Kant e il problema del senso. Un percorso attraverso metafore

1. Filosofare in un senso cosmo-politico

È ben nota la distinzione che Kant introduce tra due modi di far filosofia: quello «scolastico» e quello «cosmico» (Weltbegriff) o «cosmo-politico» (in un senso, cioè, weltbürgerlich). Su tale distinzione, che ricorre nella Critica della ragion pura (A 838, B 866), che si trova nella Logica Jäsche (A 24) e che è altresì presente, come luogo parallelo, nelle Lezioni di Metafisica Pölitz, ha insistito di recente Armando Rigobello nell’«Introduzione» alla sua versione italiana di una parte di queste lezioni.1 Scrive Rigobello che

l’aggettivo «cosmico» con cui Kant qualifica il concetto filosofico non riguarda comunque contenuti naturalistici o scientifici, ma indica un’ampiezza di riferimento globale, unitario, armonico. La natura cosmica dei concetti filosofici, nel senso forte del termine, deriva dalla «teleologia rationis humanae», ossia dalla finalità intrinseca alla natura razionale dell’uomo volto a conoscere la realtà nel suo finale compimento e allo stesso tempo nella sua compiuta articolazione.2

Anche se Rigobello, in questo passo, non lo dice espressamente, la questione che qui emerge, in conseguenza dell’intenzione kantiana di definire la filosofia nei suoi caratteri più propri e nella sua dignità, è una questione che risulta strettamente connessa a ciò che, utilizzando un lessico a noi più vicino, potremmo chiamare «il problema del senso». La concezione della filosofia che Kant introduce, considerandola secondo il suo concetto «cosmico», è infatti quella che si troverebbe a dover affrontare, se non addirittura a dover rispondere, alle domande fondamentali della nostra vita: le domande ben note («Che cosa posso sapere?», «Che cosa debbo fare?», «Che cosa mi è dato sperare?»), che non a caso sono formulate proprio nei contesti in precedenza richiamati e la cui risposta soltanto è in grado di consentire all’uomo un effettivo orientamento nel «cosmo». Ecco dunque che emerge, come problema centrale della riflessione e della pratica filosofica kantiana, ciò che possiamo chiamare, utilizzando un’espressione oggi alquanto diffusa, il «problema del senso».

«Kant e il problema del senso», d’altronde, è il titolo del presente contributo. Ma questo tema io non lo affronterò direttamente. Vi arriverò, invece, seguendo un percorso particolare, fatto apparentemente di deviazioni: un percorso, cioè, che analizzerà alcune significative metafore kantiane, allo scopo di rintracciare attraverso la loro analisi il modo in cui ciò che chiamiamo «il problema del senso» è stato specificamente discusso, e approfondito in maniera originale, dal filosofo di Königsberg. Iniziamo allora con una metafora che ha un evidente rapporto con le tematiche della direzione e del senso: la metafora dell’orientamento, dell’orientamento in una «stanza buia».

2. Muoversi in una stanza buia

C’è un esempio molto noto, in un famoso scritto di Kant, che risulta più di altri indicativo delle esigenze che animano la sua filosofia e del modo in cui egli ritiene di poterle appagare. Rileggiamolo e commentiamolo:

Nell’oscurità sono in grado di orientarmi in una stanza a me nota toccando un unico oggetto di cui ricordo la posizione. Ma è chiaro che in questo caso mi giovo esclusivamente della facoltà di determinare le posizioni in base a un criterio di distinzione soggettivo, dal momento che non vedo affatto gli oggetti di cui devo determinare la posizione; e se per scherzo qualcuno li avesse disposti tutti nello stesso ordine fra loro, collocando però a sinistra quelli che prima erano a destra, non riuscirei più a raccapezzarmi nella stanza, anche se per il resto tutte le pareti fossero assolutamente identiche. Ma in tal caso mi oriento ben presto in base al puro sentimento della differenza fra i miei due lati, destro e sinistro. Lo stesso mi accade di notte, quando sono costretto a camminare e a svoltare al punto giusto per strade che conosco, ma in cui al momento non distinguo nemmeno una casa.3

L’esempio della stanza buia utilizzato nel saggio del 1786 Che cosa significa orientarsi nel pensiero? non rappresenta certo una novità. Esso è usato in vari contesti culturali per evidenziare quell’effettiva limitazione che caratterizza l’uomo: rispetto a molte questioni, infatti, quest’ultimo, pur credendo di «vedere», è in realtà come «cieco».4 E pure non è nuova l’ipotesi dell’eventuale «scherzo», in seguito al quale si trovano cambiate le coordinate di riferimento in un determinato luogo. Qui Kant non dice chi può essere il buontempone di turno, e noi, lavorando un po’ di fantasia, potremmo pensare o ad un uomo (non certo al povero, fedele servo Lampe), o ad uno spiritello in vena di burle (come quelli che Shakespeare aveva messo in scena), o addirittura (ciò che risulterebbe ben più pericoloso) al genio maligno di cartesiana memoria.

