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Immanuel Kant

Inizio

Il coraggio di sapere

La filosofia di Immanuel Kant [p] intende interpretare lo spirito dell'Illuminismo come definitiva «maggiore età» dell'uomo, raggiunta tramite un uso libero e autonomo del proprio intelletto. Se egli dunque obbedirà a decisive istanze dell'empirismo britannico, ciò non sarà per sminuire il ruolo della ragione, ma anzi per assegnarle un ruolo ancora più decisivo. La ragione critica è infatti quella che è capace di giudicare non solo sulla realtà, ma anche su sé stessa e sulle proprie capacità, sconfiggendo quel fanatismo che deriverebbe da una pretesa di onnipotenza. 

Il primo decisivo campo nel quale si deve esercitare la critica della ragione è quello speculativo: che cosa è in grado di conoscere l'uomo? Dando per ovvia la validità della conoscenza empirica, in questione è la possibilità di un uso puro della ragione, cioè indipendente dall'esperienza. La risposta deve derivare da una dettagliata analisi delle funzioni conoscitive. Anzitutto esiste la sensibilità, che riceve i dati ordinandoli nelle sue forme dello spazio e del tempo; poi l'intelletto, che pensa i dati sensibili. Ora, è vero che l'uomo è in possesso di concetti puri di origine non empirica: ma essi, data la natura non creativa dell'intelletto umano, non possono essere applicati lecitamente se non ad oggetti di possibile esperienza, cioè condizionati dallo spazio e del tempo. In conclusione, oltre alla geometria e all'aritmetica, che traggono la loro validità dalla universale validità di spazio e tempo, l'unica conoscenza non empirica valida è una «metafisica dei corpi», che secondo Kant coincide in gran parte con la fisica di Newton [p]. È invece esclusa la possibilità di una conoscenza che oltrepassi i confini dell'esperienza e raggiunga Dio, l'anima, il mondo nella sua totalità. 

Anche nel campo morale Kant rivendica l'esigenza della centralità della ragione. Qui si tratta di formulare un principio etico veramente universale: ma questo è possibile solo scartando ogni contenuto empirico (come l'obiettivo della felicità, o la volontà divina), e assumendo la struttura stessa di universalità della ragione. Dunque, è morale solo l'azione che obbedisce ad un principio soggettivo che si potrebbe immaginare senza contraddizione come una legge universale (una formula, questa, rispecchiata dal principio evangelico che prescrive di fare agli altri ciò che si vorrebbe fatto a sé stessi). L'esistenza della legge morale permette d'altra parte di affrontare nel campo pratico temi preclusi in quello teorico: la libertà umana, l'immortalità dell'anima, l'esistenza di Dio, tutte condizioni senza le quali l'etica sarebbe assurda. Il fossato che così si apre tra uso speculativo e uso pratico della ragione trova secondo Kant una conciliazione di carattere estetico, pensando cioè la natura come se anch'essa fosse sottoposta ad un finalismo di carattere morale.  

Sommario

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Interno di stanza con una donna di spalle che guarda da una piccola finestra

Caspar David Friedrich [p] (1774-1840), Donna alla finestra. Friedrich fu caratteristico per le raffigurazioni di paesaggi simbolici. Il quadro della donna alla finestra è un caso inconsueto nella sua produzione: un interno semplice e dimesso, che non lascia osservare né la donna, né ciò che la donna sta guardando. Si tratta di un modo originale per lasciare allo spettatore il compito di pensare ciò che sta oltre, nella consapevolezza dei limiti della propria percezione.

Il quadro rispecchia così uno degli elementi centrali della filosofia di Kant: la certezza che la conoscenza umana è sempre molto più limitata del suo pensiero, la cui ampiezza lo costringe tuttavia a non dimenticare quel mondo nel quale la libertà e la moralità hanno un senso.


Königsberg (Prussia), 1724 -- 1804. Dopo aver studiato scienza e filosofia, cominciò la carriera di precettore, finché nel 1755 entrò nell'università della sua città natale come libero docente. La dissertazione con la quale nel 1770 vinse una cattedra (De mundi sensibilis atque intellegibilis forma et principiis) segna l'inizio del periodo «critico» del suo pensiero, che si sviluppò attraverso un insegnamento assiduo e metodico. Nel 1794 venne diffidato dal governo dal continuare ad esprimere le sue idee sulla religione; egli obbedì ma replicò pubblicamente quando l'atmosfera politica mutò (1798). Opere principali: Critica della ragione pura (1781, 2ª ed. 1787), Prolegomeni ad ogni futura metafisica che voglia presentarsi come scienza (1783), Fondazione della metafisica dei costumi (1785), Princìpi metafisici della scienza della natura (1786), Critica della ragione pratica (1788), Critica del giudizio (1790), La religione nei limiti della semplice ragione (1793), Per la pace perpetua (1795), La metafisica dei costumi (1797), Il conflitto delle facoltà (1798), Logica (1800, a cura di un suo allievo).

1. I compiti della ragione

Al termine della feconda stagione dell'illuminismo tedesco, Immanuel Kant intende esprimerne lo spirito assegnandovi proprio alla ricerca filosofica un ruolo essenziale. Le celebri pagine In risposta alla domanda: che cos'è l'illuminismo? riassumono bene la volontà di emancipazione implicita nella filosofia:

L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a sé stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a sé stesso è questa minorità se la causa di essa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e di coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell'illuminismo.

La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo fatti liberi dalla direzione altrui (naturaliter maiorennes), rimangono ciò nondimeno volentieri per l'intera vita minorenni, per cui riesce facile agli altri erigersi a loro tutori. Ed è così comodo essere minorenni! Se io ho un libro che pensa per me, se ho un direttore spirituale che ha coscienza per me, se ho un medico che decide per me sul regime che mi conviene ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero di me. Non ho bisogno di pensare, purché possa solo pagare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione.

Dunque, la filosofia non è altro che la realizzazione più coerente dello spirito dell'illuminismo (Aufklärung [p]): esso consiste in niente più che nel pensare da sé stessi, liberamente, usando in modo personale e intransigente della ragione. L'unica alternativa allo spirito dell'illuminismo -- e dunque della filosofia -- è il fanatismo (Schwärmerei [p]): l'assunzione acritica di una qualche idea senza preoccuparsi di vagliarne la fondatezza. Da ciò è evidente come lo spirito «critico», che contraddistingue la filosofia di Kant secondo le sue stesse dichiarazioni, non è affatto una aggiunta o una correzione del primato della ragione, ma piuttosto il suo unico possibile coronamento. Così può essere interpretato anche l'esistenza nell'opera di Kant di una fase giovanile «pre-critica».

Un segno importante di ciò si trova nel fatto che la struttura del sapere filosofico, ovvero l'«architettonica», rimane sempre molto simile a quella della filosofia razionalista. Anzitutto viene condivisa una preliminare tripartizione delle scienze filosofiche: logica formale, filosofia speculativa, filosofia pratica. La prima indaga solo la forma del pensiero, a prescindere da qualsiasi contenuto; la seconda si rivolge a ciò che è e riguarda quindi il campo della natura; la terza si rivolge a ciò che dev'essere, e interessa il dominio della libertà. Ora, tanto la filosofia speculativa quanto quella pratica (trascurando le loro sezioni empiriche, cioè fisica sperimentale e antropologia pragmatica) vanno entrambe ulteriormente suddivise in due parti: la prima è una parte propedeutica, che può essere chiamata trascendentale, la seconda è la parte dottrinale, che riceve il nome di metafisica.

Per quanto riguarda la filosofia speculativa, è molto semplice ravvisare nella distinzione tra filosofia speculativa trascendentale e metafisica la stessa articolazione che Christian Wolff poneva tra metaphysica generalis (od ontologia) e metaphysica specialis (ulteriormente suddivisa in cosmologia razionale, psicologia razionale e teologia razionale). Di fatto Kant assegna talvolta alla filosofia trascendentale l'inequivocabile qualifica di ontologia. Il nome richiama sùbito la definizione aristotelica della metafisica come «scienza dell'ente in quanto tale» e più da vicino la qualifica wolffiana dell'ontologia come «scienza del possibile», il che viene a sposarsi con naturalezza al nome di «filosofia trascendentale» che Kant preferisce usare (ricordiamo che «trascendentali» venivano chiamate nella filosofia medioevale le caratteristiche inseparabili dall'ente in quanto tale, secondo Tommaso d'Aquino res, unum, aliquid, verum, bonum). In che limiti sia possibile per Kant un'ontologia, lo vedremo più tardi. Ad essa spetta comunque il compito di fondare (o demolire) le diverse metafisiche.

È importante osservare che Kant intende per «metafisica» sostanzialmente la stessa cosa dei suoi contemporanei razionalisti: un «sistema delle conoscenze a priori» (cioè non derivate dall'esperienza), dove «a priori» non significa «innato», ma piuttosto basato su una possibilità innata (Su una scoperta, AB 70-71). Kant condivide infatti col suo tempo l'identificazione tra conoscenza a priori e conoscenza universale e necessaria (cioè certamente applicabile a tutti i possibili casi). Infatti, «voler spremere la necessità da una proposizione empirica (ex pumice aquam), voler con essa conferire anche vera universalità ad un giudizio ... è una completa contraddizione» (Ragione pratica, A 23). Ciò che viene respinto è invece il concetto della verità di Leibniz [p]: non si può affatto ritenere che siano vere solo le proposizioni analitiche (cioè quelle in cui il predicato è contenuto nel soggetto). Anzi, queste sono le proposizioni meno interessanti, perché non allargano affatto la conoscenza, e più che costituire la metafisica devono essere considerate parte della logica. La metafisica dovrà invece essere costituita di proposizioni sintetiche. Si capisce quindi perché per Kant la domanda sulla possibilità e sull'ambito della metafisica equivale alla domanda sulla possibilità e sull'ambito di proposizioni sintetiche a priori.

