Introduzione di Paolo Calabrò
«The Pluralism of Truth» è un articolo pubblicato da Panikkar nel 1990 sulla rivista di studi interreligiosi «World Faiths Insight». L’articolo non è mai stato tradotto in italiano prima d’ora ed è interessante per almeno due motivi. Il primo è che, pur essendo il pluralismo un cardine della filosofia di Panikkar, questi lo affronta dettagliatamente ben di rado (l’unica eccezione di rilievo è il terzo capitolo del libro La torre di Babele. Pace e pluralismo, Cultura della pace, San Domenico di Fiesole (FI) 1990), lasciandolo sullo sfondo o sorvolando sulle sfaccettature teoriche, cui preferisce di solito altri temi fondamentali, come il dialogo o la pace.
Il secondo motivo è che il pluralismo, oggi, non è più solo una terza alternativa da porre accanto ai più classici monismo e dualismo; il pluralismo è un nuovo sguardo alla realtà che questo tempo ci richiede, se non vogliamo che l’incontro con l’altro, il diverso — che di fatto è già avvenuto ed avviene sempre più frequentemente nella nostra società globale — rischi di degenerare ogni volta da incomprensione a scontro.1 Il pluralismo è l’atteggiamento che ci spoglia della presunzione di essere i depositari della verità e colloca l’altro sul nostro stesso piano, fiducioso che — seppur non si arrivi a un’intesa, in sede teorico-dialettica — sia comunque possibile giungere a un accordo. Il pluralismo è la convinzione che ci possa essere un posto per tutti e che la pace sia possibile (e tutt’altro che utopica) nella misura in cui ci adoperiamo per «fare» questo posto comune.
Se è vero che ogni seria dichiarazione di pace deve iniziare con l’elenco di ciò a cui si è disposti a rinunciare, come scriveva Heisenberg un secolo fa, è anche vero che la rinuncia non è sempre qualcosa di doloroso e mortificante: ad esempio, rinunciare al proprio complesso di superiorità e alla imbarazzante convinzione di essere gli unici ad avere ragione mentre tutti gli altri hanno torto, può essere positivo e liberatorio.
Il pluralismo non è né una teoria, che codifica in anticipo tutto ciò che bisogna correttamente pensare, né un mero slancio di generosità: come tutte le cose che coinvolgono l’essere umano in prima persona, esso è una prassi che si alimenta a una teoria e una teoria che sfocia in una prassi. Nel presentare ciò che il pluralismo è (soprattutto la sua appartenenza all’ordine del logos quanto a quello del mito) e ciò che non è (prendendo le distanze dal prospettivismo, dalla pluralità, dalla pluriformità e dal relativismo), Panikkar propone un approccio teorico che è qualcosa di più di un semplice modo di pensare: esso è bensì un modo di essere, e di essere «all’altezza delle sfide del mondo contemporaneo».
Ho curato la traduzione dall’inglese del testo; le note sono mie. L’articolo, visibile in internet all’indirizzo http://www.dhdi.free.fr/recherches/horizonsinterculturels/articles/panikkarpluralism.doc, è apparso originariamente su «World Faiths Insight», n. 26, 1990, pp. 7-16, rivista edita dal World Congress of Faiths, www.worldfaiths.org. La rivista ha ora un nuovo nome, «Interreligious Insight»: www.interreligiousinsight.org.
Il pluralismo della verità
1. La condizione umana
1.1. Panorama geografico
Vorrei riflettere sullo sconvolgimento geografico del mondo moderno. Fino a un secolo fa l’80% delle persone non si spostava di più di cinquanta miglia dal proprio luogo natale. Oggi in Nord America ogni famiglia cambia luogo di residenza ogni quattro anni e mezzo. Milioni di persone attraversano l’Atlantico. In otto ore si può essere a Kathmandu e qui, oggi, si ritrova un’enorme varietà di razze, lingue e religioni. Lo sconvolgimento geografico sfocia nel rimescolamento di popoli e culture, ma anche in tensioni e conflitti. Ora ci mescoliamo, siamo pronti a tollerare l’altro, non ci scandalizziamo più di niente, imitiamo, rifiutiamo o siamo turbati ma, dopo tutto, dobbiamo accettarlo e adattarci come possiamo. Cerchiamo la nostra strada all’interno di questa giungla di varietà d’opinioni e comportamenti d’ogni tipo. Siamo costretti ad avere a che fare con l’altro e così, a dispetto delle nostre rispettive maschere (che indossiamo per autodifesa), quasi non possiamo fare a meno di provare a capirci gli uni con gli altri.
