzionalità unite inscindibilmente e necessarie l’una all’altra come due lati di una sola cosa».6 Emerge allora come la coscienza di un oggetto nel tempo sia contemporaneamente la coscienza di me stesso in quanto esperienza del tempo: si tratta dunque di descrivere la costituzione degli oggetti temporali negli atti percettivi alla luce della temporalità degli stessi atti percettivi costituenti. La coscienza di un oggetto intenzionale è anche cosciente di sé, autocosciente, ma assolutamente non in maniera oggettivante. In questo senso la coscienza immanente è manifestazione di sé: si da essa stessa senza che vi sia alcuna distanza tra la sua apparizione e la sua datità. La coscienza del tempo deve dunque, in tal modo, innanzitutto, essere intesa come coscienza del tempo e, assieme, come tempo della coscienza, una descrizione circolare che conduce al tema fenomenologico dell’auto-manifestazione della coscienza: una coscienza assoluta del tempo che ritiene sé stessa ed è in se stessa ritenente.

2. La coscienza assoluta del tempo

La coscienza della successione temporale è dunque impossibile senza il legame tra percezione passata e presente. «Ê ben evidente – afferma Husserl – che la percezione di un oggetto temporale ha essa stessa temporalità, che percezione della durata presuppone a sua volta durata della percezione, che la percezione di una qualsivoglia figura temporale ha anch’essa la sua figura temporale».7 Vi è un primo livello della coscienza interiore del tempo in cui in ogni momento della percezione viene già data una durata dell’oggetto temporale, e in cui il corso della percezione consente di seguire l’oggetto temporale nel suo dispiegarsi in continuità. Grazie al fatto che in ogni momento della percezione si offre già una durata dell’oggetto temporale, il corso della percezione consente dunque di seguire l’oggetto temporale nel suo dispiegamento continuo e vivente, come avviene ad es. nel caso della percezione della durata del suono rispetto ad una melodia. Emerge però anche un secondo livello, uno strato ultimo di coscienza, che Husserl chiama «flusso della coscienza assoluta, costitutiva del tempo»8 . Tale livello si trasforma nella coscienza assoluta del tempo, assoluta perché costituisce i diversi oggetti temporali immanenti, ne è la condizione di possibilità e quindi non è a sua volta costituita, non si trova all’interno del tempo, non è «nulla di temporalmente obbiettivo».9

In questo modo la riflessione fenomenologica sulla coscienza del tempo focalizza l’intera struttura di un’esperienza intenzionale in cui, prima di essere tematizzata, la coscienza viveva in una forma irriflessa (silenziosa) di dimenticanza di sé. Husserl descrive la vita di coscienza – indipendentemente dai suoi gradi di attenzione – come uno «sguardo dall’“ora” verso il nuovo “ora”, […] qualcosa di originario, che per primo prepara la strada per future intenzioni di esperienza».10 L’esperienza percettiva del presente, la presentazione (Gegenwärtigung) è dunque il fondamento di tutta la coscienza del tempo. Ma la coscienza del presente non è una semplice coscienza istantanea di un’ora puntuale del tempo oggettivo. Husserl ritiene che un atto di percezione sia un processo continuo, attraversato da un vincolo di coscienza, da un atto di apprensione che ha un’unità, per cui già in una fase presente di tale processo si trova necessariamente implicata la coscienza delle fasi precedenti e successive.11 Il ricordo (la rimemorazione) e l’attesa (l’anticipazione futura) che fluiscono in essa, sono atti di ripresentazione (Vergegenwärtigung) che mettono in opera un raddoppiamento del presente e che non devono essere affatto confusi con la presentazione (Gegenwärtigung) ma vanno necessariamente distinti dall’intreccio continuo dei momenti ritenzionali-protensionali non indipendenti – in quanto tra loro necessariamente vincolati – di qualsiasi atto intenzionale che si svolge nel presente. Si tratta dell’importanza dell’alternarsi strutturale, lungo l’asse ininterrotto della coscienza assoluta, di ritenzione e protensione, che sempre più, a partire dai materiali di ricerca di Bernau del 1917-18,12 si afferma nella fenomenologia del tempo husserliana come fenomenologia genetica: il formarsi di un continuum di auto-differenziazione che si rivela come la condizione stessa di possibilità per il fungere della coscienza del tempo.

