Genealogia dell’Assoluto. Dio, Stato e libertà nel pensiero di Schelling

1. Da Filosofia e religione alle Ricerche filosofiche

L’assoluto di Schelling può essere osservato come un universo unico costituito da un complesso di molteplici costellazioni autonome. Si tratta di una prospettiva che rievoca esplicitamente l’antico rapporto fra filosofia e religione, da cui il titolo di una delle sue opere. Ma, se nell’epoca greca il ruolo della religione è occupato dal paganesimo, la filosofia moderna affonda le sue radici nel cristianesimo. Pareyson ha interpretato questo rapporto nella direzione di una continuità, per cui «un filo collega il moderno cristianesimo al paganesimo antico, nel comune concetto di una religione misterica e puramente spirituale». Così, lo studioso italiano Chiosa: «Il cristianesimo, sostiene Schelling, è sorto dal paganesimo solo in quanto ha reso pubblici i suoi misteri»1. Partendo dal presupposto di una continuità fra paganesimo e cristianesimo, Pareyson deduce lo sfondo cristiano della filosofia di Schelling, che annullerebbe la sua origine greca attestandosi come una «filosofia cristiana della storia». Quest’interpretazione non è esente da problematicità e merita un approfondimento, giacché il Dio actu schellinghiano – un Dio che diviene – appare non perfettamente conciliabile con la comune concezione cristiana. Lo sfondo religioso del pensiero di Schelling, e dell’idealismo tedesco in generale, si radica nella mistica tedesca del XVI sec., con particolare riferimento all’opera di Jacob Böhme. Èmile Boutroux avvalora quest’idea nel suo saggio, il cui titolo appare di per sé emblematico: Le philosophe allemand Jacob Böhme.2 Il titolo allude già ad una prospettiva metafisica della mistica di Böhme. Non è un caso che sia questi che Schelling intersechino la teosofia.3 Essa, così come la mistica, si basa sull’inestricabilità delle conoscenze esoteriche, misteriche, iniziatiche con la filosofia. Con ciò, la teosofia proporrebbe una ripresa moderna dell’antico legame fra filosofia e religione. In tal senso si può parlare di un atteggiamento teosofico in Schelling; ma un atteggiamento non troppo dissimile si ritrova anche nella filosofia greca arcaica. Partendo da questi presupposti si comprende la problematicità della tesi pareysoniana che sostiene una mera soluzione di continuità fra religione antica e moderna, per giungere ad una finale (e forse semplicistica) risoluzione del pensiero di Schelling nel cristianesimo. Nell’introduzione a Filosofia e religione, il filosofo tedesco scrive: «C’è stato un tempo in cui la religione, separata dalla fede popolare, veniva custodita come un fuoco sacro, nei misteri, e la filosofia aveva un santuario in comune con essa»4. Non si può non cogliere qui il riferimento all’età arcaica dei greci, al pensiero presocratico e più in particolare alle scuole pitagorica ed eleatica. Parmenide è un esempio particolarmente fecondo di tale atmosfera, giacché egli fu al tempo stesso il primo a concepire il principio logico d’identità e, al tempo stesso, un sacerdote del tempio di Apollo.5 Ma il vero punto d’approdo della grecità si trova in Platone: «[…] i primi filosofi furono i fondatori dei misteri e […] i migliori tra i filosofi successivi, soprattutto Platone, derivarono dai misteri le loro divine dottrine»6. Fino a Platone, filosofia e religione costituiscono un’unità esoterica; tutto ciò che pertiene alla sfera essoterica, invece, riguarda la fede popolare, l’ambito della limitata comprensione pubblica. «Più tardi, i misteri furono resi pubblici, e si contaminarono con elementi estranei che possono appartenere soltanto alla fede popolare. Dopo di che, la filosofia, per conservarsi pura, dovette separarsi dalla religione e diventare, al contrario di essa, esoterica»7. La separazione di filosofia e religione avviene dunque nel momento in cui quest’ultima ha tradito la sua natura originaria e ha reso pubblici i misteri: essa ha cioè ridotto la distanza, fino a rimuoverla totalmente, fra esoterico ed essoterico; ha reso i misteri accessibili a tutti, li ha resi tangibili. Ma così facendo li ha snaturati; meglio: li ha dissolti. Nell’appendice posta a conclusione del saggio, Schelling afferma: «Se lo stato rappresenta nell’ordine morale superiore una seconda natura, il divino può avere con esso sempre soltanto un rapporto ideale e indiretto, mai un rapporto reale, e la religione, […], se vuole conservarsi intatta nella sua pura idealità, non può esistere se non in modo esoterico o nella forma dei misteri»8.