In realtà Kant fa ricorso a questo esempio con un’intenzione particolare, nella quale traspaiono non solo, in generale, la sua fiducia nella ragione, ma la convinzione che essa è in grado di trovare un punto di riferimento adeguato anche per quegli ambiti che l’uomo non può conoscere oggettivamente. Il doversi muovere in una stanza buia non è infatti, qui, una metafora della limitatezza del conoscere umano, della finitezza, cioè, della sua struttura ontologica (come accade in altri usi della stessa immagine). Al contrario, esso è l’indice di una positiva capacità che l’uomo possiede: la capacità di orientarsi a partire da quel «criterio di distinzione soggettivo» che, nella stessa pagina, Kant concretizza nel mero Gefühl della distinzione fra il lato destro e il lato sinistro. In una peculiare situazione di deprivazione sensoriale (e, potremmo dire più precisamente, di deprivazione «teoretica»: nella misura in cui la teoria è il frutto di uno sguardo rettamente rivolto a ciò che sta di fronte), emerge dunque una facoltà ben determinata: quella stessa facoltà che guida, fra l’altro, l’atto del vedere, e che può essere avvertita solo con il venir meno di quel sovrappiù d’informazioni che il vedere stesso fornisce.

Si comprende altresì come l’ipotesi del genio maligno, in questo quadro, possa essere esorcizzata. Giacché l’inganno — uno scherzo goliardico, tutto sommato —, consistente nello scambio di disposizione degli oggetti in una stanza, non induce affatto sconcerto e confusione, non fa dubitare l’uomo delle sue facoltà, non mette in discussione la capacità umana di stabilire il vero. Tutt’altro: esso consente all’uomo, come abbiamo detto, di rendersi conto che in lui stesso è la condizione di possibilità di affermare un giudizio vero. Il criterio dell’orientamento, lo abbiamo letto, è «soggettivo» (anche se si tratta, naturalmente, di una soggettività trascendentale). Da questo punto di vista, allora, il demone ingannatore si rivelerebbe impotente; anzi: si farebbe strumento, suo malgrado, di quella presa di coscienza delle possibilità proprie dell’uomo che, adeguatamente sviluppata, è in grado di condurlo all’emancipazione. E dunque non c’è bisogno, qui, di un Dio chiamato a rimettere tutto in ordine, o (come Supremo Architetto) a garantire in generale quest’ordine. La cosiddetta «rivoluzione copernicana», come si sa, possiede anche questo significato.

3. Difficoltà di orientamento, anche a casa propria

Certo, si può dubitare della sostenibilità di una posizione come quella kantiana, che fa del criterio soggettivo della destra e della sinistra un criterio di orientamento a prescindere dalla sua applicazione a un qualsiasi punto di riferimento oggettivo. D’altra parte Kant stesso afferma proprio, nel passo che abbiamo citato, che «nell’oscurità sono in grado di orientarmi in una stanza a me nota toccando un unico oggetto di cui ricordo la posizione».5 Sembra dunque che ci sia bisogno appunto del riferimento a un oggetto dato per attivare quel criterio di orientamento che io avverto già presente in me stesso. A questo rilievo, però, Kant potrebbe replicare sottolineando che ogni condizione a priori — proprio perché è logicamente antecedente al dato empirico ed è ciò che rende possibile il suo costituirsi come dato — si riferisce bensì ad esso, ma appunto come sua condizione. In tal modo, allora, verrebbe ad essere ribadita la priorità del principio soggettivo. E, tuttavia, qualcuno potrebbe ancora controbattere che, se è una tale relazione (tra il criterio soggettivo di determinazione e l’oggetto dato) a far sì che i due termini siano quello che sono, allora risulta più corretto assumere come principio non già il soggetto trascendentale (uno, cioè, dei due termini), bensì la relazione stessa. Questo, appunto, è ciò che fa Heidegger in Essere e tempo con la nozione di «essere-nel-mondo».6

