Salta la barra di navigazione

Mneme / Testo / Età greca / Ellenismo / Aristotele

Aristotele

Inizio

Le sezioni dedicate alle altre parti della filosofia di Aristotele saranno pubblicate prossimamente.

La sapienza come libertà

Attivo nel periodo di passaggio tra la civiltà greca e la civiltà ellenistica, Aristotele persegue l'idea di una filosofia sistematica e libera dalle necessità immediate della vita, che effettua quindi una sorta di divinizzazione dell'uomo. Si tratta di una concezione che da un lato è debitrice di analoghe posizioni platoniche, dall'altra è antesignana di quell'idea di saggezza come distacco dalla passioni civili che sarà frequente nei secoli seguenti. Il rapporto di continuità e discontinuità con Platone è evidente fin dal primo gruppo di opere di Aristotele, dedicate alla logica: in essa viene portato avanti un programma di riforma e rigorizzazione della dialettica platonica, che dà vita ad uno studio puramente formale delle leggi del pensiero. Esso viene esaminato nel suo costituirsi a partire dai termini del discorso fino a giungere ai «sillogismi», ai ragionamenti cioè che da premesse vere deducono conseguenze necessariamente vere. In ogni scienza è necessario quindi un insieme di princìpi che non possono essere dimostrabili, pena un regresso all'infinito: essi devono essere raggiunti solo per strada «induttiva», cioè scoprendo il dato universale nell'esperienza sensibile. 

Nella metafisica Aristotele intraprende il progetto di una scienza di «ciò che è in quanto è», che cioè abbracci l'intera reltà per individuarne i princìpi. L'itinerario parte da una ricognizione dei vari usi del verbo «essere» nel linguaggio comune, per trovare tra essi i significati più originari. Aristotele individua il primo senso dell'essere nelle ousíai (o sostanze), vale dire nelle realtà che sono portatrici di proprietà. Esse non possono essere né identificate con la materia (come volevano i materialisti) né con gli universali (come sosteneva Platone): ousía è invece la singola cosa determinata. Per questo si può dire che per ogni cosa «essere» ha un senso diverso, perché indica il raggiungimento della propria specifica configurazione e finalità. La meta è raggiunta però solo quando viene anche individuata la causa motrice prima della realtà: questa ultima tappa viene compiuta con la dimostrazione dell'esistenza di Dio, concepito come vita pensante e perfettamente felice.  

Sommario

Avete domande o riflessioni sugli argomenti qui trattati? Partecipate al forum!


Testa in bronzo di Zeus

Statua in bronzo di Zeus, particolare (4º sec. a.C.). Benché non fosse al centro del culto greco, Zeus mantenne sempre la posizione di primo degli dèi: incarnazione quindi dell'ordine e dell'assoluta sovranità, resa nell'arte figurativa in immagini contraddistinte dal distacco e dalla nobiltà.

In una prospettiva razionalizzata, anche nella filosofia di Aristotele Zeus detiene il suo primato, ora però inteso come modello del carattere liberatorio e divinizzante di una sapienza non finalizzata a nessuno scopo pratico: «Giustamente si potrebbe pensare che il possesso della sapienza non sia proprio dell'uomo: in molti modi infatti la natura dell'uomo è serva, cosicché secondo Simònide "solo Dio può avere questo privilegio", mentre non sarebbe giusto che l'uomo cerchi una scienza al di sopra delle sue forze. Se realmente i poeti dicono il vero e la divinità è per natura invidiosa, in questo caso soprattutto dovrebbe apparire e tutti coloro che sanno di più sarebbero sventurati. Ma né è possibile che la divinità sia invidiosa (piuttosto come dice il proverbio "i cantori dicono molte menzogne"), né bisogna pensare che ci sia conoscenza più degna di onore di questa» (Metafisica I.2, 982 b28 -- 983 a5 [greco]).


Stagìra (Macedonia), 384 a.C. -- Càlcide (Eubea), 323 a.C. Dal 367 frequenta la vivace Accademia di Platone. In quell'epoca pubblica dialoghi e tiene corsi di dialettica. Alla morte di Platone (347) comincia un lungo periodo di peregrinazioni (Asso, Mitilène, Pella) durante le quali si dedica alla fisica, alla biologia e alla politica (in quest'ultima anche in qualità di precettore di Alessandro Magno). Nel 335 torna ad Atene e fonda una nuova scuola detta «Liceo» (chiamata anche «Perìpato», cioè «luogo della passeggiata»). Alla morte di Alessandro (323) Aristòtele, coinvolto in una rivolta antimacedone, abbandona Atene e si rifugia a Càlcide, dove però poco dopo muore. Perdute quasi interamente le opere divulgative, ci restano di Aristòtele gli scritti di scuola, cioè «dispense» più o meno rifinite ed edite da Andronìco di Rodi (alla guida del Liceo dal 78 al 47 a.C.). Le principali sono così ordinate: scritti logici (Categorie, Sull'interpretazione, Analitici primi, Analitici secondi, Topici), scritti naturali (Fisica, Sul cielo, Sull'anima), scritti di filosofia prima (Metafisica), scritti morali (Etica Nicomachèa, Etica Eudèmia, Politica), scritti tecnici (Retorica, Poetica). La cronologia può essere solo congetturata.

1. Significato e struttura del sapere

La tradizionale contrapposizione tra Platone e Aristòtele è certamente esagerata: non esiste pressoché nessun campo in cui le affermazioni del secondo non possano essere connesse ad intuizioni e soluzioni del primo. Del resto, è molto probabile che gli elementi fondamentali della filosofia di Aristòtele siano stati elaborati già dall'epoca della sua permanenza nell'Accademia, e andrebbero dunque compresi come una forma particolare di platonismo più che come un divorzio da esso. Fu probabilmente soprattutto la polemica con i successori di Platone e la decisione (forse conseguente) di fondare una nuova scuola, il Liceo, a far apparire come contrapposte due forme di pensiero con molte affinità. Ciò che piuttosto va sottolineato è che, malgrado la piccola distanza temporale, Aristòtele fa parte di un mondo spirituale differente da quello di Platone, ormai molto più vicino all'ellenismo che alla grecità: la scrittura si è ormai affermata senza remore come strumento di cultura e ha aperto la possibilità di una discussione dettagliata delle opinioni dei pensatori concorrenti; la scienza e la tecnica cominciano a fare registrare i loro primi successi, tanto da far parlare talvolta di una vera «rivoluzione scientifica»; si diffonde un'idea profondamente razionalizzata della religione, che lascia poco o nessuno spazio a quegli elementi di irrazionalità tanto importanti in Platone.

Tutto ciò provoca un differente orientamento della filosofia, che diventa sempre più una scienza sistematica e autonoma, attenta ai diversi campi dell'attività umana ma proprio per questo chiaramente distinta da essi. È così che in Aristòtele il tema platonico della «meraviglia» viene rielaborato per significare la gratuità e libertà della sapienza, possibile solo in una società che è riuscita a risolvere i problemi immediati della sopravvivenza:

È a causa della meraviglia che gli uomini, sia ora sia un tempo, iniziarono a far filosofia, all'inizio meravigliandosi delle cose strane sotto mano, poi procedendo così un po' alla volta e ponendosi domande anche su cose più grandi: per esempio sui fenomeni della luna e del sole e degli astri e sulla nascita dell'universo. Ma colui che si pone domande e si meraviglia ritiene di ignorare (per questo anche l'amante dei miti è in un certo senso filosofo, perché il mito è composto di cose meravigliose). Dunque se davvero coltivarono la filosofia per fuggire l'ignoranza, è evidente che perseguirono la scienza per il conoscere stesso e non per una qualche utilità. Ciò è testimoniato dai fatti accaduti: infatti quando quasi tutte le cose necessarie erano presenti, e anche quelle per la comodità e il benessere, allora cominciarono a cercare tale saggezza. È evidente dunque che non la cerchiamo per nessun'altra utilità: ma come l'uomo libero -- affermiamo -- è fine a sé stesso e non è di un altro, così anch'essa è l'unica libera delle scienze: infatti solo essa è fine a sé stessa (Metafisica I.2, 982 b12-28 [greco]).

Tale origine sociale della ricerca filosofica ha del resto la sua radice in una tendenza innata dell'uomo, come dichiara il celebre esordio della Metafisica:

Tutti gli uomini per la loro natura desiderano conoscere. E segno ne è l'amore per le sensazioni: infatti anche senza che abbiano utilità sono amate per sé stesse, e sopra tutte le altre le sensazioni date dagli occhi. Infatti non solo per poter agire, ma anche quando non abbiamo intenzione di far nulla preferiamo il vedere -- per così dire -- a tutti gli altri sensi. E la causa è che questo senso ci fornisce conoscenza più degli altri e ci mostra molte differenze (Metafisica I.1, 980 a21-27 [greco]).

La sistemazione delle scienze filosofiche, che in Aristòtele si afferma per la prima volta e permette lo sviluppo di una prassi scientifica fondata sulla specializzazione, rispecchia in buona parte questo criterio della «inutilità». Al primo posto sono le scienze teoretiche, al secondo quelle pratiche, al terzo quelle tecniche (con termini latini: speculative, morali, produttive). Le prime sono dirette al solo sapere, le seconde all'agire, le terze al produrre qualcosa. All'interno dei primi due gruppi la gerarchia è determinata dal raggiungimento della finalità intrinseca: il conoscere muove da ciò che è evidente (il mondo naturale) per raggiungere ciò che è più nobile nell'universo, cioè il divino (Aristòtele cita come elemento intermedio la matematica, ma con scarso entusiasmo e probabilmente solo per influenza dell'orientamento accademico); l'agire parte dai problemi della felicità individuale per farli confluire nel benessere della comunità, trattato dalla politica. Il terzo gruppo delle scienze, quelle tecniche, sono di minore interesse filosofico; tuttavia, la distinzione introdotta tra tecniche che portano a compimento la natura (fabbricazione di utensìli ecc.) e tecniche che la imitano (poesia, letteratura, musica) permette di assegnare a queste ultime lo spazio di una riflessione filosofica, in quanto i loro oggetti sono fini a sé stessi. In conclusione, questo è lo schema effettivo delle scienze filosofiche:

Sommario

2. L'analitica

2.1. Il tema dell'analitica

Secondo l'ordine tradizionale, si occupa di logica il primo gruppo di opere di Aristòtele, il quale però usa il nome di «analitica». Queste opere furono raccolte da Andronico di Rodi sotto il titolo di Órganon, cioè «strumento». Così facendo egli suggeriva che l'analitica fosse una tecnica al servizio della filosofia, piuttosto che una sua parte. Che cosa ritenesse Aristòtele stesso in proposito va desunto, più che da affermazioni esplicite, dall'origine di tali indagini, che probabilmente datano dai primi anni di presenza nell'Accademia di Platone. Qui l'ambiente molto aperto e libero favorì senza dubbio l'elaborazione di sue posizioni originali, che diedero occasione alla pubblicazione delle prime opere. Tra essi va classificato anche il Protrèttico, opera (perduta) di esortazione alla filosofia scritta in polemica con Isòcrate, che nella contemporanea Antìdosi (353) si faceva sostenitore di una formazione culturale fondamentalmente letteraria. Aristòtele vuole invece legare la retorica alla dialettica (l'arte platonica della discussione argomentata), e sul tema comincia anche a tenere corsi all'interno dell'Accademia. È verosimile che l'attività didattica sia accompagnata dalla stesura di trattati ad uso interno, che possono coincidere in buona parte con le opere giunteci.