L'àmbito della metafisica speculativa si presenta bipartito in corrispondenza degli oggetti accessibili ai sensi: un campo di oggetti è costituito da quelli accessibili ai cinque sensi esterni, e dunque in generale i corpi; l'altro comprende l'insieme degli stati psichici accessibili al senso interno, e cioè l'anima. Due saranno così le scienze fondate dall'ontologia: la metafisica dei corpi e la metafisica dell'anima. Oltre all'uso «immanente» della ragione (cioè limitato agli oggetti accessibili ai sensi), che conduce alle due discipline ora considerate, esiste però anche un uso «trascendente», che

riguarda quella connessione degli oggetti di esperienza che oltrepassa ogni esperienza. Questa fisiologia [cioè metafisica della natura] trascendente ha dunque una connessione o interna o esterna ...; la prima è la fisiologia dell'intera natura [e non dei singoli corpi della natura], cioè la conoscenza trascendentale del mondo, la seconda della connessione dell'intera natura con un essere al di sopra della natura, cioè la conoscenza trascendentale di Dio (Ragione pura, A 846/B 874).

Si riconoscono qui le due metaphysicae speciales che erano ancora rimaste scoperte: cosmologia e teologia razionale. Dopo aver riassunto la ripartizione della filosofia speculativa in cinque discipline (ontologia, metafisica dei corpi, metafisica dell'anima, metafisica del cosmo, metafisica di Dio), Kant conclude:

È l'idea originaria stessa di una filosofia della ragione pura che prescrive questa suddivisione; dunque essa è architettonica, conformemente ai suoi fini essenziali, e non semplicemente tecnica, approntata secondo parentele casualmente percepite e per così dire alla ventura; ma proprio per questo è anche immutabile e legislatoria (Ragione pura, A 847/B 875).

Più semplice la situazione riguardo alla filosofia pratica. La distinzione tra filosofia trascendentale e metafisica corrisponde in questo caso molto bene alla comune distinzione tra «etica fondamentale», che indaga appunto i fondamenti e i princìpi della moralità, ed «etica speciale», che applica tali princìpi ai diversi campi dell'esperienza morale. Tale campo viene poi ulteriormente distinto in una «metafisica del diritto» e una «metafisica della virtù», secondo che venga considerata una conformità esterna o interna ai precetti della ragione.

Riassumendo:

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2. La logica formale

La Logica (1800) di Kant non è molto interessante. In genere egli non fa altro che ripetere le dottrine comuni del tempo: è del resto convinto che da Aristotele in poi non c'è nulla di davvero decisivo da correggere o aggiungere nella concezione della logica formale. Inoltre, il rifiuto della concezione della metafisica come complesso di proposizioni analitiche riduce l'importanza della logica formale, sottraendole il predominio sulla metafisica (le proposizioni analitiche derivano infatti tutte dal principio logico di non contraddizione). Ricordiamo allora solo ciò che serve per il seguito.

Anzitutto la logica è divisa in tre parti: teoria del concetto, teoria del giudizio, teoria dell'inferenza (o sillogismo).

Il concetto (Begriff [p]) è uno dei due possibili tipi di «rappresentazione» (Vorstellung [p]). La rappresentazione è nient'altro che l'oggetto della conoscenza umana. Quando essa è singolare, quando si riferisce cioè direttamente ad un oggetto singolo, si chiama «intuizione» (Anschauung [p]), quando è universale si chiama appunto «concetto». Esso è infatti caratterizzato dall'universalità, cioè dalla possibilità di essere applicato a più cose. Dal punto di vista del contenuto un concetto può essere o puro o empirico: concetti empirici sono quelli derivati dall'esperienza (p.es. «scodella», «libro», «penna»: se non avessi mai visto questi oggetti, non ne possederei neanche il concetto); concetti puri sono quelli il cui contenuto è tratto esclusivamente dal pensiero. (Esistono veramente concetti siffatti? e quali sono? A queste domande la logica formale non risponde, perché essa si occupa solo della forma del pensiero, non del contenuto.)

Il giudizio (Urteil [p], ovvero proposizione elementare) è il collegamento di più rappresentazioni (p.es.: la «scodella è bianca»). Il contenuto di un giudizio è costituito ovviamente dai concetti e dalle intuizioni che vi sono collegati (osservando il contenuto è possibile distinguere i giudizi sintetici da quelli analitici). La forma è invece il modo in cui i concetti o intuizioni sono collegati. Riguardo ad essa esistono quattro punti di vista («momenti») fondamentali, ciascuno dei quali prevede tre differenti casi:

Quantità universali particolari singolari
Qualità affermativi negativi indefiniti
Relazione categorici ipotetici disgiuntivi
Modalità problematici assertori apodittici

Integrazione: Esempi: 1. Tutti gli uomini sono bianchi, alcuni uomini sono bianchi, quest'uomo è bianco; 2. Tutti gli uomini sono bianchi, tutti gli uomini non sono bianchi, nessun uomo è bianco; 3. Quest'uomo è bianco, se quest'uomo è europeo allora è bianco, quest'uomo è bianco o nero; 4. Quest'uomo può essere bianco, quest'uomo è bianco, quest'uomo dev'essere bianco; Esempio di analisi completa: alcuni libri possono non essere interessanti: particolare, negativo, categorico, problematico. Fine dell'integrazione

L'inferenza (o sillogismo, Schluss [p]) è la funzione del pensiero tramite la quale viene ricavato un giudizio da un altro (o da altri). Es.: «Tutti gli uomini sono bianchi, dunque: quest'uomo è bianco», «Tutti gli uomini sono esseri razionali, questo è un uomo, dunque: questo è un essere razionale».

Ricordiamo infine che Kant -- sebbene con frequenti oscillazioni -- tende a ripartire l'uso dei tre strumenti logici ora considerati fra tre distinte facoltà: la facoltà dei concetti è l'intelletto (Verstand [p]), la facoltà dei giudizi è il giudizio (Urteilskraft [p], si potrebbe più chiaramente tradurre: il discernimento), la facoltà delle inferenze è la ragione (Vernunft [p]).

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3. La filosofia speculativa trascendentale

3.1. Dall'ontologia alla critica della ragione

La novità del «criticismo» di Kant può essere individuata nel suo punto cruciale esaminando quale sia in esso la sorte dell'ontologia. Nella prospettiva del razionalismo illuminista, essa da una parte vuole essere conoscenza scientifica, realizzata in modo definitivo e universale; dall'altra vuole riguardare tutti gli enti possibili. Ma è sicuro che tutti gli enti possibili possano essere conosciuti? In una celebre annotazione, Kant attribuisce alla lettura delle opere di Hume, e in particolare della sua critica alla nozione di causalità, il sorgere in lui di questo interrogativo (il «risveglio dal sonno dogmatico», Prolegomeni, A 13). Ora, la storia della filosofia moderna è costituita per Kant dal contrasto tra chi afferma ingenuamente una possibilità completa e chi la nega del tutto, e dunque tra chi intronizza e chi detronizza la «regina delle scienze», la metafisica:

Da principio, sotto il governo dei dogmatici [i razionalisti], il suo dominio era dispotico. Tuttavia, poiché la legislazione conservava in sé la traccia dell'antica barbarie, essa degenerò man mano attraverso guerre intestine sino ad una totale anarchia, e gli scettici [gli empiristi], una specie di nomadi che aborriscono ogni durevole colonizzazione della terra, scompaginarono di tempo in tempo il consorzio civile. Dato però che costoro erano per fortuna solo pochi, non poterono impedire che quegli altri tentassero ogni volta di ricostituirla di nuovo, per quanto senza un piano su cui fossero concordi. ... Ora, dopo che sono state tentate tutte le vie (come si crede), regnano la svogliatezza e un totale indifferentismo: il che è la madre del caos e della notte nelle scienze ... . Tuttavia questa indifferenza -- che si presenta in mezzo alla fioritura di tutte le scienze e colpisce proprio quella alle cui conoscenze, se si potessero possedere, si rinunzierebbe meno che a tutte le altre -- pure è un fenomeno che merita attenzione e riflessione. Essa è evidentemente l'effetto non della leggerezza, bensì del maturato giudizio dell'epoca, la quale non si fa più trattenere da un sapere apparente; essa è inoltre un incitamento alla ragione, perché assuma di nuovo la più gravosa di tutte le sue incombenze, ossia quella della conoscenza di sé, e perché istituisca un tribunale che la garantisca nelle sue giuste aspirazioni, ma possa invece sbarazzarsi di tutte le pretese senza fondamento, non con sentenze autoritarie, ma in base alle sue eterne e immutabili leggi. E questo tribunale non è altro se non proprio la critica della ragione pura (Ragione pura, A XI-XII).

E questo è appunto il titolo dell'opera che Kant pubblicò nel 1781 e in seconda edizione nel 1787. Ma un'indagine simile merita di esser chiamata ontologia? La risposta di Kant è oscillante. Il nome va certamente respinto se con esso s'indica la pretesa di conoscere ogni cosa prima di un esame delle capacità della mente umana: «Il superbo nome di ontologia, che presume di dare in una dottrina sistematica conoscenze sintetiche a priori di cose in generale, deve far posto al modesto nome di una semplice analitica dell'intelletto puro» (Ragione pura, A 247/B 303). La denominazione può essere invece accettata se ci si riferisce alla funzione: il tribunale della ragione -- esattamente come intendeva fare l'ontologia razionalista -- pone le uniche basi possibili per una conoscenza universale (Progressi della metafisica, A 10-11). Un'ontologia critica riguarda allora «solo l'intelletto e la ragione stessa in un sistema di tutti i concetti e princìpi che si riferiscono ad oggetti in generale che possono essere dati» (Ragione pura, A 846/B 874).