Nell’intenzionalità longitudinale, la coscienza assoluta non apprende dunque mai sé stessa come un oggetto, ma nell’intenzionalità trasversale essa apprende tuttavia degli oggetti. Dal momento che le sue due funzioni son dette inseparabili, la coscienza assoluta è coscienza originaria, coscienza cioè dell’origine della differenza tra soggetto e oggetto. Ma tale coscienza, paradossalmente, non è mai in pieno possesso di sé. Al contrario, la riflessione fenomenologica mette in luce lo svolgersi di una genesi passiva in cui la coscienza non apprende se stessa se non nell’esser già stata modificazione ritenzionale. La presenza della coscienza a sé medesima si forma dunque sullo sfondo dell’assenza. Tutto ciò non contraddice il ruolo centrale nella coscienza assoluta occupato dall’impressione originaria. Essendo costantemente accompagnata dalla ritenzione, l’impressione originaria non esaurisce affatto il presente della coscienza nel suo riproporsi. Se il tempo di tale autodatità della coscienza assoluta può ancora venir chiamato presente, bisogna allora dire che il presente è l’incontro o la differenza tra il presente e il passato. Tale presente originario (Urgegenwart) è dunque in sé un presente-che-diviene-passato.13 La coscienza originaria del tempo, nel fungere della sua triplice declinazione temporale come memoria primaria, impressione originaria e attesa primaria, si rivela allora essere un continuum di auto-differenziazione che si costituisce come questa stessa differenza e, assieme, come la sua interna condizione di possibilità.14 Tale fungere della coscienza originaria del tempo sfugge alla definizione e può essere descritto come flusso solo metaforicamente, poiché, come afferma Husserl:

È qualcosa che noi chiamiamo così in base al costituito, ma che non è nulla di temporalmente “obbiettivo”. È l’assoluta soggettività ed ha le proprietà assolute di qualcosa che si può indicare, con un’immagine, come flusso di qualcosa che scaturisce in un punto d’attualità in un punto che è fonte originaria, in un “ora”, ecc. Nel vissuto dell’attualità, noi abbiamo il punto fonte originaria e una continuità di momenti di risonanza. Per tutto questo ci mancano i nomi.15

Questo fungere della coscienza come fase assolutamente originaria dell’adesso vivente (das Moment des lebendige Jetz),16 è uno dei temi essenziali della ricerca husserliana attorno alla coscienza del tempo, «sforzo prolungato fino alla fine della sua opera per nominare l’attualità vivente, la urtümliche stehend-strömende Vorgegenwart, della coscienza assoluta».17 Tuttavia per Husserl la coscienza ritenzionale possiede anche un carattere finito oltre a quello tendenzialmente infinito: quello del progressivo diradare delle ritenzioni nel raggiungimento di un orizzonte silenzioso in cui la visibilità intuitiva e la forza affettiva si dissolvono interamente, condizione però altrettanto costitutiva perché possa darsi nella coscienza ritenzionale un passato e la sua presentificazione, altrimenti «nulla potrebbe diventare passato per me, e la mia vita sarebbe soffocata nell’accozzaglia ammassata nel mio vivere presente nella sua espansione senza limite. […] Ciò che viviamo non ci lascia mai, ma rimane 'dormiente' nel nostro passato aperto alla riattivazione in atti di ridestamento chiamati ricordo o riflessione».18