L'analitica di Aristòtele nasce dunque dal desiderio di rendere più rigorosa la dialettica platonica fino a trasformarla in un metodo descrivibile e chiaramente differenziato dai procedimenti retorici (che vengono sì studiati da Aristòtele, ma come rientranti nel campo della tecnica). L'impostazione che permette questo progresso viene manifestata con esemplare chiarezza già nei Topici, quello che probabilmente è il suo primo scritto sull'argomento:

Il fine che questo trattato si propone è di trovare un metodo con cui poter costruire, per ogni problema proposto, dei sillogismi. ... Sillogismo è propriamente un discorso (lógos) in cui, posti alcuni elementi, risulta per necessità, a causa degli elementi stabiliti, qualcosa di differente da essi. Si ha così anzitutto dimostrazione, quando il sillogismo è costituito e deriva da elementi veri e primi. ... Dialettico è poi il sillogismo che conclude da elementi plausibili (éndoxa). ... Eristico è infine il sillogismo costituito da elementi che sembrano plausibili, pur non essendolo, e anche quello che all'apparenza deriva da elementi plausibili o presentatisi come tali (Topici I, 100 a18-b25).

Insomma, scopo ultimo della logica è individuare le leggi del ragionamento (syllogismói). Una legge logica è quella che mi assicura che una certa connessione di proposizioni è sempre corretta, in virtù della sua semplice forma, a prescindere dalla verità delle proposizioni che la compongono (per questo oggi si usa parlare di «logica formale»). Per esempio, il ragionamento «se l'uomo è un anfibio, allora può vivere nell'acqua» è corretto, anche se la conclusione in sé è falsa, essendo falsa la premessa. Viceversa, il ragionamento che dalla stessa premessa concludesse che «l'uomo non può vivere nell'acqua», sarebbe scorretto, benché la conclusione sia vera. Il sillogismo corretto non assicura quindi che ci siano conclusioni vere, ma assicura che, quando siano poste premesse vere, anche la conclusione sia vera.

Tale nuova impostazione puramente formale, sganciata dai contenuti di qualsivoglia scienza, spalanca in effetti ad Aristòtele un campo di problemi molto grande, studiati con completezza e raffinatezza incomparabilmente superiori a quelle usate da Platone. Questo è il motivo per cui l'effettiva esecuzione del compito va molto oltre le originarie intenzioni, mentre viene in parte perso di vista l'intento di chiarire il procedimento effettivo delle scienze. Ciò è tanto vero che Aristòtele stesso dovrà annotare che non si può imporre in ogni campo del sapere (per esempio nell'etica) quella esattezza dimostrativa messa in opera nella teoria del sillogismo.

Sommario

2.2. I termini e la proposizione

Anzitutto Aristòtele si rende conto che la teoria del sillogismo non può essere costruita se non cominciando ad analizzarne le componenti. Bisogna allora dire che il sillogismo è composto di «proposizioni», e che queste sono costituite da «termini». È questa una distinzione che avrà una grande fortuna nella storia della logica e che si può dire mantenuta in buona parte fino ad oggi.

Riguardo ai termini, Aristòtele conduce analisi dettagliate sulla struttura del linguaggio e sulle parti del discorso, fermando la sua attenzione in particolare sul nome (ónoma) e sul verbo (rhéma), inaugurando in questo modo l'analisi logica del linguaggio. Il carattere principale che egli riconosce ai termini è il loro carattere significativo ovvero simbolico: «I suoni della voce sono simboli delle affezioni che hanno luogo nell'anima, e le lettere scritte sono simboli dei suoni della voce» (Sull'interpretazione 1, 16 a2). Tuttavia tale rapporto è solo convenzionale: non c'è nessun rapporto necessario tra il suono «híppos» e il concetto del cavallo, tant'è vero che altre lingue adoperano suoni differenti. Importante è però notare che, malgrado il rapporto solo convenzionale, il linguaggio esprime tuttavia realmente il pensiero dell'uomo, e in quanto tale può essere il punto di partenza di un'analisi della forma e della struttura del ragionamento.

Entra più decisamente nel campo della logica l'analisi della proposizione. Essa viene anzitutto definita così:

La proposizione (prótasis) è un discorso che afferma o che nega qualcosa rispetto a qualcosa. ... Chiamo d'altra parte termine (hóros) l'elemento cui si riduce la proposizione, ossia ciò che è predicato e ciò di cui è predicato [cioè il soggetto], con l'aggiunta di essere o di non essere [cioè della copula] (Analitici primi I.1, 24 a16-b16).

Come nei termini ciò che conta è il loro significato, così nelle proposizioni è la loro verità o falsità. Anzitutto per Aristòtele è evidente che il vero e il falso non si trovano nelle cose, ma soltanto nel pensiero dell'uomo: non è questa mela vera o falsa, ma solo ciò che io penso di essa. Inoltre:

Come nell'anima talvolta sussiste una nozione che prescinde dal vero e dal falso, e talvolta sussiste invece qualcosa cui spetta necessariamente o di essere vero o di essere falso, così avviene pure per quanto si trova nel suono della voce. In effetti, il falso e il vero consistono nella congiunzione e nella separazione. In sé, i nomi e verbi assomigliano dunque alle nozioni, quando queste non siano congiunte a nulla né separate da nulla. ... Dichiarativi sono, però, non tutti i discorsi, ma quelli in cui sussiste un'enunciazione vera oppure falsa. Tale enunciazione non sussiste certo in tutti: la preghiera, ad esempio, è un discorso, ma non risulta né vera né falsa (Sull'interpretazione 1, 16 a9 -- 17 a7).

Ma che cosa significa che una proposizione è vera?

Se è vero dire che una cosa è bianca (oppure che non è bianca), essa sarà necessariamente bianca (oppure non sarà bianca), e d'altra parte, se una cosa è bianca (oppure non è bianca), era vero affermare oppure negare la cosa (Sull'interpretazione 9, 18 a40-b1).

Malgrado l'apparente banalità, questa descrizione della verità come corrispondenza tra la proposizione e la realtà eserciterà -- condivisa o contestata -- una influenza decisiva sulla storia della filosofia.

Sommario

2.3. Le predicazioni (categorie)

Un'attenzione particolare è dedicata da Aristòtele al verbo «essere» che realizza la connessione grazie alla quale la proposizione può essere vera o falsa. Come si è visto, per Aristòtele ogni proposizione può infatti assumere fondamentalmente solo le due forme «A è B» oppure «A non è B». Ciò è in effetti abbastanza giusto almeno per la lingua greca, in cui anche i predicati verbali possono essere sempre riespressi sotto forma di copula e participio («Infatti non c'è nessuna differenza tra "l'uomo è vivente" e "l'uomo vive", né tra "l'uomo è camminante" o "tagliante" e "l'uomo cammina" o "taglia", e ugualmente anche per gli altri casi», Metafisica V.7, 1017 a27-30 [greco]). Questa era la scoperta che già aveva fatto Parmènide.

Ciò che però Aristòtele continuamente contesta a Parmenide è la pretesa che «ente» abbia un unico significato. Bisogna invece dire che «l'ente si dice in molti significati diversi» (to ón pollachós légetai, Metafisica IV.2, 1003 a33 [greco] e altrove). Quando si considera, come stiamo appunto facendo, il verbo «essere» usato nelle proposizioni, bisogna dire che esso non ha un significato autonomo e unico, ma assume tutti i possibili significati dei termini che connette. Tali significati vengono classificati in alcuni gruppi principali (otto o dieci secondo i testi), chiamati «generi delle predicazioni» o in breve «predicazioni» (kategoríai). Ecco il testo più schematico al riguardo:

Delle cose dette secondo nessun collegamento [= termini] ciascuna significa o ousía o di una quantità o di una qualità o in relazione a qualcosa o in un luogo o in un tempo o giacere o avere o fare o subire. Ed è ousía (per fare un caso) ad esempio «uomo», «cavallo»; di una quantità per esempio «di due cùbiti», «di tre cùbiti»; di una qualità per esempio «bianco», «grammatico»; in relazione a qualcosa per esempio «doppio», «maggiore»; in un luogo ad esempio «nel liceo», «in piazza»; in un tempo ad esempio «ieri», «un anno fa»; giacere per esempio «è disteso», «siede»; avere per esempio «è calzato», «è armato»; fare per esempio «tagliare», «bruciare»; subire per esempio «venir tagliato», «venir bruciato» (Categorie I.4, 1 b25 -- 2 a4).

La distinzione più netta riguarda la prima categoria: in greco ousía, in italiano tradizionalmente sostanza, ma più chiaramente potrebbe forse essere resa con esistenza. Essa indica infatti il soggetto primo, ciò che «esistendo» permette l'attribuzione di altri predicati: una considerazione questa che svolgerà un ruolo centrale nella Metafisica. All'interno dell'analitica, la teoria delle predicazioni adempie invece ad una funzione solo preliminare: mostrare come la riduzione di tutte le proposizioni alla forma soggetto-predicato nominale non pregiudica le possibilità espressive ed è perciò perfettamente accettabile.

Integrazione: Se le categorie abbiano un valore anche ontologico, se indichino cioè non solo i generi dei predicati ma anche i generi della realtà stessa, è un problema che è stato molto dibattuto. In linea generale si può notare che l'analisi linguistica è per Aristòtele un punto di partenza costante, ma in numerose occasioni egli mette in guardia da una meccanica trasposizione dal piano del linguaggio a quello della realtà. Ecco uno dei passi più significativi:

Dato che non è possibile discutere presentando gli oggetti come tali, e che ci serviamo invece dei nomi come di simboli che sostituiscono gli oggetti, noi riteniamo allora che i risultati osservabili a proposito dei nomi si verifichino anche nel campo degli oggetti, come avviene a coloro che fanno calcoli usando dei ciottoli. Eppure le cose non stanno allo stesso modo nei due casi: in effetti, il numero dei nomi è limitato, mentre gli oggetti sono numericamente infiniti (Confutazioni sofistiche 1, 1652 a5-10).

Fine dell'integrazione

Sommario

2.4. La quantificazione

La classificazione delle proposizioni più importante per l'analitica riguarda invece quella che modernamente è chiamata «quantificazione dei predicati»:

La proposizione è dunque un discorso che afferma o nega qualcosa rispetto a qualcosa. Tale discorso, poi, è universale o particolare. ... Con discorso universale intendo quello che esprime l'appartenenza ad ogni cosa o a nessuna cosa; con discorso particolare, intendo quello che esprime l'appartenenza a qualche cosa o la non appartenenza a qualche cosa (Analitici primi I.24, a16-20).