Ma un’altra obiezione ancora potrebbe essere sollevata. Ed essa coglie sia la posizione kantiana, sia quella che, come ulteriore approfondimento della tesi di Kant, sviluppa Heidegger. Il presupposto di entrambi, infatti, è che io mi muova in un ambiente che mi è già familiare. Per l’uno e per l’altro, nella stanza buia o nel mondo in cui mi trovo gettato, io sono in realtà sempre «a casa». Kant parla infatti, nel suo esempio, dell’orientamento «in una stanza a me nota (in einer mir bekannte Zimmer)»; Heidegger dà per scontata, nella sua impostazione che muove dall’«innanzi tutto e per lo più» dell’essere-nel-mondo dell’esserci, la familiarità con gli enti intramondani dell’ambiente circostante. Lo spaesamento dell’esserci, semmai, insorge di fronte all’insensatezza del suo essere-gettato, cioè rispetto al fatto dell’essere-nel-mondo, non già nel contesto dei rapporti che nel mondo vengono a dischiudersi.7

È troppo agevole, dunque, rivendicare la propria capacità di orientarsi a partire dalla persuasione che, in effetti, ci si trova già sempre a casa. Anche il sentimento della distinzione tra destra e sinistra, a questo punto, si rivela nient’altro che un’espressione di questa familiarità già da sempre acquisita. Ma possiamo davvero, in ogni caso, presupporre tutto ciò? Una tale domanda non solamente permette di mettere in luce la parzialità e la limitatezza del terreno sul quale Kant conduce il suo esperimento (una stanza della sua casa, le strade che egli puntualmente percorreva ogni giorno nella sua consueta passeggiata, e così via). Essa non solo consente di segnalare il fatto che io posso essere principio di orientamento unicamente di ciò che non mi sorprende, di ciò che non è «altro» da me. Il nostro interrogativo è indice, soprattutto, di una tendenza oltremodo diffusa in filosofia: la convinzione, di evidente origine platonica, che io posso comprendere solo ciò che, in qualche modo, già conosco.

In conseguenza di ciò, avviene un significativo spostamento nell’ambito della riflessione filosofica. E l’indagine si trova a dover chiarire non già che cosa vuol dire «far esperienza», bensì com’è possibile «avere» già da sempre una tale esperienza. La dottrina delle categorie della Critica della ragion pura è appunto una risposta a questa domanda.

4. Trovare, ciò nonostante, un punto di riferimento

Come si sa, però, la funzione che l’esempio della stanza buia assume nello scritto del 1786 è ben particolare. In quest’opera, infatti, Kant parte anzitutto dalla nozione dell’orientamento, che opportunamente definisce come il «determinare a partire da una certa regione del mondo (una delle quattro in cui suddividiamo l’orizzonte) le altre, in particolare l’oriente».8 Orientarsi significa quindi avere preliminarmente la possibilità di cogliere qualcosa come punto di riferimento.

Una tale espressione, in realtà, è alquanto ambigua. Giacché, per identificare qualcosa come un punto di riferimento (e quindi per potersi orientare sulla base di esso), sono necessarie due condizioni: vi dev’essere non solo questo possibile termine al quale riferirsi, ma anche la capacità di riconoscerlo come tale. Kant sviluppa nelle pagine del suo saggio soprattutto questo secondo aspetto, individuando una tale capacità, come abbiamo già detto, nel sentimento (Gefühl) della differenza tra lato destro e lato sinistro.9

Tuttavia quello fin qui compiuto è solo un primo passo, perché l’intenzione kantiana è piuttosto di estendere il concetto geografico dell’orientamento dapprima allo spazio matematicamente determinabile (e qui trova appunto la sua precisa collocazione l’esempio della stanza buia), e poi all’ambito del pensiero in generale, vale a dire della logica. La nozione di «orientamento» subisce quindi, man mano che procede l’estensione kantiana, una sorta di progressiva metaforizzazione. Ciò nonostante, rimane per lui valida l’analogia: se per orientarsi geograficamente e nello spazio sono necessarie determinate condizioni soggettive, allo stesso modo vi è la possibilità di identificare una condizione, pure soggettiva, che consente di orientare la ragione qualora essa voglia estendersi «al di là di tutti i confini dell’esperienza». Più precisamente, come dice Kant:

In tal caso […], nella determinazione della sua capacità di giudizio, la ragione non è più in grado di sottomettere i suoi giudizi a una data massima secondo i fondamenti oggettivi della conoscenza, ma solo secondo un criterio di distinzione soggettivo.10

E in nota egli aggiunge:

In generale, orientarsi nel pensiero significa dunque: data l’insufficienza dei princìpi oggettivi della ragione, seguire, nel ritenere vero, un suo principio soggettivo.11

Consideriamo allora alcuni aspetti, almeno, della complessa argomentazione kantiana. L’interpretazione dev’essere cauta e attenta, quanto più il dettato del testo appare semplice e chiaro. Infatti, come spesso accade nel caso di Kant, proprio quando egli definisce una nozione (qui quella di «orientarsi nel pensiero»), il quadro teorico generale risulta spesso non tanto semplificato, quanto piuttosto ulteriormente complicato.