Per Schelling, la forma originaria della religione, quella misterica, deve essere mantenuta affinché uno stato possa costituire una seconda natura. In altri termini, occorre che filosofia e religione mantengano la loro essenza originaria affinché il loro legame sussista. Lo «svelamento dei misteri» operato dal cristianesimo appare tutt’altro che un evento cronologico privo di conseguenze sostanziali, così come lascia intendere Pareyson. Il cambio di rotta della religione, e per conseguenza della filosofia, è infatti descritto dal filosofo con un accento drammatico: «Se volete che la religione abbia anche una parte essoterica e pubblica, dategliela nella mitologia, nella poesia e nell’arte di una nazione: ma la religione vera e propria […] rinunci ad avere un carattere pubblico e si ritragga nei misteri»9. Qui l’autore sembra riprendere il modello platonico del mythos, come strumento etico che media il rapporto fra i misteri e la cosa pubblica. Ciò lascia trasparire la sua impostazione piuttosto pre-cristiana. A questo punto si può comprendere pienamente il passo citato da Pareyson: «[…] paganesimo e cristianesimo erano uniti da tempo immemorabile […]. Il cristianesimo è sorto dal paganesimo solo in quanto ha reso pubblici i suoi misteri: […] la maggior parte degli usi del cristianesimo, le sue azioni simboliche, le sue gerarchie, le sue iniziazioni […] sono palesi imitazioni di analoghi elementi dominanti nei misteri»10. Il cristianesimo è sorto dal paganesimo solo in quanto ha reso pubblici i suoi misteri; precedentemente essi erano uniti nella condivisione della loro natura religiosa. Il punto di Schelling non è quello di sottovalutare l’atto «svelante» del cristianesimo. Piuttosto, solamente in quanto ha svelato i misteri, adattandosi meglio del paganesimo allo spirito «democratizzante» dei tempi, esso è riuscito a sorgere e ad imporsi come religione dominante. Ma il cristianesimo, aggiunge Schelling, fallisce nel suo infecondo tentativo di «assumere un carattere veramente pubblico e di giungere ad una oggettività mitologica»11. Il cristianesimo si è mostrato fallimentare proprio in quanto, rendendo pubblici i misteri, ha mescolato reale e ideale, finito e infinito, tradendo la sua natura originaria, che consiste in un rapporto diretto ed esclusivo con l’infinito e che si esprime nel finito soltanto mediante il mito. Tutt’altro che «filosofia cristiana della storia», le radici del pensiero di Schelling si radicano nel platonismo e nelle sue correnti interne – in particolare quella eleatica ed empedoclea. Tale debito è visibile in Filosofia e religione. Qui Schelling assume la nota indistinzione unitaria di soggettivo e oggettivo, mercé l’assunto di matrice pitagorica, perpetrato da Platone ma associato maggiormente ad Empedocle, secondo cui «il simile conosce il simile». Per Schelling non solo non si può dare un’idea di Dio come qualcosa che risiede sopra l’Assoluto – in quanto al di sopra dell’Assoluto non può esservi nulla, pena il decadimento stesso del suo concetto – ma esso stesso può essere conosciuto solamente attraverso una percezione immediata. Come può infatti ciò che è per sé, ovvero privo di alcuna mediazione, essere conosciuto tramite mediazioni? Si tratta di un’impossibilità logica. O per meglio dire, si tratterebbe di una conoscenza per negazione. Ma l’essenza dell’Assoluto è affermativa; dunque, afferma l’autore: «Se si muove dal presupposto di una conoscenza puramente mediata dell’Assoluto (non importa come avvenga la mediazione), l’assoluto del filosofo può sembrare soltanto qualcosa che viene ammesso per poter filosofare, mentre, in realtà, è vero il contrario, e cioè ogni filosofare comincia ed è cominciato soltanto in quanto l’idea dell’Assoluto è divenuta vivente. Solo la verità fa conoscere il vero, l’evidenza l’evidente; ma la verità e l’evidenza sono chiare per se stesse e devono perciò essere assolute»12. Solo nella vivificazione dell’Assoluto si può concepire un pensiero in grado di coglierlo; ovvero, solo in quanto il pensiero si situa in correlazione diretta all’Assoluto, si può avere filosofia. Questo punto sarà centrale nell’articolazione della sua opera successiva Philosophische Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit. In questo secondo testo il tema centrale è quello della libertà; si tratta cioè di sviluppare il presupposto teosofico o mistico del suo pensiero in una direzione eminentemente politica. Ciò implica una revisione di alcuni aspetti del suo pensiero; innanzitutto egli intende ricalibrare il suo rapporto con Spinoza e la sua dottrina dell’immanenza totalitaria divina, da cui sembra derivare inevitabilmente una concezione fatalistica della condizione umana; ed inoltre, ma intimamente legato al primo problema, si tratta di rimodulare il principio d’identità – ovvero il sostrato logico-parmenideo del pensiero occidentale. Per il momento osserviamo la centralità della cronologia delle due opere; fra il 1804 ed il 1809 si situa infatti una delle opere più importanti della storia del pensiero occidentale: La fenomenologia dello spirito [1807]. Come si sa, Hegel sferzò una critica impietosa al sistema di Schelling, raffigurato con la nota immagine dell’oscurità notturna in cui le vacche sono tutte nere. L’Assoluto di Schelling, secondo Hegel, sarebbe il risultato di un indistinto sistema panteistico privato del travaglio del negativo e, dunque, del movimento dialettico. Tale critica, pur essendo diretta più contro gli «schellinghiani» che contro l’autore, marchiò indelebilmente il suo pensiero e lo costrinse a ricalibrare il suo rapporto con lo spinozismo e, di conseguenza, col panteismo. Inoltre, quest’accusa lo condusse ad esplicitare con maggior vigore la sua concezione del principio d’identità. La tensione fra mistero ed espressione, fra tenebra e luce, rimane immutata nelle Ricerche e ne solca tacitamente il percorso nella definizione della libertà come scelta fra il bene e il male. L’intento dichiarato è quello di ripristinare il valore della libertà all’interno della filosofia – un intento che potrebbe apparire letteralmente tragico, giacché «secondo un’antica leggenda, la cui eco non si è ancora spenta, il concetto di libertà sarebbe del tutto incompatibile con il sistema» e, per ciò stesso, «ogni filosofia che abbia pretesa di unità e di totalità dovrebbe sfociare nella negazione della libertà»13. La totalità, prima di questo scritto, sarebbe sinonimo di assoluta necessità, con l’inevitabile esclusione della libertà individuale. Ma tale considerazione risulta fallace dal momento che «la libertà individuale si collega pure in qualche modo con la totalità dell’universo». La pretesa «totalità» che esclude in realtà qualcosa appartenente ad essa sarebbe dunque una falsa totalità. La questione coinvolge in particolare Fichte e Spinoza. Il terreno comune dei sistemi elaborati dai due autori è il rapporto contradditorio fra libertà e necessità. Ma essi sono giunti ad estremizzare uno dei due elementi, giungendo ad escludere l’altro. Solamente partendo da queste premesse è possibile comprendere i presupposti che risiedono al fondo di questo saggio, che tenta di rispondere in maniera definitiva all’accusa hegeliana.