«Qualche» va inteso nel senso del moderno quantificatore esistenziale, cioè «almeno uno», assumendo che la classe individuata dal termine non sia vuota. Si osservi che Aristotele non cita qui le proposizioni singolari, in cui cioè il soggetto indica un solo oggetto, né le considera mai esplicitamente nella trattazione dell'analitica. Tale esclusione non conduce però a nessuna grave deficienza teorica, giacché, come è facile mostrare, nella teoria del sillogismo esse risulterebbero formalmente equivalenti a proposizioni universali. In conclusione, si hanno solo i seguenti quattro modelli di proposizioni (rappresentate dai logici medioevali con le lettere indicate a sinistra, che sono le prime vocali di affirmo e nego):

A. ogni X è Y

I. qualche X è Y

E. nessun X è Y

O. non ogni X è Y (ovvero qualche X non è Y)

Integrazione: Tra i quattro modelli di proposizioni Aristotele individua dei rapporti che nel Medioevo vennero rappresentati nel «quadrato logico»:

Ai quattro vertici si trovano (da sinistra a destra e dall'alto in basso) le lettere A, E, I, O; lungo il lato superiore: contrarie; lungo il lato inferiore: subcontrarie; lungo i lati destro e sinistro: subalterna; lungo le diagonali: contraddittorie

Le proposizioni contrarie non possono essere contemporaneamente vere; quelle subcontrarie non possono essere contemporaneamente false; delle contraddittorie la verità dell'una equivale alla falsità dell'altra; le subalterne (I, O) sono sempre vere quando la subalternante (A, E) è vera. Fine dell'integrazione

Sommario

2.5. Figure e modi del sillogismo

Dopo averne esaminato gli elementi costitutivi, si può infine considerare il sillogismo in sé. Quale ne sarà la forma generale? Bisogna anzitutto dire che il sillogismo deve avere due premesse e una conclusione: da una sola premessa non si potrebbero trarre infatti conclusioni corrette. In generale, dunque, esso assumerà la forma: «se p e q, allora r», dove le tre lettere p, q, r stanno per tre diverse proposizioni. Che cosa si può dire dei termini delle proposizioni? Condizione necessaria perché sia possibile trarre una conclusione corretta è che le due premesse abbiano in comune un termine (detto «medio»), che serva per così dire da «ponte» per poter connettere gli altri due (detti «estremi»). In sostanza, sono possibili quattro «figure» del sillogismo, differenti solo per l'ordine dei termini (quello medio è indicato con B, gli estremi con A e C):

1. se ... B è C e ... A è B, allora ... A è C

2. se ... C è B e ... A è B, allora ... A è C

3. se ... B è C e ... B è A, allora ... A è C

4. se ... C è B e ... B è A, allora ... A è C

Ora, secondo ciascuna di queste quattro figure possono essere costruiti sillogismi connettendo i termini secondo uno dei quattro tipi di proposizione prima considerati: affermativa universale, affermativa particolare, negativa universale, negativa particolare. Un elementare calcolo combinatorio mostra che in questo modo è possibile costruire 256 differenti sillogismi (4 figure × 4 prime premesse × 4 seconde premesse × 4 conclusioni). Ma quali di questi sillogismi sono validi? quali cioè rappresentano ragionamenti corretti? Questo è il problema fondamentale dell'analitica. Per riassumere la risposta di Aristòtele, useremo la simbologia elaborata nel Medioevo soprattutto da Pietro Ispano (1219 ca.-1277) e ancor oggi celebre. In essa ogni sillogismo è indicato da una parola mnemonica, in cui le tre vocali indicano nell'ordine la quantità delle premesse e della conclusione. Ecco dunque l'elenco completo dei sillogismi (o «modi») validi:

1ª figura: barbara, darii, celarent, ferio, [barbari], [celaront]

2ª figura: cesare, camestres, baroco, festino, [cesaro], [camestrop]

3ª figura: darapti, datisi, disamis, felapton, ferison, [bocardo]

4ª figura: [bamalip], [camenes], [fesapo], [fresison], [dimaris], [camelop]

Tra parentesi quadre sono indicati i sillogismi che Aristòtele analizza con minore dettaglio degli altri. I sillogismi validi sono comunque, dei 256 possibili, solo ventiquattro. Un esempio per ciascuna delle quattro figure:

1. barbara: se ogni B è C e ogni A è B, allora ogni A è C

2. camestres: se ogni C è B e nessun A è B, allora nessun A è C

3. felapton: se nessun B è C e ogni B è A, allora non ogni A è C

4. fresison: se nessuno C è B e qualche B è A, allora non ogni A è C

A questo punto, ovviamente, è possibile sostituire alle lettere qualsiasi nome universale: il ragionamento sarà sempre corretto, e, se le premesse saranno vere, si otterrà una conclusione vera (ovvero un «sillogismo dimostrativo»). Ecco il celeberrimo esempio di un sillogismo barbara: «se ogni uomo è mortale e ogni ateniese è uomo, allora ogni ateniese è mortale» (spesso quest'esempio viene citato usando come termine «Socrate» anziché «ateniese»: si tratta di un anacronismo di quasi due millenni, giacché i termini singolari saranno introdotti nella sillogistica da Guglielmo di Occam [1280-1349]). È opportuno notare che, a parte l'enunciazione un po' differente da quella qui usata, anche Aristòtele discute i sillogismi in una forma estremamente concisa ed esatta, che diventerà tipica per tutti gli scritti di logica della storia. Ecco per esempio come enuncia il sillogismo barbara: «Se A si predica di ogni B, e se B si predica di ogni C, è necessario che A venga predicato di ogni C» (Analitici primi I.4, 25 b38-39). Ciò che va soprattutto notato è l'uso delle variabili per indicare i termini. È superfluo dire che si tratta di una delle scoperte più feconde di tutti i tempi, che ha reso possibile lo sviluppo tanto della logica quanto della matematica: solo tramite esse si possono infatti formulare in maniera semplice leggi universali, proprio quelle di cui Aristòtele andava alla ricerca nella sua analitica.

Integrazione: In una parte successiva della sua opera Aristòtele compie un'importante estensione della sillogistica, cui accenniamo soltanto. Si tratta della «sillogistica modale», in cui, oltre alle semplici affermazioni considerate finora («assertorie») vengono considerate anche quelle che contengono le espressioni «dev'essere» e «può essere». Ai sillogismi prima considerati, in cui entrambe le premesse sono assertorie, se ne aggiungono quindi altre otto classi, secondo le varie combinazioni dei tre tipi di proposizioni. Dei possibili sillogismi risultanti Aristòtele ne studia esplicitamente non meno di 137, in pagine che sono tra le più complesse della sua opera e che saranno molto spesso incomprese o fraintese. Fine dell'integrazione

Sommario

2.6. La dimostrazione dei sillogismi

Aristòtele non si limita ad individuare quali siano le forme corrette di sillogismo: egli si preoccupa anche di darne una dimostrazione. Riguardo ad essa, egli è cosciente che essa deve necessariamente fermarsi a premesse indimostrabili, che possano essere accettate per la loro evidenza:

È ignoranza non sapere di quali cose si debba ricercare una dimostrazione e di quali, invece, non si debba cercare. Infatti, in generale, è impossibile che ci sia dimostrazione di tutto: in tal caso si procederebbe all'infinito, e in questo modo, di conseguenza, non ci sarebbe affatto dimostrazione (Metafisica IV.4, 1006 a6-9 [greco]).

Nel caso dei sillogismi, gli sembra che quelli della prima figura possano svolgere tale compito. Essi costituiscono quindi, nella terminologia odierna, gli «assiomi» del sistema sillogistico. Agli assiomi bisogna tuttavia aggiungere delle regole di derivazione. Aristòtele individua come sufficienti le seguenti leggi di sostituzione:

s. nessun A è B = nessun B è A

s. qualche A è B = qualche B è A

p. ogni A è B = qualche B è A

m. se p e q allora r = se q e p allora r

c. se p e q allora r = se non-r e q allora non-p

In tutti e cinque i casi, l'espressione a sinistra deve essere sostituita con quella a destra. Le prime tre leggi sono regole di «conversione» delle premesse, la quarta (non esplicitamente enunciata da Aristòtele) stabilisce la possibilità d'invertire le premesse del sillogismo, l'ultima rappresenta la riduzione all'assurdo. Le lettere indicate a fianco sono anche qui i simboli medioevali, che si ritrovano nei nomi dei sillogismi della seconda, terza e quarta figura: quando s o p seguono una vocale, significa dunque che la proposizione corrispondente va convertita, quando compare una m le premesse vanno invertite, quando compare all'interno una c che bisogna effettuare la riduzione all'assurdo, eventualmente invertendo prima le premesse. (Tutte le altre consonanti sono semplicemente riempitive.) In questo modo si giungerà alla forma della prima figura che inizia con la stessa consonante. Per esempio, per dimostrare disamis bisogna: convertire la prima premessa (diSamis); convertire la conclusione (disamiS); invertire le premesse (disaMis); così si ottiene un sillogismo darii (Disamis).

Integrazione: Basteranno i successivi sviluppi della logica megarico-stoica per mettere in luce come nell'analitica di Aristòtele sia contenuto solo un piccolo sottoinsieme di leggi logiche (in termini moderni, l'intera sillogistica è solo una porzione del calcolo dei predicati monadici del primo ordine). Ciò nonostante, i meriti di Aristòtele sono quasi incalcolabili: con lui non soltanto viene fondata -- partendo quasi dal nulla -- la logica formale, della quale vengono riconosciuti e delimitati chiaramente i compiti, ma viene anche costruito in maniera pressoché impeccabile un sistema in sé completo, che costituirà per secoli la base di innumerevoli speculazioni (talvolta acute, talaltra di nessun valore). Questo risultato è tanto più degno di ammirazione quanto più si veda il naufragio che la logica dovrà subire lungo diversi secoli, soprattutto a partire dal Rinascimento: affinché in epoca moderna gli scritti di Aristòtele possano essere di nuovo correttamente interpretati e discussi, bisognerà aspettare l'opera del polacco Jan Lukasiewicz [p] (1878-1956). Fine dell'integrazione

Sommario

2.7. Il procedimento scientifico

Negli Analitici secondi Aristòtele considera il problema dell'applicazione dei procedimenti logici alla ricerca scientifica (epistéme). Qui non interessa più solo la validità formale del sillogismo, ma anche la verità delle conclusioni che esso raggiunge. Ciò spiega la grande attenzione che viene dedicata al problema dei princìpi della dimostrazione. Come già si è visto su un altro piano, anche nelle scienze è impossibile un regresso all'infinito, e vanno quindi individuati dei fondamenti indimostrabili:

È necessario che la scienza dimostrativa si costituisca sulla base di premesse vere, prime, immediate, più note della conclusione, anteriori ad essa, e che siano cause di essa: a questo modo, infatti, pure i princìpi risulteranno propri dell'oggetto provato. In realtà, un sillogismo potrà sussistere anche senza tali premesse, ma una dimostrazione non potrebbe sussistere, poiché allora non produrrebbe scienza (Analitici secondi I.2, 71 b20-25).

Le premesse prime di cui si serve la scienza hanno un legame molto stretto con la teoria metafisica della definizione. Detto in breve, i princìpi devono esprimere ciò che in ciascun ambito della realtà è più generale: ma questi sono proprio i caratteri che a diverso livello vengono espressi nella definizione di ciascuna cosa. Ciò è coerente con la ripetuta affermazione (di palese origine platonica) che la scienza si occupa solo dell'universale e necessario e non del singolare e accidentale:

Dell'accadimento non c'è scienza. Ogni scienza, infatti, riguarda ciò che è sempre o [almeno] per lo più: come sarebbe possibile, altrimenti, imparare o insegnare ad altri? Infatti ciò che è oggetto di scienza deve potersi determinare come esistente sempre o per lo più: come, per esempio, che l'acqua e miele ai febbricitanti per lo più giova. Altrimenti nemmeno sarà possibile enumerare i casi in cui ciò non avviene: per esempio nel novilunio, perché anche questo accade o sempre o per lo più, mentre l'accadimento non fa così (Metafisica VI.2, 1027 a19-26 [greco]).

