1. Introduzione
Nel corso della storia della filosofia si sono da sempre contrapposte due scuole di pensiero: il monismo e il dualismo o pluralismo.1 Il monismo è la dottrina che tende alla riduzione della pluralità degli esseri a un unico principio, a un’unica sostanza o a un unico processo. I sistemi filosofico-religiosi orientali sono stati i primi movimenti ad aver condiviso questa concezione, in modo particolare l’induismo. Anche se, a dire il vero, va detto che pur se la tendenza predominante è stata quella di considerare la realtà in chiave monistica, non sempre i testi sacri dell’Oriente sono stati interpretati in questo modo.2 Altresì, nella cultura occidentale, questa visione di pensiero, detta anche panteismo, malgrado alcune varianti, ha avuto diversi sostenitori, dal periodo antico fino all’Età moderna. Tra questi possiamo citare: Plotino (205 d.C.– 270 d.C.), Giordano Bruno (1548 – 1600), Spinoza (1632 – 1677) e Schelling (1775 – 1854).
Il dualismo, invece, è una concezione fondata su un’essenziale dualità di principi ritenuti tra loro inconciliabili, e come tale si tende a considerarla opposta al monismo. Come per la tesi precedente, anche questa ideologia è stata condivisa da diversi filosofi e teologi del passato. Primo fra questi Platone, a cui si deve la suddivisione della realtà tra il mondo sensibile e il mondo delle idee. O ancora, in epoca successiva, Mānī (216 d.C. – 274 d.C.), profeta e predicatore iraniano, fondatore del manicheismo. Dottrina religiosa fondata sull’identificazione di due principi assoluti, il Bene e il Male, in perpetuo e insanabile contrasto tra loro. Agli albori della filosofia moderna, invece, il primo esponente della concezione dualistica è stato Cartesio, ricordato principalmente per aver teorizzato la separazione tra Res cogitans (realtà psichica) e Res extensa (realtà fisica). Seguito successivamente da Kant, che ha contrapposto il noumeno al fenomeno.
In ogni modo, la scuola di pensiero dualistica si è sempre posta in antitesi con la corrente monistica, considerate tra loro indiscutibilmente incompatibili e discordanti. Non è così, però, per alcuni intellettuali del XX secolo che hanno tentato di intraprendere una via conciliante tra le due strade. Sia coloro che hanno sviluppato un sistema di pensiero prettamente circoscritto alla realtà occidentale: Pierre Teilhard de Chardin, Romano Guardini, Paul Tillich, Emil Brunner; sia coloro che hanno tentato un approccio dialogico tra cristianesimo e altre visioni mistiche dell’Oriente: Jules Monchanin, Bede Griffiths, Henri Le Saux e Raimon Panikkar. In questo articolo si intende esporre brevemente il nucleo delle loro teorie, con la speranza che questo percorso possa diventare la nuova frontiera del pensiero filosofico e religioso.
2. La visione conciliante nel contributo che alcuni teologi hanno lasciato all’Occidente
Pierre Teilhard de Chardin (1881 – 1955). Filosofo, teologo e paleontologo francese, Pierre Teilhard de Chardin è stato uno dei più originali pensatori europei della prima metà del XX secolo. La sua riflessione parte dall’idea che «ogni cosa è in rapporto con ogni cosa».3 Questa interconnessione è l’insieme di ciò che costituisce l’universo pensabile, e che egli definisce il Tutto. Ma questo Tutto non ha una valenza impersonale, come pensano la maggior parte delle teorie monistiche. Esso è personale. Infatti, prosegue il filosofo: «L’idea tanto diffusa che il Tutto, anche se inteso in forma spirituale, non possa essere che impersonale, trae evidentemente origine da un’illusione spaziale. Attorno a noi il “Personale” è sempre un “elemento” (una monade); mentre l’Universo si manifesta alla nostra esperienza soprattutto come attività diffuse. Di qui questa impressione persistente che il personale sia un attributo esclusivo del “particolare in quanto tale” e conseguentemente che esso debba decrescere a misura che si compie l’unificazione totale».4 Ma lo spirito del mondo, spiega Teilhard de Chardin, non è un fluido o un’energia. Il Tutto cosmico è un insieme di fibre in movimento che, attraverso il processo di Evoluzione, convergono verso un nucleo centrale che non può identificarsi con Qualcosa, ma con Qualcuno. E chi è questo Qualcuno? Il cristianesimo, che è la religione personale per eccellenza, ci fornisce la risposta: il Cristo-Universale.5 Va tuttavia specificato che l’Evoluzione, per Teilhard, non è in conflitto col cristianesimo, anzi è un fortissimo argomento in suo favore, perché l’Evoluzione passa attraverso il cristianesimo. E non è neppure in conflitto col creazionismo, perché questo non comporta una certa configurazione del mondo materiale, ma soltanto la sua dipendenza da Dio.6 L’Evoluzione è il punto focale del pensiero filosofico-teologico del gesuita francese. Ciò che gli permette di negare qualsiasi tipo di panteismo, da lui definito falso, che conduce l’individuo a dissolversi nell’universale; e ad affermare, invece, un panteismo vero o “pan-cristismo”, che consiste nell’intendere come unità e differenziazione, universale e particolare, possono coesistere. Questo avviene perché l’unità che si realizza in Cristo, differenzia, e il compimento degli sforzi umani che in Lui ha luogo, non si oppone ad essi, ma li potenzia. Ascoltiamo direttamente le sue parole:
Ora riconosco che, al seguito di quel Dio incarnato che esso [il cattolicesimo] mi rivela, io non posso essere salvato che in unità con l’Universo. E in questo modo sono proprio le mie più profonde aspirazioni “panteistiche” che vengono soddisfatte, guidate, rassicurate. Il Mondo attorno a me diviene divino. E quindi né queste fiamme si distruggono, né questi flutti si dissolvono. Perché, al contrario dei falsi monismi che spingono, attraverso la passività, all’incoscienza, il “pan-cristismo” che io scopro pone l’unione al termine di una differenziazione laboriosa. Io non posso diventare l’Altro se non essendo assolutamente me stesso. Io non posso giungere allo Spirito se non liberando fino in fondo le potenze della materia. Il Cristo totale non si compie e non è attingibile che al termine dell’Evoluzione universale. In lui io ho trovato ciò che il mio essere andava sognando: un Universo personalizzato, il cui potere mi personalizza.7
