Edmund Husserl e la scienza moderna

Per Husserl il carattere dominante della filosofia moderna, profetizzata da Francesco Bacone e affermatasi con Galileo Galilei e Renato Cartesio, consiste nella matematizzazione della realtà. Il pensatore moravo ritiene infatti che lo scopo della scienza sia quello di dominare la realtà; questo è uno scopo pratico, non teoretico; ma come la scienza, anche la filosofia moderna, nella misura in cui ne è influenzata, dà il primato allo scopo pratico. Si è verificato dunque uno spostamento dell’interesse dalla teoria alla prassi.

La scienza, in un arco di tempo relativamente breve (nei quattro secoli che vanno dalla fine del ’500 alla contemporaneità), ha accumulato un numero veramente imponente di successi, ma parallelamente a questo fatto senz’altro positivo, se ne è verificato un altro che comporta gravi implicazioni. Tali implicazioni consistono in una progressiva perdita di senso del sapere stesso. Infatti il mondo del sapere è orientato prevalentemente a interessi di carattere scientifico, mentre è trascurata tutta una serie di altri problemi non meno importanti per la vita dell’uomo, problemi quali il dolore, la felicità, il rapporto fra gli uomini etc…

In tale tipo di problematicità l’uomo non è più aiutato dal sapere, dato che tutto è trascurato in funzione del dominio scientifico, mentre nell’antichità e durante il Medioevo la filosofia era sapienza piuttosto che scienza, e assolveva a questo compito di aiuto e di consolazione per gli uomini. Era in altre parole più vicina all’uomo in quelli che sono i grandi problemi esistenziali.

Bisogna fare anche un’altra premessa per evitare eventuali confusioni — dice ancora Husserl —: la crisi che investe le scienze non tocca il loro rigore scientifico, l’evidenza delle loro operazioni teoretiche e i loro successi, che ormai si sono imposti in modo vincolante e per sempre; la legittimità delle loro operazioni metodiche resta insomma fuori discussione. La crisi che Husserl individua nella valutazione generale delle scienze non investe la loro scientificità, ma bensì ciò che esse, le scienze in generale, hanno significato e possono significare per l’esistenza umana.

Riassumendo allora quanto finora ho detto, rifacendomi al pensiero di Husserl esposto ne La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale,1 si nota che malgrado i continui successi esiste veramente una crisi della scienza. Tale crisi è dovuta alla riduzione positivistica della scienza all’idea di una scienza di fatti, e consiste nella perdita di senso da parte della scienza per la vita: la scienza non riesce più a dare un senso alla «Lebenswelt» (mondo-della-vita).

Ma non è stato sempre così, non sempre gli interrogativi specificamente umani sono stati banditi dal regno della scienza. Come è noto l’umanità europea attua durante il Rinascimento un rivolgimento rivoluzionario. Essa si rivolge contro i suoi precedenti modi di esistenza, quelli medievali, li svaluta ed esige di plasmare se stessa in piena libertà. Essa riscopre nell’umanità antica un modello esemplare. Che cosa considera essenziale dell’uomo antico? Nient’altro che la forma «filosofica» dell’esistenza: la capacità di dare liberamente a se stessa, a tutta la propria vita, regole fondate sulla pura ragione, tratte dalla filosofia. Nel Rinascimento dunque l’umanità europea fondò la propria autonomia resuscitando l’ideale antico della filosofia come capacità di rendere razionale il mondo e l’esistenza. L’idea di filosofia ereditata dagli antichi nei primi secoli dell’età moderna ha il senso di una scienza onnicomprensiva, di scienza della totalià dell’essere.

Ma questo ideale rinascimentale di una scienza onnicomprensiva apoditticamente evidente e sviluppantesi all’infinito fallisce. Perché? Qui inizia la trattazione dell’argomento husserliano che, a mio avviso, è più interessante per l’oggi e che, a distanza di settant’anni dalla pubblicazione della Crisi delle scienze europee, potrebbe avere dei risvolti di notevole portata sulla nostra vita: il sorgere cioè di questo nuovo modo di fare filosofia che inizia con Galilei e che segna il momento di passaggio dalla filosofia antica-medievale-rinascimentale alla filosofia moderna.