In conseguenza di tale nuovo compito anche l'aggettivo «trascendentale», ereditato dalla filosofia razionalista, assume un senso particolare: esso indica «ogni conoscenza che in generale si occupa non di oggetti, ma del nostro modo di conoscere oggetti in quanto essa dev'essere possibile a priori» (Ragione pura, A 12/B 25). È però inesatto affermare che il termine «trascendentale» cambia nettamente significato nella filosofia Kantiana: bisogna piuttosto dire che con esso continua ad essere inteso il problema della conoscenza che supera ogni determinazione categoriale e dunque assolutamente universale: è invece la risposta a tale problema che muta, giacché, come vedremo, il luogo del trascendentale diventa la mente dell'uomo e non più la realtà in sé.

In conclusione: la filosofia trascendentale deve intraprendere una critica delle facoltà conoscitive dell'uomo a prescindere dall'esperienza, cioè nel loro uso puro. (La validità della conoscenza empirica e quindi particolare è per Kant una ovvietà, e non ha bisogno quindi di alcuna critica.) Solo in questo modo si potrà appurare l'ambito di validità della metafisica. Ecco la necessaria premessa dell'analisi:

La nostra conoscenza emana da due fonti basilari dell'animo: la prima di queste consiste nel ricevere le rappresentazioni (recettività delle impressioni), e la seconda è la facoltà di conoscere un oggetto tramite queste rappresentazioni (spontaneità dei concetti). ... Intuizione e concetti costituiscono quindi gli elementi di ogni nostra conoscenza, cosicché una conoscenza non può essere fornita né da concetti privi di una intuizione in qualche modo corrispondente ad essi, né da un'intuizione priva di concetti. Entrambi questi elementi sono o puri o empirici. Sono empirici, quando in essi è contenuta una sensazione (la quale presuppone la presenza dell'oggetto); sono invece puri, quando nessuna sensazione è mescolata alla rappresentazione. La sensazione si può chiamare la materia della conoscenza sensibile. L'intuizione pura contiene perciò unicamente la forma sotto cui un qualcosa viene intuìto, e il concetto puro soltanto la forma del pensiero di un oggetto in generale. ...

Se la recettività del nostro animo -- ossia la sua capacità di ricevere rappresentazioni, in quanto esso viene modificato in qualche maniera -- è da noi chiamata sensibilità, per contro la facoltà di produrre in modo autonomo rappresentazioni, ossia la spontaneità della conoscenza, è l'intelletto. La nostra natura è costituita in modo tale che l'intuizione non può mai essere altrimenti che sensibile, ossia contiene soltanto il modo in cui noi siamo modificati da oggetti. ... Di conseguenza, noi distinguiamo la scienza delle regole della sensibilità in generale, cioè l'estetica, dalla scienza delle regole dell'intelletto in generale, cioè la logica (Ragione pura, B 74-75).

Dunque, va respinta sia l'opinione di chi ritiene il dato sensibile un'idea confusa (Leibniz e in generale il razionalismo), sia di chi sostiene al contrario che l'idea risulta da uno sbiadimento di sensazioni (Hume e in generale l'empirismo). Sensibilità e intelletto sono invece due fonti differenti, dalla cui collaborazione solo nasce la conoscenza. Osserviamo poi che in Kant negare la presenza nell'uomo di un'intuizione intellettuale significa sottolineare la sua finitezza: affermare un'intuizione intellettuale significherebbe sostenere che il pensiero ha di per sé valore conoscitivo: ma dato che il pensiero è spontaneo (io posso pensare ciò che voglio) si ammetterebbe così una mente creatrice, grazie alla quale quanto viene spontaneamente pensato per ciò stesso viene all'esistenza.

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3.2. L'estetica trascendentale

L'estetica trascendentale inizia dunque il compito critico. La sua domanda fondamentale è: esistono intuizioni pure? Kant risponde di sì: esse sono lo spazio e il tempo. Più in particolare, lo spazio è la forma di quell'intuizione derivante dai cinque sensi esterni, il tempo è la forma di quell'intuizione derivante dal senso interno (o appercezione empirica), cioè il senso tramite cui l'uomo percepisce sé stesso e dunque anche le sue rappresentazioni in quanto modificazioni del suo animo. Ciò significa però che spazio e tempo, in quanto forme, hanno una realtà puramente soggettiva (cioè relativa all'animo dell'uomo): non sono né enti reali (come voleva Newton), né concetti generali dei rapporti tra le cose in sé (come voleva Leibniz). Che non siano enti reali (e che quindi la loro intuizione non sia empirica) è dimostrato dal fatto che ogni intuizione li suppone, e non potrebbe neanche aver luogo senza di essi. Che non siano concetti generali è invece mostrato dal fatto che le loro rappresentazioni sono sempre e solo uniche (più spazi o più tempi sono impossibili), il che è contrario alla natura di qualsiasi concetto astratto, ma è viceversa richiesto dalla loro natura intuitiva.

Integrazione: Si noti infine che tra spazio e tempo, una certa supremazia va riconosciuta al secondo:

Lo spazio, in quanto forma pura di ogni intuizione esterna, è limitato, come condizione a priori, semplicemente ad apparenze esterne. Al contrario, dato che tutte le rappresentazioni -- non importa che abbiano o no come oggetto cose esterne -- appartengono comunque in sé stesse, come determinazioni dell'animo, allo stato interno, mentre questo stato interno cade poi sotto la condizione formale dell'intuizione interna, e quindi del tempo, il tempo allora è una condizione a priori di ogni apparenza in generale, e più precisamente la condizione immediata delle apparenze interne (delle nostre anime) e proprio per questo, indirettamente, anche delle apparenze esterne (Ragione pura, B 60).

Fine dell'integrazione

La natura dello spazio e del tempo mostra in conclusione che essi sono condizioni soggettive della sensibilità: l'intuizione sensibile è possibile solo se sottomessa allo spazio e al tempo. Questa soluzione viene chiamata da Kant «idealismo formale» o «trascendentale» o «critico»; ciò che è ideale, cioè unicamente dovuto al soggetto, è infatti la forma, ovvero ciò che rende possibile ogni possibile conoscenza sensibile. Si noti che «soggettivo» non vuol dire affatto «arbitrario» o «mutevole», ma anzi «universale»: ciò perché, come già detto, è universale tutto ciò che deriva dalle pure facoltà dell'uomo.

In questo modo è possibile anche comprendere dove sia fondata la validità oggettiva di due scienze la cui certezza non viene mai messa in questione: la geometria e la matematica. Esse sono universalmente valide perché non fanno altro che indagare la struttura delle due intuizioni pure della sensibilità: la geometria quella dello spazio, la matematica quella del tempo (tramite il concetto di numero che è rappresentabile come successione temporale). La situazione è apparentemente paradossale: queste due scienze sono oggettivamente valide perché fondate su forme soggettive. In realtà, non c'è nessuna contraddizione quando si rifletta che le strutture soggettive della sensibilità sono le uniche che «mettono ordine» in semplici sensazioni altrimenti caotiche, prescrivendo loro una forma che è assolutamente universale. Viceversa, se non esistessero le forme dello spazio e del tempo, qualsiasi scienza universale della sensibilità sarebbe impossibile: tutte le intuizioni sarebbero infatti empiriche, ed è illusorio cercare di trarre «ex pumice aquam». Nascono così alcune importanti e sorprendenti conseguenze:

Noi abbiamo dunque voluto dire che tutta la nostra intuizione non è altro che la rappresentazione di un'apparenza (Erscheinung [p]); che le cose da noi intuite non sono in sé stesse così come le intuiamo, e che i loro rapporti non sono costituiti in sé così come appaiono a noi; che se noi sopprimiamo il nostro soggetto, o anche soltanto la costituzione soggettiva dei sensi in generale, in tal caso tutta quanta la costituzione e tutti i rapporti degli oggetti nello spazio e nel tempo, anzi persino lo spazio e il tempo, sono destinati a svanire. Tutte queste cose, in quanto apparenze, non possono esistere in sé stesse, ma esistono soltanto in noi. Di che cosa mai possa trattarsi, riguardo agli oggetti in sé stessi, separati da tutta questa recettività della nostra sensibilità, ci rimane perfettamente ignoto. Noi non conosciamo altro che il nostro modo di percepire gli oggetti (Ragione pura, B 65).

È sufficiente così l'estetica per formulare quella coppia concettuale che rimane uno dei frutti più tipici della filosofia di Kant: l'uomo può conoscere solo l'apparenza, ma la cosa in sé è ignota -- o, con altri termini, l'uomo può conoscere solo il fenomeno, ma il noumeno (cioè la cosa come potrebbe essere conosciuta da un eventuale intelletto intuitivo) è ignoto. Ma proprio questo limite, come abbiamo visto, fonda la possibilità di una conoscenza pura universale, e quindi di una qualche metafisica.

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3.3. L'analitica e la deduzione trascendentale

La seconda parte della Critica è costituita dalla logica trascendentale. Essa a sua volta è suddivisa in analitica trascendentale e dialettica trascendentale. Questi due termini vengono presi nel senso sostanzialmente aristotelico di «logica della verità» e «logica dell'illusione». Il problema dell'analitica è simile a quello dell'estetica: esistono concetti puri? (Kant usa anche la denominazione di «categoria», ritenendo che l'intento di Aristotele fosse simile al suo.) È la domanda lasciata in sospeso dalla logica formale. Questa la strada individuata:

Se tutte le intuizioni, in quanto sensibili, si basano su sensazioni, i concetti si basano su funzioni. Intendo per funzione l'unità dell'atto di ordinare diverse rappresentazioni [concetti o intuizioni] sotto una comune. ... Di questi concetti l'intelletto non può fare alcun altro uso che giudicare tramite di essi (Ragione pura, A 68/B 93).