1.2. Il problema della comprensione
In altri tempi gli uomini comprendevano di non comprendersi reciprocamente. Essi comprendevano di non comprendere quei tipi esotici, quegli strani costumi e quelle religioni straniere, ma poiché non li incontravano ogni giorno, ciò non costituiva una grande sfida. Gli stranieri vivevano in terre incantevoli, giungle primitive o ghetti abbandonati, ma sempre lontanissimi, geograficamente o spiritualmente. Di quando in quando qualche antropologo ci raccontava delle storie, che trovavamo più o meno interessanti, simpatiche o irritanti. Le scaramucce avvenivano solo tra religioni vicine, spesso colorite di problemi economici e politici, o tra intellettuali preoccupati dalle conseguenze della discordia religiosa.
Ora i problemi sono sotto i nostri occhi e noi abbiamo bisogno di comprenderli. Mi si passi l’unico, filosofico gioco di parole in lingua inglese che mi concedo: comprendere vuol dire «stare-sotto» alla cosa compresa, essere posseduti dal suo fascino, starne al di sotto in ammirazione, magari con scetticismo.2 È un atteggiamento esistenziale, siamo davvero al di sotto del potere del rischioso atto di conoscenza (inter-legere). Come dicono esplicitamente le Upanishad e Tommaso d’Aquino (sulla scia di Aristotele), conoscere significa identificarsi con la cosa conosciuta. Oggi, a causa dello spostamento di significato della nozione di conoscenza, introdotto e diffuso dalle cosiddette scienze naturali moderne, il conoscere è stato ridotto alla capacità di prevedere, calcolare e dominare. In una parola, noi intendiamo per «comprendere» lo «stare sopra». Se noi «stiamo sopra», non facciamo che applicare le nostre categorie e sovrastrutture; ciò allo scopo di individuare l’oggetto, non più di capire la cosa. È forse necessario aggiungere qui una nota sulle categorie kantiane e sulla critica ante litteram di Shankara, con la sua nozione di adhyâsa (imposizione dall’alto)?
Sto solo gettando le basi per indicare che c’è un inevitabile problema epistemologico al fondo della nostra questione.
Se noi «stiamo al di sopra», come una certa «conoscenza» scientifica che si pretende universale, approcciamo alla realtà da una posizione sovrastante le cose stesse. Non stiamo in ascolto delle cose, obbedendo loro; noi integriamo oggetti all’interno del nostro schema mentale. Noi «stiamo sopra» un piano più elevato: Ragione, Scienza, Rivelazione o qualunque altra cosa alla quale, ovviamente, «noi» abbiamo un accesso privilegiato. L’intelligibilità discende allora da un singolo principio superiore. D’altro canto, se comprendiamo davvero riconosceremo umilmente che, mentre noi accediamo ad una fonte di intelligibilità, altri possono similmente accedere ad altre fonti, o a flussi diversi della stessa fonte. La storia dell’umanità ci ha mostrato che l’Uomo ha molti modi di comprendere se stesso. Possiamo noi ignorare le diverse autocomprensioni umane e ritenere valida unicamente la nostra interpretazione? Possiamo individuare gli oggetti, ma qui non abbiamo a che fare con un oggetto, bensì con l’Uomo, la cui natura precipua è di essere dotato di autocomprensione, cosicché la conoscenza dell’Uomo include la conoscenza delle autocomprensioni dell’Uomo, e non soltanto la conoscenza delle nostre interpretazioni di un certo oggetto chiamato anthrôpos. Questo è il problema.
All’inizio del secolo, un siciliano venne catturato, ammanettato e portato in tribunale. Sembrava fosse innocente, ma non proferì al giudice una sola parola in sua difesa. Più tardi, quando l’avvocato gli chiese perché non avesse parlato, disse: «Come avrei potuto parlare con le mani legate?» Per lui la parola era ancora qualcosa di più del mero significato; era gesto. Come avrebbe potuto parlare senza utilizzare contemporaneamente la lingua e le mani?
