Verità, interpretazione, inesauribilità e approfondimento. La domanda originaria in Luigi Pareyson

1. La verità tra esplicitazione e ineffabilità1

L’espressione «domanda originaria» è ambigua. Il termine «originaria» può essere inteso sia in senso soggettivo sia oggettivo. Nel primo caso si è portati a ritenere originaria la domanda stessa come un primum, nel secondo caso invece il primum è l’originario e la domanda si concentra su di esso. Ora, dal momento che la domanda presuppone già un interrogante e un interrogato, pare prevalere la natura oggettiva di questa, piuttosto che soggettiva: la nozione stessa di domanda infatti si dà all’interno di un contesto non originario. Si dà cioè in rinvio a qualcosa che la precede e che la suscita. Tale domanda ha assunto nel corso dei secoli la forma della domanda sul fondamento (Grundfrage[^2]). Le varie formulazioni analizzate da Pareyson evidenziano da un lato l’inevitabilità del contrasto tra la riflessione e l’iniziale stupore di fronte all’essere e, dall’altro, la portata filosofica propria della delucidazione della domanda stessa come tentativo di dire, in fondo, l’originario. In essa ne va tanto dell’interrogante quanto dell’interrogato. Essa è indice del desiderio di verità che appartiene alla natura stessa dell’uomo, una disposizione nel domandare inevitabile e incessante che interroga sé e la natura delle cose. E come ogni domandare implica necessariamente un domandante e un domandato, allo stesso modo l’interpretazione, possibile tentativo di accedere alla verità, si modula in un interpretante e un interpretato. Nella prospettiva dell’ermeneutica contemporanea l’interpretazione è la risposta alla domanda originaria, la quale, essendo una richiesta di senso che rimane identica a se stessa pur nella molteplicità delle diverse dizioni e delle diverse risposte che compongono il simposio filosofico, si svela incessante.

La stessa possibilità della molteplicità delle interpretazioni è data dalla inesauribilità dell’interpretato. Tale inesauribilità sospende la classica scissione gnoseologica tra un soggetto che conosce e un oggetto che viene conosciuto, che risulterebbero fuorvianti e inadeguati per elucidare il nesso tra il domandante e il domantato. La domanda è un appello all’essere e alla verità e il rapporto tra l’interrogante e l’interrogato si configura come il rapporto tra uomo e verità. E la possibile risposta filosofica, ossia l’interpretazione, è il nesso che tiene unita la persona all’essere. Se soggetto e oggetto non sono più adatti a esprimere la relazione che intercorre tra l’interpretante e l’interpretato è perché la verità non può essere oggetto della filosofia e quindi del pensiero, il che fa cadere anche l’altro polo di riferimento. Infatti, essendo la verità sempre ulteriore, essa risiede nella sua formulazione più come origine che come oggetto del discorso. La verità quindi viene intesa da Luigi Pareyson come origine del pensiero e fonte del discorso, e può essere posseduta solo personalmente.

L’interpretazione è sempre personale, dice il filosofo valdostano, il che significa che essa è il risultato d’un concreto esercizio di libertà mediante il quale noi scegliamo se ribadire il vincolo originario che ci sostiene o rinnegarlo.2

L’interpretazione è l’unica forma di conoscenza capace di possedere un infinito perché disposta ad accogliere una presenza che vi risiede sempre come ulteriore. La verità infatti non si esaurisce nella sua formulazione ma ne suscita sempre di nuove. L’ontologia viene quindi a configurarsi come una «ontologia dell’inesauribile» che non consente l’esplicitazione completa ed esaustiva della verità, ché, qualora questa ci fosse, sarebbe un sovrapporsi, un sostituirsi dell’interpretazione alla verità, ne diverrebbe un surrogato, ne prenderebbe il posto. Tra la formulazione e la verità deve mantenersi uno scarto affinché questa venga garantita nella sua essenza e rispettata come inesauribile e inoggettivabile, in modo da non essere posta dinanzi all’interpretante come oggetto, e non essere esaurita da una definizione o da una serie di definizioni disposte a costruire un sistema nel quale imprigionarla.

La verità non si esaurisce perciò nella sua formulazione, ma neppure le è totalmente eterogenea, poiché è sostenuta dalla solidarietà originaria che stabilisce un vincolo fortissimo tra la persona e la verità. Ne segue che sia il mito razionalistico dell’enunciazione definitiva della verità, sia l’irrazionalismo dell’ineffabilità assoluta sono inconciliabili con una ontologia dell’inesauribile, poiché, da un lato, la verità si lascia cogliere solo quando può stimolare una rivelazione interminabile,3 e non già quando la formulazione pretende di rendersi definitiva ed esaustiva. Dall’altro, l’inesauribilità della verità non attesta neppure che ogni formulazione risulta inefficace, come invece promuove l’ontologia negativa, la quale stabilisce l’inadeguatezza di ogni discorso.

Pareyson supera entrambe le posizioni riconoscibili nei due filosofi che le rappresentano: Hegel per il culto razionalistico dell’esplicito, e Heidegger per l’ineffabilità e l’inafferrabilità dell’essere.

Hegel fa del proprio metodo la verità senza che vi sia alcun residuo, alcuno scarto: la dialettica hegeliana è il dispiegamento dello Spirito assoluto che ingloba tutto, tiene fermo tutto senza lasciare irrisolta alcuna cosa. Essa è l’esplicitazione completa della verità, tutto vien detto dello Spirito assoluto, guai a tralasciare qualcosa, sarebbe l’interruzione del movimento incessante, ossia la morte, l’errore. Ogni cosa viene spiegata, risolta, fatta propria dal Soggetto assoluto. L’immane fatica di cui parla Hegel è proprio questo: trasformare il dato in prodotto, non ci si può rassegnare a considerare ciò che s’incontra, ciò in cui ci si imbatte, come una realtà che ci resiste, bisogna farla diventare un prodotto del Soggetto assoluto mediante l’interiorizzazione. La dialettica è un procedimento che grazie alla memoria quale facoltà di interiorizzazione produce la coincidenza radicale di esterno e interno.4 Non vi sono più un esterno e un interno perché tutto viene salvato nella memoria, l’essere-altro viene ricondotto nell’in-sé, e per far questo il sapere deve affaticarsi in un lungo itinerario.5

La dialettica sopporta persino la morte che non è mai la sua — la sua sarebbe, come abbiamo visto, l’interruzione — e in essa si mantiene la vita dello Spirito che guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione.6 Persino il falso è inglobato, il vero e il falso sono momenti della verità. «L’elemento della filosofia è il processo che si crea e percorre i suoi momenti; e questo intero movimento costituisce il positivo e la verità del positivo medesimo. Così la verità racchiude in sé anche il negativo, ossia ciò che si chiamerebbe il falso qualora potesse venir considerato come alcunché dal quale si debba fare astrazione. Ciò che sta dileguando deve anzi venir considerato come essenziale».7 Soprattutto ciò che dilegua deve essere considerato per far sì che non venga perso, perché non si renda indipendente dal sistema.

