Introduzione
Le religioni sono vie diverse che portano ad un unico punto di arrivo. Importa forse se percorriamo strade diverse se poi giungiamo insieme alla meta? A guardar bene, esistono tante religioni quante sono le persone del mondo.1
– Mahatma Gandhi
Prima di affrontare la tematica relativa all’ermeneutica del dialogo tra le religioni in Raimon Panikkar, risulta fondamentale, in via preliminare, chiarire e specificare l’assunto fondamentale su cui regge l’intera struttura del pensiero panikkariano, e quindi anche il suo discorso inerente al rapporto tra le religioni: l’Essere e il Pensiero non coincidono. Con questa asserzione, Panikkar giunge a scardinare completamente le fondamenta della riflessione ontologica sviluppata dal pensiero occidentale, secondo cui a detta di Parmenide «L’Essere è e non può in alcun modo non essere, il Non Essere non è, e non può in alcun modo essere»2, o a detta di Hegel «Tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale»3. Per il nostro teologo, invece, l’Essere o la Realtà è sì certamente pensabile, ma non tutta la Realtà possibile è intelligibile. Rimane sempre qualcosa di ineffabile che il pensiero non riesce a captare. L’Essere, nella sua totalità, non può essere ridotto al Pensiero perché «ha dimensioni che non si lasciano dominare o addomesticare dal pensare»4. In una sola parola lo potremmo definire «libero»5. Abbracciando questa visione, Panikkar supera il principio di identità e non contraddizione e fa spazio a una concezione che ammette la possibilità di una armonica convivenza tra gli opposti. Infatti, se l’Essere non può essere accolto integralmente dal Pensiero nulla vieta che possa configurarsi anche in forma antinomica, per dirla alla Kant.
E qual è lo strumento che permette tutto questo? Chiaramente la fede. D’altronde, anche i testi sacri delle maggiori religioni dell’umanità, compresa la Bibbia, sono la dimostrazione concreta di come il principio di identità e non-contraddizione non regge. Ad esempio, parecchie sono le contraddizioni presenti tra Vecchio e Nuovo Testamento.6 Ciononostante, il buon cristiano è colui che non rinnega gli insegnamenti veterotestamentari, ma riesce a farli convivere, tramite uno sforzo di fede che supera le capacità del pensiero, con il nuovo messaggio di salvezza. Lo stesso Gesù sembra voler confermarci questo quando afferma: «Non pensiate che io sia venuto per abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento»7. Questa frase avvalora la tesi panikkariana della non coincidenza tra Essere e Pensiero, infatti, se è pur vero che il Vecchio Testamento va fatto conciliare con il Nuovo, questa conciliazione non può realizzarsi in modo esclusivamente razionale, ma necessità del supporto del cuore che apre al mistero. La Bibbia stessa, dunque, si presenta come un testo contraddittorio di fronte al fenomeno delle religioni.8 Infatti, alla domanda: come si posiziona il testo sacro dei cristiani rispetto all’alterità religiosa? In modo universale o particolare? La risposta è altalenante: da entrambe le parti. Da una parte emerge il lato universale della salvezza, rivolta a tutti, e dall’altra si profila una tendenza più particolaristica: Dio sceglie un solo popolo nell’Antico Testamento, Dio salva attraverso Gesù Cristo nel Nuovo.9
Si tratta di due posizioni entrambe valide, che serpeggiano in una realtà non del tutto conoscibile, ma allo stesso tempo trainata dalla potenza del mistero della fede. Con questa profonda consapevolezza Panikkar elabora una ermeneutica sul dialogo del tutto innovativa rispetto al passato. Non si tratta più di fare proselitismo e nemmeno di cercare una strada comune o di sintesi tra le tradizioni a confronto. Qui la posta in gioco costa fatica, ma è decisamente superiore. Essa consiste nell’unire tutte le religioni senza omologarle e nel mantenerle divise senza separarle. La sua essenza è trinitaria, advaitica, e Raimon ne coglie il senso in modo straordinario. Vediamolo insieme.10
Introduzione alle teologie delle religioni: un breve excursus
Nonostante la tradizione occidentale fosse da sempre ancorata alle speculazioni parmenidee, i primi teologi dell’era cristiana, ancora prima che il cristianesimo, nel IV secolo, assumesse la propria identità teologica e politica, avevano già iniziato a capire l’importanza cruciale del mistero polisemico della Sacra Scrittura. La spinta che condusse i padri della chiesa a dare al testo biblico una lettura che potesse permettergli di accogliere la dimensione universale di salvezza senza tradire quella particolare, fu l’intuizione giovannea di Logos,11 con la quale l’evangelista riuscì a coniugare l’aspetto personalistico giudaico con quello cosmico di ispirazione ellenistica. Sull’onda di questa scia si formò il pensiero di Giustino (100 – 163/167), Ireneo (130 – 202) e Clemente di Alessandria (150 circa – 215 circa)12.
Giustino, nell’Apologia prima (Apologia prima, 46), sostiene che il Logos, che egli definisce spermatikòs, cioè seminatore, non è altro che il Verbo di Dio, cioè il Cristo, al quale partecipa tutto il genere umano, sin dall’inizio dei tempi. Ciò significa che tutti coloro che hanno vissuto secondo ragione, cioè secondo coscienza, in maniera retta, possono essere considerati cristiani, anche i greci come Socrate ed Eraclito. Tuttavia, resta il fatto che questi cristiani non conobbero la verità per intero. Pur se in loro vi erano semi di verità13 essi non li poterono intendere appieno, poiché l’azione del Logos divenne più incisiva con Israele e giunse a compimento solo con l’incarnazione di Gesù.
Ireneo di Lione (Adversus haereses, IV, 20,7 – PG 7, 1037), proseguendo su questa stessa linea di pensiero, ritiene che tutte le manifestazioni, a partire dalla creazione di Dio, sono Logo-fanie, cioè modalità attraverso cui il Verbo, cioè Cristo, si manifesta nel corso dei tempi. L’ordine della creazione non è altro che la prima fase della manifestazione di Dio attraverso il Logos, seguita dall’economia giudaica e poi da quella cristiana. Una progressione che si dipana senza offuscare la centralità dell’evento di Cristo, la cui venuta, a sua volta, non annebbia le precedenti rivelazioni.
Clemente di Alessandria (Stromati, VI, 8 – PG 9, 283-292), parimenti a Giustino e Ireneo, considera ogni manifestazione del Padre come Logo-fanica e parla di un’intuizione naturale di Dio in tutti gli uomini. Va oltre, dunque, il pensiero dei suoi predecessori e abbraccia l’idea che la scintilla del Logos divino non solo appartenga alla tradizione occidentale, ma anche ai fedeli delle religioni-filosofie orientali. Anche a loro, come a tutta l’umanità, Dio disvela la verità, sebbene si tratti di una verità parziale in quanto solo in Cristo riesce a manifestarsi in tutta la sua completezza.14
A partire dal IV secolo e progressivamente fino al XVI secolo, a parte alcune eccezioni,15 la concezione di una salvezza di tipo universale fu abbandonata. Alcuni sintomi che porteranno a questo offuscamento emersero già a partire dalla fine del II secolo.
Ignazio di Antiochia (35 – 107), ad esempio, nel pieno della polemica gnostica, non esita a distinguere, in maniera netta, i cristiani, a cui verrà assegnato in eredità il regno di Dio, dagli scismatici, ai quali, invece, sarà destinata la dannazione eterna (Lettera ai Filadelfiesi, 3,3); o Origene (185 – 254), che pur rifacendosi alla teoria del Logos universale formulata da Giustino, nell’Omelia a Giosuè (PG 12) non si tira indietro dal ricordare che la salvezza è unicamente nella chiesa. Sarà solo Cipriano (210 – 258), però, con la celebre sentenza: extra ecclesia nulla salus,16 che l’idea di una salvezza privata, riservata esclusivamente ai cristiani, inizierà a diventare una questione di massa.17
Tali premesse vennero codificate poi in maniera sistematica da Agostino (354 – 430), secondo cui Dio assegna la propria grazia solo a coloro i quali entrano, attraverso gli effetti salvifici del battesimo, all’interno della comunità cristiana.18 Posizione confermata e ribadita dal suo discepolo Fulgenzio di Ruspe (468 circa – 533)19. Qualche secolo più tardi, sulle orme di questi pensatori, la concezione di una dimensione circoscritta della salvezza, attuabile unicamente in Cristo attraverso la mediazione della chiesa, divenne parte della dottrina ufficiale con il concilio Lateranense IV del 1215 (DH, 802), la Bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII del 1302 (DH, 870,872,875) e il concilio di Firenze del 1442 (DH, 1351).
L’orientamento della chiesa prese una rotta diversa all’indomani della scoperta dell’America nel 1492, quando si acquisì consapevolezza del fatto che non tutta l’umanità era venuta a conoscenza del messaggio evangelico. Emerse, dunque, la questione di come accostarsi al problema della salvezza in relazione ai nativi americani. Erano da considerarsi dannati perché non avevano mai conosciuto il vangelo? E se sì, perché? Per la semplice colpa di essere nati in un posto sperduto del mondo? Nacque allora la cosiddetta prospettiva teologica fondata sulla sufficienza della fede implicita. Il concilio di Trento (1545 – 1563), sotto gli impulsi di due grandi intellettuali dell’epoca, Bellarmino e Suárez, fece propria la dottrina del battesimo di desiderio, secondo cui vivere moralmente significa seguire implicitamente i dettami di Dio, e quindi manifestare tacitamente il desiderio di unirsi alla chiesa (DH, 1524). Visione confermata, nel 1949, sotto il pontificato di Pio XII, dalla lettera inviata dal sant’Uffizio all’arcivescovo di Boston. Il documento dichiara di voler abbandonare l’interpretazione esclusivista dell’antico assioma di Cipriano (DH, 3866,3872)20.