1.3. Una comprensione universale?
Abbiamo sofferto e ancora soffriamo talmente tanto a causa del fanatismo politico, religioso e culturale, che siamo legittimamente assetati di una comprensione universale. Un tipico esempio ne è la sindrome del villaggio globale. Pur nobile nell’intenzione, mi sembra solo un altro degno successore della mentalità colonialistica. Il colonialismo crede nel monomorfismo della cultura, nel senso che c’è in definitiva una sola civiltà: «Ed ora ecco l’unificazione del mondo in un villaggio globale. Ora possiamo avere una teologia universale che realizzerà un piccolo confortevole buco per i musulmani, un altro per i non credenti, ed ognuno sarà felice perché noi ora siamo tolleranti, non imponiamo nulla, accettiamo tutto e c’è un posto per ognuno. Tutti vogliono una teologia universale basata sull’apertura, la tolleranza e l’autocritica». Fin qui tutto bene, ma è così facile essere veramente aperti al fanatico, tolleranti con l’intollerante e accettare la critica di coloro che non sono d’accordo con la nostra teologia universale?
Tuttavia c’è sete di reale comprensione. Non possiamo vivere in compartimenti stagni. L’altro diventa un problema proprio perché entra nello spazio della mia vita ed è irriducibile al mio modo di vedere. Se un estremo è che noi abbiamo ragione e gli altri torto, l’altro estremo è che possiamo tutti entrare in un qualche tipo di villaggio globale. Io sostengo che non è dato a nessuno di noi di delimitare l’ambito universale dell’esperienza umana. In un villaggio ciascuno conosce ogni altro e le diverse dialettiche sono note. Sogniamo ancora che una televisione universale porterà «comunicazione» reale a 5, 2 miliardi di persone? C’è una inerzia della mente ben visibile nella maggior parte degli odierni sforzi di trattare questo problema.3 Ho l’impressione che dovremmo vedere la realtà con uno sguardo radicalmente diverso.
Questa è la sfida.
2. Pluralismo
Tra questi due estremi, la parola «pluralismo» è emersa sempre di più come istanza di una terza posizione; questo è il secondo punto della mia presentazione.
2.1. Pluralismi accettati
Esiste un certo numero di pluralismi accettati oggi. Un filosofo può essere un buon filosofo, pur senza essere un epigono di Kant o d’un altro. Un filosofo può essere in disaccordo con un altro e tuttavia entrambi possono essere considerati buoni filosofi. Il pluralismo della filosofia è accettato. Anche il pluralismo teologico è praticamente riconosciuto. Infine, il pluralismo culturale è qualcosa di cui ci vantiamo, sebbene io non pensi che lo abbiamo raggiunto. Ciò che abbiamo è un certo tipo di tolleranza culturale che permette ai greci, ai pakistani e agli zingari di conservare il proprio folklore — ma tutti loro devono pagare le tasse… ed accettare le nostre leggi e la nostra costituzione. Siamo in ogni caso pronti, teoricamente, ad accettare il pluralismo culturale. Il pluralismo religioso, che non può essere reciso dal pluralismo culturale, è probabilmente l’ultima e più difficile nozione da accettare. Essa tocca la nostra identità personale.
2.2. Preliminari al pluralismo
Abbiamo preso coscienza della pluralità. È un fatto. Ma pluralità non è ancora pluralismo. Pluralità significa riconoscimento di modi, umori, colori differenti. È una nozione quantitativa.
Un secondo passo è la pluriformità. Non ci sono solo differenze, ma anche varietà. Questa è una nozione qualitativa. Cominciamo a diventare sensibili alle varietà che non possiamo sottoporre a misura quantitativa. Il blu non è il verde e non c’è verso di sostenere che il verde sia più gradevole del blu. Non possiamo misurare ciò che è migliore, o più gradevole, e ciò dipende dal contesto. Ma questo non è ancora pluralismo.
Il pluralismo compie un ulteriore passo rispetto al riconoscimento delle differenze (pluralità) e delle varietà (pluriformità). Il pluralismo ha a che fare con la diversità radicale. Due sono i passi che preparano questo passo ulteriore.
Il primo passo è il prospettivismo. Chi ha familiarità con la favola indiana dei filosofi e dell’elefante nella stanza buia, ricorda come uno dei filosofi sostenesse trattarsi di qualcosa di simile ad un osso spolpato, mentre gli altri ritenevano che fosse una pesante colonna, una grossa scatola, una pelle rugosa e così via. Questo è un esempio di prospettivismo. Il prospettivismo è il senso comune. Le persone guardano da prospettive differenti, e bisogna rispettarle. La difficoltà risiede, come nell’esempio, nel fatto che qualcuno deve sapere che è un elefante. Se c’è qualcuno che conosce l’elefante, può dire che uno sta semplicemente descrivendo la zanna, un altro la zampa, un altro un’altra parte; ma se nessuno conosce l’elefante, come si può difendere il prospettivismo? Chi conosce l’elefante? Ovviamente «noi» seguaci del Vedanta, i cristiani, gli scienziati… «noi» conosciamo l’elefante!