Romano Guardini (1885-1968). Romano Guardini è stato un presbitero e teologo italiano naturalizzato tedesco. Nacque a Verona il 17 febbraio 1885 da genitori italiani, ma già nel 1886 si trasferì con la sua famiglia a Magonza, in Germania, dove il padre ricoprì la carica di console d’Italia.8 La sua filosofia parte dall’esigenza di conoscere la realtà nella sua totalità e insieme nella sua concretezza. Nello scritto L’opposizione polare, pubblicato nel 1925, coglie l’impossibilità di poter perseguire in modo esclusivo sia la via del razionalismo che dell’intuizionismo. Infatti, se da una parte giudica il razionalismo astratto e incapace di cogliere il concreto nella sua individualità, dall’altra considera l’intuizione discontinua e fallace nel tentativo di raggiungere una conoscenza feconda. Questa consapevolezza è stata il motivo di fondo che ha portato il filosofo italo-tedesco a cercare una strada intermedia tra razionalismo e intuizionismo, che individua «nella dottrina gnoseologica della opposizione polare».9 Secondo questa concezione la realtà si presenta come una struttura complessa e può essere sempre osservata da due lati, opposti tra loro, ma non contraddittori. Gli opposti, spiega Guardini, hanno la peculiarità di rimanere, al contempo, distinti e correlati. Nello specifico, il teologo cattolico individua otto coppie di principi polarizzati e le divide in due gruppi: categoriali e trascendentali. Il primo insieme, a sua volta, è composto da coppie intraempiriche: atto-struttura, informale-formale, singolarità-totalità; e da coppie transempiriche: produzione-disposizione, originalità-regola, immanenza-trascendenza.10 L’ultima coppia è una delle più originali di tutto il sistema, poiché presenta l’uomo come un essere vivente che a partire dalla sua corporeità può giungere a fare esperienza del divino, attraverso un percorso graduale che dai sensi esterni giunge alla coscienza, la quale rappresenta il livello di intimità più elevato, quello che apre le porte verso ciò che Guardini definisce «il punto transempirico».11 Il secondo gruppo di coppie, invece, quelle trascendentali, sono: affinità-distinzione e unità-pluralità. Quest’ultima, insieme alla coppia immanenza-trascendenza, è quella che meglio di ogni altra ci permettere di capire il pensiero del religioso in questione. Essa, infatti, «esprime la correlazione tra la necessità, per un verso, che tutti gli opposti siano presenti simultaneamente nel concreto vivente (unità) e, per l’altro verso, l’esigenza che non siano presenti allo stesso modo (pluralità)».12 Lo scopo di Guardini, in sostanza, è stato quello di riuscire a elaborare una visione della realtà in cui universale e particolare convivono armoniosamente, senza negarsi. Nello stesso modo in cui, singolarità e universalità configurano il sistema trinitario. A questo proposito, scrive Sommavilla:
Attraverso la porta aperta della Rivelazione biblica, l’idea degli opposti (o correlazioni) è in grado, quant’altre mai, di portare la fides a cercarsi un intellectum nell’intimo del mistero trinitario, per poi scendere di lì a meglio interpretare le categorie bibliche della realtà umana e cosmica: la creazione, la libertà, la persona.13
Paul Tillich (1886-1965). Nato a Starzeddel il 20 agosto 1886, un piccolo villaggio della Germania settentrionale, Paul Tillich viene considerato, in molti ambienti, il più grande teologo protestante del secolo scorso. Uno dei temi dominanti del suo pensiero è costituito dal principio di correlazione. Questo principio sostiene la necessità di pensare qualsiasi realtà insieme ad un’altra realtà, sulla base del fatto che ogni cosa è legata da un rapporto di reciproca dipendenza. Questa dipendenza implica una reciproca subordinazione tra tutti gli elementi della realtà, i quali non possono esistere che insieme. In questa prospettiva diventa impossibile ammettere l’eventualità che uno di questi distrugga l’esistenza dell’altro. Ad esempio, l’io non può esistere senza il mondo, né il mondo senza l’io; la filosofia non può esistere senza teologia né la teologia senza la filosofia; la fede non può esistere senza il dubbio né il dubbio senza la fede; la domanda non può esistere senza la risposta né la risposta senza la domanda; la partecipazione non si effettua senza l’individuazione né l’individuale senza la partecipazione, e così via… D’altronde, scrive Tillich: «un opposto solitario è impossibile tanto nell’essere quanto nel pensiero». In altri termini, un opposto non potrebbe esistere se non ci fosse quell’elemento della realtà che lo determina come opposto e grazie al quale il concetto stesso di opposto acquista senso. Continua Tillich: «ciò significa che gli opposti non sono distinti fino in fondo, ma che c’è un punto d’incontro. E dal punto d’incontro nasce l’unità delle cose il cui essere è intessuto di correlazioni».14 Vi è, tuttavia, nel sistema tillichiano, una correlazione superiore rispetto a tutte le altre, in grado di armonizzare e conciliare tutte le altre interconnessioni possibili. Si tratta del rapporto verticale che, andando dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso, mette in comunione l’uomo con Dio e Dio con l’uomo, all’interno di un sistema che è al contempo unico e plurimo. Rimarca Tillich:
La realtà non è altro che un mirabile, complicatissimo intreccio di correlazioni. Queste l’attraversano in tutte le direzioni e la compenetrano in tutte le sue dimensioni. Però c’è una correlazione che ha una priorità assoluta su tutte le altre: è la correlazione che interseca la realtà verticalmente, dal basso all’alto (e viceversa), dall’uomo a Dio (e viceversa).15
Emil Brunner (1889-1966). Emil Brunner nacque il 23 dicembre 1889 a Winterthur, in Svizzera. Dopo aver conseguito la maturità liceale nel 1908, si dedicò completamente agli studi teologici, prima a Zurigo, poi a Berlino e New York, e infine nuovamente a Zurigo, dove conseguì il dottorato in teologia nel 1913. Qui insegnò teologia dal 1926 fino alla sua morte. Da buon teologo protestante, Brunner si schierò sin da subito a favore della teologia dialettica, movimento teologico promosso da Karl Barth, altro grande intellettuale del Novecento. Il fulcro di tutto il suo pensiero ruota attorno a una ideologia di fondo molto semplice: «Qualsiasi discorso concernente Dio è necessariamente “paradossale”16». Questo significa che è solamente attraverso la contraddizione fra due idee, come ad esempio Dio e l’uomo, grazia e responsabilità, santità e amore, che si può afferrare la verità contraddittoria che il Dio eterno entra nel tempo, o che l’uomo peccatore è dichiarato giusto. Pertanto, continua Brunner: «La teologia dialettica è quel modo di pensare che difende questo carattere paradossale proprio dalla conoscenza religiosa, dalle speculazioni non paradossali della ragione».17 O ancora, riporta:
Se la fede significa che il pensiero e la volontà dell’uomo capitolano di fronte alla verità e alla volontà di Dio, allora la teologia non potrà mai essere altro che un tentativo di trascrivere, in qualche modo, la controversia tra la Parola di Dio e il pensiero dell’uomo. Perciò una teologia genuina non può essere che dialettica.18
L’accordo con Barth sembra perfetto, ma diverge su un punto fondamentale: il rapporto che si instaura tra gli opposti, che costituisce il cuore di questa dottrina. Infatti, mentre per Barth la dialettica significa essenzialmente conflitto e assoluta inconciliabilità fra gli opposti, Brunner ritiene che per rendere possibile un’effettiva dialettica sia necessario riconoscere ad entrambi gli opposti un’effettiva consistenza ontologica e porli non in una posizione di alienazione, ma di attrazione reciproca.19 Con Brunner, Teilhard de Chardin, Romano Guardini e Paul Tillich, la riflessione religiosa si libera da quell’atteggiamento eccessivamente individualista tipico dell’Età moderna, e si avvolge di una veste armonica, in cui il riconoscimento del diverso diventa un passo preliminare e necessario per accettarsi come parte viva dell’unica realtà cosmica.