Secondo Husserl infatti la novità del pensiero moderno rispetto a quello antico consiste nel fatto che il pensiero moderno assegna alla matematica, che per gli antichi aveva un compito finito, un nuovo compito, che è invece infinito: quello di dominare una totalità ideale infinita. La realtà naturale è idealizzata sotto la guida della nuova matematica e diventa così una molteplicità matematica; questa è propriamente la matematizzazione galileiana della natura. Ciò rimane ancora oscuro a Galileo, ma costituì, a detta del Nostro, il nascosto presupposto di senso della sua fisica. Tutti gli aspetti naturali sono disposti in un ordine di gradualità a seconda della loro perfezione, cioè secondo la loro approssimazione a oggetti ideali (costruiti dal pensiero).

Il carattere essenziale di questi oggetti è l’esattezza. Per mezzo di tali oggetti, ricavati dall’idealizzazione della natura, se ne costruiscono poi altri di completamente nuovi, e si dischiude così la possibilità di costruire tutte le forme ideali pensabili in generale. L’inizio di questo processo è la misurazione: essa porta a idealizzare e quindi a costruire la geometria universale, questa è poi applicata alla realtà.

Ma tutto ciò era già chiaro agli antichi. Il contributo nuovo di Galilei consiste nel mostrare che la vera realtà in sé è costituita proprio dagli aspetti misurabili, cioè dalle forme ideali matematiche, le cui connessioni ideali vengono a costituire la trama dei rapporti causali. Tali connessioni rendono possibili le ipotesi, le induzioni, le previsioni. Così si viene costruendo preliminarmente il mondo. Ma non dobbiamo scordare che si tratta di una ipotesi (anche se per Galileo è vera scienza) che rimane tale anche dopo la verificazione, perché la verificazione non è altro che un seguito infinito di altre verificazioni, quindi il processo di approssimazione al vero è infinito.

In altre parole i concetti, ad esempio, della geometria sono immaginati dalla nostra mente tramite dei corpi naturali, che si avvicinano approssimativamente alle figure geometriche; la mente umana, rilevando tale approssimazione, costruisce forme perfette. Gli oggetti della matematica, insomma, hanno carattere costruito; più che di una intuizione degli oggetti matematici, si tratta di una costruzione. Noi li conosciamo in modo esaustivo, perché ce li costruiamo noi.

Ecco allora che fin da Galilei l’operazione decisiva per la vita diviene dunque la matematizzazione e le formule grazie a essa conseguite. Basta questa considerazione per capire come gli indagatori della natura, nell’elaborare il metodo, rivolgessero un interesse appassionato alle formule, e come via via potesse nascere la tentazione di vedere in queste formule il vero essere della natura stessa.

Ecco allora che la fisica viene geometrizzata, la geometria viene aritmetizzata, mediante l’impiego del calcolo algebrico, nel quale il significato geometrico passa da sé in secondo piano, anzi cade completamente. La stessa aritmetica viene risolta in una analisi puramente formale: «dottrina della molteplicità», «logistica»; si rischia così di cadere in un pensiero algebrico estremo, nella «mathesis universalis» di Leibnitz, cioè in una logica formale onnilaterale. Col passaggio dalle figure alle formule, dalle formule ai simboli si opera lo svuotamento di senso della scienza naturale matematica nella «tecnicizzazione»; ossia agiscono ora solamente quei modi di pensiero che sono indispensabili a una tecnica come tale.