Integrazione: Lo spirito di quest'affermazione è giunto in una buona misura fino alla scienza moderna, che si preoccupa appunto di formulare leggi universalmente valide. In Aristòtele però questo punto di vista è sostenuto in una forma esclusiva: come conseguenza per esempio la storia, trattando di episodi singolari, non può essere una scienza, e viene in ciò paradossalmente superata dalla poesia che tende a considerare situazioni ideali e dunque potenzialmente universali. Fine dell'integrazione

La pratica della scienza quindi non coincide con la semplice deduzione da premesse già date, ma piuttosto consiste in gran parte in due operazioni differenti: la connessione dei princìpi per giungere ad una spiegazione soddisfacente dei fenomeni e la scoperta dei princìpi stessi. Riguardo alla prima, nella terminologia dell'analitica ciò significa scoprire del termine «medio», cioè quello che giustifica la connessione dei due estremi che è già data nell'esperienza:

La prontezza deduttiva è una certa abilità di cogliere istantaneamente il medio. Tale abilità si presenta, ad esempio, nel caso in cui, vedendo che la parte illuminata della luna sta sempre rivolta verso il sole, qualcuno coglie d'un tratto il perché della cosa, ossia comprende che ciò si verifica poiché la luna riceve la sua luce dal sole; o nel caso in cui, quando si vede una persona che parla con un ricco, si comprende che ciò avviene poiché questa persona si fa prestare del denaro; o anche, nel caso in cui si coglie il perché due persone siano amiche, comprendendo che ciò deriva dalla loro inimicizia per un medesimo individuo. In tutto questi casi, infatti, nel vedere gli estremi qualcuno cogli tutti i medi, cioè le cause (Analitici secondi I.34, 89 b10-16).

In termini più espliciti, il primo esempio porta al seguente sillogismo: «Se la luna è un corpo che riceve la luce dal sole e tutti i corpi che ricevono la luce dal sole hanno la parte illuminata verso il sole, allora la luna ha la parte illuminata verso il sole» (si noti che in questo sillogismo un termine, «la luna», è singolare, contrariamente a quanto viene teorizzato nell'analitica da Aristòtele stesso). Da questa formulazione è chiaro che in assenza del termine medio non verrebbe detto il perché di un dato fenomeno, ciò che invece costituisce un elemento essenziale della scienza. La correttezza del termine medio è mostrata dunque da nient'altro che la maggiore o minore capacità di spiegare i fenomeni in maniera semplice e completa.

Riguardo alla scoperta dei princìpi stessi, Aristòtele assegna un ruolo fondamentale all'esperienza. Questa è la celebre discussione in proposito che termina gli Analitici secondi:

Ci si può domandare se ... le facoltà dei princìpi si sviluppino senza sussistere in noi sin dall'inizio, oppure se esse siano innate, senza che ce ne avvediamo. In verità, se le possedessimo sin dall'inizio, si andrebbe incontro a conseguenze assurde, poiché si dovrebbe concludere che, pur possedendo conoscenze superiori alla dimostrazione, noi non ci accorgiamo di ciò. D'altra parte, se noi acquistiamo queste facoltà, senza averle possedute in precedenza, come potremmo render noto un qualcosa e come potremmo imparare, quando non si parta da una conoscenza preesistente? Tutto ciò è infatti impossibile, come dicevamo già a proposito della dimostrazione. È dunque evidente che non è possibile possedere tali facoltà sin dall'inizio, e che non è neppur possibile che esse si sviluppino in coloro che sono del tutto ignoranti e non posseggono alcuna facoltà. Di conseguenza, è necessario che noi siamo in possesso di una qualche capacità, non però di una capacità tale da essere più pregevole delle suddette facoltà, quanto ad acutezza.

Pare d'altronde che questa capacità appartenga effettivamente a tutti gli animali. In effetti, tutti gli animali hanno un'innata capacità discriminante, che viene chiamata sensazione. ... Dalla sensazione si sviluppa dunque ciò che chiamiamo ricordo, e dal ricordo spesso rinnovato di un medesimo oggetto si sviluppa poi l'esperienza. ... In seguito, sulla base dell'esperienza, ossia dell'intero oggetto universale che si è acquietato nell'anima, dell'unità al di là della molteplicità, il quale è contenuto come uno e identico in tutti gli oggetti molteplici, si presenta il principio della tecnica e della scienza. ... Le suddette facoltà non ci sono dunque immanenti nella loro determinatezza, né provengono in noi da altre facoltà più produttive di conoscenza, ma vengono suscitate piuttosto dalla sensazione. ...

È dunque evidentemente necessario che noi giungiamo a conoscere gli elementi primi con l'induzione. In effetti, già la sensazione produce a questo modo l'universale. Ora, tra i possessi che riguardano il pensiero e con i quali cogliamo la verità, alcuni risultano sempre veraci, altri invece possono accogliere l'errore; tra questi ultimi sono, ad esempio, l'opinione e il ragionamento, mentre i possessi sempre veri sono la scienza e l'intelligenza, e non sussiste alcun altro genere di conoscenza superiore alla scienza, all'infuori dell'intelligenza. Ciò posto, e dato che i princìpi risultano più evidenti delle dimostrazioni, e che, d'altro canto, ogni scienza si presenta congiunta alla ragione discorsiva, in tal caso i princìpi non saranno oggetto di scienza; e poiché non può sussistere nulla di più verace della scienza, se non l'intelligenza, sarà invece l'intelligenza ad avere come oggetto i princìpi (Analitici secondi II.19, 99 b22 -- 100 b12).

I due termini «induzione» (epagogé) e «intelligenza» (nóus) non vanno quindi contrapposti: il primo indica il procedimento tramite cui grazie all'esperienza viene individuato il carattere essenziale di qualcosa, che costituisce principio della scienza; il secondo la capacità individuale di compiere effettivamente tale procedimento, che quando è corretto (cosa peraltro sulla quale è facile ingannarsi) assicura una conoscenza più fondamentale di quella «scientifica», la quale è derivata per dimostrazione.

L'appello all'esperienza mette in luce quell'irriducibile pluralismo che per Aristòtele sussiste nella costruzione della scienza. Sia per quanto riguarda i princìpi, sia per quanto riguarda le dimostrazioni, le diverse scienze si distinguono le une dalle altre:

Risulta evidente che, se viene a mancare qualche senso, necessariamente viene pure a mancare qualche scienza, che sarà impossibile acquisire, dal momento che noi impariamo o per induzione o mediante dimostrazione. Orbene, la dimostrazione parte da proposizioni universali, mentre l'induzione si fonda su proposizioni particolari; non è tuttavia possibile cogliere le proposizioni universali se non attraverso l'induzione, poiché anche le nozioni ottenute per astrazione saranno rese note mediante l'induzione, quando cioè si provi che alcune determinazioni appartengono ad un singolo genere in quanto tale, sebbene non risultino separabili dagli oggetti della sensazione (Analitici secondi I.18, 81 a38-b5).

Non è possibile condurre la dimostrazione passando da un genere all'altro: per esempio, non si può dimostrare una proposizione geometrica mediante l'aritmetica. Tre sono infatti gli elementi costitutivi delle dimostrazioni: in primo luogo ciò che si dimostra, ossia la conclusione (la quale esprime l'appartenenza di una determinazione per sé ad un qualche genere); in secondo luogo gli assiomi (gli assiomi sono le proposizioni da dove prende le mosse la dimostrazione); in terzo luogo, il genere sottoposto, le cui affezioni e determinazioni per sé sono rivelate dalla dimostrazione (Analitici secondi I.7, 75 a38-b2).

Integrazione: Qualsiasi valutazione della teoria aristotelica della scienza deve necessariamente prescindere dalle vicende storiche dell'aristotelismo, e in particolare dal fatto che la scienza moderna si è affermata proprio in polemica verso di esso. È infatti evidente che molte delle critiche sollevate lungo la storia nei confronti di Aristòtele riguardano in realtà una cieca ripetizione dei risultati da lui raggiunti e non le esigenze di metodo che egli avanzava. In linea generale va poi osservato che le riflessioni di Aristòtele tutto suggeriscono fuorché la presunzione di raggiungere facilmente una assoluta certezza, priva di possibilità di correzione: «Determinare se la conoscenza sussista o no è difficile. È infatti arduo precisare se la nostra conoscenza parta o no dai princìpi propri di qualsiasi oggetto, il che costituisce appunto il sapere» (Analitici secondi I.9, 76 a26-28). Fine dell'integrazione

Sommario

2.8. Il procedimento dialettico

Accanto al procedimento scientifico, Aristotele conserva anche uno spazio per la «dialettica», che continua ad avere in lui il senso platonico di «tecnica della discussione». Per questo -- come abbiamo visto -- il ragionamento dialettico è presentato come quello che «conclude da elementi plausibili (éndoxa)», i quali a loro volta sono definiti come quelli «che paiono a tutti o alla maggior parte o ai sapienti» (Topici I, 100 b21). Non si intende con ciò dire che la dialettica è confinata nel campo della probabilità, ma piuttosto che essa prende le mosse dalle opinioni sostenuti dall'interlocutore (reale o immaginario), per vagliarle e giudicare se esse siano vere o false. Proprio perché non ha bisogno di punti di partenza veri e necessari, la dialettica risulta utile sia per affrontare i problemi che superano l'ambito di una singola scienza, sia per accertare (in concorrenza con il metodo induttivo) i princìpi di una determinata scienza discutendo le opinioni fino a quel momento espresse. Ciò non toglie che lo spazio della dialettica pare in Aristotele restringersi man mano che viene sviluppata la tecnica del sillogismo, e la sua opera dedicata al tema (i Topici) è senza dubbio giovanile.

Come già in Zenone, il metodo dialettico è essenzialmente quello della confutazione (in termini moderni dimostrazione per assurdo): quando da un'opinione si deduce una contraddizione, risulta dimostrata la tesi contraria. Perché tale metodo possa essere applicato, sono necessari due princìpi: i cosiddetti princìpi di non contraddizione e del terzo escluso, che avevano avuto la loro formulazione embrionale già in Parmènide. Essi vengono discussi non nell'Órganon, ma in una sezione presumibilmente giovanile della Metafisica, con la giustificazione che essi riguardano «ciò che è in quanto è», oggetto proprio -- come si vedrà -- della metafisica. Eccone la formulazione:

Lo stesso [attributo] non può contemporaneamente dirsi e non dirsi dello stesso [soggetto] e nello stesso tempo (Metafisica IV.3, 1005 b19-20 [greco]).

Non è possibile che tra due proposizioni contraddittorie ci sia una via di mezzo, ma è necessario o affermarne o negarne una sola, qualunque essa sia (Metafisica IV.7, 1011 b23-24 [greco]).

Il primo di essi viene qualificato da Aristotele «il più forte di tutti i princìpi» e il punto di partenza per qualsiasi dimostrazione (cioè più esattamente: confutazione). Proprio per questo, ne è impossibile -- come sappiamo -- una dimostrazione vera e propria. È possibile però una sorta di dimostrazione indiretta, realizzata confutando l'avversario che lo neghi:

Il punto di partenza consiste nell'esigere che l'avversario ... dica qualcosa che abbia un significato per sé e per gli altri; e questo è pur necessario, se egli intende dire qualcosa. Se non facesse questo, costui non potrebbe in alcun modo discorrere, né con sé stesso né con altri; se l'avversario concede questo, allora sarà possibile una dimostrazione. ... Se relativamente ad un medesimo soggetto fossero vere, ad un tempo, tutte le affermazioni contraddittorie, è evidente che tutte quante le cose si ridurrebbero ad una sola. Infatti, saranno la medesima cosa e una nave e una parete e un uomo, se di tutte le cose un determinato predicato si può tanto affermare tanto negare. ... Infatti, se a qualcuno sembra che un uomo non sia una nave, è evidente che non è una nave; tuttavia sarà anche una nave, dal momento che il contraddittorio è vero. Allora tutte le cose saranno confuse insieme (Metafisica IV.4, 1006 a18 -- 1007 b26 [greco]).

In sostanza: soltanto per il fatto di discutere, usando quindi parole cui attribuisce un significato determinato, l'avversario fa uso del principio di non contraddizione e quindi ne ammette implicitamente la validità. Questa discussione è molto importante soprattutto dal punto di vista della semantica (cioè della teoria del significato).