Due sono soprattutto le questioni che, a questo proposito, mi sembra necessario approfondire. Possiamo enunciarle con queste due domande: Cambia qualcosa nella struttura del discorso di Kant quando avviene la sua progressiva estensione metaforica del concetto di «orientamento»? E poi: Nel caso specifico dell’orientarsi del pensiero, cioè per la pratica dell’orientamento, è necessario solamente il principio soggettivo, oppure c’è bisogno (come, nonostante l’esplicito dettato kantiano, sembrava avvenire in precedenza, quando l’orientamento nella stanza oscura veniva in realtà attivato dal tocco anche di un unico oggetto di cui ricordavo la posizione) di un termine di riferimento di altro tipo? La risposta a queste domande consentirà di valutare se l’impostazione kantiana, che qui anticipa la più articolata trattazione della Critica della ragion pratica, può essere ulteriormente ripensata, trovando altresì un’ulteriore giustificazione, nell’ottica di ciò che oggi comunemente viene chiamato «il problema del senso».

5. Si delinea il problema del senso

È questa, infatti, l’ipotesi interpretativa alla quale ho accennato all’inizio e che considero la mia ipotesi di riferimento. Infatti, con l’introduzione della tematica dell’orientamento Kant si colloca consapevolmente, per la trattazione delle principali questioni metafisiche, non già sul piano della spiegazione (che è invece quello proprio della Critica della ragion pura, nella quale vengono appunto approfondite le condizioni di possibilità di una spiegazione del mondo dell’esperienza), bensì sul piano del senso. Si tratta, certamente, di un’ipotesi non nuova, ma che, anche nelle pubblicazioni più recenti di letteratura secondaria, non ha trovato a mio parere un’adeguata elaborazione.12

Chiariamo anzitutto che cosa dobbiamo intendere, in questo caso, con il termine «senso». E per farlo distinguiamolo anzitutto dal vocabolo «spiegazione».13 La spiegazione rinvia alla catena delle relazioni causali (intese nel loro significato più ampio), grazie a cui qualcosa è fissato come tale a partire da qualcos’altro che ne è responsabile (secondo la suddivisione aristotelica:14 il responsabile, riguardo alla cosa in questione, di ciò che essa propriamente è, di ciò di cui è fatta, del suo movimento, sia per quel che concerne la provenienza di esso, sia per quanto attiene al suo sbocco). Come tale, la spiegazione consente di fissare ciò che viene ad essa sottoposto inserendolo in un contesto più ampio, che è funzionale alla sua collocazione. Anche se in questo contesto vi è certamente il porsi su livelli diversi fra ciò che viene spiegato e la condizione della sua spiegazione, tuttavia questa stessa condizione, appunto perché condizione di un condizionato, non ne è del tutto differente, ma risulta piuttosto ad esso relativo, e suscettibile a sua volta di relazionarsi a un’altra causa come sua condizione. Ecco dunque che il procedimento della «spiegazione», come dice il termine stesso, dispiega, cioè finisce per portare su di un medesimo piano, per ricondurre a un’unica superficie ogni suo momento, eliminando le «pieghe» provocate dalla sovrapposizione della condizione al condizionato.

Il caso del senso è diverso. Giacché, qui, ciò che dà senso dev’essere di un livello completamente differente rispetto a quello sul quale si colloca ciò che dal senso viene illuminato. Quest’ultimo non è colto all’interno di una catena che, sotto vari aspetti, può definire e spiegare i motivi del suo presentarsi. Invece, esso risulta qualcosa che si riferisce a un ambito ulteriore, al fine di ottenere da esso quell’orientamento che in un tale riferimento viene appunto ricercato: un orientamento che fornisce non già il motivo, la causa, bensì la motivazione a chi la ricerca. Certo, è ben problematico pensare questo rapporto tra due livelli differenti, senza che si ricada nell’appiattimento della spiegazione. Il Parmenide di Platone, ad esempio, può esser letto anche come l’approfondimento di queste difficoltà: le difficoltà, cioè, che sono connesse al tentativo di porre un legame che non annulli la differenza, e la cui l’articolazione è spinta fino agli estremi esiti aporetici. E tuttavia resta l’esigenza di riflettere su tutto ciò, se non si vuole che la filosofia rinunci a occuparsi di un ambito di questioni profondamente connesse con la vita dell’uomo (le questioni «cosmo-politiche», potremmo dire).

