Vito Mancuso, Il dolore innocente. L’handicap, la natura e Dio, Mondadori, Milano 2002, 244 pp.
Se nei suoi lavori precedenti — Hegel teologo e l’imperdonabile assenza del principe di questo mondo (Piemme 1996) e Dio e l’angelo dell’abisso ovvero la visione cristiana del mondo (Città Nuova 1997) — Vito Mancuso, dottore in teologia sistematica ed intelligente direttore della collana «Uomini e religioni» della Mondadori, si era accostato con timore e tremore ma con lucidità e passione del pensiero al tema del male, all’irriducibilità ed eccedenza della sofferenza inutile ad ogni offensiva sistematizzazione filosofica, ad ogni irrispettosa teodicea, è a questo libro Il dolore innocente. L’handicap, la natura e Dio (Mondadori 2002) che egli pare consegnare la sua più appassionata e compassionevole riflessione sul mistero del male là ove esso emerge nei tratti concretissimi del volto spesso muto ed interrogante del portatore di handicap, la cui esistenza, enigma teologico e dunque autenticamente umano nelle sue ultime ed intime profondità, problematizza e desitua le disinvolte analisi di chi identifica la vita umana con il processo impersonale della biologia, con l’efficienza psicofisica, incapace di altro sguardo se non quello della funzionalità naturale, incapace di intravedere nella creatura ferita una traccia ed una richiesta di senso che si sottrae all’analisi della razionalita scientifica o del diritto per offrirsi al termine di un arrischiato, non garantito itinerario di distacco, di crisi di ogni facile certezza e affrettata soluzione.
L’autore, teologo cristiano «la cui teologia dipende interamente dalla croce di Cristo», perché «è solo la croce a consentire che si parli ancora di Dio senza colpevolizzare ulteriormente la vittima», percorre in un’insonne domandare, senza altro criterio epistemologico se non quel fragilissimo eppure resistentissimo appiglio, le risposte che secoli di riflessione filosofica e teologica hanno offerto al problema del dolore incarnato nella nascita di creature umane malformate, spine nel fianco, minaccia ad ogni visione totalizzante dell’esistenza, ad ogni tentativo speculativo di comprensione e penetrazione in un reale completamente trasparente all’intelligenza che ne percorre le dimensioni in consonanza al logos immanente ad esse o ad una fede che non discute la presenza e l’azione provvidenziale del Creatore in seno al pur minimo evento ed accadimento naturale. È proprio il radicamento in una theologia crucis — teologia necessariamente «crucifixa», interrotta e lacerata nel suo proporsi come sguardo risolutivo — con tutto il vigore di un’intelligenza amante, di una fede interrogante, a rendere possibile a Mancuso il sostenere, il fissare lo sguardo «sull’abisso dei doppi pensieri», facendo «professione dei contrari» ed esponendosi alla tenebra trans luminosa che irradia dal Crocifisso le cui dimensioni si dilatano a principio ontologico o meglio me-ontologico della creazione perchè «la croce va posta in relazione di identità con la dinamica della creazione. E viceversa: la creazione in relazione di identità con la croce» (p. 161).
Solo un pensiero che accetti di confrontarsi con lo scandalo della croce, di lasciarsi crocifiggere esso stesso nel suo procedere decaduto, «eretico», incapace di coniugare senza separazione né confusione l’identico ed il diverso, potrà contemplare senza sbigottire l’abisso della divinità indicibile e l’altrettanto indicibile abisso della fragilità della carne ferita illuminarsi reciprocamente sul volto dello sfigurato-trasfigurato Amore sino a scorgere nei tratti delle creature handicappate l’immagine del Christus patiens e non un accidente biologico-naturale, né un’imperfezione provvidenzialmente strumentale al rifulgere della bellezza dell’Uno e del Tutto. Un tale pensare, annichilito nel movimento kenotico, negante, nel distacco da ogni immagine ed idea umana troppo umana razionalizzanti il dolore innocente, passato attraverso un «venerdi santo speculativo» — che tuttavia non è finalizzato ad una luminosa ricostituzione dell’Intero ma convive e si esplica in una dialettica non conciliativa, in una tensione polare ed un abbraccio che conserva, ricorda e riaccorda le ferite e le lacerazioni dell’esistenza pur senza cancellarle — diviene allora capace di scandalo, di denuncia del carattere strumentale, rassicurante, deresponsabilizzante di ogni concezione re-ligiosa della vita e della frattura che ne minaccia ed infragilisce le strutture.