Integrazione: Tuttavia Aristotele può affermare che il principio è necessario e che ad esso si riducono tutte le altre leggi logiche solo perché sta pensando alle dimostrazioni per assurdo; nella sillogistica invece egli ne fa un uso molto limitato, e mostra che è possibile costruire sillogismi validi che tuttavia lo vìolano. Benché Aristotele più tardi notò la cosa e precisò le sue affermazioni («nessuna dimostrazione assume espressamente l'assioma secondo cui non è possibile affermare e al tempo stesso negare qualcosa di un oggetto», Analitici secondi I.11, 77 a10-12), il passo della Metafisica trarrà spesso in inganno: ancora Kant (1724-1804) chiamerà il principio di non contraddizione «il sommo principio di tutti i giudizi analitici» (Ragione pura, A 150 / B 189). Fine dell'integrazione

In modo simile stanno le cose con il principio del terzo escluso, che afferma che non c'è una terza possibilità tra il vero e il falso (tertium non datur), e che dunque la negazione della negazione è eguale all'affermazione. Anch'esso non è necessario in senso assoluto: lo stesso Aristòtele si rese conto di ciò, ed esclude dalla sua portata le proposizioni «future contingenti» (per esempio «domani ci sarà una battaglia navale»), che non sono né vere né false:

Dal momento che i discorsi sono veri analogamente a come lo sono gli oggetti, è chiaro che a proposito di tutti gli oggetti, costituiti così da accadere indifferentemente in due modi secondo delle possibilità contrarie, anche la contraddizione si comporterà necessariamente in maniera simile. È appunto ciò che avviene riguardo agli oggetti che non sono sempre, oppure a quelli che non sempre non sono. In tali casi è infatti necessario che una delle due parti della contraddizione sia vera e l'altra falsa, ma non è tuttavia necessario che una determinata parte sia vera oppure falsa; sussiste piuttosto un'indifferenza tra le due possibilità, e quand'anche uno dei due casi risulti più vero, la verità e la falsità non saranno tuttavia già decise sin da principio (Sull'interpretazione 9, 19a33-39).

Applicare il principio del terzo escluso in questi casi equivarrebbe insomma ad ammettere che tutte le cose avvengono per necessità: «In tal modo, non occorrerebbe più che noi prendessimo delle decisioni, né che ci sforzassimo laboriosamente» (Sull'interpretazione 9, 18b30-31).

Integrazione: Il fatto che tali due princìpi sono indispensabili solo nell'ambito dialettico non toglie nulla alla loro enorme importanza storica e teorica. Ancora oggi sono utilizzati come criterio per distinguere i possibili generi di logica proposizionale. Così, le logiche che assumono tanto il principio di non contraddizione quanto quello del terzo escluso vengono chiamate «classiche», quelle che assumono solo il primo «intuizionistiche», quelle che non assumono né il primo né il secondo «minimalistiche». Fine dell'integrazione

Sommario

4. La metafisica

Ringrazio l'editore per il consenso alla rielaborazione in questa sede di alcune pagine pubblicate in Aristotele, Discorsi sull'esistenza. Libri 7-8-9 della Metafisica, Introduzione, traduzione e note di Giovanni Salmeri, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996. Questo paragrafo 4 è escluso dalla licenza Open Content.

4.1. Il problema della metafisica

Il termine «metafisica» (ta metá ta physiká) non risale ad Aristotele. Esso venne attribuito dai suoi allievi come titolo ad una compilazione di testi che, scritti da punti di vista differenti e in tempi diversi, trattano la scienza teoretica che Aristotele individuava come la suprema e più importante. Il nome «metafisica» può essere interpretato in due modi diversi: sia «ciò che viene dopo la fisica», intendendo che il suo studio dovrebbe seguire quello della fisica, sia «ciò che è più importante della fisica», giacché tratta problemi più fondamentali e giunge a risultati più alti. Entrambe queste spiegazioni si adattano bene a ciò che Aristotele pensava. Da parte sua, egli indicò questa scienza con nomi diversi: teologia, sapienza, filosofia prima (in contrapposizione alla fisica che è la filosofia seconda), scienza di ciò che è in quanto è. Quest'ultimo è senza dubbio il nome più esplicito e chiaro:

C'è una scienza che indaga ciò che è in quanto è (to ón hé ón) e ciò che gli appartiene di per sé. Essa non è uguale a nessuna delle scienze dette particolari: infatti nessuna delle altre scienze fa un esame su ciò che è in quanto è in universale, ma, dopo averne delimitato una parte, indagano ciò che le accade (per esempio le scienze matematiche). E poiché cerchiamo i princìpi e le cause più alte, è chiaro che essi devono essere di una qualche natura di per sé. Se dunque anche coloro che cercavano gli elementi di ciò che è [cioè i naturalisti] cercavano questi princìpi, è necessario che anche gli elementi appartengano a ciò che è non per accadimento, ma in quanto è. Perciò anche noi dobbiamo considerare le prime cause di ciò che è in quanto è (Metafisica IV.1, 1003 a21-32 [greco]).

Insomma: tutte le scienze particolari considerano ciascuna quella parte di realtà che possiede una certa caratteristica (per esempio la biologia studia ciò che vive). Ma tali caratteristiche sono sempre «per accadimento», cioè non necessarie, rispetto all'esistere (nulla infatti vive per il solo fatto di esserci). In questo modo, viene inevitabilmente trascurato il significato dell'essere, che è ciò che di più universale esiste. La scienza dunque che studia ciò che è in quanto esiste, individuandone princìpi e cause, sarà al tempo stesso la più universale e la più fondamentale. Ciò non significa che la metafisica sia la scienza più necessaria; anzi, è l'esatto contrario: «Tutte [le scienze] sono più necessarie di questa, ma nessuna migliore» (Metafisica I.2, 983 a10-11 [greco]). È questa una paradossale conferma del carattere disinteressato delle scienze teoretiche in generale: è naturale infatti che la più fondamentale tra esse, quella che può perciò essere chiamata «filosofia prima», sia al massimo grado aliena da qualsiasi utilità pratica.

Integrazione: Come già accennato, alla scienza di ciò che è in quanto è spetta anche lo studio dei primi princìpi della logica: «Infatti essi appartengono a tutte le cose che sono, e non ad un particolare genere ad esclusione degli altri, e tutti quanti se ne servono, perché sono propri di ciò che è in quanto è, e ogni genere è una cosa che è» (Metafisica IV.3, 1005 a22-25 [greco]). Questa è un'ulteriore conferma del carattere fondamentale che la metafisica assume nei riguardi delle altre scienze: è infatti giusto che queste ultime assumano pacificamente gli assiomi senza preoccuparsi di dimostrarli, proprio perché la loro validità supera i confini di applicazione di qualsiasi indagine particolare. Questa sezione della metafisica rimane però isolata e quasi erratica, e va probabilmente attribuita ad una fase giovanile della filosofia di Aristotele. Fine dell'integrazione

Sommario

4.2. I significati di «ciò che è»

Il punto di partenza per lo studio di ciò che è in quanto tale è costituito da una riflessione di carattere linguistico sul verbo «essere». Aristotele non giustifica espressamente questo esordio, ma esso è facilmente comprensibile sulla base della sua visione del linguaggio come «significativo» del pensiero: e se il pensiero è d'altra parte in grado di comprendere la realtà, sarà naturale cercare proprio nella trama dell'espressione verbale una prima indicazione verso la soluzione dei problemi, o per lo meno una puntualizzazione del modo in cui la realtà giunge ad essere compresa ed espressa nella nostra esperienza.

In questo approccio linguistico c'è certamente una somiglianza con ciò che implicitamente aveva già fatto Parmenide, tanto più che in questo caso l'analisi riguarderà ovviamente il verbo «essere» (éinai). Ciò che però Aristotele contesta vivacemente a Parmenide è la pretesa che «essere» abbia un unico significato. Bisogna invece dire che «ciò che è si dice in molti sensi» (Metafisica IV.2, 1003 a33 [greco]; VII.1 1028 a10 [greco] etc.: circa venti volte nell'intera opera), ed indicando l'intera realtà, può assumere tutte le sfumature di significato che corrispondono alle manifestazioni di questa. L'uso linguistico mostra infatti anzitutto una varietà, sulla quale poi è necessario riflettere per individuare quale sia la connessione tra i diversi usi e dunque una almeno parziale gerarchia. Il compito di questa ricognizione preliminare viene svolto nel libro Sui molteplici sensi (il quinto della Metafisica). Questa è l'analisi di «ciò che è» (ón, lat. ens):

Ciò che è si dice da una parte per accadimento (katá symbebekós), dall'altra di per sé (kath'hautó).

  1. Per accadimento diciamo per esempio che il giusto è musicista e che l'uomo è musicista e che il musicista è uomo, press'a poco come diciamo che il musicista costruisce perché è accaduto che il costruttore è musicista o che il musicista è costruttore. Infatti, questo è quest'altro significa che questo è accaduto a quest'altro. ...

  2. Vengono dette essere di per sé tutte quante le cose che significano le configurazioni delle predicazioni, perché essere ha tanti significati quante sono le predicazioni. Poiché dunque dei predicati alcuni indicano che cos'è, altri qual è, altri quant'è, altre in che relazione sta, altre che cosa produce o patisce, altre dov'è, altre quand'è, essere significa la stessa cosa di ciascuna di esse. ...

  3. Ancora: essere ed è significano che è vero, mentre il non essere che non è vero ma falso, e allo stesso modo sia per l'affermazione che per la negazione. Per esempio si dice che Socrate è musicista perché questo è vero, o che Socrate è non-bianco perché è vero; d'altra parte si dice che la diagonale non è commensurabile perché questo è falso.

  4. Ancora: essere significa anche ciò che è da una parte potenzialmente (dynámei), dall'altra compiutamente (entelechéia), di queste cose dette. Infatti affermiamo che è vedente sia chi lo è potenzialmente sia chi lo è compiutamente, e allo stesso modo diciamo che conosce sia chi può fare uso della conoscenza sia chi ne fa uso, e che è tranquillo sia ciò cui già appartiene la tranquillità sia ciò che può stare tranquillo. Allo stesso modo anche per le ousíai: e infatti affermiamo che l'erma è nella pietra, che la semiretta è nella retta, e che è grano anche quello non ancora maturo (Metafisica V.7, 1017 a7 -- b8 [greco]).

Come procedere di fronte a questa pluralità di significati? Implicitamente vengono escluse due possibilità: da una parte considerare questi sensi completamente autonomi e indipendenti, dall'altra ridurli ad uno fondamentale che permetta una deduzione degli altri. La prima opzione verrebbe a cancellare la stessa coerenza di una scienza di «ciò che è in quanto è», la seconda riprodurrebbe ancora l'orientamento parmenideo. La soluzione mediana -- e secondo Aristotele corretta -- è quella di prendere in considerazione le diverse accezioni, chiarendole in quanto tali, e lasciando che sia la loro analisi a portare alla luce le connessioni reciproche. In questo senso la Metafisica può ritenersi la ricerca del senso principale dell'essere.

Il primo preso in considerazione è l'essere come accadimento (o accidente, lat. accidens) [1], ovvero che riguarda «ciò che accade». L'accadimento indica qui infatti soltanto una circostanza esteriore, non motivata necessariamente da nessuna caratteristica propria del soggetto. Nell'esempio di Aristotele, che il musicista sia costruttore di una casa è un accadimento perché non c'è nulla nella definizione del musicista che implichi la sua capacità di costruire. Ora, dell'accadimento non può esserci alcuna scienza in senso proprio (esso costituisce l'eccezione più che la regola), e tanto meno potrà occuparsene la scienza suprema. L'accadimento va perciò lasciato da parte.