2. Il problema teologico-politico del panteismo

Da quanto appena detto, si comprende quanto la «questione Spinoza» sia nodale per Schelling. Non a caso l’autore s’interroga sulla questione ontologica del «panteismo», definendolo come «la dottrina dell’immanenza delle cose in Dio»14. A tale dottrina è comunemente associata la concezione fatalistica della storia e della realtà. Ciò che egli intende mostrare è la non inevitabilità del fatalismo nel panteismo o, in altri termini, la possibilità di mantenere il concetto di libertà in un sistema. La doppia valenza metafisica e politica della questione è tangibile. Dio e stato sono due termini che designano la medesima cosa in registri linguistici diversi. Dunque la questione del fatalismo in Spinoza, quello della possibilità in un sistema necessario o quello della libertà individuale in uno stato assoluto costituiscono articolazioni differenti di uno stesso problema. La «seconda natura» dello stato è al centro della riflessione di Schelling anche in questo testo (così come lo era in Spinoza e in tutta la tradizione filosofica moderna). Se conveniamo sull’identificazione del concetto di Dio con quello di stato, allora la riflessione metafisica sulla libertà dell’uomo in una realtà permeata da un dio immanente è al tempo stesso la questione politica della libertà individuale in uno stato o nazione. Se il panteismo non implica necessariamente il fatalismo, allora la formazione di uno stato non implica necessariamente il sacrifico della libertà individuale. Si tratta allora di correggere il livellamento sociale e la soppressione delle differenze fra gli uomini in uno stato assoluto e onnicomprensivo. Nel contesto schellinghiano, si tratta di rimodulare il principio d’identità. A tal fine l’autore utilizza la logica dialettica dell’antecedente e del conseguente: «L’antica logica distingueva opportunamente soggetto e predicato come antecedente e conseguente (antecedens et consequens) e con ciò esprimeva il reale significato della legge d’identità. Persino nella proposizione tautologica, se non è qualcosa di completamente insensato, si ritrova questo rapporto. Chi dice: «il corpo è corpo», pensa sicuramente nel soggetto della proposizione qualcosa di diverso che nel predicato: nel primo (pensa) l’unità, nel secondo le singole proprietà contenute nel concetto di corpo, che si rapportano ad esso stesso come l’antecedens al consequens»15. L’identità, con ciò, non sopprime le differenze, ma instaura un movimento dialettico fra soggetto e predicato che esprime la «differenza ontologica» (concetto che avrà ampio spazio nella filosofia heideggeriana) fra unità e molteplicità, fra infinito e finito, fra ideale e reale, fra assoluto e contingente. Il limite di Spinoza non consiste nell’aver soppresso ogni individualità riducendole a modi della sostanza unica; piuttosto, tale dottrina ha semplicemente ignorato le differenze e, dunque, le individualità. Per questo Schelling sostiene che «lo spinozismo somiglia piuttosto ad un’opera abbozzata solo nei contorni esterni, e in cui, se fosse animata, si noterebbero i molti tratti mancanti o incompleti»16. Dunque l’intento di Schelling è quello di vivificare il sistema morto di Spinoza al fine di illuminarne le criticità e di risolverle attraverso il pensiero idealistico. Tale progetto è iniziato con Kant ed ha trovato una prosecuzione col sistema di Fichte. Ma anche i loro tentativi appaiono difettosi e perfettibili: «l’idealismo stesso, per quanto ci abbia portato ad una concezione così elevata e per quanto sia certo che ad esso dobbiamo il primo perfetto concetto di libertà formale, non è tuttavia per sé un sistema completo e, a proposito della dottrina della libertà, ci lascia perplesso non appena vogliamo giungere a qualcosa di più esatto e determinato»17. Il problema dell’idealismo risiede nella genericità o formalità del suo concetto di libertà, che è limitato all’io e relega le cose ad una pura e irriducibile negatività. Con ciò, esso fallisce nel tentativo di sanare la storica frattura fra soggetto e oggetto, fra uomo e realtà, fra io e non-io proponendo un sistema incompleto, in cui la libertà rimane concettualmente astratta.