Questa approvazione, unita al fermento di alcuni movimenti cristiani che, già a partire dalla fine dell’Ottocento, iniziarono a interessarsi al fenomeno dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso, fecero maturare modi di pensare più aperti in ambito teologico: «era la nascita delle teologie delle religioni»21. In questo clima si inserisce anche la figura di Raimon Panikkar e il suo apporto dato all’ermeneutica del dialogo tra le religioni. Con la pubblicazione del volume Religione e religioni (1964)22, a ridosso degli anni del concilio Vaticano II (1962 – 1965), la visione teologica di Raimon entrò a pieno titolo nell’olimpo di coloro che avevano deciso di sposare la causa del dialogo interreligioso. Una scelta insolita e coraggiosa per gli uomini di quel periodo, soprattutto cattolici, ma niente a confronto con quanto si profilerà negli anni a venire. Col tempo, infatti, Panikkar si accorse che la tesi del principio di interconnessione tra tutte le cose, da lui sempre decantata, non si dimostrava pienamente atta a soddisfare la semplice proposta di una relazione di tipo dottrinale tra le varie religioni, e si impose di elaborare una teologia delle religioni che tenesse pienamente e seriamente in considerazione questo dato. Si poté assistere, dunque, alla fine degli anni ’70, al passaggio dalla teorizzazione del dialogo interreligioso a quella del dialogo intra-religioso. Scrive Gaetano Sabetta: «La prassi del dialogo interreligioso, che transita attraverso quello intra-religioso, è la fonte creativa che sostiene l’intera teologia delle religioni panikkariana»23. O ancora, osserva Luciano Mazzocchi: «Il dialogo reciproco, che le istituzioni religiose chiamano interreligioso, in Raimon divenne il dialogo intrareligioso; ossia, le differenze religiose dialogano dentro l’uomo con l’uomo, con le sue domande esistenziali»24.
Ermeneutica del dialogo
Prima di passare ad analizzare con attenzione la nuova dimensione dialogica proposta da Panikkar, andiamo per gradi. Egli individua quattro diversi atteggiamenti attraverso cui il dialogo religioso può esprimersi: l’esclusivismo, l’inclusivismo, il parallelismo e l’interpenetrazione, propensione detta anche dialogo dialogico o dialogale.
L’esclusivismo.25 L’atteggiamento esclusivista è proprio di colui il quale crede che il suo gruppo religioso o la sua confessione di appartenenza sia la sola depositaria della verità assoluta, mentre tutto ciò che è al di fuori di esso/a vive nel falso. Egli ritiene che «se una data affermazione è vera, non può essere vera anche quella contraddittoria alla sua»26. «Siamo nell’ambito del principio di non contraddizione esteso alle verità di fede. L’affermazione di una verità implica la negazione dell’altra»27. Se, ad esempio, l’islam incarna la vera religione, non può esistere una verità non islamica. Questo atteggiamento se da una parte possiede una certa dose di eroismo, perché pretende di farsi portavoce di una verità universale, dall’altra porta con sé il grave pericolo dell’intolleranza e del disprezzo verso gli altri. Esso somiglia «al tifo da calcio. Ci sono i club degli ultrà di una verità che si scontrano contro quelli di un’altra verità»28, e ognuno di loro pretende di imporre all’altro il proprio credo. Alla luce di ciò, la possibilità di un dialogo appare oltre che insensata anche pericolosa, a meno che chi "vive nel falso" non accetti di entrare come membro nella sola e unica "religione autentica"29.
L’inclusivismo.30 Questo secondo atteggiamento «conduce il dialogante ad accorgersi della presenza di molte religioni e a cercare la possibilità di avvicinarle»31. Nasce dalla consapevolezza secondo cui la verità non appartiene solo alla propria tradizione religiosa, ma anche alle altre, sebbene non possieda lo stesso valore ovunque, ma gradazioni differenti. Infatti, chi la pensa in questo modo ritiene che solo all’interno del proprio credo vi sia la piena verità, nelle altre spiritualità esiste, ma è incompleta, manca sempre di qualcosa che solo la vera fede può colmare. Rimane il fatto che la definizione di questa scala delle verità32 spetta sempre al singolo fedele, per cui la sua configurazione sarà sempre il frutto di una prospettiva individualista. Si tratta di puro relativismo, poiché in questo modo – prosegue Panikkar riferendosi a un ipotetico interlocutore inclusivista – tu pretendi «di rivendicare per te stesso una conoscenza superiore»33 oltre che «di comprendere i punti di vista inferiori e di metterli al posto giusto»34.
Il parallelismo.35 Tale atteggiamento è proprio di chi vede le differenti professioni di fede come sentieri che si dipanano parallelamente senza mai incrociarsi. Ogni religione «ha la sua verità e la sua dignità»36 e nessuna può inserirsi nell’itinerario dell’altra. L’incontro si realizzerà soltanto «alla fine, nell’eschaton, cioè al termine del pellegrinaggio umano»37. Ma per il momento il nostro dovere è di non intervenire nelle scelte degli altri, di non cercare di convertirli. Il nostro unico impegno è quello di approfondire le nostre rispettive tradizioni, in modo tale che, alla fine del viaggio, si potrà entrare in relazioni gli uni con gli altri nella profondità delle nostre convinzioni.38 Questo atteggiamento,39 per Panikkar, se da una parte presenta vantaggi positivi: è tollerante, rispetta gli altri, evita la confusione dei sincretismi, mantiene chiari i confini delle singole religioni e stimola a una costante riforma dei propri modi di vivere; dall’altra non è privo di difetti. Prima di tutto dimostra di andare contro l’esperienza storica, la quale mette in luce, invece, il continuo intersecarsi delle varie tradizioni religiose, e in secondo luogo ammette che ogni esperienza umana possa essere autosufficiente per sé stessa. Presupposto che conduce il nostro teologo a proporre l’orientamento successivo.
L’interpenetrazione.40 Quest’ultimo atteggiamento, definito da Panikkar anche dialogo dialogale o dialogico41 si innesta nel momento in cui iniziamo a scoprire il fascino delle varie religioni che costellano il nostro pianeta. A quel punto cominciamo a renderci conto di «quanto l’altro sia implicato in ciascuno di noi, e viceversa»42. Scopriamo che il nostro vicino di casa, che si veste in modo strano, che si siede a terra per pregare l’Assoluto o che ripete precetti che non conosciamo non è per forza una minaccia per la nostra vita o per la nostra verità, anzi tutto il contrario.43 Egli è l’altra parte di noi stessi. Capiamo così che il suo modo di pensare e di agire ci è familiare, complementare, e che, in fin dei conti, le differenze che ci separano si situano soltanto all’interno delle nostre convinzioni. Gli esempi in tal senso possono essere innumerevoli: marxisti che accettano idee cristiane, cristiani che sottoscrivono dottrine indù, musulmani che integrano modi di pensare buddhisti, e così via. In poche parole, ci accorgiamo che le religioni non esistono che in relazione le une con le altre. O meglio, che le religioni stesse sono relazione e che «noi siamo dialogo»44 Si tratta di una consapevolezza che ci legittima ad abbracciare le altre spiritualità senza distaccarci dalla nostra, e che ci autorizza a lasciarci convertire dalle verità altrui senza perdere di vista le nostre.
Il dialogo intra-religioso: una via pluralistica
Con la concezione del dialogo dialogale, detto anche dialogico, entriamo nel campo del dialogo intra-religioso,45 che si attua per mezzo della fede, all’interno della dimensione mistica, che funge dal collante tra le credenze, e differisce dal dialogo interreligioso, che avviene, invece, per mezzo della dottrina.46 Il nostro autore lo spiega con parole semplici e chiare:
Molto spesso il dialogo non oltrepassa i limiti della sociologia: il dialogo tra le religioni assume allora la forma di una discussione tra i loro rappresentanti, oppure di una inchiesta sulle influenze reciproche in un determinato ambiente. In tal modo il dialogo diventa un esercizio intellettuale: si studiano le dottrine delle diverse religioni. È questo il dialogo inter-religioso. Più raramente il dialogo si svolge all’interno della persona stessa e le toglie la maschera di personaggio religioso all’interno della sua tradizione. Siamo allora nel dialogo intrareligioso, che diventa esso stesso un itinerario religioso. Ci si interroga sul senso della vita secondo le esperienze cristallizzate nelle diverse tradizioni e che sono già state assimilate più o meno dalla persona concreta. Questo dialogo interiore lascia spesso l’individuo in una solitudine che può essere purificatrice o distruttrice. Le mura delle "microdossie" crollano, e noi possiamo venire sepolti sotto i detriti, a meno che non riusciamo a scansare le pietre per costruire di nuovo la nostra casa in mezzo a quelle che esistono già. Non si tratta di costruirsi un "bunker" isolato, ma una casa aperta alla comunicazione con la realtà.47
Due sono, dunque, i presupposti che rendono possibile il dialogo panikkariano: il principio di relazionalità48 e la fede.49 Il primo è un fondamento di tipo antropologico, perché si basa sull’idea di uomo inteso come essere relazionale e contingente, mentre il secondo è un assunto di tipo ontologico, in quanto pone in gioco una dimensione del reale intrinsecamente non oggettivabile dal pensiero. Sullo sfondo di questo orizzonte le credenze religiose appaiono come tanti punti prospettici rivolti verso il terreno comune della fede, e il dialogo tra esse diventa realizzabile in quanto nessuna può pretendere di prevaricare sulle altre, o addirittura arrogarsi il diritto di inglobarle al proprio interno.
Il dialogo intrareligioso è, quindi, il frutto del riconoscimento di una realtà di stampo pluralistico. La prospettiva pluralistica o a-dualistica abbraccia l’idea che «La realtà non è né una né molteplice, non è quantificabile e nemmeno totalmente intelligibile, la polarità è costitutiva e non va eliminata ma riconosciuta; non c’è né vittoria finale da una parte, né Aufhebung dialettica dall’altra»50. Questa strada tende a un approccio del tutto differente sia rispetto a una soluzione monolitica, che propende in favore del più forte, e sia rispetto a una soluzione dualistica, che è costretta o a irrigidirsi in un equilibrio instabile ed esplosivo o a cadere in un compromesso che prevede una sintesi tra le parti in gioco.51 Il pluralismo, invece, «appare come una consapevolezza che conduce a una positiva accettazione della diversità – un’accettazione che non forza atteggiamenti differenti entro un’unità artificiale, né li aliena per mezzo di manipolazioni riduzionistiche»52.