Bisognerà quindi ammettere che ad ogni forma del giudizio, messa in luce dalla logica formale, corrisponda un concetto puro. Ecco la tavola dei concetti puri risultante (Ragione pura, B 106; Prolegomeni, A 86):

Quantità unità molteplicità totalità
Qualità realtà negazione limitazione
Relazione sostanza causa reciprocità
Modalità possibilità esistenza necessità

In questo modo si è mostrato come l'intelletto possegga concetti che non derivano dall'esperienza. Ma quale pretesa di validità possono avere le categorie? Questo è il problema dei limiti della ragione pura, e dunque il problema fondamentale della prima Critica, a cui Kant intende rispondere nella «deduzione trascendentale», dove «deduzione» va compreso nel senso giuridico di «giustificazione». Esistono due aspetti distinti di questo problema. Il primo è quello che riguarda propriamente i limiti di applicazione: entro quali confini le categorie hanno validità e dove invece perdono di qualsiasi valore conoscitivo? Il secondo riguarda l'origine della validità delle categorie: in quale modo esse, sebbene soggettive, hanno tuttavia una validità oggettiva e universale? L'aspetto fondamentale è per Kant il primo. Che le categorie abbiano una validità è infatti mostrato dal fatto stesso dell'esistenza della fisica di Newton, in cui sono palesemente contenuti giudizi sintetici a priori. Appurare come ciò possa avvenire, è per Kant un compito molto utile e importante, ma non necessario: tanto è vero che è l'unico tema per il quale egli si accontenta di presentare «opinioni» anziché certezze compiutamente dimostrate. Fatto sta che il continuo intreccio dei due problemi rende l'esposizione della deduzione trascendentale molto complessa, tanto nella prima edizione della Critica quanto nella seconda, in cui tutta la sezione venne completamente riformulata soprattutto riguardo al secondo aspetto. Un'esposizione più schematica e chiara si trova però in una nota dei Princìpi metafisici della scienza della natura:

1. Dato che la tavola delle categorie contiene completamente tutti i concetti puri dell'intelletto, e proprio così tutte le operazioni formali che l'intelletto compie nei giudizi, dalle quali le categorie sono ricavate e anzi in nulla distinte, in quanto tramite il concetto dell'intelletto un oggetto viene pensato come determinato in riferimento all'una o all'altra funzione dei giudizi ... ;

2. dato che l'intelletto per sua natura porta con sé princìpi sintetici a priori, tramite cui esso sottopone a quelle categorie tutti gli oggetti che gli possano essere dati; ammesso dunque anche che ci devono essere intuizioni a priori che contengono le condizioni richieste all'applicazione di quei concetti puri dell'intelletto, perché senza intuizione non avrebbe luogo nessun oggetto, in riferimento al quale la funzione logica potrebbe essere determinata come categoria, e dunque non avrebbe luogo neanche alcuna conoscenza di un qualsivoglia oggetto ...;

3. dato che queste intuizioni pure non possono essere mai nient'altro che semplici forme delle apparenze dei sensi esterni o del senso interno (spazio e tempo), di conseguenza forme solo degli oggetti di possibile esperienza;

allora segue che ogni uso della ragione pura non può andare mai a nient'altro che ad oggetti dell'esperienza [possibile] ... . Solo questo è il vero e sufficiente fondamento della determinazione dei confini della ragione pura (Princìpi metafisici, A XVIII).

Riducendo all'osso il ragionamento: 1. le categorie hanno un uso soltanto logico, quindi da sole -- senza l'ausilio di un'intuizione, che nell'uomo è solo sensibile -- non possono determinare alcun oggetto; 2. l'unico modo per ottenere giudizi a priori è dunque connettere le categorie con intuizioni pure; 3. tali intuizioni pure non sono però altro che forme dell'intuizione, cioè condizioni cui sottostà ogni sensazione e dunque ogni esperienza; dunque, «l'intero uso speculativo della nostra ragione non giunge mai al di là degli oggetti di possibile esperienza» (Princìpi metafisici, A XVI). Oltre questo campo, le categorie perdono di ogni validità, perché verrebbe smentita la natura essenzialmente finita della conoscenza dell'uomo, che richiede che un oggetto sia ricevuto (nella sensibilità) per poter essere conosciuto. È questa la risposta fondamentale della filosofia trascendentale speculativa.

Integrazione: Ecco un passo in cui Kant riassume ancora più brevemente la questione, derivandola direttamente dalla finitezza della conoscenza umana:

Non possiamo pensare nessun oggetto se non tramite categorie; non possiamo conoscere nessun oggetto pensato se non tramite intuizioni che corrispondono ai quei concetti. Ora, tutte le nostre intuizioni sono sensibili, e questa conoscenza, in quanto il suo oggetto è dato, è empirica. Ma la conoscenza empirica è l'esperienza. Dunque, non ci è possibile nessuna conoscenza a priori, se non solo di oggetti di possibile esperienza (Ragione pura, B 165-6).

Fine dell'integrazione

Ora, il secondo aspetto della deduzione: perché le categorie sono valide entro i limiti stabiliti? La risposta di principio -- analoga a quella dell'estetica trascendentale -- è semplice:

Ogni esperienza contiene anche, oltre all'intuizione dei sensi grazie alla quale qualcosa è dato, un concetto di un oggetto che sia dato nell'intuizione o che si sia mostrato; di conseguenza, concetti di oggetti vengono a trovarsi in quanto condizioni a priori a fondamento di ogni conoscenza sperimentale; così, la validità oggettiva delle categorie in quanto concetti a priori poggia sul fatto che solo grazie ad esse è possibile un'esperienza (secondo la forma del pensiero). Le categorie si riferiscono allora in maniera necessaria e a priori ad oggetti dell'esperienza perché solo grazie ad esse un oggetto dell'esperienza può essere pensato (Ragione pura, B 126).

Integrazione: Il problema molto complesso (ma secondo Kant secondario) consiste invece nel mostrare in quale modo le categorie rendano possibile l'esperienza. Indichiamo a grandi linee la risposta della seconda edizione della Critica. La chiave viene individuata da Kant nella nozione di appercezione pura (o trascendentale, od originaria, o autocoscienza): cioè la coscienza di esistere indipendentemente dalla percezione attuale dello stato del proprio animo (si ricordi che l'appercezione empirica è invece il senso interno). Essa è la prima conoscenza pura che l'intelletto umano possiede, e può venire espressa dalla proposizione «io penso» (è evidente l'eco di Descartes [p]). Della sua esistenza siamo certi: infatti, in maniera consapevole o inconsapevole, «deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni, perché altrimenti in me verrebbe rappresentato un qualcosa che non potrebbe affatto venir pensato» (Ragione pura, B 108): l'appercezione pura è così il centro unificatore che fa sì che le mie rappresentazioni siano effettivamente mie.

Ora, l'«io penso» deve essere anche ritenuto la forma logica di ogni giudizio. Infatti, per poter dire «la scodella è bianca» devo unire due concetti; ma dove unirli se non nella mia autocoscienza, che fa sì che tanto il concetto di «scodella» quanto quello di «bianchezza» siano in questo momento miei? Questa sintesi (che riguarda l'intelletto) deve essere evidentemente alla base di un'altra sintesi, quella che riunisce tramite le forme pure i dati sensibili in un'unica intuizione: le intuizioni sono infatti percepite come riferentisi allo stesso io che pensa. In questo modo, si è mostrato come l'intera esperienza dipenda dall'appercezione pura. Ma le categorie -- in quanto forme del giudizio -- non sono altro che l'atto intellettuale mediante cui una rappresentazione viene ricondotta all'appercezione pura: «di conseguenza, ogni sintesi con la quale la percezione stessa è resa possibile cade sotto le categorie e, poiché l'esperienza è conoscenza ottenuta con la connessione di percezioni, allora le categorie sono condizioni della possibilità dell'esperienza e valgono a priori anche per tutti gli oggetti dell'esperienza» (Ragione pura, B 161).

All'analitica dei concetti segue l'analitica dei princìpi (o proposizioni fondamentali). Essa è più semplice, perché non fa altro che tirare le conseguenze dei dati che sono stati assodati. Anzitutto viene affrontato un problema preliminare: come possono i concetti puri applicarsi ad intuizioni empiriche, trattandosi di due elementi del tutto eterogenei? La risposta: tramite la mediazione di un elemento che sia parzialmente omogeneo ad entrambi, vale a dire puro come le categorie ma intuitivo come le intuizioni empiriche. Questo elemento può essere ovviamente solo o lo spazio o il tempo. Ma tra i due (come già visto) è il tempo che possiede maggiore universalità e che può dunque assolvere questo compito. In corrispondenza di ciascuna delle dodici categorie sarà dunque necessario uno «schema» basato sul tempo. Un solo esempio: la successione è lo schema corrispondente alla categoria causa ed effetto (quando due eventi appaiono in necessaria successione, li penso come l'uno causa dell'altro).