«Se la libertà è il concetto positivo dell’in-sé in generale, la ricerca intorno alla libertà umana viene risospinta nel generico, poiché l’intelligibile, sul quale soltanto essa è stata fondata, è anche l’essenza delle cose in sé»18. In una parola: la libertà dell’idealismo ha un carattere puramente formale, in quanto riduce le cose a pura negatività. Questo tipo di sistema, gravato dall’esclusione di una parte dell’Assoluto, resta per ciò stesso incompiuto. Partendo da queste premesse, si comprende perché Schelling, in merito al problema della libertà umana, si soffermi sulla questione del male – o meglio: sulla questione della possibilità del male. Quest’ultimo – affinché si possa giungere ad una concreta formazione di un sistema assoluto – deve essere «sostanzializzato» e non ridotto a mera privazione. Tale problema, secondo l’autore, non riguarda solo Spinoza, ma tutti i sistemi sinora elaborati. La questione dell’origine del male è il punto più problematico di ogni sistema immanente, giacché «o si ammette un male reale, e allora è inevitabile porre il male nella sostanza infinita o nella stessa volontà originaria, con il che si distrugge il concetto di un essere perfettissimo; o si deve negare in qualche modo la realtà del male, ma con ciò svanisce anche il concetto reale di libertà». In entrambi i casi, conclude Schelling, «Dio apparirebbe innegabilmente come coautore del male»19. Il problema di Spinoza, in particolare, risiede nella relativizzazione di bene e male, ridotti ad un plus o minus di perfectio. Ma questa rimane, secondo l’autore, una definizione più ideale che reale. L’altra prospettiva è quella dualistica (come si presenta, per es., nelle dottrine gnostiche e manichee), secondo cui bene e male sono due principi opposti che possiedono due origini radicalmente differenti. Ma concepire due origini è per Schelling «il sistema del dilacerarsi [Selbstzerreissung] e disperare [Verzweiflung] della ragione»20. Il termine Verzweiflung ha un ruolo nodale nella Fenomenologia dello spirito: esso rappresenta l’atto di consumazione dell’oggetto da parte di un soggetto (come l’animale con la sua preda) al fine di annullarlo, sopprimendo l’alterità e la differenza. È la violenza della consumazione, in tutte le sue accezioni possibili. Il dilacerarsi attraverso uno strappo ed il riassorbimento attraverso la consumazione appare l’impostazione (economica) della dialettica hegeliana che implica l’uso della violenza nei due passaggi: dall’unità alla molteplicità [Selbstzerreissung] e dalla molteplicità all’unità [Verzweiflung]21. Schelling sceglie un’altra strada. La sua dialettica mira ad individuare l’origine comune di Dio e del male. Come abbiamo già visto in riferimento a Spinoza, nella filosofia moderna pre-idealistica il concetto di Dio è caratterizzato in senso astratto, privo di vita. Occorre, secondo l’autore, concepirlo anzitutto come Esistenza al fine di distinguerlo dal Fondamento, che invece rappresenta la pura possibilità dell’esistenza. Dio è realtà dinamica e vivente; il fondamento è possibilità. Dio è actu. Perciò, il fondamento (Grund) non va inteso come causa di Dio; piuttosto, esso è ciò che in Dio non è Lui stesso e da cui esso si distacca per divenire ciò che è. Come scrive Strummiello: «Il fondamento è la natura di Dio, la natura da cui Dio stesso si trae e diviene: qualcosa che in Dio non è Dio stesso, cioè non è Dio considerato in senso assoluto»22. C’è dunque una base, o fondo o caos primordiale, da cui Dio in certo senso trae se stesso. In questi termini – mutuati dal linguaggio di Böhme – Schelling fuoriesce dalla stasi panteistica e tenta di deviare l’accusa hegeliana. Il fondamento è al tempo stesso il contenitore caotico del finito e dell’infinito, dell’Assoluto e del contingente, di Dio e delle cose. Ma la questione principale è la «generazione» di Dio a partire da un fondamento caotico: Dio actu è tale proprio in quanto si distacca dal suo stesso fondamento. Poiché quest’ultimo è fondamento di tutto, da esso si generano anche le cose – pertanto esse mantengono questa dualità, questa profonda tensione fra tenebra e luce, fra materia e spirito. Ma se tutto è in Dio, come può il finito generarsi dallo stesso fondamento da cui si genera Dio? Il fondamento è prius anche rispetto a Dio? Leggiamo: «[…] poiché nulla può essere fuori di Dio, questa contraddizione può essere risolta solo ammettendo che le cose hanno il loro fondamento in ciò che in Dio stesso non è Egli stesso, cioè in ciò che è il fondamento della sua esistenza. […] essa è il desiderio, che l’Uno eterno prova, di generare se stesso. Esso non è lo stesso Uno, ma è a lui coeterno. Esso vuole generare Dio, cioè l’unità imperscrutabile, ma in quanto non è in Lui stesso quest’unità. […] è una volontà dell’intelletto, cioè desiderio e brama di esso, non una volontà cosciente, ma che presagisce, il cui presagio è l’intelletto»23. Al Fondo di Dio risiede dunque una volontà irrazionale, un desiderio [Sehnsucht] d’intelletto che è anche desiderio di generare l’unita di Dio actu. Per tal motivo esso non è una volontà cosciente – in quanto è privo di intelletto e di coscienza – ma è desiderio inconscio di coscienza. Dunque, Dio – in quanto volontà cosciente – resta comunque causa di se stesso poiché nel fondamento non esiste coscienza, ma solo volontà cieca. Da qui si comprende l’origine del male: essa non è in Dio, ma nel Fondamento.24 Schelling identifica così nel male la formazione più concreta da cui Dio si distacca nel movimento di trarsi fuori dal Fondamento per divenire Esistenza. Dunque il male può essere in prima istanza definito come l’antitesi dell’Esistenza – un’antitesi che si sviluppa solo allorché dal caos indistinto si distacca il bene divino. A partire da questa cosmogonia, si comprende l’origine dell’uomo e della libertà. Apparentemente l’uomo è originato da un doppio principio (quello del fondamento e quello divino); ma in realtà occorre concepire al fondo dello stesso fondamento una sorta di «scintilla divina» – una fioca luce immersa nell’oscurità più fonda. Dunque la libera volontà deriva dal desiderio originario del fondamento – ovvero, quel desiderio cieco e inconscio di intelletto, proprio in quanto privo di intelletto. Quando invece l’intelletto illumina la volontà che scaturisce dal fondamento ha origine lo spirito: «L’uomo ha in sé perciò, in quanto è scaturito dal fondamento (come conviene creatura), un principio indipendente rispetto a Dio; ma in quanto appunto questo principio è rischiarato dalla luce […] sorge insieme in lui qualcosa di più alto, lo spirito»25. La differenza fondamentale fra l’uomo e Dio è la separabilità dei due principi: «[…] se l’identità di entrambi i principi nello spirito dell’uomo fosse altrettanto indissolubile come in Dio, non ci sarebbe alcuna differenza, cioè Dio come spirito non si rivelerebbe. Quell’unità che in Dio è inseparabile, deve perciò essere separabile nell’uomo – e questa è la possibilità del bene e del male»26. Dio si trae fuori dal fondamento e costituisce la più piena concretizzazione di quella luce in fondo alle tenebre; l’uomo, invece, è originariamente «causato» (per esprimerci così) da un doppio principio – desiderio originario e intelletto divino. Allora in lui i due principi sono separabili, diversamente che in Dio; da qui la concezione della libertà come possibilità del bene e del male. Occorre dunque considerare due centri: quello del fondamento tenebroso e quello dell’intelletto divino. Ma la concezione stessa del male nasce in concomitanza con l’autogenerazione divina. Se infatti nel fondamento il tutto si ritrova in un caos indistinto privo di movimento, nell’eterna generazione di Dio come principio luminoso si è delineato – opposto a questo – il male come possibilità alternativa. Ma esso non è da intendersi come un principio polare, per sé; l’esistenza del male è concepibile solo come opposizione passiva alla presenza del bene: «Si dà perciò un male generale, sebbene non originario, ma risvegliato sin dall’inizio solo attraverso nella rivelazione di Dio attraverso la reazione del fondamento, male che certamente non giunge mai alla realizzazione, ma che vi tende costantemente. Solo dopo la conoscenza del male universale è possibile comprendere il bene e il male anche nell’uomo»27. Il male in generale è dunque pura tensione verso una realizzazione mai avvenuta e che mai avverrà. Si tratta di un ideale che tende costantemente a divenire reale. Con ciò, male e libertà sono intimamente legati da un’origine comune; sono entrambi progenie del Fondamento. Esso, come abbiamo detto, è anche fondamento dell’esistenza che è in Dio – la sua natura – da cui tuttavia Egli si distacca come una luce che emerge dalle tenebre. Al volere di Dio – in quanto actu e in quanto Esistenza – si «oppone» dunque il volere del Fondamento; ossia: alla tendenza universalizzante del volere dell’amore si «oppone» la tendenza creaturale e individuale del fondamento.28 Questi due principi, che sono inseparabili in Dio in quanto unità concreta, agiscono nell’uomo e si concretizzano nella scelta fra la falsa totalità – che deriva dalla tendenza puramente creaturale ed individuale del fondamento – e lo Spirito (o Assoluto) – che rappresenta l’agire «conformemente alle leggi della propria essenza»29. La vera totalità non può che tener conto dell’origine tenebroso da cui la luce è emersa. In termini politici, la vera libertà si deve accordare alla necessità interiore da cui essa emerge. Il concetto che secondo Schelling permette all’idealismo di esprimere il vero senso della libertà è quello di essenza intelligibile [Das intelligible Wesen]. Leggiamo: «L’essenza intelligibile di ogni cosa, e specialmente dell’uomo, è, secondo l’idealismo, fuori da ogni connessione causale, così come è fuori o sopra il tempo. […] essa stessa piuttosto precede (non tanto secondo il tempo quanto secondo il concetto) ogni altra cosa che è o diviene in essa, come assoluta unità che deve essere già intera e compiuta, affinché sia possibile in essa la singola azione o la determinazione. […] L’azione libera segue immediatamente dall’intelligibile dell’uomo. Ma essa è necessariamente una azione determinata […]»30.