In questo quadro siamo allora in grado di inserire il progetto kantiano inizialmente enunciato nel saggio Che cosa significa orientarsi nel pensiero? e poi successivamente sviluppato nella Critica della ragion pratica. Nello scritto del 1786 (di due anni antecedente, dunque, alla pubblicazione della seconda Critica) Kant identifica, com’è noto, nel «sentimento del bisogno proprio della ragione» il «mezzo soggettivo» che consente alla ragione di spingersi al di là di ogni esperienza possibile. Anzi, vi è un peculiare «diritto» che è proprio di questo bisogno: cioè, come Kant appunto dice,

il diritto di orientarsi nel pensiero — nello spazio smisurato del sovrasensibile per noi avvolto da tenebre profonde — unicamente in virtù del proprio bisogno (Bedürfnis).15

Da ciò emerge il peculiare modo in cui Kant intende l’orientamento del pensiero, e dunque la sua collocazione all’interno di una dimensione di senso: un modo che sembra assolutamente analogo agli esempi da lui fatti all’inizio del saggio e da noi in precedenza analizzati. È la ragione stessa, infatti, a fornire il punto di riferimento che consente un tale orientarsi. L’orientarsi, qui, è «nel pensiero» (in quello «spazio smisurato del sovrasensibile» che può essere pensato, ma non conosciuto) e nel contempo, potremmo dire, «a partire dal pensiero»: così come accadeva, in precedenza, per il sentimento della differenza fra la mano destra e la mano sinistra che ci consentiva di orientarci in una stanza buia.

Sembra allora che alle due domande che ci ponevamo poc’anzi («Cambia qualcosa nella struttura del discorso di Kant quando avviene la sua progressiva estensione metaforica del concetto di “orientamento”»? E poi: «Nel caso specifico dell’orientarsi del pensiero, cioè per la pratica dell’orientamento, è necessario solamente il principio soggettivo, oppure c’è bisogno di un termine di riferimento di altro tipo?») non si possa che dare una risposta negativa, almeno se ci si attiene all’esplicito dettato kantiano. Sembra infatti che non vi sia differenza alcuna tra l’orientarsi in una stanza buia e l’orientarsi nella vita, giacché in entrambi i casi vi è nell’uomo un principio soggettivo che consente un tale orientamento. In altre parole, per usare la terminologia in precedenza introdotta, così come veniva mostrato dalla Critica della ragion pura per il piano della spiegazione (che tuttavia non riusciva ad estendersi in modo corretto al campo delle questioni metafisiche), allo stesso modo anche nell’ambito del senso (nell’ambito cioè di quei princìpi ultimi, in base ai quali può essere regolato il pensare e l’agire dell’uomo), è esclusivamente nel soggetto che andrebbe ricercato un tale riferimento. Tuttavia, diciamolo subito, sembra soltanto.

6. Ripresa. L’innamorato di Wizenmann

Domandiamoci, infatti: in che modo nel soggetto si trova la condizione dell’orientamento? Per rispondere a questa domanda è necessario compiere un altro passaggio e rivolgersi al più ampio e articolato ambito concettuale della Critica della ragion pratica. Nella sezione VIII del capitolo secondo della «Dialettica della ragion pura pratica» Kant ritorna, com’è noto, sul tema del «bisogno della ragion pura», il quale spinge a un’«adesione» (Fürwahrhalten: un «tener per vero») nei confronti di ciò che è «oggettivamente (objektiv) necessario» da un punto di vista pratico.16 Non m’interessa, qui, seguire lo sviluppo delle argomentazioni kantiane sulla nozione di «bisogno della ragione», che in queste pagine risultano meglio definite che nel saggio Che cosa significa orientarsi nel pensiero?, in virtù del loro inserirsi all’interno della più approfondita elaborazione della seconda Critica. Mi preme invece commentare la risposta di Kant, che ricorre in una nota di questa sezione, a un’obiezione sollevata da Thomas Wizenmann in merito alle tesi esposte nello scritto kantiano del 1786. Il riferimento a una tale risposta ci consentirà infatti di comprendere in che modo il principio di orientamento risulta «soggettivo».