Viene poi esaminato il senso dell'essere come vero e il falso [3], cioè il valore di verità che posseggono le proposizioni, tutte riconducibili al verbo essere. Ora, contro la posizione propriamente platonica, Aristotele afferma che la verità e la falsità sono soltanto nella mente che opera un'affermazione o una negazione. Ma ciò suggerisce che il campo più proprio per l'esplicitazione di questo significato è un altro: la teoria dell'anima intellettuale da una parte, l'analitica come tecnica del ragionamento corretto dall'altra. Anche questo senso va dunque abbandonato nella filosofia prima, che si occupa anzitutto delle cose, della realtà.

Rimane quindi come significato più forte l'essere per sé, che viene distinto nelle diverse «predicazioni» (kategoríai) [2] (la distinzione poteva applicarsi anche all'essere come accadimento, ma sarebbe stata evidentemente superflua, giacché quel significato andava in ogni caso accantonato). L'essere potenziale e l'essere compiuto [4] vengono trattati da Aristotele successivamente, e possono essere quindi per il momento messi tra parentesi, tanto più che rappresentano non un significato esclusivo rispetto agli altri tre, ma piuttosto una loro ulteriore suddivisione.

Ma c'è una predicazione che va considerata fondamentale rispetto alle altre? Questa è la domanda che Aristotele si pone proseguendo nel tentativo d'individuare il significato principale di «ciò che è». Eccone la risposta:

Essendo detto ciò che è in tanti sensi, è evidente che di questi il primo è il che cos'è che significa appunto l'ousía. ... E le altre cose si dice che sono perché sono le une quantità di una cosa che è in questo senso, le altre qualità, le altre patimenti, le altre qualcos'altro di simile.

Perciò si potrebbe anche avere il dubbio se il camminare, lo star sani e il sedere siano, ciascuno, una cosa che è oppure no, e ugualmente per ogni altra cosa simile: infatti nessuna di queste cose è di per sé, né può separarsi dall'ousía: piuttosto lo è ciò che, essendo, cammina e siede e sta sano. Questi ultimi appaiono di più cose che sono, perché il loro soggetto è qualcosa di definito (e cioè l'ousía e la cosa designata). ... Dunque è chiaro che grazie ad essa [ousía] anche ciascuna di quelle cose è, cosicché ciò che è in senso primo, cioè non ciò che è qualcosa ma ciò che è in assoluto, può essere l'ousía. ...

E in verità, ciò che un tempo e ora e sempre viene sempre ricercato e sempre messo in dubbio: che cos'è ciò che è? equivale a: che cos'è l'ousía? ... , perciò anche noi, soprattutto, in primo luogo e unicamente, per così dire, dobbiamo indagare ciò che è in questo senso, che cosa sia (Metafisica VII.1, 1028 a13 -- b7 [greco]).

Il ragionamento è chiaro e anche convincente: l'essere come predicato (cioè l'ousía) è anteriore all'essere come copula, perché quest'ultimo, in tutti i suoi vari significati, suppone sempre l'esistenza di un soggetto determinato e dunque un'ousía. Si cadrebbe altrimenti nell'assurdo di una quantità, di una qualità ecc. poggiante sul nulla: come se potesse esserci un «camminare» senza nessuno che cammini. Il «camminare» certo esiste, ma non è indipendente dal suo soggetto. In questo modo il compito preliminare della metafisica è compiuto: si è riformulata la domanda sull'essere in modo più preciso, avendo riconosciuto che tra i diversi significati presenti fin dal linguaggio ordinario il più forte è quello dell'ousía. Così, interrogarsi sull'ousía significa interrogarsi sul significato del darsi di ciò che è, e Aristotele giunge così alla stessa domanda che già era stata posta dal maestro Platone.

Integrazione: Tale formulazione della domanda sull'essere porta tuttavia, dietro la veste terminologica tradizionale e quasi ovvia, almeno due rilevanti novità che il seguito del discorso farà valere. In primo luogo, manca quell'orientamento pregiudiziale al sovrasensibile che era caratteristico di Platone: il darsi della realtà di per sé non dice ancora nulla sulla sua modalità: se nel tempo o fuori del tempo, se mutevole o immutabile, se sensibile o pensabile. La molteplicità dei sensi dell'essere non può che abbracciare anche queste differenti modalità. In secondo luogo, nel momento stesso in cui al senso esistenziale del verbo essere viene assegnato un significato predominante rispetto a quello copulativo, il problema dell'essere viene impostato in direzione non dei predicati, ma dei soggetti (benché con una importante precisazione): interrogarsi sull'«ousía» (e non genericamente su «ciò che è») significa interrogarsi precisamente e anzitutto sulla realtà in quanto tale, non sulle determinazioni che non hanno una sussistenza autonoma. Anche in questo caso, il punto di riferimento polemico è costituito da Platone e i suoi seguaci, ai quali Aristotele rimprovera di avere attribuito «separabilità», e dunque esistenza in senso primario, a quelli che sono semplici predicati. Fine dell'integrazione

Sommario

4.3. L'ousía come soggetto e come universale

Dunque, che cos'è l'ousía? Aristotele prende in considerazione tre diverse risposte: l'ousía può essere intesa come soggetto, come universale, come essere determinato. Esaminiamo queste tre possibilità.

Il soggetto (hypokéimenon) viene definito in questo modo: «Il soggetto è ciò di cui vengono dette le altre cose, mentre esso stesso non lo è più di un altro» (Metafisica VII.3, 1028 b36-37 [greco]). Si tratta di una descrizione di stampo linguistico, il cui senso è abbastanza chiaro: quando affermo che «l'uomo è bianco», il «bianco» è una semplice determinazione dell'«uomo», e dunque «è» sicuramente meno dell'uomo: dunque può essere «eliminato». Tale indicazione ha una sua verità. Ma non assoluta: portando infatti all'estremo questa prospettiva, e cioè sottraendo uno alla volta tutti i predicati del soggetto, sembra che come ousía vada indicato ciò che è privo di ogni possibile determinazione, dunque una semplice materia informe. E questa risposta non è soddisfacente:

Ma è necessario non dire solo così, perché non è sufficiente: infatti ciò è oscuro, e inoltre la materia (hýle) diventa ousía. Se infatti questa non è ousía, sfugge che cos'altro lo sia: eliminate infatti tutte le altre cose, sembra che non sussista più nulla. ... Dico materia ciò che di per sé non viene detto né essere qualcosa, né avere una certa quantità, né nessun'altra [determinazione] con cui è definito ciò che è. ... Dunque, per chi indaga così accade che ousía sia la materia. Ma è impossibile: infatti l'essere separabile (choristón) e l'essere qualcosa di designato (tóde ti) paiono appartenere soprattutto all'ousía, per questo l'aspetto e ciò che è fatto delle due cose [cioè aspetto e materia] parrebbe esserlo più della materia (Metafisica VII.3, 1029 a9-28 [greco]).

È facile riconoscere l'obiettivo polemico: si tratta della filosofia dei «naturalisti», che (per lo meno nell'interpretazione aristotelica) credevano d'individuare l'arché di tutte le cose in una materia indeterminata. Ma, come sarà più chiaro tra poco, questa non può neanche esistere se non riceve un minimo di determinazione, e dunque non è una candidata adatta a ricevere la qualifica di «ousía». La discussione in proposito di Aristotele è interessante anche perché mostra quali fossero secondo lui alcuni limiti dell'analisi logico-linguistica: essa può fornire indicazioni preziose, ma se ciecamente seguita porterebbe a risultati fuorvianti.

Un'attenzione molto maggiore è dedicata da Aristotele al significato dell'ousía come «universale» (kathólou). Il motivo è chiaro: si tratta di prendere in esame la soluzione al problema dell'essere che era stata elaborata dal maestro Platone. Aristotele infatti, forse forzandone un po' la reale posizione, ne interpreta le «idéai» come oggetti universali: se tutti i cani sensibili partecipano di un unico perfetto cane pensabile, l'unico che veramente è, allora quest'ultimo è la loro ousía, e costituendo l'essere di più cose sensibili non è individuale, ma appunto universale. La discussione di Aristotele al proposito è molto dettagliata, e ne riferiamo qui solo un aspetto:

Ma pare che anche l'universale sia soprattutto causa (áition) per alcune cose, e che l'universale sia principio (arché): per questo trattiamo anche di esso. Sembra infatti impossibile che sia ousía qualsiasi cosa detta in universale. Infatti anzitutto è ousía di ciascuna cosa quella propria a ciascuna cosa, che non appartiene ad altro, ma l'universale è comune: infatti viene detto universale ciò che per natura appartiene a più cose. Di quale dunque ciò sarà ousía? In realtà o di tutte o di nessuna; ma di tutte non è in grado, e se sarà di una sola, anche le altre saranno questa: infatti le cose la cui ousía è una cosa unica e il cui essere determinato è una cosa unica, anch'esse sono una cosa unica ... Da queste cose per chi indaga è evidente che nessuna delle cose che sussistono in universale è ousía, e che nessuna delle cose predicate in comune significa qualcosa di designato, ma una certa qualità (Metafisica VII.13, 1038 b6 -- 1039 a3 [greco]).

Insomma, avere l'essere in comune significa essere la stessa cosa, e ciò nega proprio la molteplicità della quale l'idéa platonica vorrebbe essere interpretazione. L'introduzione di essa dunque non solo non spiega la realtà sensibile, ma le aggiunge un'ulteriore e distinta realtà pensabile più enigmatica della precedente: «come se uno, volendo contare, ritenesse di non poterlo fare se le cose sono di meno, e invece le contasse dopo averle rese di più» (Metafisica I.9, 990 b2 -- b4 [greco]). Del resto, «dire che esse sono "modelli" (paradéigmata) e che di esse "partecipano" (metéchein) le altre cose è parlare a vuoto e dire metafore poetiche» (Metafisica I.9, 991 a20-22 [greco]).

Integrazione: Il rifiuto della tesi platonica, favorito senza dubbio dalle interpretazioni che ne erano state date dai discepoli, non potrebbe apparire più netto. Bisogna tuttavia notare che respingere la teoria delle idéai non significa per Aristotele negare pregiudizialmente l'esistenza del sovrasensibile, né tanto meno negare che nel discorso scientifico i termini universali svolgano un ruolo fondante. Quest'ultima tesi -- anzi -- costituisce uno dei capisaldi della concezione della scienza, che secondo Aristotele può riguardare solo l'universale. Riguardo alla possibilità del sovrasensibile, essa viene tanto poco rifiutata che costituisce il secondo problema culminante della metafisica, che, dopo aver considerato ciò che è in quanto è, diventa in grado d'interrogarsi sulla ragione ultima dell'essere che dovrebbe essere appunto il sovrasensibile. Entrambi questi aspetti costituiscono un'evidente eredità del pensiero platonico, rifiutato nella sua soluzione finale ma accettato in molti suoi presupposti. Fine dell'integrazione

Sommario

4.4. L'ousía come essere determinato

Eliminate dunque le due possibilità dell'ousía come soggetto e come universale, resta l'ousía come «essere determinato». L'espressione greca to tí én éinai (lat. quod quid erat esse o essentia) è termine tecnico coniato da Aristotele, che significa letteralmente «l'essere il che cos'era». Con esso egli vuole indicare la singolarità dell'essere: infatti esso viene per così dire declinato secondo le varie ousíai (e così si parlerà di «essere per l'uomo», «essere per il cavallo» e così via) e viene considerato sostanzialmente sinonimo di «essere per ciascuna cosa». La spiegazione che ne offre Aristotele è comunque abbastanza chiara:

Poiché in principio abbiamo trattato in quanti sensi definiamo l'ousía, e uno di questi pare essere l'essere determinato, bisogna indagare su di esso. E in primo luogo diciamone qualcosa dal punto di vista del discorso: l'essere determinato è ciò che viene detta di per sé per ciascuna cosa (esti to tí én éinai hekásto hó légetai kath'hautó). Infatti l'essere per te non è l'essere per il musicista: infatti tu non sei musicista di per te stesso: dunque è ciò che sei di per te stesso (Metafisica VII.4, 1029 b1-2;13-18 [greco]).