Esiste dunque una sorta di codice ideale di leggi che appartiene a-temporalmente all’essenza intelligibile dell’uomo e che ne determina l’azione buona o cattiva. Ora, appare chiaro che con tale espressione Schelling voglia significare una forma di necessità insita nella natura umana, seguendo la quale l’uomo può ambire alla più autentica forma di libertà. Ciò significa che per parlare propriamente di libertà non è possibile prescindere da una necessità intrinseca. Ma secondo Schelling è proprio questa forma di «necessità» che costituisce il «fondamento» (stavolta divino e non oscuro) della vera libertà dell’uomo: «[…] come è certo che l’essenza intelligibile è completamente libera ed agisce assolutamente, così è certo che essa agisce conformemente alla sua propria natura interna, ossia che l’azione può derivare dal suo interno soltanto secondo la legge di identità e con assoluta necessità, la sola che sia ugualmente anche assoluta libertà; giacché è libero solo ciò che agisce conformemente alle leggi della propria essenza, e che non è determinato da nient’altro né in sé né fuori di sé»31. A rimarcare la radice empedoclea del pensiero schellinghiano, si legge l’attestazione di un’evidenza fondata sulla massima secondo cui il simile conosce il simile: «Per quanto questa idea possa presentarsi incomprensibile per il modo di pensare comune, c’è tuttavia in ogni uomo un sentimento che si accorda con essa, come se egli fosse già stato fin dall’eternità quello che è e non fosse affatto divenuto nel tempo»32. Sebbene l’essenza intelligibile sia data una volta per tutte nell’eternità – e dunque fuori dal tempo – essa non deve essere intesa come una forma di predestinazione, ma come la possibilità stessa della decisione: «La possibilità generale del male consiste […] in ciò, che l’uomo, invece di fare della sua ipseità una base, un organo, può aspirare a elevarla a principio dominante e a volontà universale, e a trasformare piuttosto in mezzo lo spirituale che ha in sé. Se nell’uomo il principio oscuro dell’ipseità e della volontà propria è attraversato completamente dalla luce ed è tutt’uno con essa, allora Dio, come l’eterno amore, o come effettivamente esistente, è il vincolo delle forze in lui»33. Quando il volere del fondamento prevale su quello divino e crea un contrasto fra i due principi (che come abbiamo detto non sono contrastanti ma concomitanti), si genera «la fame dell’egoismo, che nella misura in cui si separa dal tutto e dall’unità, diventa sempre più misero, povero, ma appunto perciò più bramoso, avido e velenoso»34. La libertà è ad un bivio fra desiderio inconscio, prettamente creaturale, egoistico, alienante e volontà divina, cosciente, unitaria. In entrambi i casi si tratta di una scelta legata ad un vincolo, che rappresenta l’essenza intelligibile dell’azione concreta. Dalle ceneri dell’indistinzione fatalistica ed immanentistica emerge dunque la questione modale della possibilità concreta – cioè della possibilità di agire – fondata su una necessità ideale. In tal modo Schelling decreta il legame indissolubile fra libertà e necessità. Nel linguaggio schellinghiano, il termine «opposizione» ha un carattere apparentemente ambiguo. In certo senso si può dire che la volontà divina si opponga alla volontà del fondamento; ma questa opposizione non è principiale, quanto piuttosto creaturale. Proprio in virtù del fatto che Dio è amore (ovvero unione), tale rapporto – dalla prospettiva di Dio – si esprime nella comprensione del fondamento in sé. Sebbene l’autogenerazione di Dio implichi un distacco dal fondamento, è solo a partire dal fondamento che ha origine la disunione da Dio – il quale rappresenta un’unità non caotica, come quella del fondamento, ma erotica. Difatti è il male che consegue all’allontanamento di Dio dal fondamento a rappresentare ciò che si oppone all’unità imperscrutabile in Dio.

