Vito Mancuso, Il dolore innocente. L’handicap, la natura e Dio, Mondadori, Milano 2008, € 9, 40.
Il presente testo, riedizione della versione precedentemente uscita nel 2002, prende le mosse da una triste esperienza personale ed esamina, da un punto di vista teologico, la questione dell’handicap.
Il problema che l’autore si prefigge di affrontare si delinea, sin dalle prime pagine, come ostico ed importante, soprattutto alla luce della teologia cristiana per la quale, infatti, Dio si configura come amore. Ed è in questa direzione che assume senso, e che si struttura la trama teologica del problema costituito dall’handicap: se Dio è amore, e la creazione avviene ancora sotto tale egida, com’è possibile che nascano soggetti disabili? Perché nascono così? Come può Dio tollerare questo dolore innocente? In effetti, la persona handicappata «è afflitta da un’anomalia che è un indubitabile male» (p. 9). Infatti, verso la fine dell’indagine compiuta, l’autore scriverà che «l’oggetto ultimo di questo saggio non è l’handicap ma Dio» (p. 162). Sembra, quindi, possibile affermare come l’intentio auctoris consista nell’esplorare i misteriosi sentieri della volontà divina, sia pure nell’ambito circoscritto dell’handicap.
Non si tratta, pertanto, di semplici errori di percorso, né tantomeno appare possibile liquidare in tali termini la questione. In realtà, suggerisce Mancuso, c’è qualcosa di più profondo che magari sfugge nella considerazione dei più, un qualcosa che deve, però, trovare uno spazio coerente all’interno della scienza teologica. Certo si potrebbero considerare gli sfortunati afflitti dal male non appartenenti al genere umano, ma, come prima, sembra si tratti di una banalizzazione, se non anche un evitare il problema. Invece, considerandoli delle persone, ne consegue che «la loro nascita non può non essere ricondotta direttamente a Dio creatore, esattamente nella stessa misura in cui lo sono (o non lo sono) le nascite di persone normali» (p. 13). Dio permette forse errori nella creazione? Oppure Dio vuole tali persone esattamente alla stessa maniera degli altri suo figli? Oppure Dio non può nulla per impedire che nascano? Certo la scienza, e la biologia nel caso più diretto, possono suggerire che la generazione di persone handicappate è riconducibile ad una processualità materiale ben precisa (delezioni genetiche; danni cerebrali; etc.), ma si tratta anche in questo caso di una risposta superficiale rispetto alla profondità messa in campo dalla domanda “perché nascono persone disabili?”. Di contro all’importanza da essa rivestita in ambito teologico, l’autore annota un certo silenzio da parte del Magistero Cattolico, quello che, in misura maggiore rispetto ad altre confessioni, ha insistito negli ultimi anni sulla sacralità della vita umana. In realtà, l’autore sostiene essere questa una tendenza del Pontificato di Giovanni Paolo II, mentre tradizionalmente la Chiesa non ha mai visto «nella vita in quanto tale un assoluto» (p. 28). In altri termini, le recenti condanne della guerra e della pena di morte non riposerebbe su una solida base dottrinaria, ma su motivazioni contingenti che fanno venir meno «la legittima difesa che giustificherebbe la guerra e la pena di morte» (p. 28). In realtà, la vita sarebbe sacra non in sé, ma perché prodotta da Dio. Così Dio, visto come principio personale al di sopra della vita, che fonda e dà origine alla vita, ma che, proprio per questo, con la vita non coincide» (p. 29). Solo quando le azioni umane vanno contro la volontà (creatrice) di Dio si configurano come errate. Dunque, una cosa è la natura, che segue immancabilmente le sue leggi, altra cosa è lo spirito. Nelle parole di Mancuso: «lo spirituale nasce come presa di coscienza del naturale, come meditazione sul flusso naturale della vita» (p. 29). Ma la natura non è sacra, esattamente come non lo è la vita umana. Il principio di ciascuna delle religioni monoteiste consiste nel concordare sulla nozione principale di Dio: porsi «al di là della natura» (p. 29). Così, la «vita è sacra e inviolabile perché viene da Dio, perché alla sua origine c’è l’azione di Dio che la pone e ne chiede rispetto. Questa è la vera motivazione per il cristianesimo, come per le altre due religioni che conoscono un Dio personale, della sacralità della vita» (p. 31). Ma se la vita umana promana da Dio, come pensare l’handicap? Dio lo vuole? Oppure ne tollera la presenza nel mondo? Si tratta di una posizione affine al classico problema del malum mundi. Secondo la teologia, sono due le possibilità: (1) o Dio