Il pensiero originario, che conferisce propriamente un senso — sostiene Husserl — a questo procedimento tecnico e una verità ai risultati, è qui escluso. Manca cioè un ritorno al senso propriamente scientifico. Da questi passi si coglie come sia molto viva in Husserl la preoccupazione per la problematica fondazionale del sapere, problematica che era già presente, come ci ricorda Giovanni Piana,2 sin dal 1923 come ci è testimoniato dal ciclo di lezioni tenute dal filosofo presso l’Università di Friburgo, raccolte sotto il titolo di Erste Philosophie (Filosofia prima),3 anche se solo nella Crisi delle scienze europee tale problematica riceverà la sua formulazione più compiuta, traducendosi nella rivendicazione husserliana della fondamentalità della filosofia rispetto alle scienze stesse, in quanto la filosofia si assume il compito di ricordare a esse la loro origine e il loro scopo nella vita concreta degli uomini. Con ciò risulta evidente che nel pensiero di Husserl prevale sulla questione epistemologica una netta presa di posizione etico-storica in un’epoca che pareva dimostrare in maniera drammaticamente concreta l’impotenza di una forma di razionalismo puntato tutto sull’oggettività di impronta positivista.

Ma ora è estremamente importante — sottolinea il filosofo di Prossnitz — rilevare come già con Galileo fosse avvenuta una sovrapposizione del mondo matematicamente costruito al mondo che si dà realmente nella percezione, al mondo esperito ed esperibile, al mondo circostante della vita. Tale sovrapposizione è stata poi ereditata dai fisici di tutti i secoli successivi. Ma questo mondo realmente intuito, realmente esperito ed esperibile non muta nemmeno se noi escogitiamo un’arte particolare, per esempio quell’arte geometrica galileiana che noi chiamiamo fisica.

Tirando le somme dunque possiamo dire — afferma ancora Husserl — che dopo Galilei via via il pensiero diventa meramente tecnico, cioè strumento di operazione e perde completamente, come simbolo, il suo senso; si dimentica cioè che il suo fondamento è il mondo-della-vita: si scambia per vero essere quello che è invece un mero abito ideale, cioè un metodo, il metodo di prevedere scientificamente. Galileo, considerando il mondo in base alla geometria, in base a ciò che appare sensibilmente e che è matematizzabile, compie un’operazione estremamente riduttiva della realtà, in quanto astrae dai soggetti come persone e da tutte le qualità culturali che le cose hanno assunto nella prassi umana. Si può dire che soltanto con Galileo — afferma Husserl — si delinea l’idea di una natura concepita come un mondo di corpi realmente circoscritti in sé.

Ci dobbiamo ora rendere conto che la concezione della nuova idea di «natura», di un mondo cioè di corpi realmente e teoreticamente in sé concluso, provoca ben presto un cambiamento completo dell’idea del mondo in generale. Il mondo si spacca, per così dire, in due mondi: natura e mondo psichico, ma anche tale mondo psichico, dato il suo specifico riferimento alla natura, non porta a una mondanità autonoma.

La scissione e la trasformazione di senso del mondo diede come effetto il riconoscimento dell’esemplarità del metodo delle scienze naturali. La scienza naturale matematica, in quanto guidata dalla matematica pura, possedeva già una massima razionalità e quindi doveva diventare il modello esemplare di qualsiasi autentica conoscenza. Di conseguenza tutto il mondo della conoscenza, per diventare il mondo della vera scienza, doveva seguire l’esempio delle scienze naturali, o meglio l’esempio della matematica pura. Naturalmente ebbero in questo senso un peso notevole quei successi teoretici e pratici a cui già Galileo era giunto.

Così il mondo e, in correlazione a esso, la filosofia assumono un volto completamente nuovo. L’abito ideale che si chiama «matematica e scienza naturale matematica», oppure l’abito simbolico delle teorie simbolico-matematiche abbracciano tutto quello che per gli scienziati o per le persone colte — dice Husserl — viene a rappresentare, in quanto natura obiettivamente reale e vera, il mondo-della-vita. Tale abito ideale fa in modo che noi scambiamo per il vero essere quello che invece è solamente un metodo, un metodo che serve a migliorare, con previsioni scientifiche in un progresso infinito, le previsioni grezze, le uniche che risultano possibili all’interno di ciò che è realmente esperito ed è esperibile nel mondo-dell-vita.

Nell’ambito reale delle proprie indagini e delle proprie scoperte il matematico, lo scienziato della natura non si rende conto affatto che tutto quanto le sue considerazioni dovranno chiarire esige un chiarimento di fondo per pervenire a una conoscenza reale del mondo stesso, della natura stessa, senza perdere di vista, dunque, l’interesse più alto per una filosofia, per una scienza in generale.