3. Una nuova definizione di divenire

L’intimità assoluta tra coscienza e tempo messa in luce dalla riflessione husserliana, rientra, a pieno titolo, con la sua densità problematica e la sua aporetica, nella messa in discussione di quella dimensione di profonda persuasione, la fede inconscia nel divenire del tempo ed il suo radicamento nell’essenza dell’Occidente, magistralmente indagata negli scritti di Emanuele Severino: l’inconscio nichilistico che le cose siano niente, la persuasione inconsapevole che esista un tempo in cui ente e nulla coincidono, un tempo in cui si dia l’impossibile: che l’ente sia e assieme non sia, che il sé sia l’altro da sé, «che l’essente, in quanto tale, sia separato dal suo essere, e che pertanto, per essere, debba divenire, cioè procedere dal non essere all’essere […] sì che da ultimo, non potrà che riunirsi definitivamente al proprio nulla dopo essersene provvisoriamente separato».19 Il quadro dell’aporetica della fenomenologia della coscienza del tempo husserliana, perlomeno per quanto concerne la sua caratteristica bidimensionale, mi sembra, per certi versi, del tutto simile a quella forma binaria della temporalità dell’intuizionismo di Brower, discussa da Severino, secondo cui la matematica «prende origine dalla percezione di un passaggio di tempo, dallo scindersi di un momento della vita in due cose distinte, una delle quali cede il posto all’altra ma è conservata dalla memoria».20 Secondo Brower, se togliamo da tale biunità ogni unità qualitativa che le appartiene (una sorta di riduzione) rimane la forma vuota del loro sostrato comune, in tale forma viene a costituirsi l’intenzione base della matematica:

Ê la percezione di un passare, di un movimento temporale nel quale un qualsiasi momento dell’esperienza, o della “vita” si scinde in due cose. Che una di esse ceda il posto all’altra significa che ciò che si scinde è appunto la cosa che cede il posto all’altra. Scindendosi, questa cosa è qualcosa che diventa qualcos’altro. In questo diventare qualcos’altro, il qualcosa iniziale […] diventa nulla: il suo esser conservato nella memoria significa infatti che la sua esistenza reale non è conservata, ossia è diventata nulla. Ma, insieme […] il qualcosa iniziale diventa qualcos’altro.21

Il senso di tali affermazioni, il rilevamento della loro contradditorietà, poggiano sull’indicazione fondamentale, mai abbandonata lungo l’itinerario del pensiero di Severino: quella del destino della verità, in cui viene fissata una volta per tutte la sua struttura originaria: il luogo dell’«apparire dell’esser sé dell’essente, di tutti gli essenti che appaiono» e «la cui negazione è auto negazione». Su tale luogo si fonda per Severino incontrovertibilmente il senso originario della necessità: l’impossibilità che qualsiasi essente in quanto tale non sia e quindi anche la necessità della sua eternità.22 «Poiché è necessario che ogni ente sia eterno, allora è necessario che quel che sembra un uscire dal nulla e un ritornarvi (e che sembra così perché appare nel suo esser separato dall’eternità di ogni essente) sia invece il comparire e lo scomparire degli eterni».23

La negazione dell’esser sé dell’essente, è autonegazione non solo in quanto essa nega l’essere sé dell’essente in actu signato negando sé stessa in actu exercito, ma anche in quanto nega l’apparire dell’esser sé, poiché se essa non fosse l’apparire dell’essere sé, non sarebbe nemmeno in grado di negarlo. Anche tale apparire è dunque ciò senza di cui la negazione dell’apparire dell’esser sé non potrebbe costituirsi; sì che negandolo, essa nega ciò senza di cui è impossibile che essa sia: e quindi «l’autonegazione della negazione dell’essere sé è, insieme, autonegazione della negazione dell’apparire dell’esser sé».24 L’eternità dell’essente in quanto essente, significa l’eternità di ogni essente e dunque anche di quell’essente in cui consiste la contraddizione, la negazione di tale eternità, quella fede nichilistica nel tempo che contraddistingue essenzialmente ciò che Severino chiama l’apparire dell’isolamento della terra dal Destino della verità. Essa appare dunque in quanto tale, come essente, ma appare assieme all’impossibilità del proprio contenuto che è un nulla, in quanto è la negazione auto-contradditoria della verità del Destino.