Il secondo passo è la relatività, da non confondere con il relativismo. Il relativismo fallisce il suo scopo; il relativismo è un agnosticismo che confuta se stesso. Non si può nemmeno sapere di non sapere. Se non ci sono criteri per giudicare, neanche il relativismo è un criterio. La relatività, d’altra parte, è una cosa molto più seria. La relatività ci dice che ogni cosa dipende da un insieme di riferimenti rispetto ai quali quel particolare caso, affermazione, situazione o fatto può essere espresso ed anche falsificato, verificato o quant’altro. Essa bandisce qualunque tipo di dichiarazione assoluta. Ma io arrivo a dire che il pluralismo, nel suo senso più profondo, compie un ulteriore passo; ciò che vorrei ancora descrivere con un sintetico abbozzo.
2.3. Descrizione del pluralismo
Proverò a riassumere ciò che intendo in sei punti.
- Pluralismo non significa pluralità o riduzione della pluralità ad unità. Che ci sia una pluralità di religioni è un fatto. Che queste religioni non siano riducibili a un’unità di nessun genere è anch’esso un fatto. Pluralismo significa qualcosa di più della pura ammissione della pluralità e della mera illusione dell’unità.
- Il pluralismo non considera l’unità un ideale indispensabile, nemmeno se questa unità lascia spazio a delle variazioni al suo interno. Il pluralismo accetta gli aspetti inconciliabili delle religioni senza ignorare ciò che esse hanno in comune. Il pluralismo non è l’attesa escatologica che alla fine tutto diventi uno.
- Il pluralismo non approda ad un sistema universale. Un sistema pluralistico sarebbe una contraddizione in termini. L’incommensurabilità fondamentale dei diversi sistemi non può essere oltrepassata. Questa incommensurabilità non è necessariamente un male minore; essa potrebbe invece contenere una rivelazione della natura della realtà. Nulla può racchiudere la realtà.
- Il pluralismo ci rende consapevoli della nostra contingenza e dell’opacità della realtà. Esso è incompatibile con l’assunzione monoteistica di un Essere totalmente intelligibile, ovvero con una coscienza onnisciente identificata con l’Essere. Tuttavia il pluralismo non rifugge dall’intelligibilità. La posizione pluralista cerca di raggiungere tutta l’intelligibilità possibile, ma non richiede l’ideale di una comprensibilità totale della realtà.
- Il pluralismo è un simbolo che esprime un atteggiamento di fiducia cosmica che tiene conto della polarità e della tensione tipiche della coesistenza tra religioni, cosmologie e posizioni umane irriducibili. Esso non elimina né assolutizza il male o l’errore.
- Il pluralismo non nega la funzione del logos ed i suoi diritti inalienabili. Il principio di non contraddizione, ad esempio, non può essere eliminato. Ma il pluralismo appartiene anche all’ordine del mito. Esso incorpora il mythos, non ovviamente come oggetto del pensiero ma come orizzonte che rende il pensiero possibile. Per esigenza di brevità non posso sviluppare questi punti come mi è stato possibile altrove.4
3. Il pluralismo della verità
3.1. La verità è al di là dell’unità e della pluralità
Il pluralismo non afferma né che la verità sia una, né che ce ne siano molte. Se la verità fosse una, non potremmo che rigettare la tolleranza di una posizione pluralista come forma di connivenza con l’errore. Potremmo, al più, sospendere il giudizio riguardo a questioni irrilevanti o discutibili. Ma come possiamo astenerci dal condannare ciò che giudichiamo un errore, o il male? Come possiamo rimandare decisioni pratiche, tanto più quando già il mero rinvio costituisce una acritica presa di posizione?