vuole direttamente la nascita di soggetti disabili; oppure, (2) ne tollera la possibilità per garantire la libertà della natura. Anche in questo caso, ci si scontra con una difficoltà teoretica: come penetrare il mistero della volontà divina? Per questo motivo, secondo Mancuso la Chiesa difficilmente parla dell’handicap in sé, preferendo concentrarsi sulle persone «che con l’handicap ci devono vivere» (p. 36), assistenti, infermieri, genitori, parenti, etc. In realtà, l’imbarazzo del magistero è spiegabile in altra maniera: «le risposte date lungo i secoli […] sono ormai decisamente insostenibili a causa del progresso della scienza» (p. 36). Dunque, la questione va impostata in maniera radicalmente differente, correlando la questione dell’handicap «all’interno della creazione di Dio» (p. 36). Così, Mancuso individua quattro possibili risposte al riguardo: «1. Dio vuole che nascano bambini handicappati perché, mediante la loro nascita, vuole punire (o i loro genitori o gli stessi bambini a causa di colpe commesse in una vita precedente); 2. Dio vuole che nascano bambini handicappati, ma non per punire, bensì per qualcosa d’altro (insegnare, mettere alla prova, salvare); 3. Dio non vuole che nascano bambini handicappati, ma c’è una libertà della creazione che egli rispetta […] 4. Dio non vuole che nascano bambini handicappati, ma, a livello naturale, non può assolutamente nulla» (pp. 41-2). Nel primo caso, l’autore si concentra sulla differenza tra Dio e la natura. In merito, tre appaiono essere le possibili conseguenze: (a) «la divinità non esiste» (p. 43); (b) «la divinità non si occupa della vita degli uomini» (p. 43); (c) «la divinità si occupa solo dell’anima, non del corpo» (p. 43). La conseguenza (a) è quella più radicale, secondo la quale «non esiste un Dio personale […] Tutto è materia» (p. 43). Secondo tale prospettiva, tutto accade casualmente, secondo i due ben noti poli materiali del potenziale biologico, il caso e la necessità. La conseguenza (b) impone di considerare più in profondità la ragione nascosta del perché Dio consenta la nascita di persone handicappate. Dio lo vuole. Perché? Se, come sembra, la condizione dell’handicap non è auspicabile, è infatti un male oggettivo, per quale motivo Dio dà tale fardello solo ad alcuni, percentualmente un numero basso della popolazione umana? Le seguenti appaiono essere le finalità più probabili: (i) per punire; (ii) per insegnare; (iii) per salvare. Nell’Antico Testamento, Dio distribuisce pene fisiche al fine di punire le infedeltà del popolo israelitico e dei singoli ebrei, malattie per punire peccati. Il discorso cambia nel Nuovo Testamento, che conosce il principio della distribuzione, ma lo integra con la legge cristiana dell’amore. La finalità (ii) è quella più difficile da accettare: Dio concede che accadano dei mali alle sue creature per insegnare qualcosa a tutti gli uomini. Il portare addosso nel fisico il male, e sin dalla nascita nella maggior parte dei casi, è «un grande insegnamento sulla condizione umana in quanto tale, sul dramma che l’uomo deve affrontare, o forse meglio, che egli stesso è» (p. 71). La finalità (iii) presenta alcuni aspetti ancor più difficili da accettare, per la mentalità moderna, inerenti al significato che la condizione umana di limitazione e di malessere ha nell’indirizzare le condotte umane verso la salvezza. Da questo punto di vista, dunque, l’handicap consente all’uomo di orientarsi verso Dio. In questa accezione, infatti, esiste un «valore salvifico del dolore, soprattutto del dolore innocente» (p. 76). Dio manda così l’handicap per redimere l’umanità. L’handicap genera scandalo perché gratuito e perché arbitrario, e lo è perché si lega a doppio filo con il mistero della vita, con il misterioso progetto divino che prende le mosse dalla creazione dell’uomo; esso inerisce direttamente al rapporto teandrico. Si deve pensare «il valore in sé della sofferenza innocente per conseguire la salvezza» (p. 80), non perché chi è stato gravato dal male avrà un trattamento di favore in sede di Giudizio, ma perché, come insegna il messaggio evangelico, «Chi soffre, soprattutto se non merita di soffrire, è unito a Dio come nessun altro» (p. 80). In altre parole, «Dio sceglie queste anime per farle soffrire con il peso dell’handicap non perché siano meritevoli di punizioni, non perché siano le peggiori, ma, esattamente al contrario, perché sono le migliori, le più pure, le più vicine all’innocenza assoluta che fu del Figlio di Dio apparso sulla terra come vittima predestinata» (p. 82).