Nel linguaggio che Severino chiama testimonianza della verità del Destino, il significato del divenire assume un senso profondamente diverso da quello nichilistico dell’entrare ed uscire dal nulla da parte degli essenti. Si tratta, per Severino, sullo sfondo dello spettacolo eterno e intramontabile della totalità degli essenti, del comparire e dello scomparire infinitamente sempre cangiante, degli essenti che appaiono in quel che viene chiamato il cerchio finito dell’apparire. Il cerchio finito dell’apparire è ciò che abbraccia l’apparire di ogni essente che appare come condizione autoincludentesi del loro apparire (in un modo formalmente del tutto simile all’automanifestatività della coscienza assoluta del tempo husserliana). Tale orizzonte trascendentale appartiene, come suo tratto, allo sfondo intramontabile del destino, il campo persintattico: l’insieme di quelle costanti che appaiono ovunque qualcosa appare, quali ad es. l’eternità dell’essente in quanto essente e pertanto di ogni essente, e la necessità dell’esistenza dell’apparire infinito della totalità degli essenti. Appare dunque, nelle intenzioni di tale linguaggio (dove va essenzialmente distinto, come spesso ricorda Severino, l’interpretazione da ciò che viene interpretato), un senso assolutamente inaudito del divenire:

Come il “sopraggiungere” e “l’incominciare ad apparire” non possono significare, nella struttura originaria del destino, l’incominciare a essere da parte dell’apparire di ciò che incomincia ad apparire, così il “non apparir più” non significa la perdita, il cessare di essere da parte dell’apparire di ciò che cessa di apparire. Lo scomparire di un essente è cioè l’incominciare ad apparire di un altro essente. Quando la voce del vento scompare, è seguita dall’apparire di un silenzio in cui le cose che rimangono mostrano un altro volto. Il sopraggiungere di questo silenzio è il compimento dell’apparire della voce del vento.25

E dunque ogni essente, che sopraggiunge nell’apparire o che scompare già da sempre implica con necessità ogni altro essente, è debitore per il suo apparire al vincolo necessario con la totalità degli essenti. «Ma nel finito in cui consiste il cerchio originario del destino (come in ogni altro cerchio) la totalità (infinita) degli essenti non appare ed è impossibile che appaia».26 Si tratta di quel che Severino chiama contraddizione C della struttura originaria del Destino, secondo cui in essa «appare come totalità degli essenti ciò che, non mostrando la concretezza che necessariamente gli compete, non è la totalità degli essenti».27 L’apparire del destino nel finito è una contraddizione C, non è però una contraddizione normale pertanto non è «un positivo significare del nulla», ma è il modo astratto in cui appare la verità dell’essere: la relazione necessaria di ogni essente che appare, con l’apparire infinito della totalità degli essenti. Non c’è contraddizione –afferma Severino – tra l’affermazione che il variare del contenuto che appare nella struttura originaria è il comparire e lo scomparire degli eterni che appartengono all’apparire infinito della totalità degli essenti e l’affermazione che gli eterni che appaiono nel finito, quindi anche gli eterni che compaiono e scompaiono, differiscono da sé in quanto appartenenti all’apparire infinito. Proprio perché tutto ciò che appare nel finito è contraddizione C, essa è tolta non già dall’oltrepassamento del suo contenuto, ma dall’oltrepassamento della forma finita del suo apparire, sì che il suo contenuto, in quanto tale, è lo stesso nell’apparire infinito e nell’apparire finito, ed è per questa medesimezza che il sopraggiungere nel finito è il cominciare ad apparire degli eterni.28

Il linguaggio che testimonia il destino appartiene allora necessariamente anch’esso alla terra isolata, là dove però tale testimonianza mostra quella dimensione persintattica dove tale isolamento è già eternamente oltrepassato. La necessità dell’oltrepassamento concreto della forma finita degli eterni in cui appare la dimensione dell’errare, del dolore e della morte della terra isolata è la promessa del Destino formulata da Severino in La Gloria.29 La Gloria mostra la necessità che ogni eterno sopraggiungente nei cerchi del destino sia oltrepassato e che dunque la struttura originaria si liberi all’infinito (all’infinito essendo impossibile che l’infinito in cui ogni contraddizione è eternamente tolta, venga ad apparire nel finito) anche dalla contraddizione dell’isolamento della terra.30 Gli scritti di Severino vanno risolvendo di volta in volta i problemi implicati in tale promessa.