Ma la verità non è neanche molteplice. Se ci fossero molte verità, cadremmo in una palese contraddizione. Abbiamo già detto che pluralismo non sta per pluralità, in questo caso pluralità di verità. Il pluralismo mantiene un atteggiamento a-dualistico (o advaita) che difende il pluralismo della verità in quanto la realtà stessa è pluralistica; ovvero incommensurabile sia con l’unità sia con la pluralità.5 L’Essere in quanto tale, anche se compreso da, o coesistente con il logos o una intelligenza suprema, non ha bisogno di essere ridotto alla coscienza. In realtà, l’essere si specchia perfettamente nella verità, ma anche se la perfetta immagine dell’Essere è identica all’Essere, l’Essere non ha bisogno di venir esaurito nella sua immagine — a meno che non si sia assunto in precedenza che l’Essere sia (solo) Coscienza.6
3.2. La verità non ha centro
Nei circoli teologici vi sono oggi interessanti discussioni sul cristocentrismo e sul teocentrismo, ovvero su quale altro centro sarebbe meglio individuare come riferimento per la teologia cristiana. Nei circoli sociologici ed antropologici, si dibatte di questioni come l’etnocentrismo, l’atteggiamento eurocentrico ed il tecnocentrismo. Tutte queste discussioni ammettono implicitamente che, ai fini del raggiungimento dell’intelligibilità, è necessario che vi sia un centro. Il centro, se c’è, è mobile. Io dico ai «cristocentristi» come ai «teocentristi»: «Tu hai ragione!», mettendo l’accento sul «tu», il contesto all’interno del quale il singolo teologo riflette. Non è necessariamente vero che la verità abbia bisogno sempre dello stesso centro.
Vorrei raccontare la storia di un saggio rabbino che guidava una comunità molto tempo fa. Gli ebrei erano in polemica tra loro, così i membri di una delle fazioni andarono ad esporre le proprie lamentele al rabbino, che rispose loro: «Avete ragione! Avete ragione!» I membri della fazione avversa, avendo appreso ciò, andarono anch’essi dal rabbino a spiegare le proprie difficoltà. Il rabbino li ascoltò attentamente e concluse: «Avete ragione! Avete ragione!» Ovviamente la polemica riprese da capo. Così gli intellettuali e gli scribi della comunità, più addentro degli altri, formarono una piccola commissione ed andarono dal rabbino a dirgli, col dovuto rispetto: «Maestro, oggi hai detto che una delle due fazioni aveva ragione, e ieri hai detto che aveva ragione l’altra. È ovvio che non possono avere ragione entrambe». Il rabbino disse: «Avete ragione! Avete ragione!» Chi ha ragione? O solo il rabbino ha torto?
La relazione tra le tre affermazioni è ovviamente dialettica. Ma la relazione tra i due gruppi di persone viventi in polemica non è dialettica. Il rabbino vide la completezza relativa di ciascuna posizione, sebbene ciò implicasse la mutua contraddittorietà delle affermazioni sul piano intellettuale, come rilevato dal terzo gruppo (non coinvolto sul piano esistenziale).
Ciò che sto cercando di dire è che il pluralismo fa il suo ingresso quando scopriamo la mutua incommensurabilità degli atteggiamenti umani. È il riconoscimento dell’incompatibilità tra le credenze ultime. Dovremmo prendere sul serio le umane esperienze e gli scontri degli ultimi 8. 000 anni di storia, in cui ogni fazione riteneva di star facendo la cosa giusta, mentre l’altra pensava che non fosse così. Dovremmo ascoltare ancora una volta la saggezza di Salomone.7 Le nostre soluzioni propongono sempre di tagliare il bambino in due, se non possiamo tenerlo tutto per noi. La verità, come il bambino, è nostra. Ma affinché il bambino continui a vivere, affinché l’umanità continui a vivere, affinché la polarità delle realtà umane continui ad essere, affinché la buonafede del popolo continui ad essere, affinché la libertà resti la più alta dignità, non possiamo giudicare solo in base alla Ragione. Salomone ci ha mostrato che il suo verdetto è quello corretto, perché quando interviene l’amore, quando il bambino è il proprio, si preferisce perderlo, si preferisce addirittura essere calpestati, purché il bambino viva. Io sostengo che la situazione attuale richieda che ciascuno di noi possa dire «Non ti capisco molto bene, penso perfino che ti sbagli, ma il fatto che ti sbagli non mi dice granché sul mio essere nel giusto, o sul fatto che forse anch’io mi sbagli».
Abbiamo bisogno di questo rapporto reciproco. L’incontro tra fedi diverse non è soltanto affare di dialettica. Esso richiede anche amore, dialogo e contatto umano. Apparteniamo gli uni agli altri, anche se i nostri codici e le nostre nozioni sono incompatibili. Il raggio e la circonferenza si appartengono reciprocamente pur essendo incommensurabili. Il pluralismo appartiene alla condizione umana.