3. Personalità ed Esistenza

Questi sono i presupposti che sostengono la tesi schellinghiana della personalità di Dio; una concezione che si situa in netta contrapposizione con alcuni assunti di Fichte e Spinoza. Entrambi ricadono inevitabilmente in una visione astratta della realtà e della libertà. Fichte ha assunto nell’Io i caratteri originari del volere del fondamento e, per ciò stesso, sarebbe rimasto ancorato ad una forma di volontà inconscia – ovvero, non libera. Spinoza, pur avendo vincolato la libertà ad una forma di necessità immanente in Dio, ha caratterizzato quest’ultimo come impersonale e, dunque, non vivente. I sistemi da loro elaborati restano dunque astratti, seppur per motivi diametralmente opposti: «[…] solo attraverso il vincolo di Dio con la natura si fonda in Lui la personalità, mentre al contrario tanto il Dio del puro idealismo quanto quello del puro realismo, è necessariamente un essere impersonale, di cui il concetto fichtiano e quello spinoziano sono la dimostrazione più chiara»35. Il Dio di Schelling si situa in uno stato di concretezza che comprende l’astrazione, il bene ed il male; in ciò consiste la sua personalità. Dunque, la legge divina, in quanto personale, esprime al tempo stesso la necessità e la libertà, il bene ed il male, l’astratto ed il concreto, facendo della creazione non «un avvenimento» (soggettivo o oggettivo), ma «un atto» assoluto, necessario e concreto: «Non si ha a che fare con una conseguenza di leggi universali, ma è Dio, cioè la persona di Dio, la legge universale, e tutto ciò che accade, accade in virtù della personalità di Dio: non per una astratta necessità […]»36. È dunque l’atto a caratterizzare la personalità del Dio schellinghiano;37 in tal senso, la filosofia di Schelling si pone in contrasto con tutti i sistemi che – nella sua unione originaria col Fondamento – fanno di Dio un’astratta entità impersonale. In ciò consiste il punto di maggior distacco della filosofia di Schelling dai sistemi immanentistici precedenti – spinozismo compreso. Nella connotazione di Dio come esistenza e personalità, si è anche insinuato il divenire nell’essere. L’Assoluto (o Dio) diviene in quanto si ritrae dall’indistinzione caotica originaria e perciò stesso si è «volontariamente sottomesso»38 al destino cui ogni vita è soggetta. Tale destino giustifica la persistenza del male come antitesi dell’Esistenza. Ma se Dio è l’unità imperscrutabile, la totalità assoluta, allora «il male deve essere separato dal bene, per essere ricacciato in eterno nel non essere. Poiché questo è lo scopo ultimo della creazione […]»39. Per giungere ora al punto più elevato di comprensione del valore positivo e unificante dell’amore, occorre capire in che modo anzitutto sorga la dualità ontologica fra fondamento ed esistenza. Occorre, cioè, rispondere alla domanda circa la distinzione «tra l’essenza in quanto è fondamento, e l’essenza in quanto esiste»40. Si tratta cioè di individuare l’essere che precede ogni fondamento ed ogni esistenza – ovvero, l’essere che precede ogni identità: il non-fondamento (Ungrund). Nel non-fondamento non si dà né identità né differenza, ma solo indifferenza. Esso rappresenta (potremmo dire) l’antitesi di ogni antitesi o la negazione di ogni antitesi. Ma anche questo modo di esprimersi è insufficiente, in quanto non si può concepire antitesi o negazione (tantomeno affermazione) in quanto nell’indifferenza del non-fondamento «gli opposti si infrangono»41 e si «danno» solo attraverso la disgiunzione né-né. Esso è dunque un essere per sé, anzi: l’unico essere per sé: «l’assoluto in quanto tale» che tuttavia è anche «l’essenza del fondamento, come quella dell’esistente»42. Ma proprio da tale indifferenza originaria ha origine la dualità dei principi. Essi non sono considerati come opposti, ma come non-opposti, e dunque sono posti per sé. Da tale distinzione, generatasi senza volontà ma per la natura stessa dell’essenza originaria comune al Fondamento e all’Esistenza, sorge l’amore che riunisce i due principi e realizza lo spirito. «Perciò», argomenta Schelling,