Nella sua semplicità questa indicazione contiene in germe l'intera metafisica aristotelica. Alla sua base c'è infatti il rifiuto di considerare il problema dell'essere in universale, a prescindere dalla varietà delle determinazioni delle cose. Non ha senso parlare di un'unica «cosa che è» come voleva Parmenide, né lo ha ritenere che le vere «cose che sono» siano universali, come voleva Platone. L'essere ci consta al contrario soltanto nell'individualità delle cose. È per questo che l'ousía deve necessariamente intendersi come l'essere determinato, restando così inteso che ogni cosa si dà in modo differente: avere l'essere in comune (come abbiamo visto nella critica a Platone) significherebbe infatti non semplicemente assomigliarsi, ma piuttosto identificarsi ed essere la stessa cosa. La pluralità di cui abbiamo esperienza rimarrebbe così enigmatica e inspiegabile. Come Aristotele dice con esemplare chiarezza: «Così è evidente che anche l'è s'intende in altrettanti sensi [quante sono le differenze tra le cose]: la soglia per esempio è per il fatto che è situata così, e l'essere per la soglia significa essere situata così, e l'essere per il ghiaccio significa essersi solidificato così» (Metafisica VIII.2, 1042 b25-28 [greco]). È questo il senso più radicale nel quale bisogna ammettere che «essere» ha più significati, e dunque anche che la domanda centrale della metafisica non rappresenta in realtà un unico problema, ma piuttosto una classe di problemi, riguardo alla quale è impossibile una soluzione unica (come pretendeva di fare Platone nella dottrina dei princìpi).

Integrazione: Alcune utili sottolineature al riguardo si trovano nella discussione del problema se l'essere determinato e la cosa singola siano o non la stessa cosa. La risposta di Aristotele è netta:

E se vengono dissolte le une [le cose singole] dagli altri [i loro esseri determinati], delle une non ci sarà scienza, gli altri non saranno cose che sono (e dico essere dissolti se né al bene-stesso appartiene l'essere per il bene né a questo l'essere bene). Infatti, da una parte c'è scienza di ciascuna cosa quando conosciamo l'essere per quella cosa. Dall'altra per il bene e le altre cose le cose stanno allo stesso modo, cosicché se l'essere per il bene non è bene, anche l'essere per ciò che è non è e anche l'essere per l'uno non è uno; e o tutti gli esseri determinati ci sono allo stesso modo, o nessuno, cosicché se l'essere per ciò che è non è, neanche nessun essere per le altre cose è (Metafisica VII.6, 1031 b3-10 [greco]).

L'argomentazione, piuttosto complessa, ha un fine però chiaro: mostrare a quali assurdità conduca la separazione tra la cosa singola e il suo essere, ciò che dovrebbe essere l'idéa pensabile: ogni cosa è il suo essere e la sua ousía. Altrimenti, la prima (proprio contrariamente alle intenzioni di Platone) resterebbe inconoscibile, la seconda diventerebbe -- paradossalmente -- un nulla. Da tutto ciò sembra inevitabile dare all'espressione «essere determinato» un senso spiccatamente individuale: non solo l'essere per l'uomo è differente dall'essere per il cavallo, ma anche l'essere per quest'uomo è altro dall'essere per quell'uomo, malgrado l'identità della specie. A questa luce si comprende anche il paradossale ritorno a Parmenide che Aristotele compie: l'«uno» (én) e «ciò che è» (ón) sono la stessa cosa, non però perché ci sia un'unica cosa che è, ma piuttosto perché ogni cosa che è può essere sempre e solo singola:

Che in un certo senso uno e ciò che è significhino la stessa cosa, è chiaro sia dal fatto che è in altrettanti sensi connesso alle predicazioni e non sia in nessuna [in modo esclusivo] (per esempio, non nel che cos'è né nella qualità, ma si comporta allo stesso modo di ciò che è), sia dal fatto che un uomo non predica null'altro di più di uomo (così come essere non predica nulla di più del che cosa o della qualità o della quantità), ed essere per l'uno null'altro di più di essere per ciascuna cosa (Metafisica X.2, 1054 a13-19 [greco]).

Al riconoscimento di questa equivalenza si unisce però -- prevedibilmente -- l'affermazione antiparmenidea e contemporaneamente antiplatonica che né «ciò che è» né «uno», presi come predicati universali, possono essere considerati ousíai:

Se nessuno degli universali è possibile che sia ousía ... e se neanche ciò che è stesso è possibile che sia ousía come qualcosa di unico oltre alle molte cose (infatti è comune), ma è solo un predicato, è chiaro che neppure l'uno può esserlo: infatti ciò che è e uno vengono predicati più di tutti in universale (Metafisica X.2, 1053 b16-21 [greco]).

Fine dell'integrazione

Sommario

4.5. La definizione

All'interpretazione dell'ousía come essere determinato è strettamente legata una considerazione di natura prevalentemente logica, la cui trattazione viene infatti iniziata nell'analitica. Il problema è quale sia l'espressione verbale dell'essere determinato. Tale espressione è individuata da Aristotele nella definizione (horismós):

Che la definizione è il discorso dell'essere determinato (lógos tou tí én éinai), e che l'essere determinato o c'è delle sole ousíai o soprattutto e in primo luogo e in senso assoluto di esse, è chiaro (Metafisica VII.5, 1031 a11-14 [greco]).

Quando infatti definisco «uomo» come «animale razionale», sto indicando qual è il modo di essere proprio e fondamentale che fa sì che qualche cosa possa essere riconosciuta e indicata come «uomo», indipendentamente dagli attributi accidentali che possono aggiungersi (per esempio «bianco» o «musicista»). Ciò, com'è evidente, coincide bene con quanto caratterizza l'ousía come primo senso dell'essere. Da un punto di vista logico la definizione è caratterizzata dall'unione di quelli che tradizionalmente sono noti come «genere (prossimo)» e «differenza (specifica)». Nell'esempio fatto, «animale» è il genere (génos), «razionale» è la differenza che invidua al suo interno la specie o aspetto (éidos, lat. species).

Potrebbe un po' meravigliare lo spazio che Aristotele riserva nella Metafisica ai problemi connessi alla definizione, apparentemente eccessivo. La prima giustificazione va cercata nello stile di ricerca che contraddistingue fin dall'inizio l'indagine: piano logico-linguistico e piano reale sono connessi da una fitta rete di rimandi e corrispondenze, malgrado nulla autorizzi a confonderli.

Ma anche indipendentemente da questo sfondo, la dottrina della definizione pare svolgere un'importante funzione all'interno della Metafisica. In primo luogo infatti essa contribuisce a rendere evidente l'irriducibile pluralità dei significati dell'essere: esistere come «animale razionale» significa una cosa ben differente dall'esistere come «mammifero con la proboscide» o dall'esistere come «vaso con due manici». Non c'è insomma nessun modo per raccogliere a comun denominatore le differenti forme di esistenza. Da qui si comprende meglio anche perché, nell'enumerazione delle predicazioni, il primo posto è occupato indifferentemente dall'«ousía», dal «che cos'è» (tí esti) o dall'essere determinato. Dire «un uomo esiste» equivale infatti a dire «esiste un animale razionale» ovvero «c'è un'ousía realizzata nel modo dell'animale razionale». Senza una determinazione di questo tipo, l'essere come predicato sarebbe viceversa privo di senso: l'«è» di Parmenide non è infatti in grado da solo d'indicare alcunché di reale.

C'è però un ulteriore motivo, e il più importante, per il quale Aristotele ritiene che lo studio della definizione competa anche alla Metafisica. Tramite esso infatti viene dato un grande contributo alla risposta a due dei dubbi (aporíai, etimologicamente «vicoli ciechi») formulati riguardo alla costruzione della filosofia prima, uno dei quali anzi nominato come «il più difficile e il più necessario»:

C'è poi un dubbio vicino a questi e di tutti il più difficile e il più necessario da indagare, riguardo al quale il discorso è ora fermo. Se infatti non c'è qualcosa oltre le cose singole, e le cose singole sono illimitate, delle cose illimitate come è possibile avere scienza? Infatti conosciamo tutte le cose in tanto in quanto sono una certa stessa e unica cosa, e in quanto sussiste qualcosa di universale (Metafisica II.4, 999 a24-29 [greco]).

[Riguardo ai princìpi bisogna dubitare] anche se siano universali o siano come diciamo che sono le cose singole. Se infatti sono universali, non saranno ousíai, perché nessuna delle cose comuni significa una cosa designata ma una cosa di una certa qualità, mentre l'ousía è qualcosa di designato ... . Ma se non sono universali ma come le cose singole, di essi non ci sarà scienza, perché la scienza di qualsiasi cosa è universale (Metafisica II.6, 1003 a6-15 [greco]).

Ora, per Aristotele la soluzione pare consistere -- almeno in parte -- nel rilevare che la definizione, che in quanto espressione dell'essere determinato è strumento principale della scienza, è sempre e solo universale: le cose singolari in quanto tali sono infatti indefinibili. Ma come è possibile allora che la definizione sia espressione fedele di un essere determinato singolare? La risposta suggerita è questa: rientra nella natura del linguaggio, del lógos umano, considerare da un punto di vista universale una realtà individuale. La definizione è insomma fedele tanto quanto è vera la proposizione «questo qui è un uomo», benché «questo qui» sia un individuo e «uomo» sia una specie. Ma per Aristotele è abusivo concludere -- come faceva Platone -- che ai termini universali corrisponda anche una realtà universale come il mondo delle idéai, e che dunque il mondo delle cose sensibili sia privo di autentico essere. Il linguaggio e il pensiero dicono sì fedelmente («veramente») la realtà, ma nel loro modo, che è il modo dell'universale.

Sommario

4.6. L'ousía come forma

L'ousía come essere determinato viene ulteriormente chiarita con l'aiuto di due importanti coppie concettuali. La prima è quella di «materia» (hýle) e «forma» (morphé), che Aristotele riconosce anticipata nella dottrina dei «princìpi» di Platone (Metafisica I.6, 988 a8-14 [greco]). Il concetto di materia (che già abbiamo incontrato nella discussione dell'ousía come soggetto) è molto ampio: con esso s'intende tutto ciò da cui proviene qualcos'altro, essendone ingrediente indeterminato. La forma è invece la configurazione, ovvero la struttura funzionale (e non certo solo il profilo esteriore), che la materia assume nella singola cosa. Ora, che cos'è primariamente l'ousía? è forma? materia? o «totale» (sýnolon, lat. compositum), cioè insieme delle due cose? La risposta di Aristotele è netta: l'ousía è in primo luogo forma. Infatti è anzitutto questa che possiede quelle caratteristiche d'indipendenza e determinazione che devono spettare all'ousía.

Integrazione: È evidente che con questa risposta si ridimensiona implicitamente la condanna della teoria platonica delle idéai: esse vanno certo negate in quanto contraddittorie «ousíai universali», ma ciò non toglie che l'ousía sia primariamente proprio quella forma che le idéai volevano suggerire, che ora viene però affermata individuale e propria di ogni singola cosa. Tale vicinanza tra le due concezioni è tradita anche a livello terminologico, giacché la forma viene indicata anche come «aspetto», (éidos, lat. species), un termine di origine platonica e che di fatto può significare anche l'idéa. Fine dell'integrazione

La distinzione tra materia e forma è anche indispensabile per spiegare la trasformazione e il movimento: le cose possono divenire, e anche nascere e morire, perché esistono -- ingenerabili e indistruttibili -- da una parte la forma e dall'altra la materia: «Dico che produrre la ruota di bronzo non è produrre la ruota o la sfera, ma un'altra cosa, cioè produrre questo aspetto (éidos) in altro: ... da questa cosa qui, che è bronzo, produce questa cosa qui, che è sfera» (Metafisica VII.8, 1033 a32 -- b3 [greco]). Ma ciò di nuovo non significa affatto supporre che esista una idéa eterna della sfera, come voleva Platone, ma semplicemente che il concetto di sfera dev'essere già presente nella mente di colui che la fabbrica, così come la forma umana è già presente nel padre che genera il figlio.

