Sacro e vita quotidiana. Centri e periferie dello spirito nell'uomo contemporaneo

Introduzione

Affrontare il tema del centro e della periferia in ambito spirituale, oggigiorno, conduce l’intellettuale ad un bivio: dovrà stabilire quale sia il proprio «centro» preferito occupandosi, ad esempio, delle differenze abissali fra arte sacra e arte contemporanea, parteggiando per l’una o per l’altra in base al gradiente di nostalgia antiquaria oppure, viceversa, di avventurosità antropologica? Dovrà trattare la monumentalità dei centri storici come cimeli di un dio morto, offesi dal mercato globale che imperversa ai piedi del sagrato? La questione è fortunatamente più complessa e non richiede necessariamente appartenenze specifiche se non quella al genere umano.

L’uomo abita stabilmente, o percorre saltuariamente, se non eccezionalmente, vie delle città con una frequenza e una eterogeneità di scopi completamente inedita nella storia delle città. Questo produce ciò che il sociologo Georg Simmel chiama «atteggiamento blasé», ossia l’ostentazione di freddezza e indifferenza cui l’uomo metropolitano ricorre nell’ottica di salvaguardarsi dalla minaccia variopinta dell’ambiente esterno. Ne tratta in modo diffuso Richard Sennett in un passaggio che possiamo considerare emblematico, per il tema che in questa sede trattiamo:

La parola “blasé” non rende giustizia all’idea di Simmel anche perché egli pensa all’ansia in un contesto più ampio. La maschera che indossa una persona per proteggersi emana una sorta di razionalità. Una persona si ritrae e calcola, invece di reagire impulsivamente […] La grande città concentra questa forza aggressiva nelle folle; costituiscono una minaccia alla vita interiore. La loro densità induce l’individuo a rinchiudersi in se stesso: anche se sovraeccitato, esteriormente non rivela nulla.1

Facciamoci caso: quando siamo abituati a vivere nella nostra città, ci perdiamo nei nostri pensieri e il centro storico diventa sfumato, alla nostra vista. Quando visitiamo una città a noi prima ignota, o in cui non abbiamo un’utilità immediata da coltivare, il nostro naso punta all’insù e cominciamo a sorprenderci della magniloquenza di un luogo in cui misteriosi uomini del passato hanno sacrificato vite, comunità, risorse per permetterci quella via, quella piazza. Eppure, anche lì un indigeno arruffato e mesto si sta dirigendo in un ufficio, a consegnare un farraginoso documento burocratico. Noi invece in quel tempo e spazio siamo pervasi dalla storia. In quel fantomatico corso Garibaldi di una città non-nostra rivediamo i Mille, mentre l’indigeno vede l’ufficio per pagare le tasse. Chi è veramente «in centro» e chi è «periferico» rispetto ad esso, in quell’istante? Noi periferici meravigliati o l’abitante ammutolito dall’abitudine?

Ciò perché lo «spirito di un centro» non afferisce solo alle città come luoghi fisici, ma anche ai tragitti che l’uomo percorre rispetto a qualunque forma di centro e periferia. Anche in campo religioso vi sono viandanti, senzatetto, pendolari, turisti, ufficiali e governanti, se pensiamo alle differenze fra le religioni come istituzioni contigue alle politiche che definiscono le identità formali di un luogo, e le spiritualità complesse in campo multiculturale che invece vivificano e nidificano in quel luogo intensificando quella che invece è un’identità sostanziale.

Ma l’uomo non è solo un contenitore per credenze, non è solo un prodotto culturale che cammina su due gambe, non è solo un indefesso cittadino nell’ingranaggio utopico della città del Sole di Tommaso Campanella, ma anche un popolarsi di idee e sentimenti contrastanti che rinnegano parentele con le divinità o le cercano disperatamente perché anche un uomo è una città che cambia nel tempo. Come dice Elias Canetti ne La provincia dell’uomo: «Com’è facile dire: trovare sé stesso! Quanto ci spaventa quando davvero accade!».2

È lo stesso spavento che, proprio in Campanella, in modo più interessante rispetto al più celebre delle sue opere, prende figura nel sonetto Senno senza forza de’ savi che le genti antiche esser soggetto alla forza dei pazzi. Campanella narra l’apologo di alcuni indovini che prevedono l’arrivo di una costellazione che avrebbe fatto impazzire gli abitanti di un villaggio. Essi decidono di fuggire per rimanere savi e per ripresentarsi, trascorso l’evento, come sagge guide di quella popolazione in balia della privazione di senno. La vicenda volge però in un finale drammatico, perché il più scellerato tra tutti prende il governo e i poveri astrologi al loro ritorno sono costretti a uniformarsi, sottomettendosi agli altri.3