Questa è la completa adeguazione tra la verità e la sua formulazione, la coincidenza di metodo e verità, quando il dispiegamento è compiuto e la meta raggiunta. Ma per Pareyson ciò è il falso, è la monopolizzazione della verità, poiché l’interpretazione che pretende di esaurire la verità la tradisce invece nella sua essenza e nella sua realtà, quella di essere infinita, inoggettivabile e inesauribile. Ciò che per Hegel è la coincidenza di verità e metodo non equivale all’identità pareysoniana di interpretazione e verità, poiché per Hegel coincidenza è sinonimo di sovrapposizione, adeguazione, e di esatta corrispondenza, mentre per Pareyson l’identità esclude la confusione tra la verità e la sua formulazione, nella quale questa risiede sempre come ulteriore; viene quindi mantenuto uno scarto indicativo della impossibilità di esaurire una verità infinita.

Nella prospettiva pareysoniana, questo tipo di metafisica ha ormai decretato la propria fine e l’esistenzialismo ne ha operato la dissoluzione. Il nostro autore ritiene impossibile separare il filosofo dal proprio oggetto di studio e tanto meno assurgere a un punto di vista assoluto che ci consenta di cogliere l’infinito direttamente come un oggetto da collocare in un sistema.

La formulazione della verità può essere data solo personalmente, poiché solo la persona può essere via d’accesso alla verità in virtù del suo stretto legame con essa. Di conseguenza, dalla concretezza della persona non si può prescindere. L’uomo è interpretazione della verità ma questa interpretazione è ben lontana dal configurarsi come esaustiva ed esauriente, essa è una prospettiva e come tale coglie la verità nell’unico modo in cui può possederla: personalmente e come costante e incessante ricerca. La vita infatti, e anche la filosofia, è fatta di scelte. Secondo l’autore valdostano non si può trattenere tutto, bisogna scegliere e scegliendo sappiamo anche che qualcosa andrà irrimediabilmente perduto. Ma questo è costitutivo dell’uomo che inizia sempre dalla scelta, decide di un’alternativa, e molto spesso i termini di questa alternativa non possono essere mediati e conservati perché la scelta determina la direzione tutto il percorso filosofico ed esistenziale. Noi siamo compromessi nelle nostre interpretazioni e il compromesso è conseguenza dalle nostre decisioni e delle nostre scelte; siamo posti di fronte a un’alternativa in cui ne va della nostra esistenza: dobbiamo scegliere se essere fedeli all’essere o rinnegarlo. Dipende da questa scelta originaria la possibilità di divenire prospettiva sulla verità.

Hegel invece non ha mai ammesso di aver iniziato scegliendo, eppure anche il sistema «presuppone […] una scelta; anche il filosofo speculativo sceglie suo malgrado un presupposto: il presupposto di spiegare tutto col pensiero, di affermare la coincidenza di essere e pensare. Il sistema presuppone la decisione, e quindi presuppone l’esistenza che decide e sceglie: il sistema lascia fuori di sé l’esistenza» (EP, 50). Non bisogna del resto dimenticare che la filosofia non esiste indipendentemente dal filosofo: la persona e la sua esperienza precedono sempre la riflessione. La riflessione è sempre su qualcosa, in questo caso sull’esistenza. L’esistenza attesta il nostro legame con la verità, essa è ciò che ci consente di avere un’interpretazione della verità, è la nostra via d’accesso all’essere. È per questo che filosofando noi ci compromettiamo, mettiamo in gioco noi stessi.

Ebbene esiste, secondo Pareyson, l’esatto rovesciamento del razionalismo hegeliano che prevede l’esplicitazione completa della verità ed è il misticismo dell’ineffabile e l’ontologia negativa di stampo heideggeriano. «L’ontologia negativa resta infatti in qualche modo prigioniera del culto razionalistico dell’esplicito e si pone come suo semplice capovolgimento: il presupposto che la sorregge è pur sempre che rivelazione dell’essere voglia dire esplicitazione totale di esso».8 La conseguenza ultima del mantenimento di tale presupposto è l’impossibilità del discorso di farsi sede della verità e l’approdo nel silenzio. L’esatto contrario della corrispondenza hegeliana del concetto all’oggetto e dell’oggetto al concetto è appunto l’incapacità di qualsiasi concetto di adeguarsi alla e di esprimere la verità.

Questa impossibilità apre la porta alla nostalgia dell’esplicitazione completa e il perpetuarsi dello schema razionalistico condanna la parola all’inadeguatezza senza svelare la sua abbondanza e la sua trasvalutazione, e nasconde la verità dietro l’ineffabilità invece di considerarla riserva inesauribile di una ricchezza profonda.9 Se la verità è ulteriore rispetto alle sue formulazioni ciò non è da imputare all’inadeguatezza della formulazione o all’inafferrabilità della verità, ma alla sua inesauribilità che esige una pluralità di formulazioni che non per questo possono essere considerate parziali o unilaterali, poiché ognuna di esse possiede la verità nell’unico modo in cui si lascia possedere: personalmente e infinitamente.

Occorre abbandonare questo schema inadeguato e ricorrere nuovamente all’interpretazione come una forma che possa essere possesso di un infinito, infatti essa «rappresenta il tentativo di trovare un accesso al dire la verità che non si arresti all’alternativa, ugualmente paralizzante, di doverla contenere tutta o di incontrarla solo come assente, di esaurirla o di non poterla dire perché ineffabile».10 La completa luminosità come l’oscurità più impenetrabile non lasciano vedere. Il vedere è consentito proprio grazie a una opacità che ci è connaturale, che può divenire un limite ma anche svelarsi una possibilità. L’interpretazione, essendo rivelativa, «suppone un’inseparabilità di palesamento e latenza, perché da un’oscurità così fonda da non contenere nemmeno un presagio di barlume non potrebbe prendere le mosse il processo d’illuminazione, e in un’evidenza così patente da non accogliere nemmeno il più esiguo segreto andrebbe disperso il carattere sorgivo della verità come origine inesauribile» (VI, 88). Tanto la completa presenza della verità quanto la sua completa oscurità, o assenza, non consentirebbero l’interpretazione, processo che prende le mosse dal rapporto ontologico della persona con la verità e che suppone appunto un’inseparabilità di palesamento e latenza, vicinanza e distanza.

L’opacità chiarisce perfettamente quella che è secondo Ricœur la nostra posizione di medietà, che non è una connotazione spaziale, bensì una condizione esistenziale, conseguenza dell’antropologia della sproporzione per la quale l’uomo non è né totalmente finito né infinito, ma un essere mediatore.11 Anche Pareyson avverte la centralità di questa considerazione dell’opacità della persona per la sua finitezza, e precisamente per il fatto che l’uomo non è mai in pari con se stesso, questo è la riprova che ciò che ci costituisce è soprattutto fuori di noi, è il nostro rapporto con l’essere. La persona è coincidenza di eterorelazione e autorelazione.