Wizenmann, intellettuale appartenente al circolo di Jacobi, era intervenuto nella polemica che aveva opposto quest’ultimo a Moses Mendelssohn (il famoso Pantheismusstreit, sul quale è costretto a intervenire anche Kant, appunto con l’articolo Che cosa significa orientarsi nel pensiero?) con uno scritto pubblicato anonimo a Lipsia (Die Resultate der Jacobi’schen und Mendelssohn’schen Philosophie, kritisch untersucht von einem Freywilligen: «I risultati della filosofia di Jacobi e di Mendelssohn, indagati criticamente da un volontario», 1786). Nel saggio kantiano sull’orientamento nel pensiero, uscito poco dopo, Wizenmann era chiamato «l’acuto autore dei Resultate»: colui il quale, tuttavia, spinge la disputa tra Mendelssohn e Jacobi sulla china di una pericolosa esaltazione e di una completa detronizzazione della ragione.17 A tale giudizio, e più in generale alle tesi esposte da Kant nel suo saggio, Wizenmann aveva poi replicato in uno scritto apparso lo stesso anno della sua morte (1787) sul «Deutsches Museum»: An den Herrn Professor Kant von der Verfasser der Resultate Jacobi’scher und Mendelssohn’scher Philosophie («Al professor Kant da parte dell’estensore dei “Risultati della filosofia di Jacobi e di Mendelssohn”»). È appunto su questo scritto che Kant si sofferma nella nota menzionata della Critica della ragion pratica.

Vale la pena di riportarla integralmente:

Nel «Deutsches Museum», febbraio 1787, si trova una trattazione fatta da una mente assai fine e chiara, dal defunto Wizenmann, del quale è da compiangere la morte precoce. In essa egli contesta il diritto di concludere da un bisogno alla realtà oggettiva dell’oggetto di esso, e spiega il suo argomento con l’esempio di un innamorato, il quale, perché ama follemente un’idea di bellezza, che è semplicemente una sua chimera, vorrebbe trarne la conseguenza che un tale oggetto esiste realmente in qualche luogo. Qui io sono perfettamente d’accordo con lui in tutti i casi in cui il bisogno è fondato sull’inclinazione, la quale non può mai postulare necessariamente, per colui che è affetto da essa, l’esistenza del suo oggetto, e molto meno contiene un’esigenza valida per ciascuno, e quindi è un fondamento (Grund) semplicemente soggettivo del desiderio. Ma qui vi è un bisogno razionale, che deriva da un fondamento determinante (Bestimmungsgrunde) oggettivo della volontà, cioè dalla legge morale, la quale obbliga necessariamente ogni essere razionale, dunque dà diritto (berechtigt) alla presupposizione a priori delle condizioni conformi a questa legge nella natura, e rende inseparabili queste condizioni dal completo uso pratico della ragione. È dovere realizzare il sommo bene il più che possiamo; quindi ciò deve anche esser possibile; quindi per ogni essere razionale nel mondo è anche inevitabile presupporre (voraussetzen) ciò che è necessario alla possibilità oggettiva di esso. La presupposizione è così necessaria come la legge morale, in relazione alla quale soltanto essa è valida.18

Risulta dunque chiaro, da queste parole, il modo in cui dev’essere inteso il carattere soggettivo del bisogno: non già come una mutevole inclinazione particolare, quale quella esemplificata dall’immagine protoromantica dell’innamorato invaghito di una propria chimera, bensì come un fondamento «oggettivo», insito nell’uomo, che lo spinge ad andare al di là di se stesso, a «presupporre» inevitabilmente ciò che è necessario per l’ulteriore «possibilità oggettiva» del sommo bene. Si tratta, d’altronde, di temi ben noti, sviluppando i quali, nella stessa sezione, Kant enuncia il concetto, quasi ossimorico nella prospettiva della tradizione, di una «fede razionale pura pratica». Tuttavia richiamarsi ancora una volta ad essi può risultare illuminante per la trattazione del nostro problema. Giacché ciò ci consente di precisare entro quali limiti il soggetto morale è principio di orientamento.

È ben vero, infatti, che l’uomo, seguendo la metafora kantiana, ha in sé un tale principio, che gli consente di essere guidato in ambiti rispetto ai quali le spiegazioni non sono sufficienti. Ma questa guida non dev’essere scambiata per ciò in base a cui il suo cammino si regola, per ciò rispetto a cui essa stessa si orienta e in virtù di cui risulta propriamente una guida. Una bussola, infatti, non può essere presa per il nord: giacché è solo qualcosa che lo indica, e che ad esso, dunque, si riferisce.