Il ventaglio di giustificazioni offerte dal pensiero e dalla fede dell’umanità al problema dell’handicap come cifra teologicamente inquietante è sostanzialmente riconducibile, con alcune variazioni di sensibilità, alle possibilità contemplate nel celebre tetralemma di Epicuro e Mancuso ce ne offre una panoramica efficacissima riportando un impressionante catalogo di voci tra le più profonde ed autorevoli della storia dello spirito e della cultura occidentale e non solo. Dalla negazione di ogni principio trascendente garante dell’unità ed intelliggibilità di un’esistenza consegnata al nulla ed all’attesa dell’implosione mortale del senso attraverso un’etica del finito tanto virile quanto disperata, alle concezioni spiritualiste per le quali il divino, vuoi nella forma di cosmo iperuranio intoccato dalla materia e dalla sua opacità, vuoi in quelle deistiche di un deus mortuus ed otiosus, appare incurante di una natura lasciata ai determinismi di leggi cosmiche proprie ed ultimamente entropiche; dall’onnipotenza di un Dio Creatore- Persona che pur non volendo il male ne consente l’apparire sullo fondo di quelle «cause seconde» che salvaguarderebbero una relativa autonomia e libertà della natura pure mai svincolata dall’abbraccio totalizzante di un disegno salvifico, alla divina pedagogia che trasfigura il pungiglione mortale della sofferenza inutile in emendamento sulla fragilità ontologica costitutiva l’essere proprio della creatura lontana da Dio e dalle sue leggi, in partecipazione misteriosa ad una redenzione che inevitabilmente attraversa l’assunzione della morte e del dolore innocente: «Ma allora non ne viene che la legge cosmica della sofferenza risulta essere più forte dello stesso Dio? Come necessità metafisica cui Egli stesso si deve assoggettare? «(p. 83).
Tutte «ragioni» nobilissime e tragiche e tutte — questo è un punto nodale — unificate dalla volontà di scorgere tra natura e Dio una splendida continuità, una sorta di piramide ontoteologica di esseri garantiti e custoditi dal sommo Ente o al contrario di interrompere tra di essi ogni relazione e rapporto negando e negandosi la perturbante visione della ferita e del frammento irredimibile a buon prezzo, naufragando nell’opacità del materialismo, del vitalismo cieco o nell’abbagliante luce di un meriggio in cui tutto è Uno, da sempre e per sempre salvo ed intatto. Tutti frammenti e scintille di senso originate dall’insostenibilità di quella coincidentia oppositorum tra la divinità ed i suoi attributi metafisici ed una natura che genera per la morte ed il dolore e tra i quali il problema dell’handicap si frappone come snodo di una loro impossibile separazione quanto di una loro impossibile rassicurante unione, come croce-via tra le quadruplici coordinate di un «dramma teologico» — la conciliazione tra innegabile esistenza del male in tutta la sua eccedenza (1), l’esistenza del Dio creatore (2) la cui essenza è Agape (3), difesa dell’unicità irripetibile di questa vita (4) — che forza lo sguardo sino al cuore di quella lacerazione dell’essere e del senso unitario — filosofico, teologico o mistico che sia — di una creazione (in)fondata sull’Agnello immolato ab origine mundi:
L’intuizione è che l’handicappato si leghi a Cristo, non genericamente a Cristo sofferente, ma a Cristo che soffre e che muore in quanto Agnello sgozzato fin dalla fondazione del mondo. La fondazione del mondo: la creazione porta in sé la necessità che Dio soffra, di più: che Dio venga sacrificato. Dentro qui, dentro questa rivelazione assurda, sta l’assurdità dei bambini che nascono handicappati. Il rapporto di Dio con il mondo fa prendere a Dio la forma dell’agnello, fa sorgere la figura dell’agnello destinato al sacrificio. Dio che è amore, scegliendo di porre il mondo e di porlo libero, diventa agnello sacrificale… questa assurdità è l’unico spazio concettuale per pensare l’assurdita dei bimbi nati malformati (p. 157).