3. La visione conciliante come proposta per un’armonia tra Oriente e Occidente20
Jules Monchanin, Bede Griffiths, Henri Le Saux e Raimon Panikkar vanno annoverati tra i teologi che hanno tentato di trovare una strada d’incontro tra cristianesimo e induismo, la madre delle religioni asiatiche. Per fare questo si sono serviti di un espediente teologico che la tradizione orientale ha quasi sempre interpretato in senso monistico: l’Advaita Vedanta (Advaita significa non-dualità secondo la traduzione che ne hanno dato la maggior parte degli studi europei. Vedanta, invece, significa fine dei Veda, che è uno dei testi sacri indù).21 Basti ricordare Shankara, teologo indiano vissuto intorno all’VIII secolo d.C., che ha inteso questo principio in chiave panteistica, secondo cui Dio equivale al tutto.22 Per i nostri teologi, invece, esso costituisce la più sublime delle ricchezze indù perché la sua essenza rappresenta la stessa del mistero trinitario: uno e plurimo al contempo. Scoperta che permette loro sia di intraprendere una via mediana tra monismo e dualismo, sia di porre le basi per un fruttuoso dialogo interreligioso.
Jules Monchanin (1895-1957). Jules Monchanin è stato un presbitero francese, uno dei primi promotori del dialogo interreligioso tra cattolicesimo e induismo. La sua riflessione filosofico-religiosa parte dal concetto di persona,23 che egli traduce con relazione o partecipazione. Secondo il teologo francese la Trinità va concepita in termini personali piuttosto che di sostanza.24 Per cui Padre, Figlio e Spirito sono persone, ossia relazione, nella stessa misura in cui l’uomo è persona, cioè relazione. Questo perché se Dio, Essere supremo, è persona, lo è anche l’uomo, la cui rivelazione rappresenta l’immagine divina. Tuttavia, questa relazionalità, e ancor di più la piena partecipazione che si instaurerà dopo la morte corporale tra uomo e Trinità, non viene intesa dal filosofo francese come una identità di essenza. Per quanto intimo sia questo legame e forte questa unione d’amore, la distinzione ontologica tra conoscente e conosciuto non verrà mai meno, Dio resterà sempre il Trascendente, il Totalmente-Altro. La teologia della persona sviluppata da Monchanin si pone come via intermedia tra monismo e dualismo. Infatti, se da una parte il concetto di persona, inteso nel senso di relazione, gli permette di concepire l’universo (Trinità, uomo, mondo) in modo unitario, dall’altra questa comunione non può prescindere da una necessaria differenziazione degli elementi che compongono il tutto-cosmico.25 L’obiettivo di fondo di questa visione teologica è stato quello di tentare una chiave di lettura del sistema vedanta in chiave trinitaria. Del resto, lo stesso Monchanin dichiarò di aver incontrato una interpretazione del pensiero di Shankara, da lui elaborata, che quasi sembrava ipotizzare il concetto cristiano di relazione. A questo proposito scrive:
C’è un vedantista contemporaneo, Kokileswar Sâstri Vidyâratna (An introduction to Advaita Philosophy) che mi è di sprone (rifiuta la mâyâ; Shankara non è un “acosmista”, il suo è un Dio personale e libero - interpretazione questa che avvicina curiosamente Shankara a Râmânuja). La mia ricerca e la mia meditazione (tra loro intrecciate) sono sempre più centrate sull’unità trinitaria - l’unità del co-esse creato (divenire) - l’unità di queste due unità nel Verbo incarnato e nello Spirito inviato. […] L’enstasi pura (yoga) si transustanzia nello Spirito in pura estasi, partecipazione, quest’ultima, alle Ipostasi; ed è la stessa conversione di quella del dolore del Venerdì Santo nella gioia pasquale. L’India è mia….26
Bede Griffiths (1906-1993). Sacerdote inglese e monaco benedettino, Bede Griffiths visse gran parte della sua vita in India, dove seppe ben armonizzare lo spirito benedettino con le scienze moderne e la spiritualità cristiana con la sapienza indiana. Il monaco anglosassone, nel saggio Vicino e inaccessibile. Vedanta e fede cristiana, dopo aver assodato che nel cristianesimo, come per l’esperienza indù, e più propriamente nel pensiero elaborato da Shankara riguardo le Upanishad, il concetto di Dio, pur se personale può essere inteso anche in termini Assoluti, come puro Essere indeterminato,27 si chiede come poter armonizzare questa visione con l’idea di una differenziazione tra Dio e uomo-mondo. La risposta la trova nella dottrina cristiana della creazione. Questa sostiene che il mondo né aggiunge e né toglie niente all’essere di Dio. Prosegue Griffiths: «Dio solo è l’Essere e nient’altro “esiste” allo stesso modo con cui Dio esiste. Però si può dire che il mondo esiste come un’“immagine” di Dio, come un riflesso del suo essere».28 Il religioso anglosassone esprime questa idea ricorrendo alla distinzione aristotelica, ripresa successivamente da Tommaso d’Aquino, tra atto e potenza. Sostiene, dunque, che il mondo è in sé stesso un essere potenziale, ma non un essere attuale. Solo Dio è in grado di dare attualità, forma, vitalità al mondo, il quale non ha esistenza in sé stesso, o meglio, esiste solo in qualità di materia prima, come mera potenzialità dell’essere.29 In questo modo riesce a superare l’apparente impossibilità di raccordare monismo e dualismo, riconosce una perfetta sintonia tra induismo e cristianesimo, e può concludere:
Possiamo noi interpretare ciò nel senso che il mondo ha un essere reale che deriva interamente da Dio (che è un semplice riflesso dell’essere di Dio), mentre in sé stesso ha una mera potenzialità di essere, una specie di “non essere”, che limita il suo essere e lo distingue da Dio? Questo principio di “potenzialità” non corrisponde forse molto da vicino al “maya” di Sankara?30