Tra Hegel e Heidegger sta l’interpretazione pareysoniana, come quella ch’è la felice sintesi recuperatrice di entrambe le istanze espresse da quelle filosofie .12 Pareyson condivide di Hegel la coappartenenza del metodo alla verità, ma ne rifiuta la sovrapposizione, e di Heidegger l’aver colto la profondità e l’abissalità della verità, rifiutandone però le conseguenze: l’inafferrabilità e il silenzio.

Come dice Pareyson stesso: «Una manifestazione completa, che culminasse nel «tutto detto» e auspicasse per la verità un’evidenza definitiva, rinuncerebbe a quell’implicito ch’è la fonte del nuovo, e finirebbe per puntare sull’univocità oggettiva dell’enunciato. Da un lato un culto del mistero che perviene sino alla Schwärmerei, cioè ad abbandonarsi deliberatamente a una fantastica mitologia, giacché il silenzio abissale e la notte senza fondo sono una falsa ricchezza che ben diversamente dall’agostiniano canorum et facundum silentium veritatis non si presta che alla fumosità di allusioni arbitrarie ed evanescenti; dall’altro un culto dell’evidenza che giunge sino alla superstizione, cioè a pregiare l’esplicito per sé stesso, ciò ch’è schietta idolatria, giacché la parola tutta detta, priva di spessore, ignara dell’implicito, è poverissima, e pregiarla come rivelativa, cioè come sede della verità, sarebbe come valutarla più del dovuto. Da una parte la profondità senza evidenza e dall’altra l’evidenza senza profondità: degenerazioni entrambe, perché ignare della natura dell’interpretazione, e fiduciose nell’irrazionalismo dell’inafferrabilità assoluta e dell’arbitraria allusività della cifra, o nel razionalismo dell’enunciazione completa e della comunicabilità oggettiva dell’esplicito» (VI, 88-89).

Non un culto razionalistico dell’esplicito, né un’ontologia negativa — non si vuole arrivare né all’identità di essere e pensiero, reale e razionale, né alla cessazione del discorso, all’arresto nel silenzio — ma una ontologia dell’inesauribile che trova conferma nell’autorevolezza della speculazione schellinghiana.13 «Pareyson riscontra […] nell’ultima speculazione di Schelling, di cui egli propone un’interpretazione postheideggeriana e posthegeliana, il tentativo di una concettualizzazione dell’«inesauribilità». È soprattutto nelle Conferenze di Erlangen che, muovendo dall’esigenza di evitare sia il misticismo dell’ontologia negativa che conduce e si ferma al non sapere, sia l’ontologia tutta esplicata di Hegel che conduce al sapere assoluto, verrebbe delineandosi […] una formulazione dell’ontologia dell’inesauribile».14

Negli scritti delle Conferenze di Erlangen Schelling, parlando dell’indefinibile, afferma che si può definire solo ciò che per natura è rinchiuso in limiti determinati. Ma l’indefinibile che è il veramente infinito non può essere rinchiuso in nessuna forma, anche se esso, come dice Schelling stesso, non è così indefinibile «da non poter diventare anche un definibile, non così infinito da non poter diventare anche finito, non così inafferrabile da non poter diventare afferrabile. E se voi tenete ben fermo ciò ecco che voi avete il concetto positivo. Infatti, per potersi rinchiudere in una forma deve essere certamente al di fuori di ogni forma, ma non questo, l’essere al di fuori di ogni forma, l’essere inafferrabile, è in lui il positivo, bensì il fatto che può rinchiudersi in una forma che può farsi afferrabile, il fatto dunque che è libero di rinchiudersi e di non rinchiudersi in una forma. D’altra parte, fin dall’inizio si affermò non già che esso sia semplicemente ciò che è privo di forma e di figura, ma soltanto che non permane in nessuna figura, non si lascia avvincere da nessuna figura. Noi presupponemmo quindi espressamente che esso assuma forma, giacché solo in quanto assume forma, ma da ciascuna torna a uscire vittoriosamente, esso si palesa come ciò che è in sé inafferrabile, infinito. Non sarebbe più libero di uscire da ogni forma, se fin dall’inizio non fosse stato libero di assumere e di non assumere forma. Io dico: fin dall’inizio giacché una volta che ha assunto forma, forse non è capace di emergere immediatamente nella sua libertà, ma solo in quanto passa attraverso tutte le forme. Ma tuttavia originariamente è libero di rinchiudersi e di non rinchiudersi in una forma. Non vorrei però esprimerlo in questo modo: esso è ciò che è libero di assumere forma. Infatti, in tal modo, questa libertà apparirebbe come una proprietà che presuppone un soggetto distinto e indipendente da essa; mentre invece la libertà è l’essenza del soggetto, ossia esso stesso non è altro che l’eterna libertà».15

Siamo all’origine, alla possibilità, data dalla libertà, dell’essere di essere o non essere, alla domanda fondamentale: «perché l’essere piuttosto che il nulla?»

Ciò che può decidere se essere o non essere è solo la libertà, a essa soltanto è appesa tutta la realtà, da essa dipende l’essere. La realtà «è del tutto gratuita e infondata: interamente appesa alla libertà, che non è un fondamento ma un abisso, ossia un fondamento che si nega sempre come fondamento» (FL, 12). La libertà è un Urgrund che è un Ungrund: fondamento assoluto è quello che è possibilità di essere o non essere se stesso, e perciò in certo senso può retrocedere al di là di se stesso.16 Proprio per questo la realtà può essere vista nella sua ambiguità: come eccedenza, pura gratuità, dono o nella sua infondatezza che provoca il rimpianto di non esser nati.17 Possiamo meravigliarci quindi di fronte alla gratuità dell’essere ma anche esser presi da sgomento per la sua infondatezza, per il suo legame col nulla, e per l’idea della loro scambiabilità. Caratteristica della realtà vediamo essere l’ambiguità, l’ontologia viene ad accompagnarsi alla meontologia. L’ontologia dell’inesauribile, strettamente legata alla libertà — Schelling ci suggerisce che ciò che può decidere se essere o non essere è solo la libertà, la quale consente innovazione continua — si incammina verso un pensiero tragico.