Creazione la cui condizione di possibilità e pensabilità è appesa con il suo volto tragico non tanto allo tzimtzum, al misterioso ritrarsi di Dio entro, da se stesso, per eventuare la creaturalità del mondo dal suo «vuoto», quanto al movimento di kenosis intratrinitaria costitutivo l’Essere di Dio — e della natura creata in Lui — come Amore e Libertà, offerta di sé senza ritorno. Consegna dell’essere del Padre al Figlio nella libertà dello Spirito — e dunque consegna a Lui, in Lui, di un creato il cui destino ultimo è sospeso all’attuazione della sua risposta d’amore filiale, obbediente sino alla morte ed all’assurdo, sepolto nel cuore del mondo — e consegna del Figlio, della sua vita, del suo Spirito alle creature come simultanea, paradossale condizione di una libertà, di un amore arrischiato sino al rifiuto ed al fraintendimento, contemporaneamente abban-dono e riscatto. Qualcosa di simile pare dire J. -L. Marion quando afferma in consonanza con Mancuso:
La kenosi, il fraintendimento e la reiezione rifiutano la condizione del «soggiorno divino»; di più ancora, contribuiscono a fare della figura di rivelazione il paradosso in cui l’umiliazione e il disconoscimento diventano lo scrigno ed il teatro dell’agape (Spirito) del Padre per il Figlio, e del Figlio per il Padre… La kenosi non pone alcuna condizione per rivelarsi, infatti in questo la rivelazione dona se stessa, e non rivela altro se non questo dono incondizionato… Infatti il mistero sta proprio in questo: Dio ama quelli che non lo amano, tanto più si manifesta a quelli che se ne allontanano quanto più questi se ne allontanano (L’idolo e la distanza, Jaca Book, Milano 1979, p. 218).
E così Elmarr Salmann parlando dell’assoluta ed armonica compossibilità, nella natura divina ipostatizzata nell’amore tripersonale, di volti ed attributi divini quali paternità e figliolanza, natura e persona, generosità e comunanza, intelletto ed amore, memoria ed avvenire, eternità e momento, amore di sé e dell’altro:
dal basso, nell’ottica dell’uomo — coinvolto nell’arrischio creativo all’ombra della croce — gli accenti si spostano. Questo Dio appare ora come libertà isolata, un soggetto remoto (Egli), un Padreterno, un personaggio forte, oppure come un’essenza anonima, una natura traspersonale o un Tu debole, manipolabile; o come uno spirito sfumato, una dinamica spirituale o un essere insidioso (Contro Severino, Piemme, Casale Monferrato 1996).
In qualche modo sarebbe «come se» lo spazio tra Padre e Figlio eternamente aperto e colmato dallo Spirito e nello Spirito come Amore, la natura divina, luogo della cor-riflessività e del reciproco contenersi delle Persone, contenuto e comunanza «toticipata» in ciascuna di esse nel dono che ognuna ne fa ed «è» alle altre e con le altre, trasparenza reciproca di una medesima co-scienza, avesse il suo corrispettivo, la sua immagine speculare in una natura creata che pure originata dal e nel grembo della Comunione tripersonale, smarrisce nella kenosi creatrice la trasparenza originaria, l’originaria vocazione ad ipostatizzarsi nell’unione con il Verbo, nella declinazione della libertà come risposta d’amore all’abbandonarsi incondizionato del Verbo incarnato, in una dinamica in cui il movimento di trascendenza si esaurisce nell’entropia, in cui l’inserimento eucaristico della natura nella persona, nello spirito amante, si trasforma in imprigionamento infernale dell’individuo nella natura.