Il problema del pluralismo sorge quando ci accorgiamo che non possiamo separarci in modo categorico dall’altro, perché fa parte di una realtà che in fondo abbraccia entrambi; ma allo stesso tempo non riusciamo a trovare un accordo (o spesso a comprenderlo)53 con lui su ogni cosa, e la realizzazione di una totale armonia diventa pressocché difficile, in quanto ognuno rimane ancorato alle proprie posizioni. Per cui, non si può agire né in senso monistico, perché si perderebbe il valore dell’altro, e né in senso dualistico, perché trovare una sintesi tra le diversità vorrebbe dire farle scomparire. L’unica soluzione da adottare è il pluralismo,54 che significa legare le differenze nell’unità. Assumere come valide più visioni, pur se in contrapposizione tra loro.
Il dialogo pluralistico si presenta, al contempo, come interiore e aperto. Interiore perché si attiva a partire dal cuore della persona umana, ed è diretto verso la ricerca del proprio sentiero, e con esso della verità salvatrice. Aperto perché implica non soltanto uno sguardo verso l’alto, cioè verso il trascendente, o indietro, verso la tradizione originaria, ma anche un rivolgersi verso l’orizzonte, verso il mondo degli altri uomini, i quali, anch’essi possono aver trovato delle vie che conducono alla salvezza. Anzi, sono proprio queste vie che ci consentono di ampliare la nostra prospettiva sull’Essere e di avvicinarci sempre più verso la comprensione di quel mistero ineffabile.55
Tale apertura, tuttavia, ci tiene a specificare Panikkar, va messa in atto senza lasciare spazio alla cosiddetta epochē fenomenologica.56 Ciò significa che se da una parte i dialoganti sono invitati alla kenōsis, cioè a una revisione radicale dei propri riferimenti religiosi, poiché «per capire l’altro, si deve credere a quello che l’altro dice»57, dall’altra essi non possono accantonare, o peggio annullare, le proprie verità dottrinali, sospendendo il giudizio sulla loro validità. È necessario invece che il dialogante si dia al dialogo con tutto sé stesso. Si tratta di un dialogo58 che non si esprime né in forma apologetica, nel tentativo di convincere l’altro delle proprie posizioni, e né in modo dialettico, con l’intento di trovare una soluzione sintetica tra le questioni affrontate. La sua caratteristica, invece, è quella di rimane inconcluso. Esso si manifesta semplicemente come una tensione tra interlocutori.59 Una tensione che unisce senza annullare le differenze e che divide senza perdere di vista l’unicità. È autentico pluralismo.
Il profilo dell’entità dialogale
Il prof. Salvatore La Mendola individua nella realtà dialogale un’entità alternativa rispetto a quelli che definisce due gemelli eterozigoti: il materialista e il trascendente.60 Il materialista è colui che prende sul serio e in modo radicale il principio della separazione. Per lui ogni cosa è indipendente dall’altra; ogni essere, animato e inanimato vive nel suo mondo senza condizionarsi vicendevolmente. Persino la natura si presenta distaccata dal resto del mondo e appare più che altro come un soggetto da dominare. Il trascendente, altresì, anche lui figlio della concezione della separazione, crede che vi sia stata una rottura primordiale tra il separatore originario e il proprio progenitore, il quale, a causa di una sua trasgressione, sarebbe stato anche il principale responsabile di questa frattura. Da quel momento in poi tutta la discendenza del progenitore vive in uno stato di separazione endemica e lavora più o meno incessantemente verso la ricomposizione dell’unità originaria col proprio separatore. Materialista e trascendente, insomma, pur se differenti tra loro, sono «figli della stessa matrice interpretativa […]. Entrambi propugnano una logica disgiuntiva, dualistica, per cui o si privilegia l’immanenza, come fa tutta la discendenza del primo gemello, o si privilegia la trascendenza, come fa il secondo»61.
Per l’entità dialogale, invece, «non è mai avvenuta alcuna separazione, ma soltanto un processo in cui il Tutto ha riconosciuto in sé, si è reso conto, si è accorto della costitutiva distinzione che lo caratterizza in modo sempiterno»62. In altre parole, l’ente dialogale è colui che si vede unito a tutto l’Essere senza perdere d’occhio la propria specificità, allo stesso modo di una mamma in gravidanza, che pur percependosi un tutt’uno col proprio figlio, lo riconosce altro da sé. C’è quindi interconnessione, né totalmente unità e né totalmente separazione. Questa entità e colei che meglio di ogni altra incarna il concetto di exotopia, che va distinto dall’empatia, e lo rende realizzabile nella vita concreta.63 Infatti, mentre l’empatia è il tentativo di comprendere l’esperienza dell’altro unicamente sulla base della nostra esperienza personale, usando come valido solo il proprio metro di riferimento; l’exotopia64 si presenta come lo sforzo di entrare nella vita dell’altro senza invadere la sua visione del mondo o peggio ancora annientarla, ma riconoscendola come autonoma, altrettanto sensata rispetto alla nostra e non riducibile a questa.
Si tratta dello stesso tipo di atteggiamento proposto da Schopenhauer con il famoso dilemma del porcospino, raccolto nell’opera Parerga e paralipomena (1851). Qui, si racconta di due porcospini che capiscono di non poter vivere né troppo attaccati tra loro, a causa delle reciproche spine che si infliggono l’uno con l’altro, e né troppo lontani, a causa del troppo freddo che li percuote durante la stagione invernale. Trovano allora il giusto compromesso in una distanza media, né troppo vicina e né troppo lontana.65 Allo stesso modo si comporta l’ente dialogale o chi detiene un atteggiamento exotopico. Si dilegua sia dalla tentazione alla rigida unità e sia dalla tentazione, senza compromessi, all’indipendenza individualistica. Le detiene entrambe. Il suo comportamento supera la razionalità. E superare la razionalità vuol dire fare spazio all’idea che gli opposti non necessariamente debbano escludersi tra loro. Io posso rimanere me stesso, con la mia visione, la mia cultura, la mia morale e allo stesso tempo far proprie e accettare per vere, anche se non collimano con la mia, la visione, la cultura e la morale degli altri. Un esempio di come tutto questo sia possibile lo illustra magistralmente in un suo dipinto l’artista belga René Magritte.66 L’opera si intitola Il ponte di Eraclito (1935).
L’immagine disegnata raffigura un ponte che si prolunga fino a metà sopra la distesa di un fiume. Sotto di esso, però, compare la riproduzione del suo riflesso, inspiegabilmente, per intero. Come è possibile tutto ciò? Quale messaggio vuole celare l’artista? Un rigido razionalista si chiederebbe: ma il ponte è intero o a metà?67 La risposta è entrambe le cose. Il ponte è sia intero che a metà. Ci sono delle ragioni per cui è indispensabile essere ponti per intero, come ad esempio fungere da mediatore tra due o più visioni del mondo, culture o religioni; e altre dove è necessario essere ponti a metà, come quando, ad esempio, nel caso di una minaccia terroristica, di una guerra o di qualsiasi altra forma di violenza, si manifesta l’esigenza di chiudersi nel proprio nido personale, familiare o comunitario.68 La personificazione di questo ponte altro non sarebbe che l’entità dialogale decantata da Panikkar. Quel famigerato pluralismo di cui egli si è fatto esempio e promotore di vita.
Lo stesso si potrebbe dire a proposito della questione sui vaccini, divenuta, dopo la tragedia della pandemia da Covid-19, una delle principali preoccupazioni all’ordine del giorno. Quale atteggiamento è giusto tenere nei confronti dei vaccini? Dobbiamo essere sicuri della loro efficacia senza cognizione di causa o è opportuno dotarsi di un certo scetticismo? Ecco, Panikkar direbbe che bisogna far convivere entrambi gli orientamenti dentro di noi. Ci sono delle motivazioni per cui è giusto sposare la causa no vax, come ad esempio i morti, seppur rari, che questo medicinale provocherebbe oppure l’incertezza degli effetti collaterali che si potrebbero avere a distanza di anni; e motivazioni per le quali è giusto ritenersi pro vax, come ad esempio le migliaia di vite che, grazie a questo encomiabile progresso della medicina, sono riuscite a scampare al contagio e alla morte. Ma gli esempi potrebbero essere molteplici, e anche se toccherebbero campi di qualsiasi tipo: sociale, religioso, politico, culturale, la meta di fondo di questa propensione rimane sempre la stessa e la si può far coincidere con queste cinque parole: comprensione, tolleranza, concordia, pace e armonia.
I quattro modelli del dialogo
Proseguendo il suo discorso sull’ermeneutica del dialogo,69 Panikkar non si limita soltanto a offrire una disamina teorica del rapporto fra le religioni, ma individua anche quattro modelli che ci permettono di capire come questo incontro avviene dal punto di vista pratico: a) Il modello geografico: i sentieri che conducono verso la cima della montagna; b) Il modello fisico: l’arcobaleno; c) Il modello geometrico: l’invariante topologica; d) Il modello antropologico: il linguaggio.70
Il modello geografico: i sentieri che conducono verso la cima della montagna. Questo modello ci permette di descrivere la nostra situazione, che possiamo così sintetizzare: «siamo pellegrini in cammino verso una meta»71. L’immagine che più si addice a questa sentenza è quella di una montagna attraversata da diversi sentieri che conducono tutti verso il medesimo fine. Questi sentieri sono le varie religioni, mentre il fine è l’obiettivo ultimo a cui esse conducono, a prescindere dal modo in cui questo arrivo lo si immagina, trascendente, immanente, come risultato della vittoria e dello sforzo personale o semplicemente come dono che si riceve. Resta il fatto che per raggiungerlo è necessario perseguire la propria via con tenacia, senza cambiare continuamente strada. Ciò ovviamente non significa che non potrai avere occhi per altre vie, anzi, se sentirai tortuoso il tuo sentiero ti sarà sicuramente consentito cambiare strada e provare nuovi percorsi, ma questo, ad ogni modo, non deve portarti a credere di voler rinnegare il tuo passato, il pellegrinaggio iniziato, cioè la tua religione di provenienza.