3.3. La verità è polare
L’intuizione che la verità stessa è pluralistica può essere descritta dicendo che nella sua natura è insita la polarità. La verità in quanto verità è essa stessa una polarità. Qualunque teoria filosofica della verità abbracciamo (corrispondenza, coerenza, pragmatistica e simili), una cosa rimane comune a tutte. La verità è sempre una relazione, sia essa soggetto/oggetto, o soggetto/predicato, conoscente/conosciuto, utilizzatore/utilizzato, ecc. Ce ne sono altre. Uno dei termini della relazione, esplicitamente o implicitamente, siamo noi. Uomini. Anche se parliamo della verità metafisica dell’Essere o della verità teologica della stessa divinità, noi umani non possiamo venir messi del tutto tra parentesi. Tanto più nel caso della verità religiosa. Noi siamo coinvolti nell’impresa. In altre parole, la verità contiene sempre un elemento di soggettività nel senso che noi, gli Uomini, siamo in qualche modo partecipi dell’affermazione, dell’entità, del processo, della faccenda che chiamiamo verità. La verità è sempre una relazione che fa riferimento a noi Uomini, per cui la verità è verità (e non solo oggettivamente vera).
Ora, se il giudice sono solo io, o solo noi, appartenente ad una cultura con una certa collocazione spaziotemporale, questo io o questo noi non può esaurire l’intera relazione. Questo per due ragioni: primo, questo io o noi è limitato ed è impossibile sapere se conosca o meno completamente l’altro lato in questione. Secondo, il soggetto (io, noi) è in se stesso inoggettivabile e senza alcuna garanzia che non cambi. Noi siamo uno dei poli della relazione, e non possiamo essere «sicuri» di non cambiare. Non possiamo avere controllo su noi stessi che dal polo oggettivo, che a sua volta è relazionato a quello soggettivo. Un chiaro esempio ne è la cosiddetta evoluzione del dogma. Se i soggetti cambiano le proprie percezioni e i propri presupposti, le «verità oggettive» del dogma devono cambiare di conseguenza, proprio affinché la relazione possa rimanere costante.
Se questo giudice non è «noi» ma un intelletto infinito, a parte il fatto che potremmo avere solo un’interpretazione umana limitata di questa intelligenza assoluta, non vi è nessuna qualsivoglia necessità che questo intelletto infinito conosca tutto l’Essere. Non c’è nulla di nascosto ad una intelligenza infinita; essa è onnisciente e, come tale, ciò che conosce è la Verità. Si potrebbe anche concedere che essa sia proprio la fonte della verità, cosicché questa verità è precisamente ciò che l’intelletto divino conosce. La verità sarebbe quindi originariamente dalla parte del Soggetto, non subendo condizionamenti da parte di alcun oggetto. Ciò andrebbe tanto più a favore di un pluralismo della verità, in quanto la Verità dipenderebbe completamente dalla Divina Compiacenza e non vi sarebbe nessuna fondazione oggettiva di una «identica» verità permanente o, piuttosto, l’identità verrebbe privata di qualsiasi punto di riferimento per affermare se stessa come tale. Non potremmo dire se la verità sia una o più.
La posizione tradizionale sosterrà ad oltranza che la verità è una perché questo intelletto infinito non può cambiare. Tale linea argomentativa implica già l’identificazione dell’Essere con la Coscienza. Ma questa è un’assunzione gratuita che non consegue dall’accettazione di una Coscienza infinita. La Coscienza divina, in realtà, dovrebbe conoscere Tutto, ovvero tutto ciò che è conoscibile, ma non tutto ciò che appartiene all’Essere deve necessariamente essere conoscibile, a meno che non identifichiamo preventivamente l’Essere con la Coscienza. Un’intelligenza infinita non ha limiti nel suo ambito: niente le è inintelligibile, ma nulla impone che quest’ambito sia totalmente identico alla realtà. In breve, potrebbe ben darsi che la Realtà abbia un lato opaco, inaccessibile all’Intelligibilità. Nel linguaggio cristiano la Divinità non può essere ridotta ad un Logos infinito. Vi «è» anche una Fonte apofatica. Vi è anche lo Spirito, né inferiore a, né diverso dal Logos, ma non riducibile agli altri due. La Verità di Dio, il logos, per dirlo paradossalmente, non è l’Intero Dio, poiché Dio essendo Verità, Logos e Verità infinita, Dio «è» solo questo. «È» Trinità.