L’ardire speculativo dell’autore raggiunge ed affronta così — sempre ancorando il suo discorso alla logica implacabile della croce pensata fino in fondo come luogo della creazione, come rivelazione di Dio e della verità del mondo sub contraria specie, come scacco ad ogni relazione «naturale» divino-umana pensata secondo una razionalità oggettivante — il cuore del problema, il tema di un Amore e di una Libertà, di un Dio Spirito e vivente solo nell’unitas spiritus, nel fondo di una creatura espropriata di sé, com-mossa senza alcuna cogenza o motivazione razionale o metafisica dall’onnipotenza della kenosis di un Amore che implora di essere accolto e che incessantemente discende al cuore di un tenebra, di un rifiuto che pure origina da Lui (e che Egli paga per primo) come tragico contraltare della sua offerta nella libertà e per la libertà, un volto divino incompatibile, e Mancuso lo ribadisce coraggiosamente e di sicuro impopolarmente, con ogni identificazione della figura paterna, silente origine della vita trinitaria, con il Dio d’Israele. «Dio, dal punto di vista naturale è assente… Nella creazione e nella storia Dio «ci perde». Tutto esiste a spese sue. Per questo la croce è l’icona assoluta della natura divina…» (p. 159). Dietro lo scenario di una natura che procede come quel meccanismo cieco e devastante che atterriva Dostoevskji contemplando il Cristo morto di Holbein, si deve avere la forza ed il coraggio, attinti al cuore della rivelazione cristiana del Dio crocifisso, di scorgere l’obliarsi di Dio in quanto Creatore — in quanto immagine unilaterale di creatore- ordinatore- controllore di ogni evento cosmico svincolata dal suo pensarsi illuminata dalla luce della kenosis cristologica e trinitaria — per venire all’uomo unicamente come Dono incondizionato nel Cristo, nell’anonimità di una consegna obbediente, di un obbediente lasciarsi schiacciare dal peso della «sventura» (S. Weil) senza opporvisi, senza contrastare la forza con la forza incrementando così la legge naturale basata sul sacrificio, sul conflitto e sulla morte come motore della vita — vita dalla e per la morte —, nella gratuità di un’esposizione al male senza difese, sola risposta nella libertà e nella forza dello Spirito consegnatogli dal Padre stesso:
La creazione va intesa come posizione della libertà; la creazione coincide con la nascita della libertà… Ma la liberta è, per l’appunto, libera, incontrollabile, è tutti contro tutti, ognuno che si sente centro del mondo; la libertà si declina come caos, come lotta, a volte anche come amore. La creazione, che coincide con la posizione della libertà, viene così a coincidere con la contraddizione nella quale siamo gettati… Il Figlio fin dall’inizio è colui che riceve la missione da parte del Padre di trasformare questo ambiguo nesso originario nella legge dell’amore. È immolato dalla fondazione del mondo, perché da sempre è destinato a questa riconduzione della libertà indifferente della creazione ad una libertà che scelga il bene, il bello, il vero; a una libertà che coincida con l’amore (p. 186).
Libertà da nulla necessitata e garantita, neppure dal nulla, dal non- senso, dalla tenebra che sembrano spalancarsi nel fondo di una creazione abban-donata a se stessa, lasciata essere — e contemporaneamente contenuta ed abbracciata, come nella raffigurazione della Trinità di Masaccio — nell’abbandono del Padre al Figlio nella libertà dello Spirito come icona ed immagine della gratuità divina resasi anonima a salvaguardia della libertà delle creature volute per se stesse, chiamate a pienezza e segretamente accompagnate nel loro soffrire spesso gratuito dai gemiti dello Spirito di Cristo che com-patisce in esse. Il mistero della Terza Persona, Persona nascosta, — «ipostasi della kenosi» la definiva S. Bulgakov sottolineando la sua proprietà paradossale di cancellarsi quasi a se stesso per essere «quella totale trasparenza per le altre ipostasi» (Bulgakov) in cui esse si donano e ricevono reciprocamente, presenza quasi anonima ma pure costitutiva il segreto intimo della Persona in quanto relazione, dono di sé sino a perdere il «proprio» volto per non conservare altra «proprietà» che il modo unico di dare e ricevere la natura divina che in essa con-siste — percorre la riflessione di Mancuso ed andrebbe esplicitato come ulteriore chiave interpretativa della donazione di Dio nella forma dell’anonimità e del nascondimento. «Nella natura, per far nascere la libertà, Dio Padre ha scelto di essere presente solo come principio impersonale, delegando la presenza personale al Figlio, l’Agnello immolato, e al vento incontrollabile dello Spirito. Perché, dunque, nascono così? Perché ci sia la libertà, perché gli esseri umani possano essere liberi. Agli uomini, alcuni dei loro figli nascono così perché essi sono liberi; ma liberi vuol dire fragili, esposti al nulla. L’handicap è il prezzo che si paga ad una creazione libera, lo stesso prezzo pagato dal Padre con l’immolazione del Figlio ab origine mundi» (p. 209).