Il modello fisico: l’arcobaleno. Esso paragona le varie tradizioni religiose dell’umanità ai colori dell’arcobaleno. Infatti, parimenti allo spettro dell’arcobaleno, che proviene da un’unica sorgente di luce bianca, anche le religioni, nella loro varietà e differenziazione provengono dalla medesima luce bianca, quella divina. Questo ci insegna a capire che le differenze delle varie spiritualità, come i colori dell’arcobaleno, sono solo il prodotto di un punto di vista esterno che noi ci creiamo rispetto alla loro realtà, e che indipendentemente dalla religione a cui afferiamo o dal colore «si può raggiungere la pienezza della luce bianca»72, quella da cui tutti quanti noi sgorghiamo e di cui siamo parte.
Il modello geometrico: l’invariante topologica. Qui viene ribadita l’idea che tutte le religioni sembrano differenti tra loro, anzi inconciliabili, fino al momento in cui si scopre un’invariante topologica. Alcuni preferiscono la teoria delle famiglie di religioni, altri, invece, possono tentare di elaborare l’ipotesi della provenienza di tutte le tradizioni umane da una fondamentale esperienza, trasformata secondo leggi che, come succede in geometria, devono innanzitutto essere scoperte. Brahman e Dio, ad esempio, sono la dimostrazione evidente di come sia possibile individuare, nelle religioni, entità che si palesano differenti a seguito di elaborazioni umane, ma che, in realtà, detengono il medesimo ruolo. Essi, infatti, non sono semplicemente due nomi analoghi, ma equivalenti omeomorfici, nel senso che ciascuno di essi rappresenta qualcosa che assolve una funzione equivalente nell’ambito dei loro rispettivi sistemi. Con questo modello si stabilirebbe non soltanto che tutte le religioni sono trasformazioni di un’esperienza primordiale, ma si arriverebbe anche alla conclusione che ciascuna tradizione religiosa è una dimensione dell’altra. «La varietà religiosa apparirebbe allora non tanto come un ricco universo dai molti colori, ma come aspetti diversi di una struttura interna identificabile soltanto per mezzo di una intuizione più profonda, sia questa mistica o scientifica»73.
Il modello antropologico (il linguaggio). Quest’ultimo modello equipara le realtà religiose al linguaggio. Entrambe le esperienze umane sono capaci di esprimere qualunque cosa uno senta il bisogno di manifestare, e non di meno, sono aperte alla crescita e all’evoluzione. Ambedue sono in grado di adottare nuove sfumature di significato, di cambiare idiomi o accentuazioni, di rifinire o mutare i modi di espressione. Inoltre, le religioni, proprio come le lingue, sono strettamente connesse le une con le altre. Si scambiano contenuti e sono aperte a mutue influenze, senza, tuttavia, perdere la propria identità. Un grande problema, però, sorge quando una lingua la si traduce in un’altra lingua e una religione la si "traduce" in una cultura differente da quella di appartenenza. Non si riuscirà mai a riprodurle in un modo totalmente fedele. Ogni lingua e ogni religione si caratterizzano per la propria unicità. Esse sono talmente incanalate all’interno delle loro rispettive tradizioni, e ancorate al significato che queste danno loro, che non si possono sradicare senza criterio dalle loro radici. Soltanto se riesci ad acquisire totale padronanza della lingua/religione di una determinata civiltà/cultura, senza rinnegare o abbandonare le tue origini, «sarai veramente capace di essere un portavoce per essa, un vero traduttore»74. Tale è il dialogo intrareligioso.75
La formulazione di questi modelli ci permette di entrare nel vivo del dialogo tra le religioni, di toccarlo con mano, di comprendere le sue dinamiche effettive. Panikkar non si accontenta di dare delle spiegazioni teoretiche sul fenomeno qui preso in esame, ma va oltre. Si sforza affinché tutti possano capire la sua formidabile intuizione dialogica. Capisce che la questione del dialogo non è solo un capriccio teologico propugnato dai nuovi intellettuali del XX secolo per alimentare i dibattiti sulle scienze religiose, ma costituisce una vera e propria urgenza vitale per il sostentamento dell’intera società.
Il dialogo dialogale: una emergenza sociale
La consapevolezza di tale urgenza giunge in Panikkar a un punto di massima estensione con la pubblicazione, nel 1991, dell’articolo Begegnung der Religionen. Das unvermeidliche Gespräch,76 tradotto nel 2000 in inglese nella seguente versione: The Encounter of Religions: the Unavoidable Dialogue, e uscito nel 2001 in italiano in un libro dal titolo L’incontro indispensabile: dialogo delle religioni. Qui, il nostro autore evidenzia in modo sintetico ed esplicito tutte le ragioni che fanno del dialogo una vera e propria emergenza sociale. Innanzitutto, definisce l’incontro tra le religioni una necessità vitale che ha luogo su tre livelli distinti. 1) A livello personale, in quanto non solo l’uomo non è un individuo,77 una monade, bensì una persona, un fascio di relazioni, ma piuttosto perché egli è un essere sociale (politico), come diceva Aristotele, o gregario, come riprende Tommaso d’Aquino, per cui per sua natura non può vivere isolato, la sopravvivenza degli esseri umani dipende dalla collaborazione reciproca e da un continuo scambio di idee, pensieri, valori, anche culturali e religiosi; 2) a livello delle tradizioni religiose, poiché tutte le religioni, intese come istituzioni, non possono evitare di influenzarsi reciprocamente. Oggi il dialogo non è un lusso, l’ubiquità delle scienze e delle tecnologie moderne, dei mercati mondiali, delle organizzazioni internazionali e delle corporazioni transnazionali, così come le innumerevoli migrazioni di lavoratori e la fuga di milioni di rifugiati, rende l’incontro tra le tradizioni religiose inevitabile e indispensabile insieme. Per cui, «o si aprono l’una all’altra, o degenerano»; 3) a livello storico, perché gli uomini non possono vivere, nel senso più profondo e ampio del termine, senza religione. Per religiosità intendiamo il legame che unisce l’individuo alla realtà nella sua totalità. Anche il nostro rapporto con la terra è una forma di religiosità, per cui capire che le vicende umane, come ad esempio le guerre, o altri comportamenti ecologicamente irresponsabili, possano deteriorare questa connessione e in essa noi stessi, oltre che la terra, che esprime la rivelazione di Dio, è un elemento che va preso decisamente sul serio.78 Per tali motivi, il dialogo delle religioni deve essere Aperto, Interiore, Linguistico, Politico, Mitico, Religioso, Integrale e Continuo.79
Aperto. «L’apertura è parte dell’essenza stessa del dialogo»80. Non solo tutti gli uomini possono prenderne parte, ma anche ogni ideologia, ogni visione del mondo e ogni filosofia hanno altrettanto diritto a partecipare. Si tratta tutt’al più di un dialogo che ruota intorno alle questioni fondamentali della realtà, anche se, al giorno d’oggi, esso è incentrato soprattutto su tematiche quali la giustizia, la pace, la tecnocrazia, piuttosto che su questioni che riguardano l’inferno, il nirvana o Dio. Scopo di questo dialogo non deve essere la rimozione delle opinioni differenti o l’uniformità del mondo. La verità, ribadisce Panikkar, e ribadiamo anche noi, non può essere ridotta né all’unità e né alla molteplicità.81 Essa è sempre relazione, e come fa dire Schopenhauer a Demofele nel capitolo quindicesimo di Parerga e Paralipomena, intitolato Della religione, la sua natura è simile «a certe sostanze chimiche, che di per sé hanno forma di gas, le quali, per uso farmaceutico, nonché per la conservazione oppure per la spedizione, debbono essere combinate con una forma base ferma, palpabile, poiché altrimenti esse si volatilizzerebbero»82 E queste forme tangibili, altro non sono che le singole credenze religiose, tenute insieme dalla dimensione unificante della fede.
Interiore. «Il dialogo non è semplice discussione. Proviene da una sorgente più profonda e più interna della stimolazione che riceviamo dagli altri. Questa sorgente può essere chiamata silenzio, o forse l’umana sete per la verità»83. Il dialogo, dunque, inizia scrutando i meandri più profondi della nostra interiorità. Questa osservazione, poi, deve indurre a porci delle domande e a mettere in discussione le nostre certezze, perché da un lato realizziamo di essere un recipiente fragile, dall’altro che ci sono in questo mondo altri recipienti i cui contenuti a mala pena si possono immaginare. Il nucleo di questo dialogo non è una disputa dottrinale, ma la presa di coscienza personale dell’autenticità della dimensione mistica, che universalizza senza perdere di vista il particolare.
Linguistico. «Il dialogo è un’attività del logos umano. Ha a che fare con le idee, i pensieri, le interpretazioni, le dottrine, le visioni e le intuizioni. Ciascuno di noi è, coscientemente o meno, il veicolo di un’intera tradizione, il portatore di un mondo intero. Il dialogo rende esplicito tutto questo»84. Esso, in sostanza, è veicolato dal logos perché si fa carico sia del nostro modo di pensare che di quello della tradizione a cui apparteniamo. Tale attività, inoltre, richiede l’incontro di due logoi. Panikkar parla infatti di dualogo, che non indica due monologhi e non si riferisce neanche a un singolo monologo, quello a cui uno dei due partecipanti della conversazione deve assistere in maniera acritica.85 Questo esercizio consiste, invece, nel confidare all’altro le proprie idee, intuizioni, ed esperienze di vita col fine di comprenderlo ed essere compreso. Ma ciò può avvenire solo se si stabilisce un campo comune all’interno del quale la discussione si svolge. Il che non significa utilizzare un unico linguaggio, bensì conoscere le lingue altrui in modo da dare la possibilità a ognuno di esprimersi attraverso la propria.