Poi si tratta di ricavare tutti i princìpi dell'intelletto che offrano un «canone» (cioè un regolamento) alla facoltà del giudizio, in corrispondenza con la tavola delle categorie. Ciò non significa che sia sufficiente questo canone per poter sempre giudicare bene: perché tali princìpi si riferiscono solo al campo trascendentale. In generale, invece, non può esistere alcuna regola per il giudizio, e «la mancanza di giudizio è propriamente ciò che si chiama stupidità, e ad un tale difetto non c'è rimedio» (Ragione pura, A 133/B 172). Bisogna però anzitutto cercare un principio unificatore. Ora, nel caso dei giudizi analitici esso è noto: si tratta del principio di non contraddizione («a nessuna cosa si può applicare un predicato che la contraddice», Ragione pura, A 151/B 190). La novità sta nell'individuare invece il principio supremo di tutti i giudizi sintetici: esso, coerentemente con i risultati finora raggiunti, suona così: «Qualsiasi oggetto sta sotto le necessarie condizioni dell'unità sintetica del molteplice dell'intuizione in una possibile esperienza» (Ragione pura, A 158/B 197). Dunque, «tutti i princìpi dell'intelletto puro non sono altro che princìpi a priori della possibilità dell'esperienza, e solo a quest'ultima si riferiscono anche tutte le proposizioni sintetiche a priori, anzi la loro stessa possibilità si fonda totalmente su questa relazione» (Ragione pura, B 294). Essi sono secondo Kant i seguenti:

Con ciò siamo già alle soglie della metafisica della natura, che non dovrà fare altro che specificare tali princìpi. Alcune osservazioni. Il 3.2. è nient'altro che il principio di ragion sufficiente, la cui critica aveva svegliato Kant «dal sonno dogmatico». Ora si è finalmente mostrato che è universalmente valido. Nell'interpretazione Kantiana esso afferma che tutta la natura è sottoposta alla ferrea legge della necessità. Come in questo modo non venga tuttavia negata la libertà, si vedrà più tardi. Il 4.1 indica la possibilità che Kant chiama «reale», contrapposta alla possibilità «logica» che è la semplice non contraddittorietà; la differenza in alcuni casi è molto importante: Dio è logicamente possibile, ma ciò non significa che sia anche realmente possibile. Il 4.2. è niente meno che la risposta di Kant all'eterno problema dell'essere: se l'essere come copula è stato già spiegato nella deduzione trascendentale, l'essere come predicato, dal punto di vista dell'uomo, non può essere nient'altro che l'essere-dato nella sensazione. Un esistere al di fuori di questa condizione è certamente «pensabile», ma in nessun modo conoscibile. Fine dell'integrazione

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3.4. La dialettica trascendentale

L'analitica dei concetti ha mostrato in quale modo l'intelletto (mediante l'armamentario delle categorie) detti legge riguardo alla conoscenza. Ciò è stato mostrato all'opera dall'analitica dei princìpi, che mostra come la facoltà di giudizio debba stare agli ordini dell'intelletto. Ma quale ruolo attribuire alla ragione in senso stretto, cioè alla facoltà dell'inferenza? (Si ricordi la classificazione offerta dalla logica formale.) La dialettica trascendentale ha il compito di mostrare come la ragione non abbia di per sé (cioè indipendentemente dalle condizioni stabilite dall'intelletto) alcun ruolo conoscitivo. Essa tende infatti, mediante l'inferenza, a raggiungere l'incondizionato, l'assoluto, ma così facendo tenta di superare i confini della possibile esperienza, che abbiamo invece visto invalicabili. La dialettica si presenta quindi come l'analisi degli errori commessi dalla metafisica nel suo uso trascendente, e cioè dalla cosmologia razionale e dalla teologia razionale.

Si osservi tuttavia che basta la deduzione trascendentale per sapere che esse sono impossibili come scienze: il loro oggetto infatti (Dio o il mondo) non è un oggetto di possibile esperienza: Dio è infatti per definizione al di fuori dello spazio e del tempo, e il mondo come totalità non può essere evidentemente oggetto di una percezione. Nella stessa condanna viene trascinata anche la metafisica dell'anima (o psicologia razionale) che di per sé rappresenta un uso immanente della ragione. Perché? Le motivazioni di Kant oscillano. Una tra le più semplici è questa:

Ritengo che in ogni teoria particolare della natura può essere trovata solo tanta autentica scienza, quanta matematica c'è. ... La psicologia empirica deve necessariamente rimanere sempre lontana dal rango di quella che si può chiamare propriamente una scienza della natura, anzitutto perché la matematica non è applicabile ai fenomeni del senso interno e alle loro leggi. ... Infatti l'intuizione pura interna in cui dovrebbero essere costruiti i fenomeni psichici, è il tempo, che ha solo una dimensione (Princìpi metafisici, A VIII-XI).

Integrazione: L'analisi che Kant intraprende è lunga e complessa. Nel caso della psicologia razionale si tratta di mettere in luce i paralogismi, cioè i sillogismi scorretti che pretendono di costruire una dottrina puramente razionale dell'anima partendo dall'unica proposizione «io penso». Ecco il paralogismo fondamentale: «Ciò la cui rappresentazione è il soggetto assoluto dei nostri giudizi e dunque non può essere usato come determinazione di un'altra cosa, è sostanza. Io, come essere pensante, sono il soggetto assoluto di tutti i miei possibili giudizi, e questa rappresentazione di me stesso non può essere usata come predicato di una qualsiasi altra cosa. Dunque io sono, come essere pensante (anima), sostanza» (Ragione pura, A 348). L'errore consiste in Kant nel fatto che l'«io penso» di cui si parla, che è il soggetto logico del pensiero, viene confuso con il soggetto reale: ma la realtà di un concetto può essere data solo da una intuizione corrispondente, della quale invece non c'è traccia in tale ragionamento; l'affermazione della sostanzialità dell'anima è quindi non falsa, ma vuota.

Nel caso della cosmologia razionale invece la ragione cade in antinomie, cioè in questioni riguardo alle quali sembra di poter dimostrare tanto una tesi quanto quella opposta. Per esempio: «Tesi: Il mondo ha un inizio nel tempo, ed è chiusi in limiti anche secondo lo spazio. Antitesi: Il mondo non ha né inizio né limiti nello spazio, ma è infinito tanto in relazione al tempo quanto allo spazio» (Ragione pura, A 426-7/B 454-5). (Le tesi rappresentano le posizioni razionalistiche, le antitesi quelle empiristiche.) L'errore qui consiste nel considerare il «mondo» come una cosa in sé: «Poiché il mondo non esiste affatto in sé ... , dunque esso non esiste né come un tutto in sé infinito, né come un tutto in sé finito. Esso può trovarsi solo nel regresso empirico della serie delle apparenze, e niente affatto per sé stesso» (Ragione pura, A 505/B 533).

La teologia razionale viene considerata da Kant come il tentativo di costruire una scienza su un'ideale, cioè un'idea della ragione rappresentata come un individuo. Ciò avviene fondamentalmente nelle dimostrazioni dell'esistenza di Dio: la dimostrazione ontologica (che si basa sul concetto di ente realissimo: è la prova di Anselmo), la dimostrazione cosmologica (che dall'esistenza del contingente conclude l'esistenza dell'assolutamente necessario: è la terza via di Tommaso), la dimostrazione fisico-teologica (che dall'ordine e dalla bellezza del mondo deduce l'esistenza di Dio come finalità dell'universo: è la quinta via di Tommaso). Veramente a priori è però solo la dimostrazione ontologica (sulla quale secondo Kant si fondano tacitamente anche le altre due), che dalla possibilità di un ente realissimo conclude la necessità logica di attribuirgli anche l'esistenza. Ma tale dimostrazione è inconsistente:

Vi domando: la proposizione «questa o quella cosa ... esiste», questa proposizione, dico, è una proposizione analitica oppure sintetica? Se è analitica allora voi con l'esistenza della cosa non aggiungete nulla al vostro pensiero della cosa, ma allora o il pensiero che è in voi dovrebbe essere la cosa stessa, oppure voi avete presupposto un'esistenza come appartenente alla possibilità, ed avete poi preteso di dedurre l'esistenza dalla possibilità interna, il che non è altro se non una povera tautologia. ... Se invece voi ammettete -- com'è giusto che ogni essere ragionevole debba ammettere -- che ogni proposizione esistenziale è sintetica, come vorrete allora sostenere che il predicato dell'esistenza non può essere tolto senza contraddizione? Infatti questa proprietà compete solo alle proposizioni analitiche, in quanto il loro carattere si fonda appunto su ciò (Ragione pura, A 597-8/B 625-6).

L'esame della prova ontologica dà a Kant l'occasione per una discussione sull'essere che rimarrà molto celebre:

«Essere», evidentemente, non è un predicato reale (real [p]), cioè un concetto di qualcosa che possa aggiungersi al concetto di una cosa. È semplicemente la posizione di una cosa, o di certe determinazioni in sé stesse. ... Oggetto e concetto debbono avere esattamente lo stesso contenuto, e dunque al concetto -- che esprime semplicemente la possibilità -- non può aggiungersi nulla di ulteriore per il fatto che io pensi il suo oggetto come assolutamente dato (mediante l'espressione «esso è»). E così l'attuale (wirklich [p]) non contiene nulla di più che il semplicemente possibile. Cento talleri attuali non contengono la minima cosa più di cento talleri possibili. ... Rispetto allo stato del mio patrimonio, invece, in cento talleri attuali c'è più che nel loro semplice concetto (ossia nella loro possibilità) (Ragione pura, A 598-9/B 626-7).

Fine dell'integrazione

In questo modo resta superstite una sola delle quattro metafisiche previste dall'architettonica: la metafisica dei corpi. In conclusione, la metafisica esce assolta o condannata dal tribunale della ragione? La risposta dev'essere articolata: da una parte è stato chiaramente mostrato che essa è possibile: si possono cioè raggiungere conoscenze universali e razionali, sia pur limitate al solo mondo corporeo (gli «oggetti di possibile esperienza»); dall'altra, si è visto invece il fallimento della sua profonda intenzione, che è quella di raggiungere l'incondizionato e il sovrasensibile. Da qui deriva la compresenza di espressioni apparentemente contraddittorie nelle opere di Kant. Ma contraddittori secondo Kant sono invece gli intenti della metafisica, che da una parte pretende di giungere ad una cosa in sé sovrasensibile, dall'altra vuole stabilire conoscenze universali e cioè a priori: ma queste ultime sono possibili proprio perché l'uomo conosce solo le apparenze, che sono sempre strutturate dalle forme della sensibilità e dell'intelletto umano e dunque all'uomo si presentano in maniera regolare:

Se gli oggetti con cui la nostra conoscenza ha a che fare fossero cose in sé, allora non potremmo averne nessun concetto a priori. ... Al contrario, se noi dappertutto abbiamo a che fare solo con apparenze, allora non è solo possibile, ma anche necessario, che certi concetti a priori precedano la conoscenza empirica degli oggetti (Ragione pura, A 128).