Henri Le Saux (1910-1973). Henri Le Saux nacque in Francia il 10 agosto 1910. Dopo essere stato consacrato monaco benedettino all’età di trentacinque anni, lavorò come bibliotecario e professore. Alla fine della prima metà del XX secolo, entrò in contatto con Monchanin e decise di trasferirsi in India, anche lui affascinato da quel misterioso mondo esotico. Nel volume Tradizione Indù e mistero trinitario, invita i cristiani ad aprirsi, senza remore, all’esperienza mistica dell’induismo e a vivere concretamente la loro missione di religione universale, con la consapevolezza che, come insegnano i vedanta,31 né le scritture e il culto indù, né i dogmi e i sacramenti cristiani hanno valore definitivo.32 «Essi sono tutti simili alla zattera di cui parlò spesso il Buddha: se ne fa uso per attraversare il fiume, oppure se non c’è, la si può costruire da soli, ma nessuno penserà di portarla con sé, una volta raggiunta l’altra riva. Sono come il tizzone ardente di cui parla l’Upanisad: lo si adopera per accendere il lume, ma lo si lascia senz’altro pensiero non appena la lampada si sia accesa».33 Per tale ragione, invita il cristianesimo34 e gli altri monoteismi occidentali35 ad accogliere la concezione dell’Advaita, vedendo in essa un espediente teologico analogo al sistema trinitario, e pertanto un mezzo indispensabile per riflettere in profondità sugli insegnamenti più autentici delle religioni abramitiche.36 Infatti, come Monchanin, anche Le Saux cerca di far convivere promiscuamente, senza antitesi, unità e pluralità. Leggiamo le sue parole:
La distinzione e la diversità delle persone umane è il riflesso creaturale della distinzione e della diversità dei Tre nel mistero di Dio, e non possono dunque essere rettamente intese se non alla luce dell’advaita o non dualità delle stesse Persone divine. Nella trinità tutto è comune ai Tre, eppure tutto ciò che hanno in comune è posseduto da ciascuno in maniera unica e incomunicabile.37
Raimon Panikkar (1918-2010). Raimon Panikkar, filosofo, teologo e scienziato indo-catalano, apprese con grande entusiasmo gli insegnamenti di questi tre uomini. Condivise con interesse il loro modo di pensare, seppur con alcune varianti, ed elaborò una propria concezione di Advaita, anche da lui considerata il collante tra Oriente e Occidente. Poliedrico e mai scontato, lo studioso di origini spagnole affrontò la questione sia da una prospettiva prettamente filosofica che religiosa. In questa sede si ritiene sufficiente discutere solo su quella teologica. Una testimonianza fondamentale del modo in cui Panikkar si è accostato al tema dell’Advaita ci viene fornita dalle riflessioni sulle Upanishad (la parte finale del testo vedico), da lui magistralmente esposte nel volume I Veda. Mantramañjari, scritto nell’arco di dieci anni, a partire dal 1966. Qui, Raimon, meditando sul testo sacro per eccellenza dell’induismo, sostiene che esso, da una parte «enuncia il primato dell’Uno in modo incontrovertibile»,38 al punto che la parola advaita arriva a significare «Unità piena e senza compromessi»;39 dall’altra «lascia spazio al pluralismo, non come antagonista dell’Uno, ma come esaltazione di un’effettiva unità».40 Il libro vedico, dunque, ammetterebbe la possibilità di un’armonia tra l’Uno e il molteplice, ma si tratta di una concordia che non riduce né l’unità alla molteplicità né la molteplicità all’unità. L’Uno si manifesta nella pluralità, ma rimane pur sempre separato da essa. Le Upanishad lo esprimono chiaramente:
Come il fuoco che è uno, penetrando la creazione, conforma la sua forma alla forma di ogni essere, così anche l’Uno, l’ātman dentro tutti gli esseri, assume tutte le forme, eppure esiste all’esterno. Come il vento che è uno, penetrando la creazione, conforma la sua forma alla forma di ogni essere, così anche l’Uno, l’ātman dentro tutti gli esseri, assume tutte le forme, eppure esiste all’esterno. Come il sole, l’occhio dell’intero mondo, non è toccato dalle imperfezioni esterne viste dall’occhio, così l’Uno, l’ātman dentro tutti gli esseri, non è toccato dalle sofferenze del mondo. Egli resta separato.41
In questo modo Panikkar scopre l’esistenza di un evidente dinamismo insito nel cuore di questa unità. Un dinamismo che rappresenta l’essenza costitutiva dell’Uno, il quale, per sua stessa natura, desidera «essere molti e prolificare».42 Alla luce di questa visione, si può dire che la parte conclusiva de I Veda, per il teologo indo-catalano, richiama l’idea di un Dio che non può dirsi né solamente immanente e né esclusivamente trascendente. Egli è entrambe le cose, poiché, scrive Raimon: «è all’interno e all’esterno, personale (com’è nel mito di Prajapati) e impersonale (com’è nell’intuizione dell’Uno che emerge dal Nulla), Essere e Non-essere. Egli è il Signore proprio perché non è limitato da nessuna coppia di opposti».43 Infatti, spiega in un libro intervista realizzato dal giornalista e vaticanista Raffaele Luise, che nell’“Inno ad Agni”,44 contenuto nel Rg Veda, il divino si presenta in forma polimorfa, come «l’essere del fiume e della foresta»45 che indurisce il fango, fa seccare le piante, può apportare vita o morte, ma che allo stesso tempo «passa in alto»,46 trascende sempre il mondo della natura e della mente. A questo punto, però, la domanda sorge spontanea. Com’è possibile conciliare unità e pluralità? Com’è possibile che nell’Uno ci sia posto per il pluralismo senza distruggere l’unità? O ancora: c’è qualcosa che consente il movimento, le differenziazioni, la vita, senza intaccare l’Uno? Quale tipo di pluralità può coesistere con l’unità?