Politico. Il vero dialogo religioso non può accettare l’idea, oggi ampiamente diffusa, che le religioni istituzionalizzate possano sussistere indisturbate purché riconoscano l’indiscutibile sovranità dello Stato. «Il dialogo religioso è anche politico»86, non è una questione privata poiché tocca la totalità dell’uomo, pertanto non può essere separato dalla politica. Esso, inoltre, proprio come la politica è strettamente connesso alla dimensione comunitaria.87 Entrambe le sfere esistenziali si prodigano per il raggiungimento del bene comune. Ma il dialogo è anche un’attività politica in modo più diretto, nel senso che entra in contatto con problematiche di stretto interesse da parte dei governi nazionali (giustizia, pace, guerra santa). Ciò ovviamente non significa che religione e politica debbano coesistere in un sistema ibrido, che il più delle volte ha dato vita a strutture totalitarie sia sul piano religioso (teocrazia) che politico (totalitarismo di Stato), ma neanche in modo totalmente separato tra loro, rischiando di generare da una parte una religione ultramondana (dottrine completamente astratte) e dall’altra una decadente politica di partito (mero dibattito sui mezzi e potere). Né un sistema monolitico e né dualistico, ma pluralistico.88 Una soluzione che permetterebbe a entrambe le realtà di intersecarsi e interpenetrarsi reciprocamente senza perdere i propri connotati identitari.
Mitico. «Il dialogo delle religioni, se è davvero vivo, non può lasciare il mythos fuori dal dialogo»89. Certo il logos è fondamentale, ma non è la meta, bensì un mezzo per arrivare al mito. «I concetti sono importanti, persino necessari, ma non sono mai sufficienti a portare a conseguimento un incontro integrale fra persone o fra tradizioni religiose. […] Il dialogo dialogico è più di un dibattito o di una discussione razionale»90. Esso ha il suo punto focale nella fede, la quale a sua volta plasma le credenze. L’incontro autentico si raggiunge immergendosi nella fede dell’altro attraverso la porta della sua credenza. Per comprendere come questo possa avvenire, Panikkar distingue la parola noema da pisteuma. La prima riguarda il ragionamento sulle credenze e sui riti di una religione e come tale non fa parte dell’universo di una religione, ma lascia l’uomo che l’ha colta mentalmente fuori del vero mondo religioso su cui riflette. La seconda, invece, ha a che fare con l’esperienza e la partecipazione. Ad esempio, per un non cristiano la risurrezione può essere solo un concetto che al massimo si è capito (un noema), mentre per un cristiano la risurrezione è un pisteuma, il simbolo della salvezza. O ancora, il Corano per un non musulmano è solo un libro che si può leggere e capire (noema), invece per un musulmano credente esso è la voce viva di Allah (pisteuma)91. Alla luce di questa differenza, il nostro autore vuole farci capire che per realizzare un vero dialogo non è sufficiente soffermarsi sul noema, cioè su una mera riflessione razionale sui contenuti dell’altra religione,92 ma attraverso di esso bisogna sconfinare nel pisteuma, ovvero all’interno della dimensione mitica in cui l’altro crede.93
Religioso. «Il dialogo ha in sé stesso uno spirito religioso. Il dialogo in sé è un’autentica manifestazione di religiosità»94. Questo perché la religione non solo tratta di Dio, ma anche e pienamente dell’uomo.95 Essa coinvolge le relazioni umane e rivela l’inadeguatezza del singolo ad affrontare da solo l’esperienza vitale. Questioni cruciali come salvezza, liberazione, beatitudine, realizzazione, illuminazione, redenzione – così come giustizia, pace, pienezza umana e così via – non sono problemi individuali. Essi richiedono collaborazione, solidarietà e una crescente consapevolezza dell’umana e cosmica interindipendenza. Il dialogo è un modo per superare il solipsismo e l’egoismo di ogni genere, per questo si configura come «un atto religioso». Lega, infatti, tutti gli uomini che condividono il medesimo destino: la lotta per la salvezza.
Integrale. «Il dialogo è un approccio olistico»96. Ciò significa che interessa l’uomo nella sua totalità, in tutta la sua persona. Riguarda sia l’aspetto pratico che teorico, ma soprattutto si presenta come un «atto liturgico»97, nel senso che costituisce l’opera del popolo ispirata dallo Spirito. In quanto tale si configura come una sinergia che include ogni persona ed ogni cosa. Svolge, sostanzialmente, «un ruolo cosmico».
Continuo. Il dialogo tra le religioni, infine, è «sempre in cammino». È «un processo continuo»98. Esso non dà risposte definitive perché non ci sono domande definitive, per cui si mostra imperfetto. Allo stesso tempo, però, appare completo in sé perché non si esprime come un mezzo per qualcos’altro all’infuori del dialogo stesso. Siamo al cospetto di una palese contraddizione. Ma la contraddizione logica è un elemento negativo solo all’interno del dialogo dialettico. Questo, invece, è dialogico. Incontra la ragione, la attraversa e la supera. Si sviluppa all’interno della dimensione mistica.99
Conclusione
In una sola parola potremmo definire questo dialogo trinitario o Advaitico.100 Il concetto stesso di trinità, infatti, come quello di Advaita, poggia sul principio di contraddizione e non su quello di identità e non contraddizione. Si tratta di un mistero che si fonda sull’idea che il divino è uno e plurimo al contempo. Supera, pertanto, la ragione. Siamo nel campo della fede pura, che significa fiducia verso qualcosa o qualcuno di ineffabile. Lo stesso deve accadere nel campo del dialogo. Il vangelo di Giovanni lo esprime chiaramente quando fa pronunciare a Gesù queste parole: «perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola […]101». Il figlio di Dio prega il padre affinché gli uomini, e con loro la moltitudine degli orientamenti confessionali e delle religioni siano «Uno» come «Noi» (Padre e figlio), cioè rimangano Uno pur nella loro policromatica differenziazione.
Panikkar vuole farci capire che allo stesso modo della realtà trinitaria o advaitica, che nel mondo cabalistico (per la tradizione ebraica) rievoca la concezione dei sette livelli di consapevolezza, mentre nel sufismo (per la tradizione islamica) la teoria dei sette gradi di elevazione a Dio, anche all’interno del dialogo dialogico Essere e Pensiero non coincidono, per cui se da una parte si possono e si devono accettare le differenze che intercorrono tra tutte le realtà religiose, dall’altra queste stesse differenze si possono e si devono far coesistere entro un medesimo sistema unitario. Tale presa di coscienza è ciò che può e deve abilitare i monoteismi abramitici a interfacciarsi, oltre che tra di loro, anche con le religioni asiatiche senza rinnegare le proprie origini, e viceversa, è ciò che può e deve abilitare le religioni del dharma a condividere le proprie esperienze con quelle monoteiste senza ripudiare sé stesse.
Lo stesso Panikkar si è fatto testimone, portavoce e modello di questo percorso. Lo dichiara apertamente quando dice: «Sono partito cristiano, mi sono scoperto hindu e ritorno buddhista, senza aver mai cessato di essere cristiano»102. Si tratta di una profonda consapevolezza, oltre che di una importante scelta di coraggio,103 che funge da collante tra tutte le espressioni religiose dell’umanità: l’amore. Il sentimento dei sentimenti che qui, attraverso Panikkar, si vuole promuovere con tutta forza come il solo ingrediente in grado di plasmare un mondo più concorde e solidale.