Ed è appunto tale interesse che è stato smarrito nella scienza tradizionale, nella scienza divenuta «techne»; e qualsiasi tentativo, aggiunge Husserl, da parte di ricercatori esterni alla matematica e alle scienze naturali, di ricondurre lo scienziato a quest’ordine di considerazioni è respinto come «metafisica», e in tal modo non è affatto avvertito e, di conseguenza, non è indagata proprio quella dimensione che dovrebbe essere penetrata.

Rileva ancora Husserl che un tratto fondamentale della nuova visione della natura, affermatasi a partire da Galileo, considerando il mondo in base alla geometria, in base a ciò che appare sensibilmente e che è matematizzabile, astrae dai soggetti in quanto persone, in quanto vita personale, da tutto quanto che in un senso qualsiasi è spirituale, da tutte le qualità culturali che le cose hanno assunto nell’agire degli uomini. Le pure cose corporee sono il risultato di tale astrazione, le quali però sono scambiate per realtà concreta e nella loro globalità sono tematizzate come mondo. Solo con Galileo allora si delinea l’idea di una natura concepita come un mondo di corpi relmente circoscritto in sé.

Non solo la matematizzazione della realtà è divenuta in maniera troppo veloce un’ovvietà — sostiene ancora Husserl — ma tutto questo comporta come conseguenza diretta la concezione di una causalità-naturale in sé conclusa, all’interno della quale qualunque accadimento è predeterminato in modo univoco. Ed è proprio da tale contesto che deriverà ben presto nella storia del pensiero occidentale il dualismo tipico della filosofia cartesiana.

Questa nuova idea di «natura», di un mondo cioè di corpi realmente e teoreticamente in sé concluso, determina rapidamente un completo mutamento dell’idea di mondo in generale. Il mondo si spacca in due mondi: natura e mondo psichico. Il pensiero classico aveva ricercato ed elaborato teorie sui corpi, senza però porre un mondo concluso di corpi come tema di una scienza naturale universale. La scissione e la trasformazione di senso del mondo fu l’effetto del riconoscimento di quell’esemplarità del metodo delle scienze naturali che all’inizio dell’età moderna era inevitabile — a detta di Husserl — oppure, in altri termini, del riconoscimento della razionalità delle scienze naturali.

La matematizzazione della natura pertanto, in quanto idea e in quanto compito, implicava la supposizione che la coesistenza della totalità infinita dei suoi corpi nella spazio-temporalità fosse, considerata in sé, una coesistenza matematicamente razionale; ma le scienze naturali, in quanto induttive, potevano disporre solamente di un accesso induttivo ai nessi che in sé erano matematici (a questo punto pare opportuno ricordare che la matematica è la scienza deduttiva per eccellenza).

La scienza naturale matematica non doveva quindi — afferma ancora Husserl — divenire il modello esemplare di qualsiasi autentica conoscenza? Se la conoscenza doveva diventare, anche al di là della natura, una scienza autentica, non doveva forse seguire l’esempio delle scienze naturali, o meglio l’esempio della matematica pura, dato che probabilmente, anche in altre sfere di conoscenza, poteva esistere la facoltà «innata» di un’evidenza apodittica basata su assiomi e deduzioni? Non ci si deve per nulla meravigliare allora se già in Cartesio si trova l’idea di una matematica universale.

Così il mondo e correlativamente la filosofia assumono un volto del tutto nuovo. Il mondo deve essere in sé un mondo razionale, razionale nel senso nuovo proprio della matematica e della natura matematizzata; corrispondentemente la filosofia, la scienza universale del mondo, deve poter essere costruita «more geometrico» (il richiamo al titolo del capolavoro filosofico di Baruch Spinoza è qui d’obbligo) come una teoria unitariamente razionale.