L’essere è appeso alla libertà e l’inseparabilità dei due termini spiega come della libertà non possa che essere che un’ontologia. Essere e libertà sono inscindibilmente congiunti, in quanto nei confronti dell’essere l’uomo può soltanto scegliere tra consenso e rifiuto, esercitando così la propria libertà. È la libertà che tiene fermo il vincolo tra uomo ed essere, il quale potrebbe anche essere rinnegato, tradito.18

2. Una nuova metafisica: l’ontologia dell’inesauribile

La verità non può risiedere nel pensiero e nel discorso filosofico che come l’indefinito e l’informulato che decide se prender forma o no. La metafisica ontica e oggettiva viene sostituita con una metafisica ontologica e indiretta: una «ontologia consapevole non soltanto della portata finita del proprio sguardo e del carattere finito delle proprie operazioni, ma anche garantita dal rischio della discrepanza fra il dire e il fare e dal pericolo della mistificazione, nel senso ch’essa intende presentarsi come discorso dell’uomo sull’uomo per l’uomo, sì che un eventuale discorso sull’essere o sull’assoluto non può essere che indiretto, cioè discorso sull’uomo come rapporto con l’essere o come coscienza dell’assoluto» (EP, 18).

L’inoggettivabilità e l’inesauribilità dell’essere esigono l’abbandono della metafisica ontica. Solo un personalismo ontologico e un’ontologia dell’inesauribile garantiscono la sopravvivenza della metafisica, poiché la verità non si offre se non a una prospettiva personale. «L’inoggettivabilità dell’essere non solo non impedisce l’ontologicità dell’uomo, ma coincide con essa: in tal modo si raggiunge e si svolge il concetto esistenzialistico dell’inseparabilità di esistenza e trascendenza e della coincidenza di autorelazione ed eterorelazione» (EP, 16). L’essere inoggettivabile e irrelativo è presente nel rapporto poiché lo costituisce e ne fa parte, l’essere si dà all’uomo solo all’interno di quel rapporto con l’essere che l’uomo è (cfr. EP, 16). L’uomo può parlare dell’essere, quindi, perché è lui stesso rapporto vivente e reale con esso, anche se l’essere gli si presenta relativo solo come irrelativo, come istitutore del rapporto e per questo inoggettivabile.

Non si parla più quindi di metafisica in senso tradizionale poiché si parla di inoggettivabilità e si trascendono i termini di soggetto e oggetto non più consoni a esprimere i caratteri di un personalismo ontologico nel quale la persona e la verità sono legati da un vincolo originario.19 Ci troviamo di fronte inoltre a un’ontologia indiretta poiché noi riflettiamo e parliamo dell’essere in quanto parliamo dell’uomo che è rapporto con l’essere. Il discorso filosofico è quindi una presa di coscienza di ciò che l’uomo è: rapporto ontologico.

L’ontologia pareysoniana è strettamente legata all’esistenza, alla persona, perché ogni cosa muove dall’assunto che l’uomo è rapporto con l’essere, quindi, l’interpretazione non viene intesa «come una decifrazione di un vero per sé indipendente, ma come il modo di darsi della verità. In esso la verità attesta il proprio essenziale legame con la persona e mette così a tacere gli equivoci impliciti nelle concezioni oggettivistiche».20 Si parte quindi dal nesso originario tra persona e verità, centro del pensiero pareysoniano, dal quale non si può prescindere altrimenti l’interpretazione non avrebbe alcun senso in quanto verrebbe meno la dialettica di familiarità ed estraneità che garantisce la validità dell’ermeneutica. È proprio il rapporto lontananza-vicinanza che fa sentire il bisogno dell’interpretazione, come comprensione di ciò che nella sua trascendenza è lontano e che però ci costituisce. Non si può cercare qualcosa che ci è del tutto estraneo. La conoscenza del resto, come dice Platone, non è altro che reminiscenza, ossia l’anima non può conoscere o scoprire nulla se non partecipa già dell’idea cui si riferisce l’oggetto della conoscenza. Allo stesso modo l’interpretazione non sussisterebbe se non ci fosse un’originaria solidarietà tra la persona e la verità, anzi è proprio in virtù di essa che noi possiamo dare un’interpretazione della verità.

Non poter dare della verità un’enunciazione oggettiva non significa non poterla possedere o, ancor peggio, non doverla neppure cercare, ma tener conto che la nostra finitezza è intrascendibile e invalicabile, tuttavia è proprio essa che ci consente di essere sede della verità. Con un’opzione esistenziale noi decidiamo di divenire veicolo della verità e luogo della rivelazione dell’essere, ribadendo il vincolo originario che ci lega a esso. «Poiché la natura del rapporto ontologico si specifica e si determina soprattutto in base all’esercizio concreto della libertà, l’ontologia ermeneutica, o l’ermeneutica ontologica di Pareyson altro non è, in definitiva, che ontologia ed ermeneutica della libertà».21 Nei confronti dell’essere noi non possiamo che avere un atteggiamento o di consenso o di rifiuto, è la libertà umana a intervenire nei confronti dell’essere operando una scelta esistenziale che precede qualsiasi processo cognitivo.

La verità come origine inesauribile è quindi preesistente alla formulazione che se ne dà, e che è successiva e subordinata a questa, e la solidarietà che ci lega a essa precede quindi qualsiasi speculazione in quanto è proprio il nostro legame con la verità, la nostra apertura ontologica, a stabilire la possibilità di un discorso sulla verità. La filosofia ha il compito di chiarire tale rapporto, e di porsi come approfondimento di quella prospettiva singolare che è la persona, la quale ha liberamente assunto il proprio rapporto ontologico. «Cominciare in filosofia — come dice Ricœur — […] non può essere se non un cominciare nell’elucidazione, attraverso la quale la filosofia, piuttosto che cominciare, ricomincia».22 La verità però non si lascia esaurire dal discorso filosofico e, poiché un infinito si può possedere ma solo nella forma di doverlo cercare ancora, l’esplicitazione non può mai essere completa. Rimane dunque uno scarto che diviene la sede nella quale si rimanda a qualcosa che va oltre il discorso, che parte da esso e consente alla verità di essere rispettata. Esso rappresenta la possibilità dell’ulteriorità e del continuo rigerminare della verità che suscita sempre nuovi approfondimenti.

L’inesauribile non può essere esaurito, come l’indefinibile schellinghiano non può essere definito, neppure per via negationis, bensì essere stimolo di un discorso che rigermina sempre dalla sua fonte. «La verità risiede nella sua formulazione non come oggetto d’una sia pure ideale enunciazione completa, ma come stimolo d’una rivelazione interminabile […]. L’ideale della formulazione del vero non è un’esplicitazione completa o un’enunciazione definitiva, ma l’incessante manifestazione d’un’origine inesauribile, sì che non si può imputare a una sua imperfezione o carenza l’assenza di quella compiuta enunciazione che essa non intende fornire» (VI, 77). Credere che ciò sia un’insufficienza è non comprenderne la natura, è fraintendere una sovrabbondanza per una mancanza: non si tratta di una inadeguatezza della formulazione o di un’imperfezione della verità, è piuttosto proprio la sua ricchezza che suscita infinite interpretazioni, essendo la verità stessa una fonte inesauribile.