Su questo punto Panikkar obietta senza esitare: «La risposa del mahāvākya è chiara: la coscienza, e la coscienza soltanto può assumere la molteplicità senza porre in pericolo l’unità. Nel mondo dell’esperienza umana, in realtà, la coscienza è la sola facoltà che abbraccia il molteplice senza perdere la propria identità e unità».47 Infatti, i molteplici oggetti e contenuti della coscienza48 non rompono la sua unità, anzi la fortificano. I dati che provengono dall’esperienza, nella loro varietà, dopo essere stati captati dal singolo, confluiscono nei meandri più profondi della coscienza. Qui convergono in unità senza perdere i tratti peculiari della loro diversità. E la consapevolezza di questa coscienza, una e molteplice al contempo, è ciò che potenzia la sua azione unificante.49 Si tratta di una delle esperienze umane più profonde e rivoluzionarie, poiché è proprio questa percezione che distingue gli uomini dagli altri esseri viventi e rende l’uomo realmente tale. Ma la coscienza individuale o ātman non è la coscienza pura, che è Brahman, la sorgente e il fine ultimo di tutte le cose. Per cui, l’idea di un’armonia tra unità e pluralità non può prescindere anche dalla consapevolezza della coscienza pura oltre che di quella individuale.50 Da cosa si differenziano le due coscienze? La coscienza individuale implica un movimento nei confronti dell’oggetto, finalizzato alla conoscenza di quest’ultimo, la coscienza pura, invece, non implica un volgersi dell’individuo verso l’oggetto, ma verso il soggetto, cioè verso colui che conosce.51 Tuttavia, non è possibile conoscere colui che conosce, «poiché se, per ipotesi, si potesse conoscere colui che conosce, per questo stesso fatto esso cesserebbe di essere il “conoscitore” e diventerebbe il conosciuto. […] Nella ricerca della coscienza pura dobbiamo eliminare ogni possibile oggetto».52 Pertanto, la coscienza pura è inconoscibile. Dove nulla si vede e dove nulla si capisce là c’è l’infinito. Su questo argomento, Raimon afferma che le Upanishad sono molto coerenti e prive di retorica, e a proposito di Brahman rammentano: «Non è capito da coloro che capiscono. / È capito da coloro che non capiscono».53 Stando così le cose si potrebbe replicare: se la coscienza pura, ossia Brahman, non può essere conosciuto, come si può arrivare a comprendere l’unione tra l’anima individuale e l’Assoluto, senza che questa intacchi la pluralità? E Panikkar risponde:
Non si può certo conoscere colui che conosce, ma si può fare di più che conoscere solo il “conosciuto”; si può conoscere insieme a colui che conosce, si può divenire colui che conosce, cosicché non si avrà più bisogno di conoscere colui che conosce perché saremo divenuti il conoscitore stesso. Questo movimento dello spirito umano conduce dall’impersonale al personale, dal teologico all’esistenziale.54
Questo processo si attua quando l’individuo smette di osservare la realtà attraverso forme a cui attribuisce dei nomi, e pone l’attenzione su ciò che di effettivo costituisce il proprio essere. A questo proposito le Upanishad riportano alcune immagini significative che aiutano a comprendere meglio il senso di questo discorso. Ad esempio, il sale disciolto nell’acqua non cessa di essere sale solo perché ha perso la sua forma. Anzi, esso diviene ancor più veramente sé stesso, mettendo all’opera il suo compito di rendere salate le cose, rispetto a quanto non avrebbe fatto se fosse rimasto un semplice grano di sale.55 In modo analogo, gli atomi di una molecola sono più sé stessi, hanno un più alto grado di realtà quando formano un aggregato più complesso di quando sono isolati.56 O ancora, emblematico è l’esempio delle gocce d’acqua che, dissolvendosi nel fiume così come il fiume si dissolve nell’oceano, diventano simboli del nostro destino.57 Tutte le cose, in particolare gli esseri umani, possono essere considerate gocce d’acqua che partecipano del singolo Uno e si manifestano come suoi riflessi. Esse, tuttavia, nonostante si dissolvono nell’unità, rimangono comunque individualizzate.58 A questo proposito, si chiede Panikkar: che cos’è la goccia d’acqua? È la goccia dell’acqua o l’acqua della goccia? E senza indugiare risponde: quando la goccia scompare nell’oceano scompare come goccia d’acqua e rimane come acqua di quella goccia. In questo modo essa ha realizzato e intensificato tutte le sue potenzialità come acqua. Ciò significa che se associassimo la dimensione superficiale della goccia all’individualità della persona e l’acqua alla sua personalità, potremmo sostenere che quando un essere umano muore, la sua individualità scompare ma la sua personalità rimane e persino si accresce. Per Panikkar, l’equivalenza ātman-brahman, così come viene espressa dalle Upanishad, cioè il divenire della coscienza individuale coscienza pura, va intesa in questo senso. Questa uguaglianza sta a significare che gli esseri viventi sono acqua e non semplicemente gocce separate. L’equazione, prosegue Raimon: «dice che la “sostanza” che sta sotto, è uguale all’“essere” che sta sopra, che la divina trascendenza corrisponde alla divina immanenza, e che l’una implica l’altra. Tuttavia, non le identifica in modo indiscriminato».59 Si compie così, anche per lui, la realizzazione di una perfetta conciliazione tra monismo e dualismo. Armonia che irradia sintomi di verità.