Cosa succede, invece, nell’eventualità che Dio non voglia affliggere le sue creature con il peso dell’handicap? In effetti, «Dio non può volere il male, in nessun modo» (p. 84). In questo caso, però, bisogna addentrarsi all’interno della misteriosa volontà divina. Pretesa forte nel Cristianesimo, «l’unica religione che afferma di conoscere l’intima natura di Dio» (p. 88). Ma se l’uomo non può da sé ascendere a tale conoscenza di Dio, allora l’unica strada percorribile è quella della Rivelazione. Il Testo Sacro, da questo punto di vista, è comunicazione della Parola divina agli uomini. E in cosa consiste tale parola? In qualcosa di, se si vuole, molto semplice. Infatti, «nel dichiarare che Dio in sé è amore» (p. 88). È, però, un amore del tutto particolare, che trova la sua massima espressione nella figura di Gesù di Nazaret, «incarnazione di Dio» (p. 88). Così si esprime Mancuso: «Dio è amore, anzi meglio, Dio è amore umano, un amore che è vita per l’uomo» (p. 88). In questo modo, l’«essenza di Dio, alla luce del Nuovo Testamento, è svelata» (p. 88). A questo punto, però sorge l’imbarazzo teologico: se Dio è amore ed è onnipotente, come mai pur non volendo l’handicap, quest’ultimo trova spazio nella creazione? Per l’autore, ci si deve chiedere «come è possibile continuare a pensare Dio come assoluto e onnipotente, e insieme affermare che qualcosa di tanto importante quale la costruzione di un essere umano avvenga contro il suo volere?» (p. 89). Rispetto a tale esito, le seguenti sembrano essere le possibili vie d’uscita: (y) Dio non lo vuole ma lo permette (la dottrina delle cause seconde); (yy) Dio non lo vuole, ma non può nulla sulla natura (lo gnosticismo). Nel primo caso si prendono in considerazione le cause seconde che non derivano direttamente dalla creazione divina, ma sono il risultato della libertà intrinseca ad essa derivante dal grado di perfezione dell’operato divino. In altri termini, Dio pone in essere il mondo e lo governa, ma quanto viene creato ha «una consistenza ontologica propria» (p. 92), un suo «specifico grado di libertà» (p. 92) che si concreta in un divenire autonomo. Pertanto, «l’handicap, non viene da Dio, non è voluto positivamente da lui, da lui è solo, per così dire, tollerato» (p. 98) perché «Dio sa trarre il bene anche dal male che non vuole, e tale è appunto il senso della providentia concessionis» (p. 98). È tuttavia una strada non molto feconda perché «significa in realtà non tenere conto della relazione privilegiata tra l’uomo e Dio, relazione che è probabilmente il messaggio fondamentale della Bibbia» (p. 100). Nel secondo caso si pone in essere un’incommensurabile distanza tra l’uomo e Dio, sino al punto di ritenere quest’ultimo estraneo al mondo materiale. Anche questa, però, è una strada infeconda.