Per i tre oggetti delle metafisiche «impossibili», cioè Dio, mondo e anima, Kant usa il nome platonico di idee, che ricorda l'intento di superare i limiti dell'esperienza, riservando però al concetto di Dio, che rappresenta una totalità superiore agli altri due, il nome di «ideale trascendentale». Abbiamo detto che questi tre concetti non possono avere valore conoscitivo: essi sono anzi la più chiara dimostrazione del fatto che il pensiero non ha alcun limite (esso è caratterizzato dalla spontaneità), ma che questa sua caratteristica non è di alcun vantaggio per l'estensione della conoscenza. Le idee posseggono tuttavia un valore regolativo: esse servono cioè a dare alla ragione uno stimolo alla ricerca e all'ordinazione dei dati sperimentali in insiemi sempre più vasti. In quanto tali, esse posseggono dunque una loro necessità. Ma anche al di là di questa utilità pratica, l'uomo non potrebbe fare a meno di pensare Dio, l'anima, il mondo: è la ragione stessa che lo costringe a costruire questi concetti di oggetti inconoscibili. Ecco perché Kant ha definito immutabile una struttura del sapere filosofico che esige ben tre discipline in realtà impossibili. Le righe iniziali della prima prefazione della Critica della ragione pura esprimono bene questa strana situazione:

La ragione umana ha questo peculiare destino in un genere delle sue conoscenze: che essa viene afflitta da domande che non può respingere, perché le sono assegnate dalla natura della ragione stessa, e a cui però non può neanche dare risposta, perché esse superano ogni capacità della ragione umana (Ragione pura, A VII).

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4. La metafisica dei corpi

Come abbiamo visto, è questa l'unica metafisica possibile una volta mostrata l'impossibilità delle altre. Essa viene esposta nelle sue linee essenziali nei Princìpi metafisici della scienza della natura (1786). È facile riconoscervi una rielaborazione della philosophia naturalis newtoniana, vista però (probabilmente a buon diritto) non come una scienza empirico-sperimentale sul modello galileiano, ma piuttosto come un sistema di proposizioni ricavabili a priori dalla struttura percettiva dell'uomo proiettata sui suoi concetti puri. I «teoremi» vengono così ricavati dai princìpi costruiti nella Critica, e sono articolati in «Foronomia» (cioè cinematica, in corrispondenza delle categorie della quantità), «Dinamica» (qualità), «Meccanica» (relazione), «Fenomenologia» (dottrina del movimento in rapporto al modo di rappresentarlo, cioè teoria della relatività galileiana, in corrispondenza alla modalità).

È molto facile accusare l'esposizione Kantiana di una notevole macchinosità. È opportuno però osservare che si tratta dell'ultimo grande tentativo di comprendere -- all'interno di una struttura filosofica «classica» -- la scienza naturale nei suoi princìpi, nei suoi sviluppi e nelle sue intenzioni. Kant possedeva del resto una notevole sensibilità scientifica: a lui si deve per esempio la prima formulazione dell'ipotesi sulla nascita del sistema solare (nota come «ipotesi Kant-Laplace»), che è sostanzialmente accettata fino ad oggi.

La metafisica dei corpi non rappresenta però quella soddisfazione di cui andava in cerca la ragione umana. Così termina infatti l'esposizione, che si è occupata nelle ultime righe sul concetto di «vuoto»:

E così la teoria metafisica dei corpi termina con il vuoto e proprio per questo con l'incomprensibile; in ciò essa ha un destino simile a quello di tutti gli altri tentativi della ragione quando essa, risalendo ai princìpi, tenta di raggiungere le prime cause delle cose; infatti la sua natura comporta di non comprendere mai niente che non sia determinato sotto date condizioni e dunque né può fermarsi al condizionato, né può afferrare l'incondizionato; alla ragione allora, quando il desiderio di conoscere la spinge ad afferrare l'assoluta totalità di tutte le condizioni, non rimane altro che tornare dagli oggetti a sé stessa, per ricercare e determinare, anziché gli ultimi confini delle cose, l'ultimo confine della sua propria possibilità lasciata a sé stessa (Princìpi metafisici, A 158).

In un certo senso, dunque, anche la metafisica dei corpi pone domande superiori ai limiti della ragione e rimanda alla filosofia trascendentale come al sapere più alto.

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5. La filosofia pratica trascendentale

5.1. L'analitica

Malgrado l'impostazione originale, la filosofia trascendentale pratica di Kant è molto più semplice di quella speculativa. Il motivo di ciò si può comprendere già dal titolo dell'opera dedicatavi: Critica della ragione pratica (1788). In esso non appare, rispetto all'analoga opera di filosofia speculativa, l'aggettivo «puro». Ciò avviene perché per quanto riguarda l'uso pratico, secondo Kant, non si tratta affatto di «criticare», cioè limitare e circoscrivere, l'uso della ragione pura, indipendente dall'esperienza (compito che si è rivelato particolarmente complesso), ma al contrario criticarne l'uso empirico, mostrando che l'unica moralità incondizionata si raggiunge attraverso un uso puro della ragione. Da ciò deriva anche un parziale ribaltamento dell'ordine delle sezioni della Critica della ragione pratica: in primo luogo vengono analizzati i princìpi dettati direttamente dalla ragione, poi i concetti morali che ne derivano, e solo in terzo luogo si passa a considerare come tali concetti si ripercuotano sulla sensibilità.

L'«analitica della ragione pura pratica» inizia dunque con la ricerca dei princìpi della ragione pura pratica. Anzitutto, una definizione:

I princìpi pratici sono proposizioni che contengono una determinazione universale della volontà che ha sotto di sé più regole pratiche. Essi sono soggettive, o massime, quando la condizione viene vista dal soggetto come valida solo per la sua volontà; oggettive invece, ovvero leggi pratiche, quando vengono riconosciute come oggettive, cioè valide per la volontà di ogni essere razionale (Ragione pratica, A 35).

Ciò che si cerca è dunque il sommo principio pratico che possa dare origine a leggi pratiche. Ora, un principio siffatto non può presupporre alcun contenuto, alcuna materia specifica, altrimenti esso sarebbe empirico e non potrebbe aspirare all'universalità. In altre parole, il desiderio di qualcosa di empiricamente dato (per esempio la felicità) non può mai divenire fonte di vera universalità, anzi non potrà mai essere altro che una qualche variante dell'amore di sé. Certo, la felicità è necessariamente ricercata da tutti gli esseri razionali: ma non è tale desiderio che può fondare leggi pratiche. Ecco l'argomentazione di Kant:

La materia di un principio pratico è l'oggetto della volontà. Questo o è il motivo determinante della volontà, oppure no. Se esso ne è il motivo determinante, allora la regola della volontà sarebbe sottoposta ad una condizione empirica (cioè al rapporto della rappresentazione determinante con il sentimento di piacere e dispiacere), e dunque non sarebbe una legge pratica. Ora di una legge, quando se ne elimina ogni materia, cioè ogni oggetto della volontà (come motivo determinante), non rimane altro che la semplice forma di una legislazione universale. Dunque un essere razionale o non può pensare i suoi principi pratico-soggettivi, cioè massime, contemporaneamente come leggi universali, o deve supporre che solo la loro semplice forma, secondo cui essi sono adatti per la legislazione universale, li rende legge pratica (Ragione pratica, A 49-50).

La legge fondamentale della ragione pura pratica, o semplicemente «legge morale», suona dunque così: «Agisci in modo tale che la massima della tua volontà possa sempre valere contemporaneamente come principio di una legislazione universale» (Ragione pratica, A 54). Il fatto che tale legge non contenga alcun condizionamento empirico è sottolineato da Kant notando che essa è un «imperativo categorico», un comando cioè non sottoposto ad alcuna condizione, come potrebbe per esempio essere il raggiungimento della felicità («se vuoi esser felice, fa' questo»). In conclusione, vanno giudicate conformi a questo principio tutte le azioni che possono e debbono essere pensate come comandate per sempre e per tutti (per esempio, «rispettare i patti»): è facile riconoscere in ciò una tipica istanza illuministica.

L'esistenza di questo principio, che va considerato come un «fatto della ragione» (Ragione pratica, A 56), cioè una evidenza assoluta per la mente umana che non può essere propriamente «dedotta» (cioè giustificata), è condizione necessaria e sufficiente per affermare la libertà della volontà. Tale legge mostra infatti che la volontà è almeno di diritto indipendente dai contenuti empirici.

Integrazione: Con l'individuazione della legge morale e con il chiarimento della sua possibilità la Critica della ragione pratica ha sostanzialmente raggiunto il suo più importante risultato (a cui si aggancerà direttamente la Metafisica dei costumi): si è infatti dimostrato che «la ragione pura è di per sé solo pratica, e dà all'uomo una legge universale» (Ragione pratica, A 56). Da ora in poi si tratta solo di precisare il senso di tale risultato e di trarne le conseguenze. Anzitutto, il fatto che la legge morale sia data dalla ragione mostra che «l'autonomia della volontà è l'unico principio di tutte le leggi morali e dei doveri ad esse conformi; ogni eteronomia del libero arbitrio invece non solo non fonda nessuna obbligatorietà, ma è piuttosto contrario al suo principio e alla moralità della volontà» (Ragione pratica, A 58). Vanno così giudicati eteronomi tutti i sistemi morali che hanno voluto cercare altrove che nella pura ragione il loro principio: per esempio, è eteronoma la morale razionalista che pone il suo principio nella perfezione dell'uomo (Christian Wolff) o le morali di stampo religioso che lo cercano nella volontà divina. Fine dell'integrazione

Bisogna poi affrontare un importante problema. Non è l'indipendenza della ragione pratica dai contenuti empirici contraddittoria con i risultati della Critica della ragione pura, che aveva mostrato la validità universale delle strutture conoscitive dell'uomo? Tale problema si può risolvere ricordando la distinzione tra cose in sé e fenomeni: la conoscenza universale e a priori solo a questi ultimi si riferisce. Delle cose in sé, viceversa, la ragione speculativa non può dire assolutamente nulla. In questo modo viene lasciato il posto per la libertà, come una specie di causalità pertinente non più al mondo fenomenico ma al mondo noumenico:

Se si vuole ancora salvare la libertà allora non rimane altra strada che attribuire l'esistenza della cosa in quanto è determinabile nel tempo, dunque anche la causalità secondo la legge della necessità naturale, solo all'apparenza, e la libertà proprio allo stesso essere, come cosa in sé stessa (Ragione pratica, A 170).