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M.K. Gandhi, Le mie parole ai cristiani. «Mostratemi il Dio che vive oggi», a cura di E. Impalà, trad. di S. Bergamaschi, San Paolo, Cinisello Balsamo 2019, pp. 47-48. ↩︎
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S. Tassinari, Instant filosofia. Il corso per capire in modo facile idee, concetti e personaggi. Dagli esordi a oggi, Gribaudo, Colognola ai Colli 2020, p. 29. ↩︎
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Ivi, p. 245. ↩︎
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R. Panikkar, La torre di Babele. Pace e pluralismo, Ed. Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole 1990, p. 53. ↩︎
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R. Panikkar, Pensiero filosofico e teologico. Filosofia e teologia, in R. Panikkar - M. Carrara-Pavan (a cura di), Opera Omnia, Jaca Book, Milano 2020, vol. X, tomo 2, p. 473; cfr. anche Id., Thinking and Being, in A. Moutsopoulos (a cura di), Du Vrai, du Beau, du Bien. Études Philosophiques présentées au Professeur Evanghélos, Vrin, Paris 1990, pp. 39-42. ↩︎
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Ad esempio, per il Vecchio Testamento cfr. Lc 24,19-20: «Se uno farà una lesione al suo prossimo, si farà a lui come egli ha fatto all’altro; frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente; gli si farà la stessa lesione che egli ha fatto all’altro»; mentre per il Nuovo Testamento cfr. Mt 5,38-40: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio, dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello». ↩︎
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Mt 5,17. ↩︎
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S.W. Ariarajah, The Bible and the People of Other Faiths, wcc, Geneve 1985, p. XIII; G. Odasso, Bibbia e religioni. Prospettive bibliche per la teologia delle religioni, uup, Roma 1998, p. 23. ↩︎
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L. Legrand, Il Dio che viene. La missione nella Bibbia, Borla, Roma 1989, p. 29. ↩︎
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Questo articolo è una rielaborazione di un paragrafo della mia tesi di dottorato, ancora in corso. ↩︎
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Riportiamo per intero i primi cinque versi del prologo di Giovanni, sostituendo la parola «Verbo» con il greco «Logos». Cfr. Gv 1,1-5:«In principio era il Logos,e il Logos era presso Dio e il Logos era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta». ↩︎
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J. Daniélou, Messaggio evangelico e cultura ellenistica, il Mulino, Bologna 1975, pp. 51-90. ↩︎
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L’espressione semi di verità o semi del verbo rimanda a un concetto-immagine che, per quanto riguarda la metafora del seme, si ispira alla parabola narrata da Gesù sulla Parola di Dio, sparsa come i semi nel campo, che riceve accoglienza ed effetti differenti in corrispondenza del tipo di ricezione (Mt 13,3-9). Cfr. G. Mucci, I semi del verbo. Gli elementi di verità nelle religioni non cristiane, La Civiltà Cattolica, 1 (2004), pp. 47-53, in particolare p. 47. ↩︎
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C. Geffrè, La parola di Dio delle altre tradizioni religiose, Concilium, 2 (2010), p. 48. ↩︎
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Mi riferisco a Niccolò Cusano e Raimondo Lullo. ↩︎
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Per Sullivan, tuttavia, la sentenza extra ecclesia nulla salus si riferisce esclusivamente ai cristiani allontanatisi dalla chiesa, non vi sono scritti di Cipriano, invece, che estendono l’assioma anche ai pagani. Cfr. F.A. Sullivan, Salvation outside the Church? Tracing the History of the Catholic Response, Paulist Press, New York 1992, pp. 22-23. ↩︎
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J. Dupuis, Il cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, Queriniana, Brescia 20022, pp. 281-295. Per un maggiore approfondimento sul pensiero dei padri della chiesa si segnala la seguente letteratura: G. Bosio, Iniziazione ai Padri, sei, Torino 1963-1964, 2 voll.; H.A., Wolfson, La filosofia dei padri della chiesa, a cura di E. Maccagnolo, trad. di L. Casolo-Ginelli, Paideia, Brescia 1978; G. Mondesert, Guida alla lettura dei padri della chiesa, trad. di A. Ferraris-Lobini, Jaca Book, Milano 1981; R. Barr, Breve patrologia, trad. di C. Orecchia - C. Gianotto, Queriniana, Brescia 1982; A.G. Hamman, Breve dizionario dei padri della chiesa, trad. di P. Crespi, Queriniana, Brescia 1984. ↩︎
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P.F. Knitter, Introduzione alle teologie delle religioni, trad. di G. Volpe, Queriniana, Brescia 2005, pp. 90-91. ↩︎
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Fulgenzio di Ruspe, Le condizioni della penitenza. La fede, a cura di M.G. Bianco, Città Nuova, Roma 1986, pp. 170-171. ↩︎
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J. Dupuis, Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, trad. di G. Volpe, Queriniana, Brescia 20034, pp. 118-131. ↩︎
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P. Rossano, Dialogo e annuncio cristiano. L’incontro con le grandi religioni, Paoline, Cinisello Balsamo 1993, p. 113; Dupuis, Il cristianesimo e le religioni. Dallo scontro all’incontro, p. 20. Cito, inoltre, l’articolo che mi ha dato lo spunto di riflessione per introdurre questo articolo e da cui ho tratto alcune delle citazioni più significative riguardo la storia del pensiero teologico qui descritta. Cfr. G. Sabetta, Teologie delle religioni. Il contributo di Raimon Panikkar, in E. Baccarini - C.G. Torrero - P. Trianni (a cura di), Raimon Panikkar. Filosofo e teologo del dialogo, Aracne, Roma 20142, pp. 59-66. ↩︎
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R. Panikkar, Religione e religioni. Concordanza funzionale, essenziale ed esistenziale delle religioni. Studio filosofico sulla natura storica e dinamica della religione, Morcelliana, Brescia 1964; testo contenuto anche nel seguente volume dell’Opera Omnia: Id., Religione e religioni, in R. Panikkar - M. Carrara-Pavan (a cura di), Opera Omnia, Jaca Book, Milano 2011, vol. II, pp. 7-168. ↩︎
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G. Sabetta, Teologie delle religioni. Il contributo di Raimon Panikkar, in E. Baccarini, Raimon Panikkar. Filosofo e teologo del dialogo, p. 68. ↩︎
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L. Mazzocchi, Solitudine esistenziale e comunione ecumenica in Raimon Panikkar, in M. Ghilardi - S. La Mendola (a cura di), Le pratiche del dialogo dialogale. Scritti su Raimon Panikkar, Mimesis, Milano-Udine 2021, p. 229. Anche Benoni sostiene che l’itinerario di Panikkar sia stato anzitutto intra-religioso, oltre che interreligioso. Cfr. L. Mazzoni-Benoni, Meditare con Raimon Panikkar. Come presi per mano, Gabrielli Ed., San Pietro in Cariano 2012, p. 11. ↩︎
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R. Panikkar, Il dialogo intrareligioso, trad. di N. Giostra, Cittadella Ed., Assisi 1988, pp. 27-29. (In questo lavoro faremo riferimento alla versione italiana, per la versione originale in inglese, invece, cfr. R. Panikkar, The Intrareligious Dialogue, Paulist Press, New York 1978). ↩︎
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Ivi, p. 27. ↩︎
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F. Comina, Il cerchio di Panikkar, la Meridiana, Molfetta 20202, p. 187. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Riguardo il cristianesimo, ad esempio, afferma Panikkar che sarebbe il massimo dell’ipocrisia condannare gli altri e giustificare sé stessi usando "lo scandalo" della rivelazione divina come un argomento razionale per difendere la propria posizione. Il che significherebbe un tradimento di quel detto evangelico che riguarda la "pietra d’inciampo". Riportiamone il brano: «Che diremo dunque? Che i pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia: la giustizia però che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge. E perché mai? Perché non la ricercava dalla fede, ma come se derivasse dalle opere. Hanno urtato così contro la pietra d’inciampo, come sta scritto: Ecco che io pongo in Sion una pietra di scandalo e un sasso d’inciampo; ma chi crede in lui non sarà deluso» (Rm 9,30-33). Una posizione non in linea con quanto riporta la Congregazione per la dottrina della fede nella dichiarazione Dominus Iesus, datata 6 agosto 2000 e firmata dall’allora prefetto e cardinale Joseph Ratzinger, secondo cui la rivelazione di Gesù Cristo rappresenta la «pienezza della verità divina» (par. 5), motivo per cui il dialogo, «pur facendo parte della missione evangelizzatrice, è solo una delle azioni della Chiesa nella sua missione ad gentes. La parità, che è presupposto del dialogo, si riferisce alla pari dignità personale delle parti, non ai contenuti dottrinali né tanto meno a Gesù Cristo, che è Dio stesso fatto Uomo, in confronto con i fondatori delle altre religioni. La Chiesa infatti, guidata dalla carità e dal rispetto della libertà, dev’essere impegnata primariamente ad annunciare a tutti gli uomini la verità, definitivamente rivelata dal Signore, ed a proclamare la necessità della conversione a Gesù Cristo e dell’adesione alla Chiesa attraverso il Battesimo e gli altri sacramenti, per partecipare in modo pieno alla comunione con Dio Padre, Figlio e Spirito Santo» (par. 22). Cfr. Congregazione per la dottrina della fede, Dominus Iesus. Circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20000806_dominus-iesus_it.html. ↩︎
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R. Panikkar, Il dialogo intrareligioso, pp. 29-32. ↩︎
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V. Vujica, Ermeneutica della religione e l’evento del dialogo in Raimon Panikkar, Casini, Roma 2008, p. 86. ↩︎
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Si tratta dell’atteggiamento teorizzato dalle alte gerarchie ecclesiastiche nel contesto del concilio Vaticano II, dove venne adottata un’ecclesiologia di comunione. Essa afferma che vi sono vari gradi per essere in comunione con Cristo. La chiesa cattolica occupa una posizione prossima rispetto al figlio di Dio, mentre le altre chiese sono più lontane perché possiedono verità parziali, motivo per cui se vogliono avvicinarsi alla piena verità devono passare attraverso il grado di perfezione detenuto da Roma. In una conferenza tenutasi nella capitale l’11 novembre del 1964, il teologo protestante Lukas Vischer così interpretò tale prospettiva, che nell’ottica del nostro discorso può anche essere estesa al rapporto tra cristianesimo e altre religioni: «La chiesa di Cristo, una e unica, sta al centro e getta ponti verso i fratelli separati. Essa osserva le chiese non romane nei loro rapporti con la chiesa cattolica romana […] Questa si tiene al centro e vede le chiese non romane al di fuori dei suoi confini, in prossimità o lontananze diverse». ↩︎
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R. Panikkar, Il dialogo intrareligioso, p. 32. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, pp. 32-35. ↩︎