La rivelazione della verità si attua mediante l’inseparabilità di presenza e latenza che ripropongono l’atteggiamento di familiarità ed estraneità impostoci da un testo nel momento in cui lo interpretiamo. La verità è generosa e si riserva per donarsi. «Per la sua inoggettivabilità l’essere è inafferrabile come essere, e ogni tentativo di coglierlo e definirlo non ha altro esito che il suo arretramento. Questo fa sì che l’essere retroceda di continuo, e si dia solo sottraendosi, presente solo come ulteriore e patente solo come nascosto, non come in una notte mistica, ove domina l’indistinzione, ma come nell’inoggettivabilità, ove il discorso continua anche se cambia segno» (EP, 19-20). La verità è quindi ricchezza, la sua è un’abbondanza che suscita infinite formulazioni e le trascende tutte.

La trascendenza in questo modo non viene mai perduta perché il personalismo che ne consegue è ontologico e qualifica la persona come apertura alla verità, legame con l’essere, e questa solidarietà originaria, tradotta in termini spaziali, implica un rapporto verticale che fonda e garantisce rapporti orizzontali per cui la trascendenza della verità diviene la garanzia della dinamicità e dell’apertura della persona.23 L’essere, inoggettivabile e inesauribile, si mantiene sempre trascendente rispetto all’uomo.

Lo stesso uomo trascende persino se stesso — qui viene a riproporsi il tema dello sbilanciamento, del fatto che la persona non è in pari con se stessa — perché non coincide con se stesso, «egli non solo non è tutto, ma nemmeno si può dire che coincida con se stesso. Egli è rapporto ontologico, nel senso che il suo essere consiste appunto, totalmente e senza residuo, nell’essere rapporto con l’essere; ciò significa che il suo essere stesso è dislocato e implica uno scarto costitutivo, uno sfasamento strutturale, che lo fa essere sempre oltre se stesso: come rapporto con l’essere è sempre più del suo essere, e come coscienza reale e quindi muta della realtà, sa sempre prima di conoscere, al punto che si può dire paradossalmente che egli esiste sempre prima di esistere».24 L’esistente è prima di ogni riflessione. La riflessione non giunge quindi, come abbiamo visto, a chiarire e a ricordare se non ciò che l’uomo sa già, ossia di essere rapporto con l’essere che rispetto a lui è inesauribilità e che per questo esige sempre nuovi e ulteriori approfondimenti.

3. L’interpretazione come approfondimento

La verità, considerata non più come oggetto del discorso filosofico ma come sorgente inesauribile dalla quale il pensiero muove, emerge nella sua infinità e nella sua inesauribilità generando un discorso che rigermina continuamente dalla propria fonte, che riproblematizza ininterrottamente le proprie domande. La verità non è meno verità se la sua interpretazione non perviene a un’esplicitazione completa, anzi la verità è tale solo quando si lascia cogliere come stimolo di una rivelazione inesauribile. «L’unico modo — dice Pareyson — di possedere e conservare la verità è proprio quello di accoglierla come infinita: non può esser verità quella che non è colta come inesauribile» (VI, 117).

L’interpretazione rispetta la verità come inesauribile proprio perché non cerca di esplicitarla e oggettivarla completamente, bensì la accoglie come fonte dalla quale essa muove e alla quale essa attinge. Inoltre, essendo la fonte trascendente, ogni approccio si qualifica come interpretativo: se, come afferma Rigobello, «la fonte originaria del significato trascende, in quanto a valore, le singole esistenze […] allora ogni esperienza di significato compiuta nell’esistenza singola è una interpretazione di un centro di significato (e potremmo dire di Verità)».25

Ricordiamo che la verità è libera di decidere di non farsi possedere da una formulazione in particolare, ma di offrirsi a infinite formulazioni. È proprio questo carattere di ulteriorità che le permette di non estinguersi in una prospettiva e di offrirsi in infinite altre, ed è sempre questo carattere che esige un approfondimento continuo.26 Ancora una volta l’analogia con l’opera d’arte ci consente una più precisa comprensione: le varie interpretazioni che si danno di un’opera non intaccano minimamente la sua unicità. L’opera, afferma Pareyson nella sua Estetica, «ha il suo vero e naturale modo di vivere nelle molteplici esecuzioni; ma ciò accade precisamente perché l’opera stessa le suscita, le esige e le regola, e vive in esse solo in quanto vi permane una, identica, inalterabile» (EST, 267).

Tutto questo impedisce quindi di parlare di relativismo dell’interpretazione o di parzialità, perché l’interpretazione non esprime una parte della verità da completare27 in quanto non mira a una enunciazione completa, bensì a un discorso che intende cogliere la verità come infinita e come inesauribile. La compossibilità di infinite interpretazioni non attesta l’esigenza di essere integrate le une con le altre per approdare a una totalità costruita, piuttosto rivela la ricchezza e l’abbondanza della verità che suscita infinite interpretazioni e si lascia cogliere da infiniti punti di vista che la rivelano intera e totale.

Ciò consente a ognuno di esprimerla a suo modo pur mantenendo sempre l’unicità della verità stessa, la quale ha sede in ogni prospettiva che vuole essere rivelazione dell’essere senza per questo trasformarsi in qualcosa che non sia la prospettiva. «Nell’interpretazione è sempre una persona che vede e guarda: e guarda e vede dal particolarissimo punto di vista in cui attualmente si trova o si pone e col singolarissimo modo di vedere che s’è venuto via via formando o che intende di volta in volta adottare, sì che tutta intera la persona entra a costituirli dall’interno, a generarli, a infletterli e dirigerli e determinarli, tanto nel particolare modo di vedere quanto nel singolare punto di vista. D’altra parte nell’interpretazione è sempre una forma ch’è veduta e guardata: ed è veduta in una determinatissima prospettiva, che la mette in luce in un determinato modo, nel quale tuttavia essa è condensata e rivelata intera, ed è guardata in uno dei suoi infiniti aspetti, in ciascuno dei quali essa si mostra intera sì, ma secondo una determinatissima direzione» (EST, 187).

L’interpretazione infatti è una prospettiva vivente sul vero, è il nesso che esiste tra la persona e la verità, è il discorso filosofico che meglio si adatta a far emergere una ricchezza viva e profonda senza che si trasformi in un concetto dimostrativo o in un precetto da comandare, è un approccio che implica impegno, attenzione e fedeltà, e che coinvolge ogni persona che voglia riconoscere la sua vera realtà. È una scelta esistenziale che ci consente di divenire prospettiva sulla verità, questo denota come l’interpretazione comprometta l’intera persona e non si limiti a essere soltanto un processo conoscitivo.