4. Conclusione
Qual è dunque l’insegnamento che questi teologi-filosofi ci hanno lasciato? Per rispondere a questa domanda dobbiamo capire innanzitutto quale è stata la ragione che ha spinto questi uomini a sprigionare le loro idee. In aiuto ci viene la citazione del filosofo russo Nikolaj Aleksandrovič Berdjaev, ripresa dal professor. Vittorio Possenti nell’introduzione del volume La questione della verità. Filosofia, scienze, teologia: «Il vero scopo della vita è la conoscenza esistenziale e integrale della verità».60 Questi intellettuali non hanno fatto altro che rispondere a tale vocazione di vita: ricercare la verità, e soprattutto trovare un modo, una strada, che potesse aiutare gli altri a farlo. Un insegnamento di non poco conto se si capisce il valore autentico che i nostri teologi hanno voluto assegnare al concetto di verità. Il pastore protestante Dietrich Bonhoeffer coglie appieno il senso profondo di questa autenticità quando nel saggio Che cosa significa dire la verità?, riporta questo breve e significativo racconto:
Un maestro chiede a un bambino dinanzi a tutta la classe se è vero che suo padre spesso torni a casa ubriaco. È vero, ma il bambino nega […]. Nel rispondere negativamente alla domanda del maestro, egli dice effettivamente il falso, ma in pari tempo esprime una verità, cioè che la famiglia è un’istituzione sui generis nella quale il maestro non ha diritto di immischiarsi. Si può dire che la risposta del bambino è una bugia, ma è una bugia che contiene più verità, ossia che è più conforme alla verità che non una risposta in cui egli avesse ammesso davanti a tutta la classe la debolezza del padre.61
Bonhoeffer profila una concezione della verità a più dimensioni, in cui il rapporto umano è più importante della descrizione oggettiva di come stanno le cose. Si tratta di una verità che va oltre il dato di fatto e assegna maggiore importanza alla qualità delle relazioni. Una verità più intima, che non si sofferma sull’apparenza, su ciò che si può constatare al primo impatto, ma va oltre. Scava in profondità. Infatti, il bambino, negando l’ubriachezza del padre, nega solo la parte più superficiale di questa verità, quella dell’esattezza, ma la afferma a un livello superiore, che è «misura, giustizia, bene, bellezza, decoro».62 Tutte qualità che il bambino ha difeso salvaguardando la figura del padre di fronte la domanda del maestro. A questo proposito, scrive Vito Mancuso:
La verità è molto più che esattezza, perché l’esattezza dice solo un aspetto particolare della realtà. La verità invece è l’intero delle relazioni, e in essa si può entrare solo mediante l’adeguazione della nostra intelligenza e della nostra volontà alla totalità del reale, un’adeguazione che richiede grande intelligenza emotiva e grande umiltà.63
L’intero, dunque, è la verità, come sosteneva anche Hegel. E i teologi di cui abbiamo parlato ci aiutano a guardare la realtà nella sua totalità, a capire che la verità non è una questione che riguarda una o più visioni della vita, ma l’armonia tra queste. Non si può affermare unicamente l’unità del reale e negare la sua pluralità, come non si può affermare solamente la pluralità del reale e negare la sua unità. È necessario sviluppare un modo di pensare flessibile, dinamico, che conduca l’essere umano a capire che la verità non è riducibile a un pensiero, a un’ideologia, o a un movimento, ma è il prodotto di un esercizio conciliante tra più espressioni della realtà. Questo è l’insegnamento che questi grandi pensatori del XX secolo ci hanno voluto lasciare. Si tratta di uno sforzo mentale che ci porta a capire alcuni atteggiamenti che al primo impatto potrebbero sembrare non etici. Ad esempio, senza le ribellioni e gli atti di boicottaggio perpetrati dai neri del nord America tra gli anni ’50 e ’60 del Novecento, non si avrebbe avuto un’attenuazione significativa del fenomeno razziale. Attenzione, questo non vuol dire giustificare la violenza, ma capirla. Capirla in virtù di un beneficio supremo, quale appunto, la presa di coscienza, se non per tutti almeno per qualcuno, dell’insignificanza delle discriminazioni razziali. Ma gli esempi possono essere innumerevoli.64 Diceva il cardinale Carlo Maria Martini, riprendendo un’espressione di papa Gregorio Magno: «Pro veritate adversa diligere»,65 cioè per amore della verità bisogna amare anche le cose avverse. Ciò significa accettare il diverso, i pensieri e le azioni altrui anche se queste non collimano con il nostro modo di pensare e di essere. Si tratta di un riconoscimento che non deve avvenire perché l’altro possiede la verità assoluta, ma una delle tante singole verità, la quale, anche se non combacia con la nostra rimane pur sempre una verità, e come tale bisogna accettarla. Questa consapevolezza, se acquisita all’unanimità, si presenta come l’unica via in grado di apportare pace, armonia, concordia e benessere nelle relazioni umane. In tutti gli ambiti, da quello sociale a quello politico, da quello scientifico a quello religioso. Essa è la chiave della comprensione.