non appena nel non-fondamento sorge la dualità, sorge anche l’amore che lega l’esistente (l’ideale) con il fondamento per l’esistenza. Ma il fondamento resta libero e indipendente dal verbo fino alla scissione completa e definitiva. Poi si dissolve, come la brama iniziale si dissolve nell’uomo, quando perviene a chiarezza e si fonde come essenza permanente, in quanto tutto il vero e il bene in essa viene innalzato a chiara coscienza, e tutto il resto, cioè il falso e l’impuro, viene rinchiuso in eterno nelle tenebre, per rimanere indietro come fondamento eternamente oscuro dell’ipseità, come caput mortuum del suo processo vitale e come potenza che non può mai passare all’atto. Tutto è allora sottomesso allo spirito: nello spirito l’esistente è uno con il fondamento per l’esistenza: […] esso è l’assoluta identità di entrambi.43

L’identità dunque non è più già data sin dall’inizio in un’indistinzione originaria, ma si realizza nel processo che origina dal non-fondamento (Ungrund) o fondamento originario (Urgrund). Lo spirito stesso si realizza a partire da esso: «al di sopra dello spirito sta il non-fondamento iniziale, che non è più indifferenza (equivalenza), e tuttavia non è identità di entrambi i principi, ma l’unità universale (Allgemeine) uguale per tutto senza essere compresa da nulla […], in una parola l’amore, che è tutto in tutto»44. Questo può essere considerato il punto finale dell’argomentazione schellinghiana: la conclusione della logica rigorosa che dispiega la cosmogonia e la genealogia dell’Assoluto. Le pagine che seguono appaiono come una integrazione e spiegazione del sistema, volte a rafforzare la sua concretezza e rispondere preventivamente ad eventuali attacchi. Ma proprio in questi ultimi passaggi si delinea il ruolo dell’uomo in Dio-Stato. Leggiamo: « […] solo Dio come spirito è l’assoluta identità dei due principi, ma soltanto perché e nella misura in cui entrambi sono sottomessi alla sua personalità»45; « Solo l’uomo è in Dio e, appunto per questo essere-in-Dio, capace di libertà. Solo l’uomo è un essere centrale e deve perciò anche rimanere nel centro»46; «In effetti, per quanto anche noi collochiamo in alto la ragione, non crediamo tuttavia per esempio che qualcuno sia virtuoso, o eroe, o comunque un grand’uomo grazie alla ragione […]. Solo nella personalità c’è vita; e ogni personalità riposa su un fondamento oscuro, che deve quindi essere anche fondamento della conoscenza. Ma solo l’intelletto è ciò che tira fuori e innalza all’atto ciò che è nascosto e contenuto solo potenzialmente in questo fondamento. Questo può accadere solo attraverso la separazione, dunque attraverso la scienza e la dialettica […]»47.

Quando si toglie alla filosofia il principio dialettico, cioè l’intelletto che separa, ma appunto perciò ordina e configura organicamente, insieme con l’archetipo verso cui esso si volge […] allora non le rimane altro che cercare di orientarsi storicamente e prendere per fonte e per norma la tradizione, alla quale si è già rinviato in precedenza con un risultato uguale. Allora è tempo di cercare anche per la filosofia una norma e un fondamento storici […]. Tuttavia riteniamo che la verità sia molto più vicina a noi […] dobbiamo cercare la soluzione innanzitutto in noi stessi e sul nostro proprio terreno. […] Il tempo della semplice fede storica si conclude quando è data la possibilità di una conoscenza immediata. Noi abbiamo una rivelazione più antica di quella scritta, la natura.48

Infine Schelling sembra pervenire ad una sorta di mistica della personalità che appare affine all’interpretazione che Boutroux dà della filosofia di Böhme: una «filosofia della personalità, considerata in se stessa e in relazione alla natura»49. La personalità, dal lato di Dio actu, coincide in toto con l’intelletto; dal punto di vista umano, invece, è immersa nel fondo tenebroso originario. L’uomo deve dunque illuminare tramite l’intelletto divino la personalità nel Fondamento ed elevarla allo spirito. La natura in Schelling assume dunque il ruolo che in Hegel ha la storia; con l’inevitabile inversione del primato gnoseologico dell’immediato sul mediato. La definizione di Stato come seconda natura trova qui il suo compimento.50 Perché ciò avvenga, i simboli della natura devono essere illuminati dall’intelletto, di cui la logica dialettica è emanazione; essi potranno così costituire la guida che conduce l’uomo all’armonia in Dio, ovvero alla libertà nel suo senso più concreto: la libertà necessitata.