La filosofia non è scienza dimostrativa, essa non si limita a fornire delle spiegazioni, ma cerca di approfondire continuamente la comprensione su più e diversi livelli e da più e diversi punti di vista. Un’interpretazione vuole scandagliare tutti gli strati, operare su ogni livello, «il processo d’interpretazione è infinito, e sempre esige […] approfondimento, ampliamento per stabilire una congenialità sempre più captativa e rivelativa. L’interpretante non si contenta d’aver colto un aspetto della forma, o la forma in uno dei suoi aspetti, e cerca altri aspetti che gli confermino, o gli correggano, o gli sostituiscano l’interpretazione che ha creduto di poter dare, e per far questo si pone in un nuovo punto di vista» (EST, 188). L’interpretazione non è mai soddisfatta dei suoi risultati, cerca sempre una maggiore adeguazione. Questo perché è l’infinita ricchezza della verità che suscita sempre nuovi approfondimenti e alimenta sempre nuovi approcci. «Infinito, dunque, il processo dell’interpretazione, perché fintanto che c’è conoscenza, non c’è interpretazione che sia definitiva, e non sia soggetta a un perpetuo moto di revisione inteso a una sempre maggiore adeguazione» (EST, 188).

La categoria dell’approfondimento, cui forse non è stata data molta importanza, può essere considerata una delle modalità che meglio connotano il movimento interpretativo. «L’interpretazione è un processo interminabile, che richiede un continuo e incessante approfondimento; ed è tale proprio perché è possesso della verità; giacché la verità, in quanto inesauribile, si offre soltanto a un possesso così fatto che non cessa d’esser tale se si presenta come un compito infinito» (VI, 80).

L’interpretazione consta di termini che la qualificano e che sono, in un certo qual modo, contraddittori ma che non si escludono, anzi emergono proprio grazie alla loro coessenzialità e compatibilità. L’interpretazione è a un tempo possesso della verità e processo interminabile di approfondimento. L’una proposizione non esclude l’altra, perché se accostiamo questo ragionamento — che forse si fatica a seguire, non essendo un ragionamento deduttivo — alla fede riusciamo perfettamente a comprendere come possa sussistere un possesso della verità che si rivela pur con il continuo stimolo a cercarla ancora e a cercarla con gli altri, ad esempio nel dialogo. Un punto finale di ricerca, una meta raggiunta, non sarebbe vero possesso della verità poiché indicherebbe che l’interpretazione ne ha preso il posto esaurendone la ricchezza, ne è divenuta il surrogato annullandone il carattere sorgivo e inesauribile, e rendendola finita.

I libri veramente importanti sono quelli che ci invitano a una seconda lettura e poi a una terza, e così via, perché rappresentano per noi una fonte inesauribile di spunti e di idee. Quest’affermazione è valida a maggior ragione per la verità: che verità sarebbe quella che viene interpretata una sola volta, senza troppa attenzione, e che non suscita altri pensieri? Una verità che non richiede attenzione, impegno e fedeltà non può essere una verità degna del nome. «La mancanza d’attenzione è in fondo mancanza d’interesse, e l’attenzione mal diretta è mancanza di rispetto, e sono questi i maggiori ostacoli che si frappongono a un’interpretazione desiderosa di comprendere e contemplare» (EST, 209).

Avvicinarci maggiormente alla verità con una seconda, terza e altre interpretazioni significa approfondire, chiarire e far luce su ciò che noi siamo, sulla nostra persona che è rapporto con l’essere. È quindi rispondendo a quesiti determinati che si rimanda a qualcosa che va otre la nostra situazione di partenza. L’interpretazione come approfondimento è supportata ampiamente dal personalismo ontologico che ne è alla base e in virtù del quale la persona è definita come rapporto con l’essere. Il rapporto ontologico che ci costituisce è originario ed ermeneutico, poiché dire che la persona è originariamente legata all’essere è come dire ch’essa è interpretazione della verità.

Filosofare sull’uomo è filosofare sull’essere perché il rapporto con l’essere non è una proprietà o una facoltà o una possibilità dell’uomo, ma è l’essere stesso dell’uomo (cfr. EP, 243). Quindi l’affermazione dell’apertura ontologica istituisce la possibilità di fare della persona la sede della rivelazione dell’essere. La propria interpretazione diventa allora sempre approfondibile, questo in virtù di un nostro sforzo e della nostra fedeltà all’essere per cui ci decidiamo ogni volta. L’interpretazione è un processo ininterrotto e uno sforzo di penetrazione, in cui i gradi di comprensione sono infiniti; in quanto possesso di un inesauribile l’interpretazione implica un continuo approfondimento nel quale la verità si stabilisce come stimolo d’una rivelazione interminabile che non può essere esaurita (cfr. EST, 239).28

L’interpretazione si configura così come processo interminabile e approfondimento continuo. Ed è tale «proprio perché è possesso della verità; giacché la verità, in quanto inesauribile si offre soltanto a un possesso così fatto che non cessa d’esser tale se si presenta come un compito infinito; anzi, ch’è un compito infinito proprio in quanto è non semplice approssimazione o immagine della verità, ma suo reale ed effettivo possesso. Certo, può sembrare contraddittoria e paradossale questa natura dell’interpretazione, ch’è al tempo stesso possesso effettivo e processo interminabile, e che quindi unisce nello stesso punto stabilità e mobilità, fermezza e continuazione, raggiungimento e ricerca. Ma soccorre ancora l’analogia dell’arte, in cui la lettura è indubbiamente un vero possesso dell’opera eppure il suo senso consiste nell’essere un invito a rileggere; in cui la coscienza d’aver penetrato l’opera è accompagnata dalla consapevolezza di dover procedere a un ulteriore approfondimento: in cui ogni rivelazione è premio e conquista solo come stimolo e promessa di nuove rivelazioni. E se nell’arte ciò che permette di unire senza contraddizione possesso e ricerca è l’inesauribilità stessa dell’opera, tanto più s’intende come ciò possa avvenire nell’interpretazione della verità, dato il carattere assai più intenso e profondo e originario dell’inesauribilità di quest’ultima; sì che apparirà ben chiaro come uno dei cardini fondamentali dell’ermeneutica è, appunto, la compatibilità, anzi la coessenzialità del possesso e del processo, della conquista e della ricerca, della padronanza e dell’approfondimento» (VI, 80-81).

Per stringere maggiormente la connessione tra l’interpretazione e l’approfondimento, e per fare emergere il bisogno d’una penetrazione sempre più profonda, che riesca a sondare livelli di sempre maggior comprensione, proponiamo un parallelo tra l’interpretazione e l’incontro nella conoscenza degli altri. Ne risulterà che l’approfondimento è proprio ciò che caratterizza maggiormente tale incontro.

Nel rapporto con gli altri non ci si arresta a una conoscenza approssimativa ma si va oltre, interrogando e interrogandosi, in modo che nuovi stimoli suscitino nuovi approfondimenti, i quali vanno rivisti e corretti e modificati ogni qual volta si vuole raggiungere una maggior comprensione dell’altra persona. Tale comprensione non si risolve in una spiegazione piatta e statica poiché l’esistenza non può essere considerata staticamente, perché ciò che le è connaturale è soprattutto la dinamicità e la libertà operante che la modifica. È proprio con il concreto esercizio della libertà che la persona decide di accogliere stimoli che muovono verso ulteriori approfondimenti. Ne segue che si deve ricorrere all’interpretazione come continua e incessante ricerca qualora si voglia comprendere l’altra persona che s’incontra.