Potremmo formulare il pluralismo della verità in un modo più vicino al buddhismo e allo yoga. Potremmo allora commentare il citta-vrttinirodha, o la cessazione di tutta l’attività mentale, come nell’inizio dello Yogasûtra, oppure lo àkimcanya âyatana, o la permanenza nella non-esistenza, come nel buddhismo primitivo. In entrambi i casi il mentale viene superato e l’intuizione ultima si trova al di là della dialettica quadripartita (fatta da A, non-A, A e non-A, né A né non-A). La verità non è soppressa, ma la sua dimora (âyatana) non è più competenza del linguaggio. Sei così stupido da credere davvero che la tua opinione sia quella giusta e tutte le altre siano sbagliate?, suggerisce con discrezione il Suttanipâta.8
Queste ultime considerazioni sono soltanto modi di esprimersi di certe scuole particolari. E tuttavia quasi tutte le teologie, come Ibn ‘Arabi ha così significativamente sottolineato con la sua teoria dello jam’al-diddayn (coincidentia oppositorum) , sono costrette a riferirsi al Divino utilizzando linguaggio antinomico e paradossi: la verità di un’affermazione va contraddetta da un’altra affermazione ugualmente vera. La verità non può avere un’espressione unica ed univoca, rimarca al-chaykh al akbar (il più grande maestro), com’è chiamato dalla tradizione. Questo è il punto, secondo noi, che concerne direttamente il problema della verità religiosa nell’incontro tra le religioni. Vorrei enunciare ora alcuni dei corollari, tralasciando di approfondire l’intrinseca polarità della verità ed il fatto che siamo quanto meno parzialmente coinvolti in uno dei poli.
4. A mo’ di conclusione
Il pluralismo della verità implica, tra gli altri, i seguenti corollari:
- La verità religiosa di una particolare tradizione può essere appropriatamente compresa solo all’interno della tradizione che l’ha elaborata. Ciascuna tradizione ha il suo linguaggio.9
- A partire da un certo sistema intellettuale religioso, è legittimamente possibile criticarne un altro, purché si giunga ad un’area comune nella quale il dialogo e la critica abbiano senso per entrambe le parti. È necessario parlare, almeno parzialmente, la stessa lingua.
- In ogni dato momento della storia dell’umanità esistono mythoi prevalenti che permettono la critica interculturale e transreligiosa delle opinioni consolidate. Si può agevolmente affermare che il sacrificio umano e la schiavitù siano comunemente e senz’appello ritenuti aberranti. Ma ci sono oggi problemi scottanti che nessun approccio meramente intellettuale dovrebbe minimizzare. A meno di non cavillare sulle parole, la violenza va evitata ad ogni costo? Dio è un’ipotesi necessaria ad un mondo giusto? L’odierno capitalismo è una forza disumanizzante? Possiamo avere le nostre forti opinioni in merito, ma non dovremmo presentarle come «verità» non negoziabili.
Il pluralismo della verità ci apre gli occhi, in primo luogo, sulla contingenza: io non ho una visuale di 360 gradi; nessuno ce l’ha.10 In secondo luogo, e questa è la nozione più audace, la verità è pluralistica perché la realtà stessa è pluralistica, non essendo un’entità oggettivabile. Noi soggetti siamo altrettanto parte di essa. Non siamo solo spettatori del Reale, ma anche co-attori e perfino co-autori di esso. Questa è precisamente la nostra dignità umana.
Ritengo che questo breve abbozzo, nella sua imperfezione, tocchi un problema essenziale dell’autentica natura della Realtà, e che questo toccare la natura della Realtà rimbalzi, per così dire, sulla natura di tutte le nostre imprese. Questo terzo millennio del mondo Occidentale, che lascia presagire un mutamento nella nostra situazione, esige da noi un’idea di ciò che significa essere umano, di ciò che significa essere divino, di cosa sia il mondo in cui viviamo e del quale condividiamo la responsabilità.