Così si comprende anche in quale senso l'uso pratico della ragione abbia un campo più vasto dell'uso speculativo: non perché essa faccia «sapere» di più (sarebbe una contraddizione in termini), ma perché conduce ad ammettere necessariamente l'esistenza di un mondo (intellegibile) inaccessibile in quanto tale alla ragione speculativa: è il «regno della grazia» di cui parlava Leibniz.

Integrazione: L'analitica procede con la ricerca del «concetto di un oggetto della ragione pura pratica». Tale oggetto immediato (ciò che viene comandato) è evidentemente il bene. Tale concetto però non può essere determinato prima della legge morale: l'unico criterio utilizzabile sarebbe in questo caso la conformità col sentimento del piacere, e si cadrebbe quindi in quel condizionamento empirico che impedisce una autentica moralità e libertà. Dunque, «il concetto del bene e del male non deve esser determinato prima della legge morale (alla base della quale apparentemente dovrebbe essere posto), ma solo ... dopo di essa e tramite essa» (Ragione pratica, A 110). Si dovrà dunque definire «bene» ciò che viene comandato dalla legge morale. Fine dell'integrazione

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5.2. Il sentimento morale

Integrazione: È ora il momento della sezione corrispondente all'estetica, nella quale vengono studiati i «moventi», ovvero «i motivi soggettivi della determinazione della volontà» (Ragione pratica, A 127), in altre parole i sentimenti che, nell'ambito della sensibilità, spingono a fare qualcosa. Ora, è chiaro che andranno esclusi dall'àmbito morale tutti i moventi «patologici», rispetto ai quali cioè il soggetto sia passivo. Tra essi vanno annoverate tutte le «inclinazioni» (o «propensioni»), vale a dire le spinte a compiere un'azione a causa di un qualsivoglia piacere: non che esse rendano immorale un atto, ma tolgono la possibilità di discernere se esso venga incondizionatamente comandato dalla sola ragione e così se abbia un autentico valore morale. Bisognerà viceversa cercare un movente che si esprima in un sentimento a priori:

Poiché la legge morale, ponendosi in contrasto con le resistenze soggettive (cioè con le inclinazioni che sono in noi), indebolisce l'arroganza, è contemporaneamente oggetto di rispetto e, poiché addirittura la sconfigge, cioè la umilia, oggetto del più grande rispetto, e dunque anche motivo di un sentimento positivo che non è di origine empirica e viene conosciuto a priori (Ragione pratica, A 130).

È dunque il rispetto per la legge l'unico «sentimento morale» ricercato, che spinge ad agire per puro dovere, trascurando persino l'obiettivo della propria felicità. È evidente nel discorso etico di Kant la forte influenza della rigorosa morale pietistica cui venne educato. Ma, nonostante le prime apparenze, è proprio il dovere (che sconfigge ogni sia pur lecita inclinazione sensibile) a rivelare all'uomo la sua grandezza:

Dovere! Sublime grande nome, che non comprendi in te nulla di amato che porti con sé qualche lusinga, ma esigi sottomissione ... qual è la tua preziosa origine, dove si trova la radice della tua nobile provenienza ..., da quale radice bisogna far nascere la condizione intrascurabile di quel valore che solo gli uomini possono darsi? Non può essere nulla di meno di ciò che innalza l'uomo al di sopra di sé stesso (in quanto parte del mondo sensibile), che lo connette in un ordine di cose che solo l'intelletto può pensare e che contemporaneamente ha sotto di sé l'intero mondo sensibile e con esso l'esistenza empiricamente determinabile dell'uomo nel tempo e la totalità di tutti i fini ... . Non è nient'altro che la personalità, cioè la libertà e indipendenza dal meccanismo dell'intera natura ...; non c'è da meravigliarsi se l'uomo, in quanto facente parte di due mondi, deve considerare la sua propria esistenza, in riferimento ad una seconda e più alta determinazione, con nient'altro che venerazione e le leggi corrispondenti con il più grande rispetto (Ragione pratica, A 154-155).

Fine dell'integrazione

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5.3. La dialettica

Come nella Critica della ragione pura, è la dialettica a concludere la trattazione. «La ragione pura ha sempre la sua dialettica, la si consideri nel suo uso speculativo o pratico, perché essa chiede la totalità assoluta delle condizioni ad un dato condizionato, ed essa può essere incontrata solo in cose in sé stesse» (Ragione pratica, A 193). Sebbene anche i tentativi di raggiungere il moralmente-incondizionato siano destinati al fallimento («alla ragione nel suo uso pratico non va per niente meglio», Ragione pratica, A 194), la dialettica della ragione pura pratica si trova tuttavia in una condizione privilegiata, perché ciò che per la ragione speculativa è trascendente, diviene immanente per quella pratica: per esempio, il sommo bene è al di là delle capacità della ragione speculativa, ma è «interno» a quel mondo intellegibile che viene raggiunto dal punto di vista pratico. La dialettica della ragione pratica giunge così a formulare presupposti necessari, che pur non estendendo la conoscenza tuttavia «dànno alle idee della ragione speculativa in generale (mediante la loro connessione con l'elemento pratico) realtà oggettiva» (Ragione pratica, A 238). Si tratta dei cosiddetti tre «postulati»:

Essi sono quello dell'immortalità [dell'anima], della libertà positivamente considerata (come causalità di un essere in quanto appartenente al mondo intellegibile) e dell'esistenza di Dio. Il primo deriva dalla condizione necessaria praticamente dell'adeguatezza della durata [della vita] alla completezza dell'adempimento della legge morale [che ha un carattere infinito]; il secondo dal necessario presupposto dell'indipendenza dal mondo sensibile e della facoltà della determinazione della propria volontà secondo la legge di un mondo intellegibile, cioè la libertà; il terzo dalla necessità della condizione alla quale un tale mondo intellegibile possa essere il sommo bene, attraverso il presupposto del sommo bene sussistente, cioè dell'esistenza di Dio (Ragione pratica, A 238-239).

Con «sommo bene» Kant indica la coincidenza di virtù e felicità, quella coincidenza di cui in questo mondo non si fa affatto esperienza. Affinché il comando della ragione abbia senso bisogna dunque supporre una rimunerazione in un'altra vita da parte di chi sia il sommo bene sussistente: Dio. Ciò non significa affatto che la ragione pratica possa «dimostrare» l'esistenza di Dio, mentre ciò è impossibile a quella speculativa (sarebbe un controsenso): ma piuttosto che l'esistenza di Dio non la posso dimostrare (cioè conoscere speculativamente) ma la debbo supporre (cioè ammettere praticamente). Celeberrima la conclusione della Critica della ragione pratica (probabilmente ispirata al Salmo 19):

Due cose riempono l'animo con sempre nuovo e crescente stupore e venerazione, quanto più spesso e accuratamente la riflessione se ne occupa: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Entrambe le cose non posso cercarle e semplicemente supporle come fossero nascoste nell'oscurità o nel trascendente, al di fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le collego immediatamente con la coscienza della mia esistenza. Il primo comincia dal luogo che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo nell'infinitamente grande, con mondi sopra mondi e sistemi di sistemi, e inoltre nei tempi illimitati del loro movimento periodico, nel loro inizio e nella loro continuità. La seconda comincia dalla mia invisibile identità, la personalità, e mi pone in un mondo che possiede vera infinità, ma di cui si può accorgere solo l'intelletto, e con il quale (ma grazie ad esso anche con tutti quei mondi visibili) io non mi riconosco, come là, in una connessione puramente accidentale, ma in una necessaria e universale. Il primo sguardo di una innumerabile quantità di mondi per così dire annienta la mia importanza, che è quella di una creatura animale, che dovrà restituire ai pianeti la materia da cui è sorta, dopo essere stata dotata per breve tempo (non si sa come) di forza vitale. Il secondo al contrario innalza infinitamente il mio valore, che è quello di una intelligenza, grazie alla mia personalità, nella quale la legge morale mi rivela una vita indipendente dall'animalità e anche dall'intero mondo sensibile, perlomeno quanto può essere dedotto dalla destinazione finale della mia esistenza attraverso questa legge, che non è limitata alla condizioni e ai confini di questa vita, ma si estende all'infinito. Però, stupore e rispetto possono sì spingere alla ricerca, ma non sostituirne la mancanza. ... (Ragione pratica, A 287-290).

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6. La metafisica dei costumi

La Metafisica dei costumi (1797-98) è un'opera per dichiarazione dello stesso Kant scritta in uno stile molto più «popolare» delle altre. In essa non si tratta di altro infatti che di trarre le conseguenze della legge morale che nella sua forma più generale è stata messa in luce dalla seconda Critica. Bisogna però sottolineare che è la Metafisica, e non la Critica, la vera e propria opera di filosofia morale di Kant.