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F. Comina, Il cerchio di Panikkar, p. 188. ↩︎
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R. Panikkar, Il dialogo intrareligioso, p. 33. ↩︎
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C. Dotolo, Un cristianesimo possibile. Tra postmodernità e ricerca religiosa, Queriniana, Brescia 2007, pp. 150-151. ↩︎
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Uno dei teologi che meglio di ogni altro ha teorizzato e vissuto secondo questo orientamento è Hans Küng (1928 – 2021). Il suo scopo è stato quello di individuare un terreno comune tra le principali compagini religiose dell’umanità: esso è ascrivibile alla cosiddetta «Regola d’oro». Si tratta di una norma morale valida per qualsiasi religione, un codice etico che si fonda sul concetto di reciprocità e sull’idea di uguaglianza: tutti gli individui in quanto esseri umani hanno il diritto di vivere una vita dignitosa e di essere trattati in egual misura, pertanto ognuno di essi ha il dovere di rispettare l’altro come sé stesso. Un assioma fatto proprio da tutti i padri fondatori delle più grandi religioni del mondo. [Cfr. G. Moretto, Una filosofia per l’ecumenismo. Alberto Caracciolo e la teologia ecumenica di Hans Küng, in D. Venturelli (a cura di), Religioni, etica mondiale, destinazione dell’uomo, il Melangolo, Genova 2002, pp. 273-290]. Confucio (Dialoghi 15,23): «quello che tu stesso non desideri, non farlo neppure agli altri uomini»; Rabbi Hillel (Shabbat 31a): «non fare agli altri quello che non vuoi che essi facciano a te»; Gesù (Mt 7,12; Lc 6,31): «tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro»; Muhammad (40 hadīthe di an-Nawawi 13): «nessuno di voi è un credente fino a quando non desidera per il suo fratello quello che desidera per sé stesso»; Jainismo (Sutrakritanga I.11.33): «L’uomo dovrebbe comportarsi con indifferenza nei confronti di tutte le realtà mondane e trattare tutte le creature del mondo come egli stesso vorrebbe essere trattato»; Il Buddha (Udana-Varga 5.18): «Non trattare gli altri in modi che tu stesso troveresti dannosi»; Induismo (Mahābhārata XIII.114.8): «non ci si dovrebbe comportare con gli altri in un modo che sarebbe sgradevole a noi stessi; questa è l’essenza della morale». Cfr. C. Pergola, La ricerca di un’etica per tutti, Armando Ed., Roma 2014, pp. 222-223. ↩︎
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R. Panikkar, Il dialogo intrareligioso, pp. 35-38. ↩︎
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A proposito del dialogo dialogale, riporta Panikkar: «Bisogna perseverare instancabilmente negli sforzi per parlare, per comprendere e farsi comprendere, per aprirsi all’esistenza dialogale. Serve qualcosa di simile a ciò che capita all’alcolizzato: il suo problema non è il bere, ma poter volere di non bere. Il problema non è il nemico, ma essere in grado di desiderare di trattare con lui. L’interruzione del dialogo significa solipsismo e morte, perché la vita è un costante dialogo dialogale. L’altro ha sempre qualcosa da dire». Cfr. R. Panikkar, Secolarità sacra. Secolarità, in R. Panikkar - M. Carrara-Pavan (a cura di), Opera Omnia, Jaca Book, Milano 2020, vol. XI, tomo 1, p. 533; per un maggior approfondimento sulla concezione del dialogo dialogale cfr. anche Id., The Dialogical Dialogue, in F. Whaling (a cura di), The World’s Religious Traditions, T. & T. Clark, Edinburgh 1984, pp. 201-221. ↩︎
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R. Panikkar, Il dialogo intrareligioso, p. 35. ↩︎
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F. Comina, Il cerchio di Panikkar, p. 189. ↩︎
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G. Goisis, Mistica d’Oriente e d’Occidente secondo Panikkar: un tentativo di confronto, in Ghilardi, Le pratiche del dialogo dialogale. Scritti su Raimon Panikkar, p. 122.. ↩︎
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A proposito del volume Il dialogo intrareligioso, scrive Achille Rossi: «Il libro vuole contribuire alla pace e alla comprensione reciproca fra le religioni e i popoli, superando i conflitti che ancora lacerano le società umane. Panikkar è categorico: "Quando dai testimonianza della tua fede non difendere te stesso o i tuoi interessi; quando dialoghi con qualcuno guarda il tuo interlocutore come una esperienza di rivelazione"». Cfr. A. Rossi, Raimon Panikkar. Un uomo plurale. L’esperienza de l’altrapagina, l’Altrapagina, Città di Castello 2020, p. 20. ↩︎
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«Il teologo ispano-indiano è convinto che se il dialogo rimane un puro esercizio intellettuale, che non spinge le persone a superare i confini della propria tradizione per farsi educare dagli altri, è espressione di semplice curiosità o, peggio ancora, di indifferenza. È indispensabile perciò che il dialogo inter-religioso diventi dialogo intrareligioso», (Cfr. A. Rossi, Un artista del dialogo, in R. Panikkar, L’altro come esperienza di rivelazione. Dialogo con Achille Rossi, l’Altrapagina, Città di Castello 2008, pp. 18-19) «che non è solo dialettico, ma interiore e aperto all’altro, capace di attingere la dimensione profonda della fede». Cfr. R. Gibellini, La teologia del XX secolo, Queriniana, Brescia 20047, p. 554. ↩︎
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R. Panikkar, Il dialogo intrareligioso, p. 16. ↩︎
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R. Panikkar, Vita e parola. La mia opera, Jaca Book, Milano 2010, p. 64: «Tutte le cose sono in relazione tra loro. Tutto è in tutto; non solo noi che esistiamo qui e ora. Tutto, il visibile e l’invisibile». ↩︎
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Per Panikkar è nella fede che giace «la garanzia delle relazioni umane. Bandirla ci condannerebbe inevitabilmente al solipsismo, distruggendo l’ultimo fondamento possibile di un cammino che conduca a qualsiasi trascendenza, a cominciare da quella trascendenza che consente all’uomo di "uscire" da sé stesso e di incontrare il suo prossimo senza alienazione». Cfr. R. Panikkar, Fede, ermeneutica, parola. Mistero ed ermeneutica, in R. Panikkar - M. Carrara-Pavan (a cura di), Opera Omnia, Jaca Book, Milano 2016, vol. IX, tomo 2, p. 18. ↩︎
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R. Panikkar, Pluralismo e interculturalità. Culture e religioni in dialogo, in R. Panikkar - M. Carrara-Pavan (a cura di), Opera Omnia, Jaca Book, Milano 20212, vol. VI, tomo 1, p. 28. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, p. 29. ↩︎
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La parola comprendere deriva dall’inglese "under-stand" (stare sotto), per cui, per Panikkar, comprendere la realtà, cioè conoscerla, e con essa la verità, significa essere posseduti da quella cosa, da quella realtà e quindi dalla verità. Si tratta di un atteggiamento già ampiamente capito sia dalle Upanishad che da Tommaso d’Aquino (sulla scia di Aristotele). Oggi, però, continua Raimon, «a causa dello spostamento di significato della nozione di conoscenza, introdotto e diffuso dalle cosiddette scienze naturali moderne, il conoscere è stato ridotto alla capacità di prevedere, calcolare e dominare. In una parola, noi intendiamo per "comprendere" lo "stare sopra". Se noi "stiamo sopra", non facciamo che applicare le nostre categorie e sovrastrutture; ciò allo scopo di individuare l’oggetto, non più di capire la cosa». Cfr. R. Panikkar, The pluralism of truth, World Faiths Insight, 26 (1990), pp. 7-16; per la versione in italiano cfr. Id., Il pluralismo della verità, a cura di P. Calabrò, in «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia [in linea]», anno 9 (2008) [pubblicato: 30/07/2008], https://mondodomani.org/dialegesthai/articoli/raimon-panikkar-01. ↩︎
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Il problema del pluralismo è stato affrontato, oltre che da Panikkar, da una vasta gamma di teologi contemporanei. Cfr. C. Geffré, Verso una nuova teologia delle religioni, in R. Gibellini (a cura di), Prospettive teologiche per il XXI secolo, Queriniana, Brescia 2003, p. 353; E. Riparelli, Teologia nel pluralismo delle culture, in E. Riparelli - G. Manzato - V. Bortolin (a cura di), L’altro possibile. Interculturalità e religioni nella società plurale, Ed. Messaggero, Padova 2013, p. 300. ↩︎
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R. Panikkar, Dialogo interculturale e interreligioso. Culture e religioni in dialogo, in R. Panikkar - M. Carrara-Pavan (a cura di), Opera Omnia, Jaca Book, Milano 2013, vol. VI, tomo 2, pp. 15-19. ↩︎
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Ivi, pp. 95-105. ↩︎
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Ivi, p. 184. ↩︎
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Ivi, p. 159: «Dia-logos non significa solo procedere attraverso il logos, avere a che fare con il logos soltanto; significa anche aprirsi un varco attraverso il logos – dia ton logon, traghettando attraverso il logos – fino a raggiungere il mythos». ↩︎
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Il prof. Enrico Maria Sironi elabora un’ermeneuta del dialogo molto simile a quella di Panikkar. Sebbene egli faccia riferimento al dialogo tra le confessioni cristiane, il suo discorso si può benissimo estendere al rapporto tra le religioni: «Il dialogo è tensione: è necessario volere fermamente la verità e accettare il rischio […] Il dialogo è il posto per trovare la verità e come tale rimane sempre incompiuto, aperto […] manifestazione della trascendenza […] verso una nuova conoscenza e una nuova formulazione della verità. La metodologia richiesta dall’azione ecumenica è concentrata nella categoria del dialogo. Dia-logare, secondo il Vangelo, non è incontrarsi nella mediazione della parola umana, ma entrare in comunione con Cristo, stare e rimanere in Cristo: in Lui, Parola eterna di Dio. Il padre ha aperto un dialogo con gli uomini perché si intrattengano dia-logando con Lui e tra loro. Il dialogare dei cristiani è incontro col Cristo-Parola. Cristo è la Parola del parlare dei cristiani e delle Chiese. Il dialogo ecumenico è sempre dialogo in Cristo e con Cristo». Cfr. E.M. Sironi, Ermeneutica del dialogo ecumenico, dispense del corso di Ecumenismo, Bari 1996-97, pp. 1-2. ↩︎
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S. La Mendola, Finestre exotopiche. Lo stile dialogale della conoscenza, in M. Ghilardi - S. La Mendola (a cura di), Le pratiche del dialogo dialogale. Scritti su Raimon Panikkar, pp. 183-205. ↩︎
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Ivi, pp. 185-186. Il corsivo è mio. ↩︎
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Ivi, p. 189. ↩︎
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Ivi, pp. 139-183. ↩︎