Muovendo ora da considerazioni più generali della riflessione filosofica husserliana vorrei evidenziare come obiettivismo scientifico e materialismo positivistico siano, secondo il filosofo moravo, le cause fondamentali della crisi delle scienze, infatti con l’affermarsi della scienza moderna, la filosofia ha via via smarrito la sua funzione di regina delle scienze, cioè di scopo ultimo e fondamento del sapere. Le scienze, dunque, separatesi sempre più dalla filosofia, si sono date metodi indipendenti al fine di fare della natura oggetto di conoscenza esatta al fine di instaurare il dominio tecnico della realtà, inverando così il sogno baconiano del «Regnum hominis».4

Da tutto ciò consegue appunto l’obiettivismo scientifico, secondo il quale per la scienza non può esistere altra realtà che non sia ridotta a una relazione oggettiva e matematica di causa ed effetto; e a tale prospettiva non sfugge nemmeno l’essere umano che nelle scienze biologiche è ridotto a un oggetto di esperimento, mentre la psicologia sperimentale ha addirittura la pretesa di reificare lo stesso pensiero;5 così il senso originariamente umano delle stesse operazioni scientifiche è andato smarrendo il suo orizzonte di riferimento e il progresso scientifico, che è uno dei più alti risultati del pensiero occidentale, rischia di minacciare la libertà e la soggettività stessa dell’uomo.

Inoltre l’abuso della concettualizzazione scientifica e i fraintendimenti della filosofia positivistica hanno causato una specie di cecità nei riguardi dell’esperienza concreta e genuina, al punto che siamo indotti a considerare soggettivo e apparente il mondo dell’esperienza comune e a ritenere invece reali gli oggetti attinenti al mondo della quantità e della matematica. A tal proposito pare opportuno segnalare che già Emil Boutroux sin dal 1874,6 dopo aver esaminato con cura minuziosa il metodo delle scienze naturali (dalla meccanica, alla fisica, alla biologia, alla psicologia), aveva capito che queste scienze esaminano fenomeni non solo sempre più complessi, come affermano i positivisti a partire da Auguste Comte, ma anche eterogenei e irriducibili fra loro. Da ciò consegue che leggi meccaniche non sono in grado di spiegare i fenomeni fisici, leggi fisiche sono inadatte a spiegare i fenomeni biologici, mentre leggi biologiche non possono avere la pretesa di spiegare fenomeni psicologici, per cui l’illusione positivista di spiegare in maniera causale e cioè deterministica tutta la realtà si manifesta in tutta la sua inconsistenza. La stessa scienza, afferma ancora Boutroux, deve riconoscere la contingenza delle leggi di natura: queste hanno un valore pratico limitato ad ambiti circoscritti della realtà e non sono capaci di designare nessuna verità universale; la natura non è dunque né materiale né meccanica, essa presenta formazioni sovrapposte, sempre più complesse e irriducibili fra loro che soltanto l’ipotesi di una spontanea creatività spirituale potrebbe spiegare.

Sulla stessa lunghezza d’onda si esprime il matematico francese Henri Poincaré, che nelle sue opere approfondisce la teoria economica dei concetti scientifici, proposta dal fisico e filosofo tedesco Ernst Mach: la scienza non rappresenta un rispecchiamento oggettivo della realtà, essa procede invece con ipotesi e postulati convenzionali che adopera per esigenze pratiche, per cui le leggi della scienza non sono verità assolute, secondo le pretese positiviste, ma semplicemente regole d’azione, tutto ciò tuttavia non vuol dire che esse siano arbitrarie, dato che devono comunque sottoporsi all’esame dell’esperienza.

Tornando ora a Husserl, egli sostiene che una ulteriore conseguenza dell’abuso della concettualizzazione scientifica determina l’intellettualismo tipico della nostra cultura, carica di astrazioni e sempre più povera di creatività e di spontaneità; per cui conclude Husserl l’umanità scientifica europea nel tentativo di razionalizzare «il mondo della vita» ha perso proprio la ragione ultima delle sue operazioni e rischia di essere asservita alle sue stesse invenzioni tecnologiche.