È forse questa la parabola dell’uomo spirituale di oggi? Campanella, nel caso del suo sonetto, così la definiva: «parabola mirabile per intendere come il mondo diventò pazzo per lo peccato, e che gli savi, pensando sanarlo, furon forzati a dire e fare e vivere come gli pazzi, se ben nel lor segreto hanno altro avviso».4 Qual è il ruolo dell’uomo spirituale nell’epoca attuale? Forse egli ha preservato lo spirito nella piena della secolarizzazione e dei cantori del nichilismo, per poi ritrovarsi ora, in un mondo post-secolare, ad essersi trasformato in un essere periferico che con fatica è costretto a edificare nuovi centri in luoghi impervi? Forse siamo ancora immersi nella polarizzazione agostiniana fra Civitas Terrena e Civitas Dei.5

Anche nei terreni dell’anima una volta divisi fra caverne e sterpaglie, poi posseduti da templi e cattedrali, oggi si divincolano grattacieli, piazze, vicoli ciechi e boschi verticali. Nessuna città si costruisce cancellando la precedente, ma costruendovi sopra dove si può, non riuscendo a coprire per intero anfratti che ancora trovano linfa vitale con un sofferto ma implacabile sospiro. L’uomo nel suo presente è la somma di queste irregolarità geometriche. Ad esempio: quanto è sorniona la Piramide di Cestio a Roma vicino a Porta San Paolo, mentre un tassista urla improperi contro una macchina elettrica, e mentre un adolescente attende di attraversare con gli occhi fissi su Tik Tok? Come fa quel 18 Avanti Cristo a dialogare con l’aggiornamento delle app previsto per le ore 16? Come fa al contempo un dio antico ad abitare il cuore di un uomo alle porte della sua robotizzazione? Esiste dunque un piano per cui il centro e la periferia non sono parti di una città dell’uomo, bensì nell’uomo. Il centro di questa città è il Sacro? O perlomeno lo è ancora? Oppure la sfera spirituale è una periferia rispetto alle confuse trame della vita quotidiana così oberata da logiche di profitto economico, emotivo e relazionale? Qual è lo scarto che rende il mistero del nostro esistere un punto di domanda cui non rispondiamo più nello stesso modo? Se quello religioso viene comunemente chiamato orientamento, nella nostra mappa attuale dobbiamo ridisegnare dei confini, percorrendo nuovamente alcuni isolati e sentieri.

In questa direzione d’indagine siamo costretti a chiederci quale sia l’esperienza del sacro che l’uomo vive in questo momento storico, e Julien Ries ci fornisce delle coordinate precise per capire la decentralizzazione del sacro:

Grazie a una società industriale e a una cultura in pieno mutamento tecnico nella civiltà planetaria del XX secolo, una potente corrente secolarizzante rifiuta l’esperienza religiosa come fenomeno personale e sociale valido per il mondo attuale. Veicolata in particolare dai media dei paesi industrializzati, questa corrente mette l’accento sull’importanza dello Stato laico, sul primato della tecnologia, sullo spirito critico nei confronti delle credenze religiose, sull’erosione della morale tradizionale e sulla necessità della sua sostituzione con valori di solidarietà e con l’aspirazione alla felicità. Sul piano simbolico, i suoi sostenitori vogliono la soppressione dei sogni del sacro nei luoghi pubblici, nel culto, nella costruzione delle chiese, negli abiti, persino nella celebrazione del culto. Ai sostenitori del sacro rispondono con il bisogno della banalizzazione nella vita dell’uomo moderno e con la necessità del «disincanto del mondo».6

In quest’ottica secolare denunciata da Ries il sacro viene inquadrato come una visione non obiettiva della realtà, laddove invece la scienza ne consente il dominio senza zone d’ombra epistemologiche. Ciò rappresenta il riflesso immediato delle posizioni positivistiche della seconda metà dell’800, in cui la religiosità viene derubricata a caratteristica dell’uomo premoderno che necessita di Dio per esorcizzare l’ostilità della natura.7