Di una tale situazione Kant è ben consapevole. E infatti egli la esprime, nel passo che abbiamo citato, quando distingue nettamente il fondamento determinante della volontà (con il suo diritto a presupporre le condizioni dell’uso pratico della ragione), da queste stesse condizioni. A un tale presupposto Kant, com’è noto, dà il nome di «sommo bene». Egli vuole mostrare la «necessità», per l’uomo, di riferirsi ad esso, appoggiandola sulla dinamica del «bisogno della ragione»: sebbene il modo il cui noi lo vogliamo pensare come possibile dipenda, di volta in volta, da una nostra concreta scelta.19

7. Conclusione

Rispetto ai problemi dell’orientamento e del senso, che abbiamo assunto come fili conduttori della nostra indagine, quanto abbiamo detto finora consente di indicare alcuni spunti conclusivi. Possiamo enunciarli schematicamente in questo modo:

  1. Il soggetto umano è condizione di orientamento e di senso solo nella misura in cui rimanda a una dimensione ulteriore, a un presupposto che rende possibile ad esso, appunto, l’esercizio di tale sua funzione. In questo emerge, da un’altra prospettiva, ciò che Heidegger, nella sua interpretazione della Critica della ragion pura, ha messo in luce come il carattere di «finitezza» della soggettività kantiana.20

  2. Se le cose stanno così, alle due domande che ci siamo posti in relazione alle tematiche discusse nello scritto Che cosa significa orientarsi nel pensiero? (rammentiamole ancora una volta: «Cambia qualcosa nella struttura del discorso di Kant quando avviene la sua progressiva estensione metaforica del concetto di ‘orientamento’»? E poi: «Nel caso specifico dell’orientarsi del pensiero, cioè per la pratica dell’orientamento, è necessario solamente il principio soggettivo, oppure c’è bisogno di un termine di riferimento di altro tipo?») non possiamo che dare, alla fine del nostro breve percorso, una risposta diversa da quella, negativa, data in precedenza. Di fatto, orientarsi in una stanza buia è ben diverso dall’assumere un orientamento e un senso per i nostri pensieri e per le nostre azioni. Se nel primo caso può bastare, kantianamente, un principio soggettivo (sebbene, come abbiamo visto, anche qui sembrerebbe necessario attivare questo principio toccando, nell’esempio della stanza buia, una qualsiasi cosa a noi già familiare), nel secondo caso l’assunzione di questo principio è invece ciò che permette di cogliere quel presupposto verso cui il nostro orientamento è indirizzato. L’analogia posta da Kant tra i vari livelli di applicazione del concetto di «orientamento», dunque, risulta valida solo in parte. Nell’estensione di un tale concetto viene inserito, implicitamente, qualcosa di più e di diverso. È così che emerge la struttura del senso.

  3. Per questa via il pensiero teologico di Kant può essere interpretato come il tentativo di riconsiderare, a partire dal problema del senso e dalla dinamica di orientamento che lo contraddistingue, quelle questioni che non era possibile affrontare sul piano della spiegazione (il piano, appunto, sul quale si era collocata gran parte della teologica filosofica precedente). In tal modo la riflessione di Kant può essere ripensata nel suo duplice legame con la tradizione metafisica: giacché, da un lato, egli ne eredita le questioni fondamentali e, dall’altro, individua per esse soluzioni innovative.

In questa luce insomma, concludendo, può essere pensata ulteriormente anche quella concezione cosmo-politica della filosofia che Kant sviluppa e che risulta funzionale, per esprimerci citando un’ultima volta Rigobello, all’articolazione delle più profonde motivazioni «esistenziali» dell’uomo. Si tratta di una filosofia (è ancora Rigobello a sottolinearlo) destinata a sfociare in una metafisica: una metafisica che non si configura certo come dottrina compiuta, ma che piuttosto «si fonda sull’uso razionale della libertà e sull’insopprimibile esigenza di una felicità sperata».21

Testo della relazione tenuta all’Università di Roma «Tor Vergata» in occasione del Convegno La domanda originaria (10-11 dicembre 1999).