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Cfr. A. Rossi, Introduzione al testo di S. Calza, La contemplazione. Via privilegiata al dialogo cristiano-induista, San Paolo, Milano 2001, p. 13: «Il secolo appena cominciato sarà il secolo dell’«altro». Se le culture umane hanno potuto vivere finora in un relativo isolamento, d’ora innanzi non sarà più possibile. Uno degli effetti dello sviluppo tecnologico è di aver abolito le distanze e di aver offerto agli uomini del nostro tempo l’occasione di incontrarsi. L’altro, lo straniero, colui che chiama Dio con un altro nome e vede il mondo con altri occhi, è già in mezzo a noi»; nonché C. Eberhard, intervento alle pubbliche lezioni presso la Facoltà universitaria Saint Luois di Bruxelles dal titolo «Du l’univers au plurivers de la globalisation. Fatalité, utopie, alternative?», 7 marzo 2008, per il quale «non si tratta di un gioco intellettuale gratuito, perché la ristrutturazione del nostro vivere-insieme provocata dalla globalizzazione ci obbliga a riflettere su questi temi» (parafrasi di P.C.). ↩︎
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Difficilmente traducibile in italiano. Letteralmente: «understand» («comprendere»); «under» («sotto»); «stand» («stare»). ↩︎
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Per Panikkar «l’inerzia della mente è superiore a quella della materia»: R. Panikkar ed al., Pace e disarmo culturale, l’altrapagina, Città di Castello (PG) 1987, p. 11. ↩︎
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Per la nozione di «mito», termine tecnico della filosofia di Panikkar, cfr. ad es. R. Panikkar, Myth, Faith and Hermeneutics, 1979 [tr. it. Mito, fede ed ermeneutica, Jaca Book, Milano 2000]. ↩︎
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L’advaita (o a-dualità, in italiano) è l’idea della relazionalità, della distinzione senza separazione. Essa è irriducibile al monismo (per il quale tutto è uno) come al dualismo (per il quale esistono sostanze eterogenee e separate). Nella sua visione cosmoteandrica (cfr. Id., La realtà cosmoteandrica, Jaca Book, Milano 2004), la coscienza, il cosmico e il divino sono tre dimensioni della realtà reciprocamente irriducibili. Non c’è l’una senza l’altra, ma non sono la stessa cosa. Cfr. anche Id., Saggezza stile di vita, Cultura della pace, San Domenico di Fiesole (FI), pp. 79-80: «Non esiste nessun Dio senza uomo, nessun uomo senza mondo, nessun mondo senza Dio. Questi tre si appartengono. […] La vera visione della realtà scopre in ogni essere, in ogni piccola cosa, sia il Divino che l’umano e il materiale. La chiamo visione cosmoteandrica». ↩︎
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Panikkar ha spesso riassunto questo risultato dicendo che il Pensiero non si identifica con l’Essere: cfr. ad es. Id., L’esperienza filosofica dell’India, p. 94. ↩︎
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L’episodio cui Panikkar si riferisce è narrato in 1Re 3,16-28. ↩︎
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Cfr. R. Panikkar, «Politica e interculturalità», p. 146, in R. Panikkar ed al., Reinventare la politica, pp. 3-30: «Io non posso dire cos’è l’uomo, senza sapere quello che l’uomo pensa di sé. Ma se io penso che l’uomo sia una cosa e poi trovo l’ultima donnetta dell’ultima isola dell’ultimo arcipelago che ne dice un’altra, la mia antropologia è falsa, perché lei pensa di sé una cosa diversa e lei è tanto uomo quanto lo sono io e, a meno che io non abbia già codificato l’uomo e dica «l’uomo è questo» anche quella voce deve essere ascoltata. Questa è la base filosofica del pluralismo, che ogni essere umano, e molto di più ogni cultura, essendo autori della propria autocoscienza, ci dicono quello che l’essere umano è». ↩︎
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«Poiché il testo è tale sempre e soltanto in funzione di un determinato contesto, in che senso è possibile avere affermazioni universali nel momento in cui non esistono contesti universali?»: Id., La realtà cosmoteandrica, cit., p. 35. ↩︎
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«Non esiste certo una prospettiva globale. Ogni prospettiva è limitata, ma esiste sempre la possibilità di uno scambio e anche di un ampliamento di prospettive e il dialogo interculturale mira proprio a questo»: Id., Pace e interculturalità. Una riflessione filosofica, Jaca Book, Milano 2002, p. 9. Cfr. anche Id., «Instead of a Foreword: An Open Letter», p. VII, in D. Veliath, Theological Approach and Understanding of Religions. Jean Daniélou and Raimundo Panikkar: a Study in Contrast, Kristu Jyoti College, Bangalore 1988, pp. V-XIV: «Più trasparente è la finestra attraverso la quale vediamo la realtà, meno siamo coscienti che, dopo tutto, stiamo guardando attraverso una finestra. È necessario l’altro per ricordarci della nostra finestra - sebbene io non stia dicendo che tutte le finestre siano ugualmente pulite. […] Ci sono delle finestre, e qualcuno deve pur assumersi l’impopolare compito di ricordarci del nostro mito - che noi diamo per scontato» (traduzione di P.C.). ↩︎