4. Il divenire e la morte

Il compito essenziale della Struttura Originaria,31 era quello di indicare la necessità di uscire dalla contraddizione C. Non vi riesce la proposta pratica indicata in Studi di Filosofia della Prassi,32 secondo cui una certa fede può essere ciò che salva la struttura originaria della verità dalla contraddizione. Questione che rimane sostanzialmente invariata in Essenza del nichilismo (nel Sentiero del giorno e in La terra e l’essenza dell’uomo).33 In Destino della necessità «si mostra la necessità che il problema della libertà del decidere e della contingenza degli eventi sia risolto negando la loro esistenza». Ma rimane irrisolto il problema se la terra «sia destinata alla solitudine (all’isolamento dal destino) o all’oltrepassamento della solitudine». La Gloria risolve tali problemi, mostrando «la necessità che l’isolamento della terra sia oltrepassato e che la terra che salva dall’isolamento proceda poi lungo un sentiero infinito dove l’apparire infinito del destino si mostra in modo sempre più concreto nella costellazione dei cerchi del destino». Nel cap. XI, si mostra come la persintassi che appare in ogni cerchio è «la sintassi infinita» che l’apparire finito e l’apparire infinito del destino hanno in comune.34 Rimane però aperto il problema che, nonostante l’oltrepassamento, la solitudine della terra debba prolungarsi, seppure per un periodo finito dopo la morte della volontà empirica. «Tale problema che rimane aperto anche in Oltrepassare,35 è risolto da La morte e la terra,36 dove si mostra che “l’istante” da cui la morte della volontà empirica è immediatamente seguita è a sua volta immediatamente seguito dal tramonto dell’isolamento della terra, sì che quel ritornare nella solitudine della terra è impossibile».37

Per il senso nichilistico del divenire, la fede nel diventar altro degli essenti ogni diventar altro, è il processo continuo della morte di ciò che diventa altro sino alla morte vera e propria, la morte fisica intesa come estinzione di ogni divenire. «Il diventar altro da parte di qualcosa è il morire di ciò che esso era e non è più. Basta una voce lontana per “rompere il silenzio”, […] ma questo suo rompersi è il suo non esser più, il suo morire appunto. E il morire non è una metafora, va inteso alla lettera: ora quel silenzio è nulla».38 E qui si riallaccia il nodo cruciale della fenomenologia del tempo husserliana. Il riemergere attraverso il ricordo, la ri-presentazione del presente passato nella coscienza del tempo, non è semplicemente– come si è visto – il fantasma di ciò che è stato. Non si tratta quindi per Husserl di un nulla, un qualcosa che riappare nel suo non esser più, poiché il passato si mantiene (viene ritenuto) – anche se modificato – assieme al mantenere (al ritenere) se stessa da parte della coscienza assoluta del tempo. Tale divenire, il ripetersi del presente in altro tramite la modificazione ritenzionale operata dal ricordo, si arresta inevitabilmente di fronte alla morte, all’alterità assoluta, modificazione assoluta del non poter più divenire. In un’annotazione del 1932, Husserl avvicina questa trascendenza al senso enigmatico della morte intesa come alterità assoluta, in cui si dissolve totalmente la riflessione sul tempo, parlando di un «luogo per la possibilità della morte che non è rappresentabile nell’auto-osservazione egologica, che non può avere alcuna intuizione conforme al vissuto».39 Questo enigma, il silenzio assoluto della morte che coincide con quello del divenire, si radica per Severino in quella fede che viene chiamata malafede trascendentale:

Il silenzio ininterrotto […] dopo un certo tempo è stato interrotto; è poi passato altro tempo e ora si “rifà” il silenzio “di prima”. È la terra isolata a credere che “si rifaccia il silenzio di prima”, e cioè che nel silenzio di prima e in questo nuovo silenzio vi sia qualcosa di identico che permane nonostante l’interruzione che li ha divisi. […] Quando appare il nuovo silenzio il silenzio di prima, se appare, appare nel ricordo, ossia è diventato altro, non è più, è morto. […] Si può dubitare della “verità” di ciò che si ricorda. […] Nel destino della verità appare l’impossibilità di ricordare ciò che, non essendo più, è ormai un nulla e appare l’impossibilità che esista un sostrato il quale si costituisca come ciò che vi è identico tra il silenzio morto e nullo, e il nuovo e vivo silenzio. Questo tacere quel che tuttavia appare è “la malafede trascendentale” in cui consiste ogni fede.40