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La definizione che Bachtin dà di exotopia è molto vicina alla concezione di dialogo dialogale di Panikkar: «Nel campo della cultura l’exotopia è la più potente leva per la comprensione. È soltanto agli occhi di un’altra cultura che la nostra propria cultura si svela in modo più completo e profondo […]. Un senso svela la propria profondità se si incontra e entra in contatto con un altro, altrui senso: tra di essi comincia una sorta di dialogo, che supera la chiusura e l’unilateralità di questi, di queste culture. Noi poniamo a un’altrui cultura nuove domande che essa non si poneva […]. Quando si ha questo incontro dialogico fra due culture esse non si fondono e non si confondono e ognuna conserva la propria unità e la propria aperta totalità, ma entrambe si arricchiscono reciprocamente». Cfr. M. Bachtin, L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane, a cura di C.S. Janoviĉ, Einaudi, Torino 1988, p. 348. ↩︎
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A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, a cura di M. Carpitella, Adelphi, Milano 1983, vol. II, p. 884 (XXXI, 396): «Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro fra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione. – Così il bisogno di società, che scaturisce dal vuoto e dalla monotonia della propria interiorità, spinge gli uomini l’uno verso l’altro; le loro molteplici repellenti qualità e i loro difetti insopportabili, però, li respingono di nuovo l’uno lontano all’altro. La distanza media, che essi riescono finalmente a trovare e grazie alla quale è possibile una coesistenza, si trova nella cortesia e nelle buone maniere. A colui che non mantiene quella distanza, si dice in Inghilterra: Keep your distance! – Con essa il bisogno del calore reciproco viene soddisfatto in modo incompleto, in compenso però non si soffre delle spine altrui. – Colui, però, che possiede molto calore interno preferisce rinunciare alla società, per non dare né ricevere sensazioni sgradevoli». ↩︎
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Per un approfondimento sulla vita di Magritte cfr. S. Salvagnini, Magritte, Giunti, Firenze 2018. ↩︎
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Mentre Heidegger, espressione dell’irrazionalismo moderno, giunge persino a dubitare che un ponte sia solo ed esclusivamente un ponte. Cfr. M. Heidegger, Costruire abitare pensare, in Id., Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, pp. 96-108: «Invero, generalmente si pensa che il ponte sia anzitutto e propriamente solo un ponte». ↩︎
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Anche Magritte, come Panikkar, sposa l’idea che l’Essere non coincide col Pensiero, supera quindi il principio di identità e non contraddizione e la possibilità di una comprensione totale del reale per via razionale: «Questo mondo disordinato, pieno di contraddizioni, che è il nostro, continua a funzionare più o meno grazie a spiegazioni di volta in volta molto complesse e molto ingegnose che sembrano giustifcarlo e renderlo accettabile alla maggioranza degli uomini. Sono spiegazioni che tengono conto di una certa esperienza. Va però rilevato che si tratta di un’esperienza preconfezionata e che, se dà luogo a brillanti analisi, quanto a essa non si fonda su un’analisi delle proprie condizioni reali. […] Tutte queste cose sconosciute che vengono alla luce mi fanno credere che la nostra felicità dipenda anch’essa da un enigma inseparabile dall’uomo e che il nostro unico dovere consista nel tentare di conoscerlo». Cfr. R. Magritte, La linea della vita, a cura di X. Canonne - J. Waseige - G. Comis, trad. di J. Pes - T. Albanese - L. Sistopaoli, Skira, Milano 2018, p. 48. ↩︎
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Un’altra espressione che Panikkar spesso usa per riferirsi al dialogo tra le religioni è ecumenismo ecumenico. «L’ecumenismo cristiano cerca di conseguire un’unità tra i cristiani senza soffocare la loro diversità. […] L’ecumenismo ecumenico cerca di estendere questa nuova apertura a tutta la famiglia umana. L’obiettivo è una migliore comprensione, una critica correttiva e, possibilmente, una mutua fecondazione tra le tradizioni religiose del mondo, senza annacquare le loro rispettive eredità o pregiudicare la loro possibile armonia o le eventuali differenze irriducibili». Cfr. R. Panikkar, Vers un ecumenisme ecumènic, Questions de vida cristiana, 140 (1988), pp. 80-86. Diversa, invece, è la definizione di ecumenismo critico. Esso «designa l’accettazione e il riconoscimento di una critica necessaria, fatta dal di fuori di una tradizione determinata. […] è un mezzo potente per correggere gli errori e le deficienze delle rispettive tradizioni, ed è anche un mezzo efficace per divenire coscienti dei limiti inerenti alle religioni, alle dottrine e, in ultima analisi, all’essere umano». Cfr. Id., Ecumenisme crític, Questions de vida cristiana, 144 (1988), pp. 120-123; per la versione in italiano cfr. Id., La nuova innocenza. Innocenza cosciente, Servitium, Sotto il Monte Giovanni XXIII 20052, pp. 199-203. ↩︎
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R. Panikkar, Il dialogo intrareligioso, pp. 38-58. ↩︎
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Ivi, p. 39. ↩︎
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Questa citazione è stata leggermente modificata, per la versione originale cfr. Ivi, p. 46: «si può raggiungere la sorgente della luce bianca. Qualsiasi seguace di una tradizione umana può raggiungere la destinazione, la pienezza, la salvezza, purché vi sia un raggio di luce e non soltanto oscurità». ↩︎
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Ivi, p. 51. ↩︎
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Ivi, p. 56. ↩︎
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V. Vujica, Ermeneutica della religione e l’evento del dialogo in Raimon Panikkar, pp. 88-92. ↩︎
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R. Panikkar, Begegnung der Religionen. Das unvermeidliche Gespräch, Dialog der Religionen, 1 (1991), pp. 9-39; tradotto in inglese nella versione seguente: Id., The Encounter of Religions: the Unavoidable Dialogue, Jnanadeepa, 3 (2000), pp. 151-154. ↩︎
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Il principio di individuazione deve essere distinto dal principio di singolarità. Cfr. R. Panikkar, Singularity and Individuality: The Double Principle of Individuation, Revue International de Philosophie, 29 (1975), pp. 141-146. ↩︎
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R. Panikkar, L’incontro indispensabile: dialogo delle religioni, a cura di M. Carrara-Pavan, trad. di G.J. Forzani, Jaca Book, Milano 2001, pp. 21-26. ↩︎
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Ivi, pp. 27-75. ↩︎
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Ivi, p. 29. ↩︎
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Per un maggior approfondimento sul tema della verità cfr. R. Panikkar, The Existential Phenomenology of Truth, Philosophy Today, 2 (1958), pp. 13-21. ↩︎
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A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, p. 435 (XV, 174). ↩︎
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R. Panikkar, L’incontro indispensabile: dialogo delle religioni, p. 33. ↩︎
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Ivi, p. 40. ↩︎
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R. Panikkar, Mito, fede ed ermeneutica. Il triplice velo della realtà, a cura di M. Carrara-Pavan, Jaca Book, Milano 2000, p. 243: «Il dialogo dialogico non è il rafforzamento esterno di un monologo nella convinzione che "due teste siano meglio di una". Il dialogo qui non assomiglia al modo di fare dei subalterni del 'megadirigente', la cui collaborazione critica consente al loro capo di fare sfoggio delle sue migliori capacità dialettiche. […] Il dialogo cerca la verità confidando nell’altro, così come la dialettica persegue la verità confidando nell’ordine delle cose, nel valore della ragione e in argomentazioni convincenti». ↩︎
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R. Panikkar, L’incontro indispensabile: dialogo delle religioni, p. 45. ↩︎
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La politica può essere definita come «l’insieme dei principi, dei simboli, dei mezzi e degli atti attraverso i quali l’uomo aspira al bene comune della polis». Cfr. R. Panikkar, Religion ou politique? Y a-t-il une solution au dilemme de l’Occident?, in M.M. Olivetti (a cura di), Religione e politica, cedam, Padova 1978, p. 74. Cfr. anche Id., Il «daimôn» della politica: agonia e speranza, edb, Bologna 1994; Id., Secolarità sacra, pp. 109-220. ↩︎
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R. Panikkar, Non-Dualistic Relation between Religion and Politics, Religion and Society, 25 (1978), pp. 53-63. ↩︎
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R. Panikkar, L’incontro indispensabile: dialogo delle religioni, p. 52. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Questi esempi si trovano online e sono stati riportati dal teologo Maciej Bielawski per spiegare meglio il concetto di Pisteuma. ↩︎
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Senza mito non può aver luogo una scienza comparativa delle religioni, e neppure una filosofia comparativa. Cfr. R. Panikkar, What is Comparative Religion Comparing?, in G.J. Larson - E. Deutsch (a cura di), Interpreting Across Boundaries. New Essays in Comparative Philosophy, Princeton University Press, Princeton 1988, pp. 116-136. ↩︎
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R. Panikkar, Verstehen als Überzeugtsein, in H.-G. Gadamer - P. Vogler (a cura di), Neue Anthropologie. Philosophische Anthropologie, Thieme, Stuttgart 1975, vol. VII, pp. 132-167. ↩︎
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R. Panikkar, L’incontro indispensabile: dialogo delle religioni, p. 59. ↩︎
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A riguardo della dimensione umana della religione, spesso sottovalutata, Panikkar cita il seguente studio: R. Tagore, The Religion of Man, Macmillan, New York 1931. ↩︎
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R. Panikkar, L’incontro indispensabile: dialogo delle religioni, p. 65. ↩︎
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R. Panikkar, Le Mystère du culte dans l’hindouisme et le christianisme, Cerf, Paris 1970; pubblicato anche nella rivista Revue des Sciences Religieuses, 46 (1972), pp. 183-184. ↩︎
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R. Panikkar, L’incontro indispensabile: dialogo delle religioni, p. 71. ↩︎
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R. Panikkar, Dialogo interculturale e interreligioso, pp. 139-173. In questa edizione aggiornata, la definizione di dialogo continuo viene sostituita con quella di dialogo inconcluso. Cfr. le pp. 170-173. ↩︎
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Per un ulteriore approfondimento sul dialogo tra le religioni in Panikkar cfr. J. Kuruvachira, Il dialogo interreligioso secondo Raimon Panikkar, Salesianum, 79 (2016), pp. 305-324. ↩︎
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Gv 17,21-22. ↩︎
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R. Panikkar, Tra Dio e il cosmo. Una visione non dualistica della realtà. Dialogo con Gwendoline Jarczyk, trad. di M. Sampaolo, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 65. ↩︎
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La parola coraggio affonda la sua etimologia nella distinzione latina cor agere (agire col cuore). ↩︎