La «città secolare» di Harvey Cox

Un autore che ha fatto i conti con paradossi e complessità del tema secolare è sicuramente il teologo Harvey Cox (Phoenixville, Pennsylvania 1929) con il suo famoso volume «La città secolare» del 1965.8 La differenza che giova capire fra secolarizzazione e secolarismo è capitale:

La secolarizzazione [è] un termine descrittivo […] Dovunque si manifesti, però, dovrebbe essere accuratamente distinta dal secolarismo. La secolarizzazione implica un processo storico […] in cui la società e la cultura vengono liberate dalla tutela del controllo religioso e da concezioni metafisiche del mondo troppo chiuse […] Il secolarismo, al contrario […] è un’ideologia, una nuova concezione del mondo chiusa. Mentre la secolarizzazione trova le sue radici nella stessa fede biblica […] il caso del secolarismo è del tutto diverso. Come ogni altro -ismo, esso rappresenta una minaccia per l’apertura e la libertà prodotta dalla secolarizzazione; dev’essere, perciò, tenuto attentamente d’occhio, per impedirgli di divenire la nuova ideologia dominante.9

Cox descrive la metropoli moderna come il luogo della convivenza delle diversità e al contempo come esempio della nostra concezione del mondo. L’itinerario storico è quello per cui i «Greci immaginavano il cosmo come una polis immensamente estesa, l’uomo medievale lo vedeva come castello feudale ampliato all’infinito, noi sperimentiamo l’universo come città dell’uomo».10 In quest’itinerario sintetico, Cox riduce d’importanza l’esperienza religiosa della vita tribale primitiva.11 Le tribalità appartengono a uno stadio nel quale le credenze degli spiriti hanno indubbio valore spirituale, ma faticano a codificarsi in una struttura esteriore appellabile come «città», poiché l’energia di ciascuno è troppo spesa nello «sforzo di conservare la vita».12 Per Cox gli uomini religiosi istituzionalizzano il sacro non essendo scissi dalle condizioni economiche che permettono la nascita della città. La città secolare è la tecnopoli che sposta i riflettori di Dio in base alla scena del teatro umano: «L’uomo tribale si fonde col suo demone e col suo gruppo. L’uomo della città è un uomo prudente, che legge Robinson Crusoe. Gli dèi dell’uomo tribale turbinano con lui nella notte dell’estasi sensuale. Il Dio dell’uomo di città lo chiama da una distanza infinita a lavorare saggiamente alla luce del giorno dell’autodisciplina. Questo confronto può far sembrare l’uomo di città limitato e arido, ma non dovremmo trattarlo troppo severamente, innanzitutto perché molto raramente egli è stato fedele, nella realtà, all’immagine che noi ne abbiamo dipinta, e in secondo luogo perché egli stava preparando la via alla civiltà tecnologica».13

La secolarizzazione intesa da Cox prende le distanze dalle implicazioni decadenti che Max Weber metteva sotto il cappello del «disincanto».14 Nella nuova introduzione del 2013 a La Città Secolare l’autore puntualizza un aspetto fondamentale del suo noto volume:

La religione non è affatto scomparsa, si è solo trasformata in diversi aspetti istituzionali disperdendosi in ambiti culturali più ampi. L’incanto si è semplicemente trasferito sul mercato e sul denaro, aspetti della vita che sono stati sovraccaricati di qualità magiche e rituali [...] Il solo fatto che normalmente non concepiamo questi fenomeni come «religiosi» non significa che non lo siano. A trarci in inganno è la pratica provinciale occidentale di delimitare la religione come una sfera separata dalla politica e dall’economia, qualcosa che poche altre culture (se non addirittura nessuna) fanno. Proprio come in una precedente fase storica lo zelo spirituale è migrato dai gruppi religiosi, angustamente definiti, e si è fissato sulle appartenenze, i simboli e le narrazioni nazionali, così oggi l’energia è migrata nell’economia. Un tempo avevamo il Te Deum e le cattedrali gotiche. Poi abbiamo avuto la Marsigliese e gli edifici monumentali degli Stati nazionali. Ora […] abbiamo i jingles pubblicitari e i nostri templi sono le grandiose torri e gli interni silenziosi delle banche internazionali e delle istituzioni finanziarie con i loro adepti, sacerdoti e misteri. I teologi della religione del mercato, gli economisti, difendono le loro opposte teorie circa il come e il perché delle crisi (la Caduta e il Peccato) e riguardo a che cosa occorra fare per raggiungere la prosperità sociale e individuale.15