A questo punto, è possibile costruire il dramma teologico. L’Incarnazione divina fa sì che si ponga in maniera lecita la questione inerente alla ragione delle nascite di persone disabili. Come scrive Mancuso: «chiedergli perché in alcuni esseri umani la struttura di fondo che permette il dialogo con lui, cioè il corpo e l’anima, sono fin dall’origine in condizioni inferiori rispetto alla normalità, è legittimo, forse persino necessario» (p. 114). Per poter pensare adeguatamente l’handicap in termini di dramma teologico è necessario porre quattro punti fermi: (1) il male esiste; (2) Dio è creatore; (3) Dio è amore; (4) la vita umana è unica ed irripetibile. In genere, il «Cristianesimo afferma che se qualcosa avviene contro l’uomo, contro il bene del singolo uomo, questo è contro la volontà di Dio, questo è male» (p. 120). Ecco, dunque, il problema: l’handicap va contro il bene del singolo uomo; è, dunque, un male. Ciò si lega al secondo punto fermo: «dietro all’idea di creazione è il sentire che la realtà contiene una dimensione che va oltre se stessa» (p. 122), Dio è artefice della realtà. Allora, il precedente problema si acuisce: «nel caso dell’handicap ci si trova di fronte a un male che tocca direttamente l’attività creatrice di Dio in quanto padre dell’uomo, e che quindi pone in crisi la relazione naturale Dio-uomo» (p. 129). La rivelazione contenuta nel Nuovo Testamento, diversamente dall’enfasi che l’Antico pone sull’onnipotenza, afferma l’«essenza divina come amore» (p. 129). L’handicap è frutto dell’amore divino? Come si concilia con il male costituito dall’handicap? Il problema si fa ancora più grave se si pone mente al quarto, ed ultimo, presupposto del dramma teologico: si deve riconoscere «l’unicità di questa vita» (p. 134), a nessuno è concesso di vivere una seconda volta, potendo magari riscattare una prima vita non del tutto soddisfacente. Il risultato grave, ed interessante, è il seguente: «se la creazione è stata posta perché possa nascere la libertà, l’esistenza dell’handicap che l’impedisce non può non apparire come una lacerazione, una rottura, un fallimento, per quanto parziale, della stessa creazione» (p. 137).
A questo punto, è possibile affrontare la questione dell’handicap da un punto di vista teologico. La qual cosa, a dire il vero, non è esente da difficoltà teoretiche. Infatti, parlare della nascita di persone malformate significa affrontare uno dei più ardui problemi che l’esistenza del male pone alla ragione umana, «in particolare alla ragione teologica» (p. 137). Infatti, mentre la ragione teologica riesce a pensare al male morale riconducendolo al peccato dell’uomo e questo alla libertà, il «discorso sul male fisico, invece, prescinde dalla libertà umana» (p. 138). Di fronte all’handicap, non è in gioco la libertà umana, «rimane il problema di comprendere chi sia «il colpevole» dell’handicap, a chi attribuire questo parziale fallimento della creazione» (p. 138). Sembra così che la ragione teologica oscilli tra due alternative: o l’handicap è un fallimento, seppur parziale, della creazione, oppure ha «una sua perfezione, per quanto misteriosa» (p. 138). Sicché, l’«handicap è un male, non vi possono essere dubbi, un male non riconducibile all’uomo» (p. 139).
Esplorare il significato teologico della nascita di persone affette da handicap vuol dire mettere a fuoco l’intenzionalità divina nell’atto creativo, vuol dire illuminare l’amore che Dio mette dentro alla propria creazione. In questo modo, assume contorni definiti la vicenda handicap all’interno del più vasto progetto creativo. Ma per fare ciò bisogna interrogare le uniche fonti direttamente disponibili al riguardo, ossia i luoghi ove Dio ha rivelato la propria essenza, s’è rivelato alle proprie creature. Per il cristianesimo esso è l’Evangelo, la sede della Parola incarnata. Al riguardo scrive Mancuso: «il Figlio di Dio nella sua vita terrena ebbe direttamente a che fare con molti malati. I Vangeli sono ricolmi delle sue numerose guarigioni. Ciononostante sono pochi, e tra loro non del tutto concordanti, i brani che possono chiarire almeno un po’ciò che Gesù pensava in ordine al rapporto tra male fisico e volontà di Dio» (p. 140). In alcuni casi sembra che Gesù colleghi, sulla scia della tradizione, male fisico a condizione di peccato, mentre in altri sembra negare «esplicitamente ogni connessione tra malattia e peccato personale» (p. 141). In particolar modo, in un passo dell’evangelo di Giovanni, sotto sollecitazione dei discepoli, espressione della comune mentalità ebraica, Gesù nega il nesso malattia-peccato, così da potersi dire che la «presenza di una