L’uomo, essendo rapporto con l’essere, dice qualcosa di più della sua situazione storica e finita, in quanto nella sua esistenza ne va della verità. La sua situazione diviene apertura ontologica al vero che, essendo una ricchezza inesauribile, non può essere esplicitata completamente e perciò si pone come richiesta di un continuo e infinito approfondimento.

Il processo interpretativo è sempre un «incontro» dove l’interpretante e l’interpretato hanno bisogno di conoscersi e di parlare, cominciando da un livello semplice per assurgere a livelli sempre più profondi di penetrazione sostenuti da un’attenzione costante, da un interesse sempre vivo e dal rispetto reciproco.

Quando si parla della conoscenza degli altri come interpretazione in Esistenza e persona Pareyson scrive: «Essa nasce dall’incerta avventura di un incontro e quindi richiede tutti gli accorgimenti necessari alla riuscita di un dialogo: un costante sforzo d’attenzione che, alimentato dall’interesse e dal rispetto, procuri di non sovrapporsi al suo oggetto; un continuo esercizio di congenialità29 che, sostenuto dall’immaginazione creatrice, inventi e produca i punti di vista più rivelativi; una duttilità vigile e sagace, che sappia convertire gli ostacoli in condizioni e le resistenze in suggerimenti. […] la conoscenza degli altri ha tutti i caratteri dell’interpretazione, cioè di una conoscenza in cui soggetto e oggetto sono singoli e in cui l’oggetto si rivela nella misura in cui il soggetto si esprime, e d’una conoscenza che non consegue il suo scopo se non col rischio del fallimento, e che, lungi dall’essere unica e definitiva, non può presentarsi che come il risultato d’un continuo sforzo di revisione e d’approfondimento» (EP, 211).

L’approfondimento è quindi essenziale quando si parla di verità. Perché essa non ci appartiene in modo così esaustivo da non sentire il bisogno di penetrarla ancora. Possiamo però concepire l’interpretazione come intensiva, che giunge a scoprire abissi nuovi e a formulare nuove domande. In un’ontologia dell’inesauribile l’unica forma di conoscenza con la quale possiamo avvicinarci all’essere, alla verità è l’interpretazione, l’interpretazione come approfondimento.

  1. Su tale argomento in Annuario filosofico, 8, 1992, pp. 9-36 sono riportati alcuni appunti manoscritti dell’autore valdostano, riconducibili agli ultimi anni della sua vita, ordinati e titolati da F. Tomatis. Tali appunti, riprodotti poi in OL (pp. 353-384), ricostruiscono lo svolgersi storico e il ripetersi filosofico di tale domanda negli autori a lui più congeniali (Leibniz, Heidegger, Jaspers e Schelling). Secondo Pareyson, la Grundfrage, conosciuta nella sua formulazione più attuale di Heidegger, affonda le sue radici nell’antichità anche se non in termini specificamente filosofici, il suo ambito è di più ampio respiro: letterario e artistico (tragedia greca, Leopardi, Dostoevskij…). La formulazione rigorosamente filosofica è data da Leibniz: «ratio cur aliquid potius existat quam nihil», «Pourquoy il y a plutôt quelche chose que rien». Per Leibniz il passaggio dal possibile all’esistente è connotato tragicamente in quanto fragilmente legato alla contingenza: il rapporto è giocato fra possibilità ed esistenza e il carattere sconvolgente del nulla non emerge in modo evidente, viene piuttosto considerato come inerte e per questo minimizzato. «L’abissalità — secondo Pareyson — in una filosofia della pienezza (non solo dell’essere ma anche del possibile) quale è quella di Leibniz spetta alla profondità insondabile del regno del possibile più che alla tenebrosa e minacciosa voragine del nulla» (OL, 361). Heidegger invece pone sullo sfondo della domanda (domanda che chiude la prolusione Was ist Metaphysik?, letta come öffentliche Antrittsvorlesung il 24 luglio 1929 nell’aula magna di Friburgo) l’esperienza del nichilismo e dell’angoscia: «Warum ist überhaupt Seiendes und nicht vielmehr Nichts?».

    Leibniz utilizza quindi pronomi indefiniti (aliquid e nihil, quelque chose e rien), mentre Heidegger ricorre a due sostantivi (Seiendes e Nichts). L’ambito della domanda heideggeriano non è infatti metafisico ma ontologico: è una domanda sul senso e sulla verità dell’essere, non sul fondamento o sulla causa prima dell’essente. Heidegger tematizza infatti nella domanda la differenza ontologica, non vuole confondere l’essere con l’essente. Pensare profondamente il nulla è pensare la verità dell’essere distinto dall’ente (il nulla è un velo occultante-rilevante l’essere). Di entrambi, dell’essere e del nulla, si può dire sia che ci sono sia che non ci sono; non si tratta di un nulla negativo, pertanto, non di un annientamento ma di una negazione).

    Karl Jaspers, forse l’autore più congeniale a Pareyson, riprende la formulazione schellinghiana: «Warum ist etwas, warum ist nicht nichts?». Secondo il professore di Heidelberg e Basilea, non si dà una risposta unica e oggettiva dal momento che la domanda si pone solo all’interno dell’orizzonte esistenziale e «sa cogliere l’essere anche nella vertigine del pensiero e nell’abisso del nulla; essa non è autentica se non dove la questione è posta in tutta la sua serietà, quando lo stupore provocato dalla domanda esige l’approfondimento della coscienza sino al nodo che vincola fra loro esistenza e trascendenza» (OL, 376).

    Infine Schellig considera come vera alternativa al nulla non tanto il qualcosa quanto piuttosto il tutto («Warum nicht nichts, warum ist etwas überhaupt?»): «bisogna che il nulla non sia così facilmente dissolto di fronte alla solarità dell’essere, bisogna che la piena comprensibilità dell’essere ceda il posto alla consapevolezza dei suoi aspetti oscuri e misteriosi, bisogna che la meraviglia e lo stupore appaiano accompagnati da aspetti cupi e dolorosi, bisogna che l’unitotalità sia spezzata senza per questo tornare indietro alla mera contrapposizione di unità e molteplicità né disperderne il carattere vivente, bisogna che s’incontri per un verso la dura e scoscesa nudità dell’essere e per l’altro il lato tenebroso e angoscioso della realtà» (OL, 382).