Non si tratta dunque di una scelta o di una decisone consapevole ma di quella condizione fondamentale, in cui il dubbio è strettamente annodato alla certezza, che caratterizza la terra isolata dal destino della verità come fede nel diventar altro. La malafede trascendentale è la fede nel permanere di un sostrato da cui possono riemergere, come ricordi, i frammenti del passato, di ciò che non è più, ma è anche quella fede in cui appare l’originaria volontà di potenza, volontà che è persuasa di poter intervenire a sua volta per modificare questo diventar altro, un processo destinato inevitabilmente ad arrestarsi di fronte all’interruzione totale provocata dalla morte: si tratta, secondo Severino, di quella stessa fede che chiamo «la mia vita»:41

Nella terra isolata di ogni cerchio, la fede nell’esistenza della propria vita crede, in forme diversamente esplicite e consapevoli, che la propria vita sia un diventar altro dove il permanere viene interrotto in due sensi primari: nel senso che dopo l’interruzione il ricordo non restituisce l’interezza del passato, ma tratti separati di esso, e nel senso che la morte interrompe definitivamente il modo in cui questa nostra vita è un diventar altro. […] La morte interrompe la permanenza della vita in modo essenzialmente più radicale delle altre forme di interruzione. Il corpo non interviene più per trasformare il mondo e sé stesso; e ciò significa che la volontà, inseparabile dal mondo, non vuole più il mondo, ossia non è più volontà.42

Nel linguaggio che testimonia il Destino, la morte assume invece un significato radicalmente diverso: la morte è l’apparire del compimento di una volontà nel cerchio finito dell’apparire del destino, con il pervenire a compimento di tale volontà, giunge a compimento anche l’isolamento della terra in cui essa consiste (è il perfectum, ciò che è compiutamente apparso). Il compimento però non significa il tramonto totale dell’isolamento che richiede necessariamente che esso tramonti in tutti i cerchi infiniti del destino. La morte della volontà che appare in un cerchio del destino è però il compimento di questa volontà, l’ultima fase di tale apparire.43 In quanto compimento essa richiede «nel cerchio in cui la volontà muore», un essente diverso dall’essente il cui permanere nell’apparire ha compimento, un diverso in cui consiste il destino non più contrastato dalla terra isolata.44 Nell’istante in cui la volontà si dilegua, muore, e la singola morte si compie come ultima volontà, lo sfondo del Destino appare nella sua totalità concreta e infinita ma appare però come ultimo riflesso dello sfondo contrastato dall’isolamento e cioè, «appare […] nel suo essere ancora contrastato dalla terra isolata; non sporge al di fuori del contrasto, vi è ancora rinchiuso. Per un istante».45 In tale istante, in cui accade il compimento della volontà interpretante, avviene necessariamente anche il compimento del linguaggio, il suo tacere. Non si tratta solo del silenzio inteso come il tacere definitivo in cui consiste ogni fede come volontà di governare il divenire, ma di un silenzio in cui il linguaggio si ritrae assolutamente, il silenzio evocato dalla promessa dell’apparire infinito dello spettacolo eterno: il silenzio di quello splendore che necessariamente deve seguire subito dopo tale istante.46


  1. Cfr. E. Husserl, Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstesens (1893-1917), Husserliana (d’ora in poi HUA e numeraz. sgg.), vol. X, M. Nijhoff, Den Haag 1969, tr. it. di A. Marini, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, Franco Angeli, Milano 1992, p. 44. ↩︎

  2. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, tr. it. di A. Bonomi, Il Saggiatore, Milano 1965, p. 527. ↩︎

  3. HUA X, tr, it. cit., p. 48. ↩︎

  4. Cfr. ivi, §1. ↩︎

  5. Ivi, § 39, pp. 106-109. ↩︎

  6. Ivi, p. 109. ↩︎

  7. Ivi, p. 59. ↩︎

  8. Ivi, p. 101. ↩︎

  9. Ivi, p. 102. ↩︎

  10. E. Husserl, Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung 1898-1925, HUA XXIII, M. Nijhoff, Den Haag 1980, p. 259. ↩︎