malattia congenita, la presenza dell’handicap, non segnala in alcun modo la presenza del peccato» (p. 142). Così, «Gesù sconfessa la tradizionale regola ebraica secondo cui non c’è castigo senza colpa» (p. 142). A ben guardare, si esclude «solo il nesso malformazione-peccato, non il fatto che Dio possa essere, in un modo non punitivo, all’origine dell’handicap» (p. 143). Bisogna, allora, illuminare in che termini Dio sia responsabile dell’handicap. Infatti, «se Dio non usa le sciagure, tra cui l’handicap, come strumento di punizione, non per questo esse avvengono senza il suo volere, tanto meno contro il suo volere» (p. 144). In che senso? Sembra chiaro che colui che nasce gravato dall’handicap «appare quindi come direttamente connesso con l’azione di Dio nella natura e nella storia» (p. 144). Secondo l’autore, infatti, l’aver a che fare con il male fisico non vuol dire che Dio manifesti il suo carattere tradizionale di dominatore assoluto, concezione ancora presente presso l’ebraismo e l’islam, ma che, al contrario, manifesti un Dio partecipe delle sofferenze umane, «il Dio che manifesta supremamente se stesso nella donazione del Figlio» (p. 145), assumendo così «su di sé il dolore e la sofferenza degli uomini» (p. 145). Dunque, almeno per il cristianesimo, Dio non appare una controparte cui chiedere conto della sofferenza innocente, ma una divinità che «quando c’è di mezzo un uomo che soffre, è dalla sua parte, perché quella sofferenza manifesta la stessa sofferenza del Padre che donò, e continuamente dona, il Figlio al mondo degli uomini» (p. 145). In questo modo, «gli handicappati emergono come l’immagine della sofferenza di Dio, della sua passione di fronte alla creazione e ai mali che la sovrastano, della sofferenza cui è sottoposto in questo mondo l’amore» (p. 145). A questo punto, però, Mancuso si chiede: «Occorre pensare che Dio volontariamente pone al mondo alcuni esseri umani in stato di particolare sofferenza fisica o psichica perché siano segni della sua opera, che è la croce?» (p. 146). Ma se così fosse, «come poter giustificare le continue guarigioni di Gesù?» (p. 146). Infatti, «la malattia non è mai vista positivamente dai Vangeli» (p. 146). Emerge, dunque, l’idea di un rapporto diretto tra Dio e l’handicap nella misura in cui lo si pensi nei termini «di un Dio che lo combatte» (p. 146). Il che, però, mette capo all’esigenza di pensare al ruolo di Dio nella creazione, quale effettivo potere abbia il Primo sulla seconda. Poiché nel quarto evangelo si pone in diretto rapporto Gesù e la creazione, si deve mettere «in luce il fondamento del nesso che lega organicamente la redenzione degli uomini alla morte di Cristo» (p. 149). La sofferenza, cioè, avrebbe un’importanza cruciale rispetto alla meta salvifica degli uomini. Comprendere le ragioni del mistero della redenzione via crucis, consente di avere chiara la «logica del mondo e della storia» (p. 149), «il Padre lega la salvezza degli uomini alla morte del Figlio» (p. 150). Perché lo fece? Probabilmente perché ab origine s’era originata la scissione tra Dio e la natura, quella inerente al peccato del primo uomo, riflesso, forse, del precedente peccato angelico, che comporta l’intromissione della «ribellione dello spirito» (p. 153), l’intromessa della «libertà» (p. 153). Quest’ultima, in qualche modo, sottrae la natura al controllo diretto di Dio. Così, «la necessità del sangue di Cristo per la redenzione degli uomini, al contrario, deve essere pensata in connessione con la caducità di cui è vittima la natura, e di cui l’handicap è uno dei segni più eloquenti» (p. 153). In altre parole, «Dio padre, così come subisce la necessità della morte del Figlio […], allo stesso modo subisce la necessità di una natura libera, che può anche sbagliare. E che di fatto talora sbaglia nel generare i suoi figli» (p. 153). Il cristianesimo, dunque, consente di sciogliere l’enigma della generazione di persone disabili alla luce della sapienza teologica? Secondo Mancuso, la «risposta al perché Dio permette la nascita di bambini handicappati la si deve trovare in Cristo, non solo e non tanto nella sua vicenda storica, ma nel suo significato metafisico; per dire meglio, nella sua vicenda storica letta non storicamente, ma in prospettiva metafisica» (p. 155). In altri termini, l’autore sembra intuire che «l’handicappato si leghi a Cristo, non genericamente a Cristo sofferente, ma a Cristo che soffre e che muore in quanto Agnello sgozzato fin dalla fondazione del mondo» (p. 156). Fin dall’inizio dei tempi, «la sigla di Dio non è l’onnipotenza ma la sigla del Figlio, cioè l’amore, la forza negativa (in quanto sa