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W.A. Dyrness - V.-M. Kärkkäinen - J.F. Martinez, et al. (a cura di), Global Dictionary of Theology, ivp, Downers Grove 2008, p. 582. ↩︎
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Y. Ramacharaka, Le religioni dell’India misteriosa, trad. di E. Zanotti, Fratelli Melita, Genova 1990(2), pp. 77-104. ↩︎
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P. Teilhard de Chardin, Comment je crois, Éditions du Seuil, Parigi 1969, pp. 120-124. ↩︎
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Ivi, pp. 134-137. ↩︎
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Ivi, pp. 145-146. ↩︎
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B. Mondin, I grandi teologi del secolo ventesimo. I teologi cattolici, Borla, Torino 1969, vol. I, p. 69. ↩︎
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F. Ardusso - G. Ferretti - A.M. Pastore, et. al., La teologia contemporanea. Introduzione e brani antologici, Marietti, Torino 1980, pp. 384-385. ↩︎
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J. Laubach, Romano Guardini, in L. Rheinisch (a cura di), Theologians of our Time, Notre Dame University Press, Notre Dame (India) 1964, pp. 109-126. ↩︎
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R. Gibellini, La teologia del XX secolo, Queriniana, Brescia 2004(7), p. 233. ↩︎
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R. Guardini, L’opposizione polare, in G. Sommavilla (a cura di), Scritti filosofici, Fabbri, Milano 1964, vol. I, pp. 231-247. ↩︎
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Mondin, I grandi teologi del secolo ventesimo. I teologi cattolici, p. 101. ↩︎
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Ivi, pp. 101-102. ↩︎
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Questa riflessione è tratta dall’introduzione scritta da Sommavilla sul primo dei due volumi, da lui curati, sugli scritti di Romano Guardini. La citazione continua così: «Questi saranno infatti i temi ai quali il Guardini ha donato in seguito e in modo imponente la propria finissima attenzione speculativa. Con uno strumento euristico quale è quello dell’idea degli opposti egli partiva, per trattarne, da posizioni privilegiate». Cfr. Sommavilla (a cura di), Introduzione, in R. Guardini, Scritti filosofici, p. 26. ↩︎
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Riguardo al principio di correlazione e in particolare le citazioni virgolettate cfr. A.J. McKelway, The Systematic Theology of Paul Tillich: A Review and Analysis, J. Knox, Richmond 1964, vol. I, pp. 60-66, 168-204; vol. II, pp. 13-16, 19 e ss. ↩︎
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B. Mondin, I grandi teologi del secolo ventesimo. I teologi protestanti e ortodossi, Borla, Torino 1969, vol. II, pp. 98-99. ↩︎
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Sulla dottrina della teologia dialettica cfr. L. Malevez, Théologie dialectique, théologie catholique et théologie naturelle, Recherches de science religieuse, 28 (1938), pp. 385-449; 527-569. ↩︎
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Mondin, I grandi teologi del secolo ventesimo. I teologi protestanti e ortodossi, p. 69. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, pp. 69-70. ↩︎
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Buona parte di questo paragrafo è tratta dalla mia tesi di dottorato, ancora in corso. ↩︎
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A. Sharma, Advaita Vedanta. An introduction, Motilal Banarsidass, Delhi 2004, p. 10. ↩︎
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N. Isayeva, Shankara and Indian Philosophy, State University of New York Press, Albany 1993(2), p. 3: «The system of Śaṅkara is called Advaita-Vedanta, that is, non-dual Vedanta; its task is to teach about eternal Brahman as the higher and only reality». ↩︎
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J.G. Weber (a cura di), In Quest of the Absolute. The Life and Works of Jules Monchanin, A.R. Mowbray & Co Ltd, London 1977, p. 148. ↩︎
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La prospettiva antropologica di Monchanin si fonda sulle riflessioni patristiche intorno alla categoria della relazione. Elaborate, però, alla luce di un personalismo orientato a Cristo. Cfr. J. Monchanin, Mistica dell’India, mistero cristiano, a cura di C. Conio, trad. di G. Cestari, Marietti, Genova 1992, p. 116: «La persona umana può essere raffigurata da una elisse a due fuochi: la sua ipseità (il suo “per sé”, il suo “esse sibi”) incomunicabile, e la sua relazione, la sua essenziale comunicabilità (il suo “esse ad”). Metafisicamente parlando, non è detto che alla costituzione della persona umana concorra meno la sua relazione all’altro, a tutti gli altri e al Totalmente-Altro di quanto contribuisca la sua stessa ipseità». ↩︎
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Weber (a cura di), In Quest of the Absolute. The Life and Works of Jules Monchanin, p. 154: «Dal punto di vista sia della filosofia della persona che del pancristismo, l’unione ipostatica della Parola con ogni coscienza è realtà, ma non attraverso l’equivalenza delle coscienze tra loro stesse e con Dio». ↩︎
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Monchanin, Mistica dell’India, mistero cristiano, p. 150. ↩︎
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B. Griffiths, Vicino e inaccessibile. Vedanta e fede cristiana, trad. di C. Crivelli, EMI, Bologna 1977, p. 28: «La tradizione cristiana si unisce così a quella indù nel vedere Dio come un “oceano d’essere senza dualità”, perché il dire che l’essere divino è pura esistenza senza limitazione o qualificazione alcuna è come dire che esso è assolutamente semplice e “senza dualità”». ↩︎
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Ivi, p. 77. ↩︎
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Ivi, p. 78: «Si può esprimere questo in un altro modo dicendo che il mondo è in sé stesso un essere potenziale, ma non un essere “attuale”. Il concetto di “potenzialità” fu introdotto in filosofia da Aristotele, in risposta al problema posto da Parmenide ed Eraclito riguardo all’“essere” e al “divenire”, ed è uno dei più profondi concetti della filosofia aristotelica. Fu ripreso da san Tommaso d’Aquino e divenne uno dei concetti chiave della sua teologia. Una pietra o un pezzo di legno, secondo Aristotele, hanno la “potenza” o “potenzialità” di diventare una statua. Questa è una “potenzialità” passiva, una potenzialità che non può realizzare sé stessa, ma che può essere realizzata da uno scultore, il quale le dà “forma” od “attualità”». ↩︎
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Ivi, p. 79. ↩︎
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Le principali correnti dei Vedanta sono sei: la corrente di Shankara (VIII secolo), da cui deriva la teoria dell’Advaita, la corrente di Rāmānuja (XI secolo), la corrente di Madhva (XIII secolo), la corrente di Nimbārka (XIV secolo), la corrente di Vallabha (XV-XVI secolo) e la corrente di Caitanya (XVI secolo). ↩︎
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H. Le Saux, Tradizione Indù e mistero trinitario, trad. di F. Poli, EMI, Bologna 1989, p. 66. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, pp. 72-75. ↩︎
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Ivi, pp. 65-71. ↩︎