Tutta la filosofia moderna, secondo Husserl, si suddivide fra oggettivismo e soggettivismo: il primo è rappresentato dalla scienza; mentre il secondo è proprio di quelle filosofie che hanno capito che il «senso dell’essere ultimo» del mondo appartiene al soggetto e alle sue operazioni ed esperienze prescientifiche, tipica espressione del «mondo della vita». Solo la fenomenologia però, a detta del Nostro, è stata in grado di delineare la soggettività originaria o soggettività trascendentale, proprio grazie all’epoché,7 infatti, grazie alla sospensione del giudizio (epoché) è possibile porre in dubbio e mettere fra parentesi ogni teoria, ogni concetto o preconcetto sulle cose sforzandoci successivamente di «descrivere» l’esperienza, così come essa si disvela e nei limiti in cui si manifesta, dopo che il metodo fenomenologico ci ha permesso di togliere di mezzo i secolari pregiudizi, che ci impediscono una comunicazione diretta con le «cose stesse» come si presentano nell’esperienza in prima persona, cioè con i fenomeni, riacquisendo così la visione ingenua, originaria del mondo e di noi stessi, cioè della nostra coscienza intenzionale.

Tornare alle cose stesse vuol dire tornare alle essenze, alle idee, cioè alle genuine cose dell’esperienza, ai genuini «fenomeni»: come scienza delle essenze la fenomenologia diviene il fondamento di ogni scienza particolare (proprio nel senso della «filosofia prima» di Aristotele), le cui categorie sono solo parziali idealizzazioni dell’intera esperienza pre-categoriale di base. Le scienze, in altre parole, muovono sempre dal mondo della vita, ma poi lo dimenticano; così rese schiave delle loro stesse astrazioni, non sono in grado di ritornare al mondo della vita, alle intenzionalità originarie delle soggettività concrete (gli uomini), che vivono il mondo della vita, a quelle intenzionalità che sono le sorgenti di ogni senso e di ogni fine razionale umano.8

Infine vorrei fare anche una breve considerazione di tipo metodologico, sottolineando come solo la posizione fenomenologico-ermeneutica, oggi, a mio avviso, si è mostrata capace da un lato di porsi di fronte agli oggetti da indagare in atteggiamento di ascolto, rispettandone tutta la profondità e la complessità, evitando per quanto sia possibile ogni forma di riduzionismo, senza trascurare dall’altro gli apporti utili e fecondi delle altre posizioni metodologiche. E anche questo è un contributo di grande rilievo offerto all’indagine filosofica odierna da Edmund Husserl.


  1. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, a cura di W. Biemel, trad. E. Filippini, Il Saggiatore, Milano 1968, pp. 33-90. ↩︎

  2. E. Husserl, Storia critica delle idee, a cura di Giovanni Piana, Guerini e Associati, Milano 1989, p.13. ↩︎

  3. Erste Philosophie (1923-24), I: Kritische Ideengeschichte, II: Theorie der phänomenologischen Reduktion, Husserliana VII e VIII, Martinus Nijhoff, Den Haag 1956-1959. ↩︎

  4. B. Farrington, Francesco Bacone filosofo dell’età industriale, Einaudi, Torino 1952. ↩︎

  5. Secondo l’aspetto metodologico, l’ambiguità della psicologia — per Husserl — consiste nel fatto che questa disciplina vuole affrontare scientificamente la psiche, applicando a se stessa i criteri di obiettività delle scienze naturali, così la psiche è eguagliata a «cosa naturale», cioè a una realtà differente da quella che è; e facendo ciò, essa snatura il vero senso del suo oggetto, cioè la stessa psiche, la soggettività umana concreta. Questa ambiguità di merito è riconosciuta dal pensatore de Prossnitz anche nelle cosidette scienze dello spirito: storia, sociologia, antropologia culturale, etc… E. Husserl, La crisi delle scienze europee, pp. 33-36; 353-354: 357-368. ↩︎

  6. E. Boutroux, Dell’idea di legge naturale nella scienza e nella filosofia, a cura di E. Liguori Barbieri, Vallecchi, Firenze 1925, pp. 122-134. ↩︎

  7. H. Poincaré, La scienza e l’ipotesi, a cura di F. Albergamo, La Nuova Italia, Firenze 1949, pp. 3-14. ↩︎

  8. H. Husserl, La crisi delle scienze europee, pp. 97-98. ↩︎