rinunciare) dell’amore» (p. 158). La natura, cioè, è libera, ma necessita del sostegno divino per potersi redimere. Come scrive Mancuso: «la creazione, quindi, è la posizione della libertà, ma la libertà, a sua volta, dato che è veramente tale, è la posizione della contraddizione, di una natura cioè che genera, casualmente, sia il bene che il male» (p. 161). In più, essendo l’handicap legato alla creazione mondana, che richiede il sacrificio dell’Agnello, allora l’handicap in sé diventa «un messaggio che ogni uomo è chiamato a decifrare per tentare di comprendere qualcosa sul senso profondo di questo suo viaggio dentro la vita del mondo» (p. 161). Infatti, «la nascita di bambini handicappati ci insegna che la creazione è anche male, è ambigua. Che la contraddizione governa ogni cosa» (p. 162). Questo perché «a chi sa fissare in tutti i suoi particolari lo spettacolo, ora nobile ora osceno, del theatrum mundi, ciò che appare regnare è la libertà, mostro a due teste che può generare oppressione e delitto, e insieme commuovere per purezza e amore» (p. 167). Questa è l’intrinseca legge del mondo, la dialettica della contraddizione, declinazione della libertà ontologica. Come sostiene l’autore: «la dialettica è il sale della vita, e il sale brucia le nostre ferite aperte, i nostri desideri, le nostre speranze» (p. 169). Secondo lui, infatti, «Il cristianesimo vive del principio di contraddizione» (p. 175). Infatti, esso «ha al suo centro l’incarnazione di Dio in un uomo: Gesù Cristo è vero Dio e, insieme, vero uomo» (p. 176). Così appare chiaro come la natura sia «sottoposta alla contraddizione fin dal suo nascere» (p. 180). In altre parole, alla creazione del mondo comporta la posizione di una legge […] la quale è contraria all’essenza di Dio che è amore. In questo senso va letta l’immagine della creazione che comporta l’uccisione dell’Agnello: la creazione comporta l’instaurazione di un mondo contrario alla logica di Dio […] il mondo è il campo col grano e la zizzania […] è governato dalla legge della lotta, dalla contraddizione» (p. 185). Così, «il nesso creazione-libertà-peccato rimanda, speculativamente, al nesso vita-morte-sofferenza» (p. 186). Ma a questo punto, che senso assume la dolorosa vicenda delle persone afflitte dall’handicap? Scrive Mancuso: «Cristo accetta la sofferenza non per piegarla all’incremento della propria vita, ma gratuitamente. È la sofferenza innocente, slegata cioè dal nesso vita-morte. Tutti gli innocenti che soffrono entrano in questa stessa dimensione, gli appartengono. Chi soffre di un dolore innocente entra in quella dimensione dove Cristo è entrato, va a toccare il nucleo del mistero che ci sovrasta e che ci contiene (e che ci definisce), quel legame tra vita e morte che necessariamente crea sofferenza, perché solo la sofferenza fa sì che dalla vita che diviene morte nasca altra vita» (p. 187). In altri termini, Dio ha a che fare con la nascita di persone disabili, non per placare con il loro dolore la sua ira per il peccato dell’uomo, ma «perché è lui per primo a pagare il prezzo di sangue che la nascita della libertà richiede. I bambini che nascono handicappati sono la suprema immagine dell’Agnello immolato dalla creazione del mondo» (p. 208). Ecco, dunque, che il dramma teologico dell’handicap trova qui la sua spiegazione secondo la sapienza teologica: «agli uomini, alcuni dei loro figli nascono così perché essi sono liberi; ma liberi vuol dire fragili, esposti al nulla. L’handicap è il prezzo che si paga a una creazione libera, lo stesso prezzo pagato dal Padre con l’immolazione del Figlio ab origine mundi» (p. 209).
Qual è il ruolo di chi è scevro dal male dell’handicap? Ovviamente, il prendersi cura dei fratelli disabili. Anche perché «la cura dei portatori di handicap è una delle supreme attività, forse la suprema in assoluto, che l’amore umano conosca. Qui si manifesta la completa gratuità, a volte non c’è neppure un sorriso in cambio, perché l’interessato neppure è in grado di sorridere» (p. 209). In questo modo, mediante tale servizio, il cristianesimo si mostra celeste, come estraneo al mondo. Infatti, nella cura alle persone handicappate si fa contemplazione del mistero della creazione redenta dalla donazione gratuita di vita. In altre parole, «Qui si serve la vita, senza per questo produrre morte o sofferenza altrui. E lo si può fare perché, personalmente, “ci si perde”. Proprio come Dio nel suo rapporto col mondo. Con ciò si esce dal meccanismo governato dal “principe di questo mondo”, perché, semplicemente, si esce da questo mondo» (p. 209).
Vedi anche a questo libro la recensione di Massimo Bolognino.