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Ivi, p. 69: «Agli occhi dei vedàntin la proclamazione della trascendenza divina da parte di ebrei e musulmani è invalidata dal fatto stesso che essi osano enunziarla. Prosternarsi davanti a Dio è senza dubbio una cosa nobilissima; ma, nell’atto stesso della prosternazione, non sta il credente affermandosi contro Dio? Non presume forse di misurare Dio con il suo metro umano, nell’istante stesso in cui proclama che Dio sta oltre ogni misura? […] non v’è più nulla da dire: resta solo l’advaita come unica verità definitiva». ↩︎
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Ivi, pp. 167-168. ↩︎
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R. Panikkar, I Veda. Mantramañjari, a cura di M. Carrara-Pavan, Bur, Milano 2018(3), p. 897. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, p. 909 (KathU V,9-11). ↩︎
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Ivi, p. 897. ↩︎
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R. Luise, Raimon Panikkar. Il profeta del dopodomani, San Paolo, Roma 2011, p. 63. ↩︎
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Così recita l’“Inno ad Agni”, il dio del fuoco sacro e sacrificale, il mediatore per eccellenza, il fuoco che è nel sole e nel cuore dell’uomo, che è il simbolo vedico che meglio rappresenta il dominio del Signore che è vicino all’uomo, benignamente disposto, intimamente legato alla sua vita, l’ospite della sua dimora, dispensatore di benedizioni: «A lui salgono questi inni, queste preghiere veloci come destrieri. / Egli solo ode le mie parole. Egli che tutto muove, che tutto conquista, / che trasmette il sacrificio, il Fanciullo, sempre soccorritore… / Egli è un essere del fiume e della foresta / che passa in alto. / Conoscendo la legge egli ispira la retta azione, / questo saggio è vero Signore». Cfr. ivi, p. 64. ↩︎
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Cfr. supra. ↩︎
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Cfr. supra. ↩︎
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Panikkar, I Veda. Mantramañjari, p. 914. ↩︎
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Sul concetto di coscienza, utile per capire la speculazione panikkariana, si esprime magistralmente Agostino d’Ippona nel De Trinitate. Il teologo nordafricano sostiene che la coscienza umana è una simbiosi di forze diverse: intelletto, volontà e memoria. L’intelletto racchiude l’insieme delle concezioni teoriche o razionali dell’uomo, la volontà consiste in desideri o pulsioni individuali, diversi in ciascuno e la memoria raccoglie il complesso delle esperienze che ognuno svolge nella propria vita. Ma mentre negli esseri contingenti questi tre involucri coincidono solo parzialmente, nell’Assoluto coincidono in tutto. La questione è stata affrontata dal prof. Hans Christian Schmidbaur nel corso di Teologia naturale/filosofica tenuto presso la Facoltà di Teologia di Lugano, in data 06/10/2020. Per un approfondimento cfr. S. Biolo, La coscienza nel De Trinitate di s. Agostino, Libreria editrice dell’Università Gregoriana, Roma 1969. Su questo argomento si è espresso, in tempi più recenti, anche il teologo Vito Mancuso. Egli individua tre livelli di coscienza. Il primo livello è quello della coscienza base, che possiedono tutti gli esseri viventi, e consiste nell’elaborazione di informazioni che provengono dall’esterno, il cui prodotto finale è la cognizione. Il secondo livello è l’autocoscienza. Esso si raggiunge quando non si ha solo cognizione del mondo esterno, ma anche di sé stessi in quanto totalmente diversi dal mondo esterno. Infine, c’è il terzo livello, la coscienza morale, che nasce nel momento in cu si prendono le distanze dal proprio vissuto guardandolo come dall’alto, come se fosse quello di un’altra persona: se ne osservano le azioni e le omissioni, le parole e i silenzi, i sentimenti e i risentimenti, li si pensa, li si soppesa e li si giudica. Cfr. V. Mancuso, Il coraggio e la paura, Garzanti, Milano 2020, pp. 101-106. ↩︎
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Panikkar, I Veda. Mantramañjari, pp. 914-916. ↩︎
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In questo passo, le Upanishad espongono con evidenza la distinzione tra coscienza individuale e coscienza pura. Cfr. ivi, pp. 947-948 (AU III, 3-4). ↩︎
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Su questo punto le Upanishad si esprimono chiaramente. Non va afferrato il suono del tamburo (oggetto), ma il suonatore del tamburo (soggetto); non va afferrato il suono di una conchiglia (oggetto), ma colui che soffia nella conchiglia (soggetto); non va afferrato il suono di un liuto (oggetto), ma il suonatore di liuto (soggetto). Cfr. ivi, p. 945 (BU II,4,7-9): «Come quando un tamburo viene battuto non si possono afferrare i suoni esterni, ma quando si afferra il tamburo o il suonatore di tamburo, si afferrano anche i suoni. / Come quando si soffia in una conchiglia non si possono afferrare i suoni esterni, ma quando si afferra la conchiglia o colui che soffia nella conchiglia, si afferrano anche i suoni. / Come quando si suona un liuto non si possono afferrare i suoni esterni, ma quando si afferra il liuto o il suonatore di liuto, si afferrano anche i suoni». ↩︎
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Ivi, p. 915. ↩︎
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Ivi, p. 916 (KenU II,3). ↩︎
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Ivi, p. 956. ↩︎
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Ivi, p. 946 (BU II,4,12): «Come una manciata di sale gettata nell’acqua si scioglie e non c’è modo di afferrarla, ma da qualunque parte si possa attingere l’acqua, essa è interamente salata, così in verità, questo grande, infinito, illimitato Essere è una massa compatta di saggezza. [Alla morte] ci si solleva da questi elementi [che compongono il corpo] e di nuovo ci si dissolve in essi, poiché dopo la morte non vi è coscienza. Questo, mia cara, è ciò che devo dirti». ↩︎
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Ivi, p. 958. ↩︎
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L’elaborazione di questa citazione è una delle più ricorrenti negli scritti di Panikkar. Cfr. ibidem (MundU III,2,8): «Così come i fiumi che scorrono verso l’oceano si dissolvono in esso, perdendo nome e forma, così il saggio liberato da nome e forma, raggiunge la suprema, divina Persona». ↩︎
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R. Panikkar, Lectio Divina: L’ascensione (Atti 1-11), in M. Carrara-Pavan (a cura di), I mistici nelle grandi tradizioni. Omaggio a Raimon Panikkar, Jaca Book, Milano 2009, p. 16. ↩︎
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Panikkar, I Veda. Mantramañjari, p. 960. ↩︎
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V. Possenti (a cura di), La questione della verità. Filosofia, scienze, teologia, Armando, Roma 2003, p. 7. ↩︎
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D. Bonhoeffer, Che cosa significa dire la verità?, in appendice a Etica, trad. di A. Comba, Bompiani, Milano 1983(3), pp. 310-311. ↩︎
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V. Mancuso, La vita autentica, Raffaello Cortina, Milano 2009, p. 119. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Questo argomento è stato discusso dal prof. Hans Christian Schmidbaur nel corso: Le nuove teologie del XX secolo, tenuto presso la Facoltà di Teologia di Lugano, in data 15/10/2020. ↩︎
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C.M. Martini, Le cattedre dei non credenti, a cura di V. Pontiggia, Bompiani, Milano 2015, p. XXIII. ↩︎