Il merito di Harvey Cox nella definizione dei contorni della secolarizzazione è stato quello di non essersi soffermato sul canto del cigno della tradizione occidentale, sotto i colpi di un nichilismo definitivamente distruttore.16 L’impegno di Cox sul tema della città non rimane a un livello solo metaforico, nel corso della sua opera di questi suoi anni più recenti. Egli dedica riflessioni anche nel merito della questione urbanistica, a favore di uno sguardo sia teologico che sociologico, sulle società del futuro condizionate dai forti movimenti migratori di massa, con la conseguente ricaduta sul piano della frammentazione delle spiritualità, e della loro convivenza:

I now turn to what this might mean for future cities. Think about a pilgrimage that you have been on and heard about. It is a ritual in motion. There is an element of mobility. You are moving when you are on a pilgrimage. You are going from here to there. This means that something is connecting the inner with the outer. They are being fused […] Finally, I think there are enormous implications of this newly emerging spirituality for the way we think about, plan, and build our future cities. For this reason, cities should nurture and support, rather than discourage or deny, human spirituality. You have to do that from the outset in the way you plan the cities and not just add things after they are built.17

La «città post-secolare» di Paolo Costa

Nel suo brillante saggio La città post-secolare del 2019 il filosofo Paolo Costa riconosce a Cox la capacità di aver messo a nudo la provincialità, «la regionalità» della nozione di secolarizzazione, poiché gli impulsi religiosi, come abbiamo avuto modo di vedere, non sono mai morti, nel mondo globalizzato. Si tratta piuttosto di capire il cambio di segno da una pratica religiosa liturgica alla sua mondanizzazione. Insomma, il dibattito attorno al secolare ha risentito della sua visione periferica senza andare al centro della questione: l’espansione delle sfere del religioso a campi di rinnovata influenza sulla vita dell’uomo su scala mondiale, fra cui l’economia,18 che è riuscita a costituire un terreno di «fede comune», o cross-culturale, come andrebbe di moda dire oggi. Non a caso al richiamo di Cox alla prosperità «sociale e individuale» ci sentiamo di affiancare un punto cruciale sollevato da Paolo Costa: «Nel corso degli ultimi secoli, in Occidente, per esempio, la sacralizzazione delle persone (in carne ed ossa) e della loro vita (ordinaria), al posto di potenze impersonali come la nazione, il clan, il suolo natio, gli avi, ha prodotto effetti giganteschi in ambito giuridico (diritti umani), politico (democrazia liberale) sociale (egualitarismo individualistico) esistenziale (culto dell’autenticità).19

Conclusioni

Su quale terreno spirituale si gioca la ricerca dell’autenticità esistenziale, oggi? Si pone l’esigenza di ripensarla sottomettendo a schietto giudizio la «prosperità individuale» laddove non è altro che il riflesso condizionato dello spirito del nostro tempo, in cui il mito della performance si sostituisce al desiderio di armonia con il cosmo. In questo contesto si spiega la pervasività delle pratiche di coaching spirituale, in cui lo sprint motivazionale del singolo deve configurarsi come un’espiazione dell’improduttività, a scapito della riflessività e financo della meditazione, nonché del sacrosanto diritto ad essere inutili ma dotati di un’anima che non deve vergognarsi di avere anche velleità celesti. Quando tutti diventiamo «centro», nel senso di un egotismo autoreferenziale che pratica il culto della propria presunta specialità, non rischiamo piuttosto di posizionarci come filamenti «periferici» di una spersonalizzazione imponente che ci isola ancor più? Come dice Nietzsche, però «per vivere soli bisogna essere o un animale o un dio, dice Aristotele. Manca il terzo caso, bisogna essere l’uno e l’altro, un filosofo».20 Per vivere lo spirito nel mondo contemporaneo, forse, non si tratta solo di capire se siamo nel centro, o nella periferia del senso dell’essere. Non basta essere nemmeno filosofi. Si può promuovere però l’idea per cui siamo innanzitutto esseri spirituali – per parafrasare Teilhard de Chardin -- anche per capire che dal centro, ci si può muovere verso l’alto. Motivo per cui il mio contributo intende porsi una fine (e un fine) con le parole di Ildegarda di Bingen, una mistica che già comprendeva i prodromi della secolarizzazione nel 1151:

O uomo, abbraccia il tuo Dio nella forza del tuo vigore prima che venga il giorno della purgazione delle tue opere, quando tutto sarà manifestato, né rimarrà nulla di occulto, quando verranno i tempi che non hanno difetto nella loro durata. E non mormorare di queste cose con il tuo senso umano, dicendo: «Non mi piacciono né capisco se esse consistano di prosperità o di tribolazione» perché la mente umana su questo punto sta sempre dubbiosa; infatti anche quando compie opere buone sta in ansia se per avventura piacciano o no a Dio. E quando perpetra il male, teme per la salvezza. Ma chi vede con occhi vigili e ode con attente orecchie, offra il bacio dell’abbraccio a queste mie parole mistiche che emanano da me vivente.21


  1. R. Sennet, Costruire e abitare. Etica per la città, Feltrinelli, Milano 2018, pp. 70-71. ↩︎

  2. E. Canetti, La provincia dell’uomo, Adelphi, Milano 1973, p. 108. ↩︎

  3. Cfr. Silvia Zoppi Garampi, «“ma la spada del Ciel per me lavora”. L'utopia di Tommaso Campanella», Italies [en ligne], 25/2021, https://journals.openedition.org/italies/9004↩︎

  4. T. Campanella, Poesie, testo critico, introduzione e commento a cura di F. Giancotti, Milano, Bompiani, 2013, n. 13, pp. 39-40. ↩︎

  5. Cfr. Agostino d'Ippona, Civitas Dei, XIV, 28: «L'amore di sé portato fino al disprezzo di Dio genera la città terrena; l'amore di Dio portato fino al disprezzo di sé genera la città celeste. Quella aspira alla gloria degli uomini, questa mette al di sopra di tutto la gloria di Dio». ↩︎

  6. J. Ries, L’homme et le sacré dans le contexte d’une société industrielle et secularisée. Entretien, in Equinoxe, 15, Genève 1996, trad.it in L’uomo religioso e la sua esperienza del sacro, Jaca Book, Milano 2007, p. 215. ↩︎

  7. Cfr. M. Borghesi, Secolarizzazione e nichilismo. Cristianesimo e cultura contemporanea, Cantagalli Editore, Siena 2005. È anche in quest’ottica che, a nostro avviso, la presa di posizione sul sacro operata da autori come Soderblom e Rudolf Otto riusciranno a fare da contrappeso agli estremismi positivistici, riscattando l’elemento numinoso in favore di una restituzione della complessità dell’esperienza umana altrimenti schiacciata in un funzionalismo disumanizzante con cui oggi facciamo i conti in modo difficilmente reversibile. ↩︎

  8. Cfr. H. Cox, The secular city. Secularization and Urbanization in Theological Perspective, The Mc Millan Company, New York 1965, trad. it. La città secolare, Vallecchi Editore, Firenze 1965. ↩︎

  9. Ivi, pp. 20-21. ↩︎

  10. Ivi, p. 1. ↩︎

  11. Il rabbino Rubenstein critica fortemente questa prospettiva: «Io non riesco a capire perché la vita religiosa degli altri debba essere considerata tribale, mentre la teologia di Cox – protestante fino all’osso – possa pretendere di aver trasceso il tribalismo e il tradizionalismo delle posizioni religiose ‘previe’ e ‘immature’. Vista da un non cristiano, la teologia della secolarizzazione di Cox sembra affondare profondamente le sue radici nella tradizione protestante, e addirittura nel tribalismo protestante, tanto quanto qualsiasi altra opzione religiosa» (R.L. Rubenstein, La visione coxiana della città secolare, in AA. VV., Dibattito su la città secolare, Queriniana, Brescia 1972, p.178). Cox accoglie questa critica e ammette nel post-scriptum del volume in esame: «Sostengo ancora che il mito e la metafisica sorgono nello stadio tribale e cittadino dello sviluppo della società, ma ora credo che essi abbiano un reale valore anche per l’uomo secolare. A questo proposito, le critiche che mi hanno ricordato il significato umano del rito e dei culti anche in un’età secolare sono state molto efficaci. Il rabbino Rubenstein è stato il più persuasivo di tutti», Id., La città secolare, cit., p. 244. ↩︎