  1. L. Pareyson, Introduzione, in F. W. J. Schelling, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, a cura di L. Pareyson, Mursia, 1990, pp. 9-10. ↩︎

  2. Nell’edizione italiana il titolo è differente, ma ugualmente significativo: E. Boutroux, Jakob Boehme o l’origine dell’Idealismo tedesco [1888], tr. it. di G. Caviglione, Luni Editrice, Milano 2006. ↩︎

  3. Ivi, p. 33: la teosofia parte dalla descrizione della «nascita di Dio, [del]la maniera in cui Dio genera se stesso». ↩︎

  4. Schelling, Philosophie und Religion [1804], J. G. Cottashen, Tübingen 1804, p. 1; tr. it. Filosofia e religione a cura di V. Verra, in Id., Scritti sulla filosofia, cit., p. 37. ↩︎

  5. Quest’idea trova ricetto in diversi studi. Colui che ha sostenuto questa tesi con maggior forza, col supporto di molteplici fonti e documentazioni, è P. Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, The Golden Sufi Center, California 1999. ↩︎

  6. Schelling, Philosophie und Religion, cit., p. 1; tr. it., p. 37. ↩︎

  7. Ibidem↩︎

  8. Ivi, pp. 73-74; tr. it., p. 72. ↩︎

  9. Ivi, p. 74; tr. it., Ibidem↩︎

  10. Ivi, p. 75; tr. it., p. 73. ↩︎

  11. Ibidem↩︎

  12. Ivi, p.17; tr. it., p. 45. ↩︎

  13. Id., Philosophische Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit [1809] tr. it. Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti che vi sono connessi, testo tedesco a fronte, a cura di S. Drago Del Boca, Bompiani, Torino 2015, p. 93. ↩︎

  14. Ivi, p. 99. ↩︎

  15. Ivi, p. 107. ↩︎

  16. Ivi, p. 123. ↩︎

  17. Ivi, p. 127. ↩︎

  18. Ivi, pp. 129. ↩︎

  19. Ivi, pp. 131 ↩︎

  20. Ivi, pp. 135. ↩︎

  21. Su questo tema rinvio a G. Raciti, Verità senza certezza. Teoria della certezza e verità della prassi nella Fenomenologia dello spirito di Hegel, in «Atti dell’accademia di scienze morali e politiche», CXXI (2012), pp. 125-128. ↩︎

  22. G. Strummiello, Introduzione, in F.W.J. Schelling, Ricerche filosofiche, cit., p. 36. ↩︎

  23. Schelling, Ricerche filosofiche, cit., pp. 145-147. ↩︎

  24. Cfr. E. Boutroux, Jakob Boehme, cit., p. 37: «Il desiderio incosciente e inappagato genera la volontà, ma la volontà, cui appartiene la conoscenza e l’intelletto, regola e fissa il desiderio; all’uno il movimento e la vita, all’altra l’indipendenza e il comando». ↩︎

  25. Schelling, Ricerche filosofiche, cit., pp. 155-157. ↩︎

  26. Ivi, p. 157. ↩︎

  27. Ivi, p. 197. ↩︎

  28. Parliamo di «opposizione» per esigenza esplicativa: in realtà, Schelling non pone una vera e propria opposizione fra i due termini. L’uno non potrebbe essere senza l’altro. Dunque non c’è una vera e propria volontà di annullamento dell’altro, perché annullare l’uno significherebbe annullare anche l’altro. ↩︎

  29. Ivi, p. 205. In questo punto è possibile individuare la «vivificazione» del sistema spinoziano auspicata da Schelling. ↩︎

  30. Ivi, p. 203. ↩︎

  31. Ivi, p. 205. ↩︎

  32. Ivi, p. 209. ↩︎

  33. Ivi, p. 217. ↩︎

  34. Ivi, p. 219. ↩︎

  35. Ivi, p. 229. ↩︎

  36. Ivi, p. 231. ↩︎

  37. Anche qui è presente la dottrina di Bohme: «Personalità – dice Boehme – presuppone pensiero e azione» [cfr. Boutroux, Jakob Boehme, cit., p. 53]. ↩︎

  38. Schelling, Ricerche filosofiche, cit., p. 249. ↩︎

  39. Ivi, p. 251. ↩︎

  40. Ivi, p. 255. ↩︎

  41. Ivi, p. 257. ↩︎

  42. Ivi, p. 259. ↩︎

  43. Ivi, p. 261. ↩︎

  44. Ibidem↩︎

  45. Ivi, p. 263. ↩︎

  46. Ivi, p. 267. ↩︎

  47. Ivi, p. 273. ↩︎

  48. Ivi, pp. 277-279. ↩︎

  49. Boutroux, Jakob Boehme, cit., p. 28. ↩︎

  50. Cfr. infra, nota 5. ↩︎