  11. Cfr. HUA X, tr. it. cit., pp. 244-246. ↩︎

  12. Cfr. E. Husserl, Die 'Bernauer Manuskripte' über das Zeitbewußtsein (1917/18), HUA XXXIII, Kluwer, Dordrecht, 2001. ↩︎

  13. Cfr. R. Bernet, La vie du sujet. Recherches sur l’interprétation de Husserl dans la phénoménologie, Puf, Paris 1994, pp. 234-235. ↩︎

  14. Cfr. N. de Warren, Husserl e la promessa del tempo, tr. it. di S. Vincini, ETS, Pisa 2017, p. 162. ↩︎

  15. HUA X, p. 102; cfr., analogamente, la risonanza di tale soggettività inoggettivabile in HUA XXXIII, pp, 277-278: «L’io non è un essente bensì la controparte di tutto l’essente, non un oggetto ma la postazione originaria rispetto a tutto ciò che è oggettuale. L’io non dovrebbe effettivamente chiamarsi io, non dovrebbe chiamarsi affatto, poiché altrimenti è già diventato oggettuale. Esso è il Senza-nome al di sopra di tutto quanto si può cogliere, non ciò che sta, aleggia, è sopra tutto, bensì ciò che funge, cogliendo, valutando etc.». ↩︎

  16. Cfr. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologische Philosophie, HUA III, M. Nijhoff, Den Haag 1980, tr. it. a cura di V. Costa, Introduzione di E. Franzini, Einaudi, Milano, p. 190. ↩︎

  17. R. Bernet, La vie du sujet. Recherches sur l’interprétation de Husserl dans la phénoménologie, cit., p. 233. Cfr. E. Husserl, Späte Texte über Zeitkonstitution (1929-1934), Springer, Dordrecht 2006, pp. 29-34. ↩︎

  18. N. de Warren, Husserl e la promessa del tempo, cit., p. 173; cfr. HUA XXXIII p. 67. ↩︎

  19. E. Severino, La morte e la terra, Adelphi, Milano 2011, p. 216. ↩︎

  20. E. Severino, Testimoniando il destino, Adelphi, Milano 2019, pp. 361-362. ↩︎

  21. Ivi, p. 362. ↩︎

  22. Ivi, pp. 18-19. ↩︎

  23. Ivi, p. 101. ↩︎

  24. Ivi, p. 70. ↩︎

  25. Ivi, p. 85. ↩︎

  26. Ivi, p. 81. ↩︎

  27. Ivi, p. 67. ↩︎

  28. Ivi, p. 103. ↩︎

  29. Cfr. ivi, pp. 120-121. Cfr., E. Severino, La Gloria, Adelphi, Milano 2001. ↩︎

  30. Cfr., E. Severino, Testimoniando il destino, cit., pp.127-128. ↩︎

  31. E. Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981. ↩︎

  32. Id., Studi di filosofia della prassi, Adelphi, Milano 1984. ↩︎

  33. Id., Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982. ↩︎

  34. E. Severino, La Gloria, Adelphi, cit., pp. 439 sgg. ↩︎

  35. Id., Oltrepassare, Adelphi, Milano 2007. ↩︎

  36. Id., La morte e la terra, cit.,. ↩︎

  37. Cfr. Id., Testimoniando il destino, cit., pp. 121-122. ↩︎

  38. Ivi, p. 165. ↩︎

  39. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass, Dritter Teil: 1929-1935*, HUA XV, Nijhoff, Den Haag 1973, p. 452. ↩︎

  40. E. Severino, Testimoniando il destino, cit., pp. 168-169. ↩︎

  41. Cfr. ivi, p. 170. ↩︎

  42. Ivi, pp. 174-175. ↩︎

  43. Cfr., ivi, pp. 190-192. ↩︎

  44. Cfr., ivi, p.192. ↩︎

  45. E. Severino, Intorno al senso del nulla, Adelphi, Milano 2013, p. 97. ↩︎

  46. Cfr., E. Severino, Testimoniando il destino, cit., p. 198. ↩︎