  1. Le sigle utilizzate nel testo si riferiscono alle seguenti opere di Luigi Pareyson: EP, Esistenza e persona, Taylor, Torino 1950, poi Il melangolo, Genova 19854. EST, Estetica. Teoria della formatività, Edizioni di «Filosofia», Torino 1954, poi Bompiani, Milano 1988; VI, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1971; FL, Filosofia della libertà, Il Melangolo, Genova 1989; OL, Ontologia della libertà, Einaudi, Torino, 1995. ↩︎

  2. Cfr. Antonio Rosso, Ermeneutica come ontologia della libertà, Vita e Pensiero, Milano 1980, p. 113. ↩︎

  3. Cfr. Giuseppe Modica, Per una ontologia della libertà, Cadmo, Roma 1980, p. 119. ↩︎

  4. Cfr. Ugo Perone, Modernità e memoria, SEI, Torino, 1987, p. 19. ↩︎

  5. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 21. ↩︎

  6. G.W.F. Hegel, Fenomenologia…, ed. cit., p. 26. ↩︎

  7. G.W.F. Hegel, Fenomenologia…, ed. cit., p. 37. ↩︎

  8. Giuseppe Riconda, Recensione a Verità e interpretazione, in Giornale critico della filosofia italiana, 4 (1973), pp. 583-597, p. 586. ↩︎

  9. Cfr. Maria Cristina Di Nino, Luigi Pareyson. Esigenza di verità e senso comune, Edizioni Romane di Cultura, Roma, 1999; in particolare pp. 26-39. ↩︎

  10. Ugo Perone, Modernità…, ed. cit., p. 27. ↩︎

  11. Paul Ricœur, a riguardo della sproporzione dell’uomo, affronta il discorso prendendo le mosse da Platone e da Pascal. Il mito di Eros del Simposio e la meditazione sulla grandezza e la miseria dell’uomo pascaliano forniscono a Ricœur il materiale per una riflessione sulla posizione intermedia dell’uomo. L’immediatezza della figura mitica di Eros mostra nella sua discendenza da Poros e Penia la sproporzione dell’uomo: «Ecco dunque il principio di opacità, per render ragione dell’aspirazione dell’essere occorre una radice di indigenza, di povertà ontica. Eros, l’anima filosofante, è quindi l’ibrido per eccellenza, l’ibrido di Ricchezza e Povertà» (Paul Ricœur, Finitudine e colpa, a cura di V. Melchiorre, Il Mulino, Bologna 1960, p. 79). Lo stesso tema è affrontato da Pascal nei suoi Pensieri: «Che cos’è l’uomo nella natura? Un nulla in confronto con l’infinito, un tutto in confronto al nulla, qualcosa di mezzo tra il tutto e il nulla. […] Limitati in ogni campo, questa condizione, che occupa una posizione intermedia tra i due estremi, si ritrova in tutte le nostre facoltà» (Blaise Pascal, Pensieri, Brunschvicg n. 72). ↩︎

  12. Antonio Rosso, Ermeneutica…, ed. cit., pp. 113-114. ↩︎

  13. In Schelling infatti coesistono «la più lucida e critica speculazione con la mistica più schietta e incontaminata, in modo che né la mistica annulla la chiarezza della riflessione né la filosofia dissolve in sé la profondità della mistica, ma l’una e l’altra, connesse ma non giustapposte, si colorano e si esaltano a vicenda, mutuandosi reciprocamente il significato profondo e il tono generale del pensiero» (Luigi Pareyson, Introduzione, in: F.W.J. Schelling, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, Mursia, Milano 1974, p. 29). ↩︎

  14. Giuseppe Modica, Per una ontologia…, ed. cit., pp. 124-125. ↩︎

  15. F.W.J. Schelling, Scritti sulla filosofia…, ed. cit., p. 205. ↩︎

  16. Claudio Ciancio, Metafisica del soggetto e filosofia della libertà, in Giornale di Metafisica, 1 (1992), p. 33. ↩︎

  17. Pareyson fa spesso riferimento al me phýnai dei lirici greci, il meglio non esser nati. A questo proposito fa riferimento anche al Canto notturno di Giacomo Leopardi: «Ma perché dare la sole, / perché reggere in vita / chi poi di quella consolar convenga? / Se la vita è sventura / perché da noi si dura? […] Dimmi: perché giacendo / a bell’agio, ozioso, / s’appaga ogni animale; / me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?» (cfr. OL, 354). Tante domande determinate per la richiesta di un unico senso. ↩︎

  18. Questi spunti che muovono da Verità e interpretazione, con Schelling e Dostoevskij come compagni di viaggio, vengono elaborati e approfonditi da Pareyson nell’ultima fase del suo pensiero: l’ontologia della libertà↩︎

  19. Pareyson ricorda la lezione di Fichte sulla inconoscibilità oggettiva di ciò che fonda e quindi trascende la distinzione tra soggetto e oggetto (cfr. EP, 19). ↩︎

  20. Ugo Perone, Modernità…, ed. cit., p. 26. ↩︎

  21. Antonio Rosso, Ermeneutica…, ed. cit., pp. 40-41. ↩︎

  22. Paul Ricœur, Finitudine e colpa, ed. cit., p. 73. ↩︎

  23. La trascendenza è uno dei concetti che la filosofia dell’esistenza ha tentato di far riemergere dopo Hegel e Pareyson è perfettamente in armonia nel considerarla un’esperienza imprescindibile dell’uomo che sa di non essersi fatto da sé. Concezione sostenuta dal fatto che Pareyson oltre ad essere filosofo è un filosofo cristiano. ↩︎

  24. Luigi Pareyson, Filosofia ed esperienza religiosa, in Annuario filosofico, 1 (1985), pp. 7-72, p. 15. ↩︎

  25. Armando Rigobello, Legge morale e mondo della vita, Abete, Roma 1968, p. 342. ↩︎

  26. Cfr. Francesco Russo, Esistenza e libertà. Il pensiero di Luigi Pareyson, Armando, Roma 1993, p. 166. ↩︎

  27. Come abbiamo visto nel primo capitolo, l’interpretazione non esige alcuna integrazione poiché essa non rappresenta una parte della verità da comporre con altre parti sino a costituirne la totalità, bensì rivela, da un punto di vista determinato, la verità come intera. ↩︎

  28. «La verità indica come segno della sua presenza proprio il carattere interminabile e sempre ulteriore del discorso: poterla enunciare in un’esposizione completa sarebbe proprio il segno di non averla colta affatto. Solo come inesauribile la verità può offrirsi alla sua formulazione, cioè come tale ch’è impossibile tentarne e assurdo realizzarne l’esplicitazione completa, pur essendone invece tanto desiderabile quanto eseguibile una rivelazione incessante. Questa interminabilità tipica dell’interpretazione, lungi dall’esserne un difetto o una lacuna o dall’attestarne l’incompletezza o l’insufficienza, è piuttosto la sua perfezione e la sua compiutezza, anzi la sua ricchezza» (VI, 78). ↩︎

  29. La congenialità è ciò che «propone situazioni affini, esigenze simili, problemi vicini, sollecitazioni comuni» (EST, 143). ↩︎