Essa è divisa in due parti. Nella prima, dedicata alla «dottrina del diritto» o semplicemente «diritto», la legge morale viene considerata dal punto di vista della conformità esterna dell'azione con i precetti della ragione, e viene quindi riformulata così: «Agisci esternamente in modo che il libero uso del tuo arbitrio possa essere compatibile con la libertà di ognuno secondo una legge universale» (Metafisica dei costumi, Diritto, A 34/B 34). Necessariamente il diritto prevede dunque anche la costrizione entro i limiti della legge di coloro che creano ostacoli alla libertà altrui. Kant distingue tra un «diritto privato», che riguarda gli uomini nello «stato di natura», anteriormente cioè alla fondazione dello Stato, e un «diritto pubblico», che riguarda lo Stato come «unione di una quantità di uomini sotto leggi giuridiche». Lo Stato è secondo Kant essenzialmente repubblica, cioè basato su un sistema rappresentativo e sulla divisione dei tre poteri. Il compimento del diritto pubblico è costituito dal diritto internazionale. È qui che Kant raggiunge le idee più avanzate del suo tempo:

La ragione pratico-morale pronuncia in noi il suo veto incontrastabile: non ci deve essere nessuna guerra; né quella tra me e te nello stato di natura, né tra di noi come Stati, che, sebbene internamente siamo in uno stato legale, tuttavia esternamente (nei reciproci rapporti) siamo in uno stato illegale: questo non è infatti il modo in cui ognuno deve cercare il proprio diritto. Dunque la questione non è più se la pace eterna sia una realtà o una chimera, e se noi nel nostro giudizio teoretico ci inganniamo se supponiamo che sia una realtà; piuttosto è necessario che ci comportiamo come se essa fosse una realtà (il che forse non è), per poterla fondare, e che per avvicinarci ad essa promuoviamo quella costituzione che ci sembra più adatta allo scopo (forse quella repubblicana di tutti gli stati assieme), e che mettiamo una fine al disastroso guerreggiare al quale finora tutti gli Stati, senza eccezione, hanno diretto tutte le loro risorse come se fosse lo scopo finale. E anche se ciò, per quanto riguarda il compimento di questo intento, rimanesse comunque un pio desiderio, certamente noi non ci inganniamo ammettendo la massima di comportarci sempre in questa direzione: perché questo è un dovere. ... Si può dire che questa fondazione universale e durevole della pace non costituisca semplicemente una parte, ma l'intero scopo finale della dottrina del diritto all'interno dei limiti della semplice ragione (Metafisica dei costumi, Diritto, B 264).

La «dottrina delle virtù», o semplicemente «etica», si occupa invece della conformità interna alla ragione, e ha questa variante della legge fondamentale: «Agisci secondo una massima dei fini, avere i quali per ciascuno possa essere una legge universale» (Metafisica dei costumi, Virtù, A 30). In questo modo viene stabilita una fondamentale differenza rispetto al diritto:

Il diritto aveva a che fare solo con la condizione formale della libertà esterna ... . L'etica invece mette a disposizione anche una materia (un oggetto del libero arbitrio), un fine della ragione pura, che contemporaneamente viene rappresentato per l'uomo come fine oggettivamente necessario, come dovere. Infatti, poiché le inclinazioni sensibili portano a fini ... che possono essere contrari al dovere, la ragione legislatrice non può contrastare il loro influsso in altro modo che tramite un fine morale opposto, che dunque dev'essere dato a priori indipendentemente dall'inclinazione (Metafisica dei costumi, Virtù, A 4).

Ora, immediatamente obbligatori sono soltanto due fini: la propria perfezione e la felicità altrui. Da questi due princìpi è possibile costruire una teoria delle virtù. Il primo culmina nel dovere di perseguire la perfetta purezza delle intenzioni, il secondo nell'amicizia come unione di due persone tramite amore e rispetto eguali e reciproci. Ora, è evidente che entrambi questi obiettivi non potranno mai essere completamente raggiunti, ma solo continuamente cercati. In questo modo, risulta confermata la necessità di postulare una vita eterna per condurre a compimento i fini che la ragione ci prescrive.

È facile osservare come, dopo l'originalità della Critica, la Metafisica possiede contenuti molto più convenzionali e simili a quelli della politica illuminista e della morale razionalista. Ciò però non è considerato affatto uno svantaggio per Kant, il quale ritiene che nell'etica la filosofia non deve far altro che motivare rigorosamente e razionalmente la conoscenza comune: «la ragione umana nel campo morale, anche nel senso più ampio, può essere portata facilmente ad una grande correttezza e completezza, mentre al contrario nell'uso teoretico ma puro è totalmente dialettica» (Fondazione, XIII-XIV). Rispetto ai trattati di etica del tempo, c'è tuttavia una omissione importante, che Kant si preoccupa di giustificare:

Nell'etica, in quanto filosofia pura pratica della legislazione interna, solo i rapporti morali dell'uomo verso l'uomo sono per noi comprensibili: ma ciò che dovrebbe valere come rapporto tra Dio e l'uomo oltrepassa completamente i suoi limiti ed è per noi semplicemente incomprensibile; in questo modo viene allora confermato ciò che prima abbiamo sostenuto: che l'etica non può estendersi oltre i limiti dei doveri umani reciproci (Metafisica dei costumi, Virtù, A 188).

E così si ritorna, in maniera più dettagliata e definitiva, alla formulazione della legge morale che era stata anticipata nella Fondazione della metafisica dei costumi (una sorta di stesura provvisoria della Critica della ragione pratica, pubblicata nel 1785), e che può essere considerata una delle migliori sintesi dello spirito dell'etica di Kant:

Agisci in modo da trattare l'umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre contemporaneamente come fine, mai semplicemente come mezzo (Fondazione, A 66-67).

Anzi, proprio questa prospettiva, animata dall'impegno morale e civile, è l'unica che secondo Kant salva anche l'esercizio della filosofia dall'inutilità di un esercizio purmente accademico. Un celebre appunto autobiografico rivela in maniera eccellente questa tensione:

Io sono per inclinazione un ricercatore. Sento tutta la sete di conoscenza e l'ansiosa inquietudine di arrivare in essa sempre più avanti, o anche la soddisfazione per ogni risultato. C'era un tempo in cui credevo che solo questo potesse costituire l'onore dell'umanità, e disprezzavo il popolino che non sa nulla. È Rousseau [p] che mi ha riportato sulla retta strada. Questo accecante privilegio scompare, imparo ad onorare gli uomini, e mi sentirei di gran lunga più inutile di un comune operaio se non credessi che questa riflessione può trasmettere a tutti gli altri un valore: ristabilire i diritti dell'umanità (Kants Gesammelte Schriften, XX, p. 44, r. 8).

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7. La critica del giudizio

Con la metafisica dei costumi è stato occupato l'ultimo spazio previsto dall'architettonica della filosofia. Eppure, c'è un'altra importante opera di Kant: la Critica del giudizio (1790). Perché essa non compare nell'architettonica? e quale il suo ruolo? La sua assenza si spiega facilmente per il fatto che ad essa non corrisponde nessuna parte dottrinale, cioè nessuna metafisica. Se le prima Critica limita drasticamente le possibili conoscenze metafisiche che la dovrebbero seguire, la Critica del giudizio le elimina infatti del tutto. Se essa è però del tutto «invisibile» dal punto di vista della filosofia pura, è invece richiesta dal concetto di «filosofia trascendentale», che richiede un completo esame delle facoltà dell'uomo. Ora, già dalla logica sappiamo che oltre all'intelletto (il cui ruolo legislatore è stato appurato nella Critica della ragione pura) e alla ragione (la cui funzione positiva è stata messa in luce dalla Critica della ragione pratica) esiste anche la facoltà del giudizio, la facoltà cioè tramite la quale vengono connesse diverse rappresentazioni per formare una proposizione. Anche essa ha quindi bisogno di essere analizzata, benché non offra alcun principio costitutivo di nuove conoscenze. Tale completamento ha tuttavia una sua importanza perché offrirà un anello di collegamento tra filosofia speculativa e filosofia pratica, quello stesso collegamento che Leibniz cercava nella teoria dell'armonia prestabilita (Su una scoperta, AB 124).

Questo collegamento è offerto per Kant dal principio del finalismo formale della natura, che va inteso come un principio trascendentale della facoltà di giudizio. «Finalismo» è la concezione secondo cui qualcosa agisce appunto secondo «fini», e non secondo una legge causale. Ora, la filosofia speculativa non può che negare qualsiasi finalismo nella natura, la filosofia pratica deve invece riconoscerlo negli esseri razionali in sé stessi. Questa distanza può essere colmata se anche la natura viene pensata come se agisse secondo fini. Questo è proprio quanto fa la facoltà del giudizio; ciò è mostrato dal frequente uso nell'indagine naturale di princìpi chiaramente finalistici: legge di parsimonia («la natura segue la strada più breve»), legge del continuo («la natura non fa salti»), legge di economia («la natura agisce in base a pochi princìpi») ecc. Tramite questi princìpi, avendo già costituito l'oggetto (il singolo fenomeno) si cerca la legge universale corrispondente. Questa, nella terminologia di Kant, è appunto l'opera del giudizio riflettente (opposto al giudizio determinante che invece già possiede l'universale).

Il finalismo della natura può essere però rappresentato in due modi differenti: in modo estetico (cioè soggettivo, come accordo della forma di un oggetto con le facoltà conoscitive: da qui nascono i concetti di «bello» e di «sublime») o in modo logico (cioè oggettivo, come accordo della forma di un oggetto con la possibilità della cosa stessa). Così si origina la distinzione tra giudizio riflettente estetico e giudizio riflettente teleologico, ai quali sono rispettivamente dedicate le due grandi sezioni dell'opera. Nonostante la sottigliezza e profondità di molte analisi, esse rimangono periferiche nel sistema kantiano: il giudizio riflettente tenderebbe a fondare una teologia come dottrina di un Dio causa finale della natura (come spiegare altrimenti il finalismo?), ma questo è già stato dimostrato impossibile. È però comprensibile come proprio la Critica del giudizio, che dedica al sentimento un'attenzione insolita, avrà molto successo nell'età romantica, e sarà anzi dall'idealismo raccolta come uno stimolo a sanare in un tutto armonico e coerente le scissioni che la filosofia di Kant aveva consapevolmente lasciato aperte.

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