In questa visione vertiginosa il problema originario non è certo stato dimenticato e la sua apparente mancanza di senso e ragione intrinseci si carica di nuovo significato, impossibile, inattingibile al di là della croce di Cristo che stringe insieme, che compone senza annullare, che illumina dall’interno con la luce dell’Agape la cieca arbitrarietà’, la gratuità ed inspiegabilità del male muto che nell’handicap ha il suo vertice, con l’altrettanto gratuita e folle donazione d’amore del Figlio che, muto, assume e consuma su di sè il non senso trasfigurandolo in dono, riconvertendo il niente della solitudine e dell’abbandono creaturali in quella kenosis, in quell’offerta di sé all’A/altro che costituisce l’immagine divina nel creato e l’immagine creata nel divino, finalmente ricongiunte. Non è un caso se l’autore affida le ultime intensissime pagine alla visione di un Dio che viene all’uomo nella cura e nell’immolazione di ciascuno e della propria volontà di potenza all’altro senza tornaconto, nel nascondimento di un offerta che nel cuore di quell’arbitrio impersonale della natura sa immettere dinamismi di senso ridestandone il volto del Dio nascosto, i tratti del Padre misericordioso che ha voluto obliare la sua potenza per non riceverli e riceversi dal Figlio e da noi in Lui fatti offerta ed oblazione senza perché, un Dio che si coinvolge e non viene a spiegare ma semmai ad espiare in sé, su di sé, la fragilità di una creatura e di un destino umano esposto al nulla, tragico e sublime volto di una libertà che Egli ha più cara che non l’uomo stesso, sempre disposto per paura, per dolore, per mancanza di fede, a barattarla con soluzioni e ripari a buon mercato. Mancuso non cede a queste tentazioni sempre risorgenti nell’animo umano dalle forme più semplici alle raffinate giustificazioni teologiche di un cristianesimo declinato sub specie aeternitatis, da sempre e per sempre risolto in abbraccio totalizzante e ci conduce con il suo saggio negli spazi aperti di una sconvolgente teologia negativa, sulle tracce di un Deus absconditus nell’apparente silenzio dell’handicap, grembo vuoto e naufragio di ogni teodicea ma in realtà luogo dell’avvento, della generazione di un Amore folle, di una donazione di sé nel nulla e nel vuoto di ogni volontà appropriativa, di ogni sapere ideologico, di ogni evidenza e convenienza naturale, di ogni perché:
Il cristiano, inserito in questo drammatico scambio d’amore, sa che la cura dei portatori di handicap è una delle supreme attività, forse la suprema in assoluto, che l’amore umano conosca. Qui si manifesta la completa gratuità, a volte non c’è neppure un sorriso in cambio, perché l’interessato non è in grado di sorridere. È ciò che Giovanni della Croce chiama notte, Gregorio di Nissa e Dionigi Areopagita tenebre: è il vertice della mistica cristiana… Se il cristianesimo, come insegna San Paolo, è follia e stoltezza agli occhi del mondo, qui, in questa cura disinteressata, c’è il vertice del cristianesimo. Qui si serve la vita, senza per questo produrre morte o sofferenza altrui. E lo si può fare perché, personalmente «ci si perde». Proprio come Dio nel suo rapporto con il mondo. Con ciò si esce dal meccanismo governato dal «principe di questo mondo», perché, semplicemente, si esce da questo mondo.
Vedi anche a questo libro la recensione di Alessandro Pizzo.