  1. I. Kant, Realtà ed esistenza. Lezioni di metafisica: Introduzione e Ontologia, Introduzione, traduzione e note di A. Rigobello, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1998. Sul tema in questione si vedano le pp. 46-47. ↩︎

  2. Ivi, p. 9. ↩︎

  3. I. Kant, Was heißt: sich im Denken orientieren?, A 308-310, ora in I. Kant, Werkausgabe, a cura di W. Weischedel, vol. V, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1977, p. 270, trad. it. di P. Del Santo, a cura di F. Volpi, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, Adelphi, Milano 1996, pp. 48-49. ↩︎

  4. Si rammenti l’apologo (di origine indiana, ma ripreso anche nel Masnevi di Rumi, uno dei maestri del sufismo) dell’elefante rinchiuso in una stanza buia e fatto oggetto delle attenzioni di varie persone, le quali non sanno, in realtà, che cosa vi sia nella stanza. Naturalmente, se richiesta di chi o che cosa si trovi là dentro, ognuna di esse risponderà in maniera diversa, a seconda della particolare esperienza fatta o dello specifico aspetto incontrato andando a tentoni. La morale dell’apologo è che anche Dio, come l’elefante, è conosciuto dagli uomini in modi diversi, a seconda delle esperienze fatte, delle prospettive assunte e dei pregiudizi da cui, di volta in volta, essi sono guidati. ↩︎

  5. I. Kant, Was heißt…, A 308, Werkausgabe, V, cit., p. 270, trad. it. cit., pp. 48-49. Si veda quanto dice in proposito F. Volpi nel saggio introduttivo alla versione italiana da lui curata dello scritto kantiano (Kant e l’«Oriente» della ragione, in I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, cit., pp. 33, sgg.). ↩︎

  6. Nel § 23 di Sein und Zeit (1927, Niemeyer, Tübingen 1979, pp. 104, sgg., trad. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, pp. 137, sgg.) Heidegger riprende esplicitamente l’esempio kantiano dell’orientamento nella stanza buia e mostra come ciò che Kant chiama «principio soggettivo» presuppone il contesto familiare di rapporti al quale, appunto, Heidegger dà il nome di «essere-nel-mondo» (cfr. ivi, pp. 109-10, trad. it. cit., pp. 142-43). ↩︎

  7. Cfr. ivi, § 57. ↩︎

  8. I. Kant, Was heißt…, A 307, Werkausgabe, V, cit., p. 268, trad. it. cit., p. 47. ↩︎

  9. Si noti che qui il «sentimento» assume anche uno specifico carattere autoreferenziale: esso è non solo un «sentire di», ma anche, insieme, un «sentir di sentire». ↩︎

  10. Ivi, A 309-10, Werkausgabe, V, cit., p. 270, trad. it. cit., pp. 49-50. ↩︎

  11. Ivi, A 310, Werkausgabe, V, cit., ibidem, trad. it. cit., p. 50. ↩︎

  12. Si vedano ad esempio i seguenti volumi: Adina Davidovich, Religion as a Province of Meaning. The Kantian Foundations of Modern Theology, Fortress Press, Minneapolis 1993; Sidney Axinn, The Logic of Hope. Extensions of Kant’s View of Religion, Rodopi, Amsterdam 1994; Hermann Baum, Kant. Moral und Religion, Academia Verlag, Sankt Augustin 1998; Peter Byrne, The Moral Interpretation of Religion, Edinburgh University Press, Edinburgh 1998; Claus Dierksmeier, Das Noumenon Religion. Eine Untersuchung zur Stellung der Religion im System der praktischen Philosophie Kants, de Gruyter, Berlin 1998. ↩︎

  13. Cfr. A. Fabris, Tre domande su Dio. Un «game book» filosofico, Laterza, Roma-Bari 1998. ↩︎

  14. Aristotele, Metafisica, A 3, 983 a, 26-32. ↩︎

  15. I. Kant, Was heißt…, A 311, Werkausgabe, V, cit., p. 271, trad. it. cit., p. 51. ↩︎

  16. Cfr. I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft (1788), A 255-63, ora in I. Kant, Werkausgabe, a cura di W. Weischedel, vol. VII, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1974, pp. 276-81, trad. it. di F. Capra, riv. da E. Garin, Critica della ragion pratica, Laterza, Roma-Bari 1974, pp. 171-76. ↩︎

  17. Cfr. I. Kant, Was heißt…, A 306, Werkausgabe, V, cit., p. 268, trad. it. cit., p. 46. ↩︎

  18. I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, A 260, Werkausgabe, VII, cit., p. 278; cfr. trad. it. cit. p. 173. ↩︎

  19. Cfr. ivi, A 262-63, Werkausgabe, VII, cit., p. 280, trad. it. cit., p. 176. ↩︎

  20. M. Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik (1929), ora in Gesamtausgabe, vol. 3, a cura di F.-W. von Herrmann, Klostermann, Frankfurt a.M. 1991, trad. it. di M.E. Reina, riv. da V. Verra, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari 1981. ↩︎

  21. A. Rigobello, «Introduzione» a I. Kant, Realtà ed esistenza, cit., p. 10. ↩︎