  12. Ivi, p. 9. ↩︎

  13. Ivi, p. 14. ↩︎

  14. Cfr. M. Weber, Wissenschaft als Beruf, in Geistige Arbeit als Beruf : Vier Vorträge vor dem Freistudentischen Bund, München und Leipzig, Verlag von Duncker & Humblot, 1918. ↩︎

  15. H. Cox, Introduction to “The Secular City”, Princeton 2013, pp. XI-XXXIX, trad.it. P. Costa, in Annali di studi religiosi, 17, 2016, ISSN 2284-3892, FBK press 2016, pp. 19-20. ↩︎

  16. La riflessione di Franco Volpi, in sede conclusiva, amplia la portata del nichilismo come fenomeno storico-culturale: «il nichilismo ha corroso le verità e indebolito le religioni; ma ha anche dissolto i dogmatismi e fatto cadere le ideologie, insegnandoci così a mantenere quella ragionevole prudenza del pensiero, quel paradigma di pensiero obliquo e prudente, che ci rende capaci di navigare a vista tra gli scogli del mare della precarietà, nella traversata del divenire, nella transizione da una cultura all’altra, nella negoziazione tra un gruppo di interessi e un altro» (F. Volpi, Il nichilismo, Laterza, Bari 2005, p. 178). ↩︎

  17. H. Cox, Il monastero, la città e il futuro dell’umanità, in Ricerche e progetti per il territorio, la città e l’architettura, 7(9), pp. 9-16, 2016, https://doi.org/10.6092/issn.2036-1602/6293. Traduzione mia: «Passo ora a vedere cosa potrebbe significare per le città future. Pensate a un pellegrinaggio che avete fatto e di cui avete sentito parlare. È un rituale in movimento. C'è un elemento di mobilità. Quando si è in pellegrinaggio ci si muove. Si va da qui a lì. Questo significa che qualcosa sta collegando l'interno con l'esterno. Si stanno fondendo [...]: Infine, credo che questa nuova spiritualità emergente abbia enormi implicazioni per il modo in cui pensiamo, pianifichiamo e costruiamo le nostre città future. Per questo motivo, le città dovrebbero coltivare e sostenere, piuttosto che scoraggiare o negare, la spiritualità umana. È necessario farlo fin dall'inizio, nel modo in cui si progettano le città e non solo aggiungendo cose dopo che sono state costruite». ↩︎

  18. Afferma Cox a riguardo: «The relationship between religion and the market has a long and convoluted history. When did it start? One day a Cro-Magnon man traded a chiseled stone spear point with a hunter for a slice of newly slain saber-toothed tiger. He was so pleased with the exchange that the next morning he laid out some other tools he had made on a large rock and watched for passersby to stop and deal» (H. Cox, How the market became divine, in Dialog: A Journal of Theology, Volume 55, n.1, Spring 2016, March, p. 18). ↩︎

  19. P. Costa, La città post-secolare. Il nuovo dibattito sulla secolarizzazione, Queriniana, Brescia 2019, p. 88. Più avanti, seppur nel mezzo di una critica ad Habermas, Paolo Costa ci fornisce l’occasione per una considerazione sulla vitalità delle religioni come sfida alla coscienza umana postmetafisica: «Essa prende forma nel punto di intersezione tra una genealogia congetturale della ragione, l’inquietudine per le tendenze autodistruttive della modernità globalizzata e la fragile forza controfattuale di idealizzazioni che nascono spontamentamente nel cuore stesso della prassi quotidiana delle persone» (Ivi, p. 170). ↩︎

  20. F. W. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli. Ovvero come si filosofa col martello, Adelphi, Milano 2000, p. 25. ↩︎

  21. Ildegarda di Bingen, Scivias (ed. Hildegardis Scivias, A. Führkötter, A. Carlevaris, CCCM, XLIII; XLIIIA, Turnhout, 1978). Qui ripreso dal volume di E. Zolla, I mistici dell’Occidente I, Adelphi, Milano 2013, p. 559. Osserva Zolla: «Fu consultata come un oracolo dai potenti del tempo […]: Tra le profezie, è quella sulla quinta epoca, o secolo XVI, in cui si disintegrerà l’impero, si scaverà uno scisma e ogni paese e ogni popolo si sceglieranno un re particolare… Il papa cadrà totalmente dalla sua antica autorità da potere a malapena conservare sotto la sua tiara Roma e qualche tratto d’attorno… Molti uomini torneranno ai costumi degli antichi, i conventi saranno soppressi» (E. Zolla, op. cit., 555). ↩︎