Integrazione: La preminenza della forma è evidente per Aristotele anche dalla struttura della domanda scientifica:

Il perché si cerca sempre così: perché una cosa appartiene ad una qualche altra cosa. ... Cercare perché una cosa è sé stessa, è non cercare nulla (infatti bisogna che il fatto che e l'esserci sussistano come cose che sono chiare ... ; il fatto che ogni cosa è sé stessa è l'unico discorso e l'unica causa per tutte le cose: perché l'uomo è uomo o il musicista musicista ...). Si potrebbe invece cercare perché l'uomo è un animale di questa qualità qui. Dunque questo è chiaro, che non si cerca perché chi è uomo è uomo: allora si cerca perché qualcosa appartiene a qualcosa ... E poiché è necessario che l'essere si abbia e sussista, è chiaro che si cerca perché la materia è qualcosa, per esempio: perché queste cose qui sono una casa? Perché sussiste ciò che è l'essere per la casa ... . Cosicché si cerca la causa della materia, per cui essa è qualcosa, e questa è l'ousía (Metafisica VII.17, 1041 a10-b9 [greco]).

Si notino in questa pagina due elementi interessanti. Il primo è la formulazione di passaggio di quello che diverrà noto come «principio d'identità», e che nel Medioevo verrà affiancato ai due altri princìpi ampiamente discussi nella Metafisica. Il secondo è l'affermazione ripetuta che l'esserci di fatto dev'essere già dato per poter porre domande sull'ousía. Lungo i secoli questo sarà uno dei problemi più dibattuti, soprattutto in connessione con il tentativo di Anselmo d'Aosta (1033-1109) di dimostrare l'esserci di Dio a partire dal suo solo concetto. Fine dell'integrazione

Sommario

4.7. L'ousía come attualità

L'altra coppia concettuale esaminata da Aristotele, forse la più feconda e originale dell'intera sua filosofia, è quella di «potenzialità» (dýnamis, lat. potentia) e «attualità» (enérgeia, lat. actus) o «compiutezza» (entelécheia), che era stata già anticipata nell'enumerazione dei significati di ciò che è. Ecco come vengono chiariti questi termini:

L'attualità è il sussistere della cosa, non però nel senso in cui diciamo che è potenzialmente: e diciamo potenziale, per esempio, una statua nel legno, la semiretta nell'intera retta, perché li si potrebbe ricavare, e diciamo scienziato anche colui che non indaga [ora], se però ha la potenzialità d'indagare; diciamo invece operativo l'altro [modo di sussistere della cosa]. Ciò che vogliamo dire è chiaro per induzione dai casi singoli, e non bisogna cercare una definizione di tutto, ma anche tenere assieme sott'occhio per analogia: come chi costruisce sta a chi è costruttore, chi è sveglio a chi dorme, chi vede a chi chiude gli occhi ma ha la vista, e ciò che è ricavato dalla materia alla materia, e ciò che è elaborato a ciò che non è elaborato: di queste differenze la prima parte è l'attualità, la seconda il possibile (Metafisica IX.6, 1048 a30 -- b6 [greco]).

Dietro l'apparente semplicità, in queste enunciazioni, che vengono preparate e approfondite nel centrale nono libro della Metafisica, è contenuta per Aristotele la risposta fondamentale alla domanda sull'essere: ciò che è è anzitutto attualità e compiutezza. Se il termine greco per «potenzialità» (dýnamis) era già disponibile ad Aristotele dalla lingua corrente con il significato di «capacità, potenza, disponibilità», gli altri due termini sono entrambi una sua creazione, segno chiaro di quanto egli ritenesse importante il compito di dare all'essere nomi adeguati. Il primo di essi è il sostantivo di qualità dell'aggettivo energés, che significa «operante, al lavoro», e viene applicato da Aristotele anzitutto al movimento e ai processi fisici in generale, in cui si rivela la vitalità della natura. Come significato dell'essere, l'attualità indica quindi l'espressione effettiva di una capacità ad esistere in modo determinato. Il secondo vocabolo è l'astratto dell'espressione entelós échein, che significa letteralmente «trovarsi nello stato di avere il compimento, la finalità»: dunque aver raggiunto quello stato finale e compiuto che manifesta il proprio essere. Benché i due termini vengano usati come sinonimi, Aristotele precisa che è quest'ultimo che possiede originariamente il senso propriamente metafisico (Metafisica IX.3). Dunque, essere significa anzitutto possedere finalità. O, con le parole di Aristotele: «Infatti, poiché "uno" ed "essere" vengono detti in più sensi, quello predominante è la compiutezza» (Sull'anima, II.1, 412 a19-22).

Questa risposta è pienamente comprensibile solo sullo sfondo della filosofia platonica, in cui proprio il concetto di finalità (pensata come agathón, «bene», e nóus, «intelletto») indicava il valore dell'essere. Aristotele conserva questa premessa, ma rifiuta di spostare questo valore in un mondo diverso da quello che ci consta: è già nel mondo sensibile (anche se -- lo vedremo -- non solo in esso) che le cose si dànno nel tendere alla loro perfezione: che non è appunto la proiezione in un mondo immaginario, ma l'esplicitazione delle potenzialità insite in ciascuna singola cosa. Ogni movimento, ogni trasformazione, ogni nascita è solo e sempre segno di quest'orientamento della natura.

Integrazione: Un'importante pagina della Metafisica è dedicata a confutare l'opinione dei Megarici (una scuola socratica le cui teorie logiche confluiranno nello stoicismo), che identificavano potenzialità e attualità: questa identificazione porterebbe secondo Aristotele all'assurdo di negare che esistano facoltà se non nel momento in cui esse vengono esercitate, e ancor più di negare il movimento e la trasformazione, che sono appunto l'attuarsi di qualcosa che prima era potenziale. L'opinione dei Megarici aveva in realtà un aspetto più sottile, rappresentato dal celebre «ragionamento dominatore» di Diodoro Crono, che sul versante più propriamente logico venne contestato dagli stoici. Il problema sollevato -- che riguarda in fondo l'esistenza della contingenza nella storia -- diverrà fondamentale nell'età moderna: varianti del ragionamento dominatore possono considerarsi alcune affermazioni di Bento de Spinoza (1632-1677) e di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831). Fine dell'integrazione

È importante aggiungere un'osservazione. Nella Fisica Aristotele elabora la dottrina delle «quattro cause», ripresa poi anche nella Metafisica, secondo la quale esistono appunto quattro tipi di causa: materiale, formale, produttiva e finale. Malgrado il rilievo che Aristotele dà a questa dottrina nel quadro della Metafisica (che viene intesa anche come «scienza delle cause prime»), essa riveste un ruolo provvisorio: dopo aver distinto i differenti quattro punti di vista in cui si può parlare di causa, bisogna infatti soprattutto riconoscere che nelle ousíai la causa formale e quella finale tendono a coincidere, perché il fine naturale di qualsiasi cosa è realizzare il proprio essere a modo suo -- il che significa anche che non può essere mai cercato alcun fine universale, perché ogni cosa ha la sua compiutezza inscritta nel suo stesso essere. Questa tendenziale coincidenza, sottesa all'intera Metafisica, si manifesta chiaramente nel rapporto che Aristotele a più riprese stabilisce tra le due coppie concettuali materia / forma e potenzialità / compiutezza:

Ciò che diciamo essere non una certa cosa, ma di quella cosa (per esempio l'armadio non è legno ma è di legno, né il legno è terra, ma è di terra e, a sua volta, la terra, se si comporta allo stesso modo, non è una certa cosa, ma è di questa certa cosa), sembra che in generale la seconda cosa è sempre potenzialmente la prima. Per esempio, l'armadio non è di terra, né è terra, ma è di legno: questo è allora potenzialmente armadio, e questa è materia dell'armadio (Metafisica IX.7, 1049 a18-23 [greco]).

C'è dunque un perfetto parallelismo: «C'è, come diciamo, da una parte la materia dall'altra la forma, e da una parte la cosa potenziale dall'altra quella operativa» (Metafisica VIII.6, 1045 a23-24 [greco]). Dunque, «l'ousía e l'aspetto sono attualità» (he ousía kai to éidos enérgeiá estin) (Metafisica IX.8, 1050 b2-3 [greco]). In questo modo la caratterizzazione dell'essere come forma è stata ulteriormente chiarita e approfondita: l'essere non è tanto il possesso statico di una forma, quanto il dispiegamento di quelle potenzialità che la materia -- via via sempre più determinata e perfetta -- possiede.

Integrazione: L'espressione più esplicita dell'equivalenza tra causa formale e finale si trova però negli scritti di carattere naturale. Un esempio tra i molti possibili:

Sono stabilite infatti quattro cause: ciò in vista del quale come compimento e il discorso dell'ousía (e queste due bisogna supporle quasi come una cosa sola), poi terza e quarta la materia e ciò da cui è il principio del cambiamento. ... Il discorso infatti e ciò in vista del quale come compimento sono la stessa cosa (Sulla nascita degli animali, 1, 715 a4-9).

Perché questa equivalenza sia per Aristotele particolarmente urgente nelle indagini naturali è facile da comprendere: perché solo sulla base della loro funzione, e cioè della loro finalità, possono essere spiegate le diverse forme organiche: i denti sono fatti in un certo modo perché il loro fine è masticare, i polmoni in un certo altro modo perché il loro fine è respirare, e così via. Ma questa è un'idea che dev'essere estesa all'intera realtà: ogni cosa è spiegabile nel suo essere (che è sempre un essere determinato in una certa forma) solo come orientamento verso una finalità, e anche qualsiasi prodotto tecnico viene definito in base alla funzione che deve svolgere. Fine dell'integrazione

Riprendendo sostanzialmente la posizione espressa nel Timeo di Platone, Aristotele rifiuta insomma la concezione secondo cui solo l'anánke, la necessità, sia la ragion d'essere delle cose. Affermare questo equivarrebbe a sostenere che tutto avviene solo a caso, senza cioè che sia possibile determinare una razionalità intrinseca. E dunque, la questione dell'essere è la questione del valore e del senso della realtà.

È facile ora comprendere perché il vertice della trattazione del significato di ciò che è come potenzialità e attualità (o compiutezza) sia costituito dalla dimostrazione dell'«anteriorità» dell'attualità rispetto alla potenzialità: si tratta infatti di stabilire la priorità del senso sul non senso, dell'ordine sul disordine, dell'espressione dell'essere sulla indeterminazione ancora caotica e ambigua, benché in questione sia sempre e solo il senso parziale delle singole cose. Per Aristotele l'anteriorità in questione può essere osservata sotto tre punti di vista differenti. Anzitutto l'attualità è anteriore quanto alla conoscenza che se ne ha: possiamo infatti concepire una facoltà (per esempio la vista) solo se già ne conosciamo l'atto corrispondente (il vedere). Poi è anteriore rispetto al tempo: per esempio, perché sia generato un essere umano, ovvero perché una certa materia assuma l'ousía dell'uomo, è necessario che questa forma sia già posseduta dal generante. Infine e soprattutto, l'attualità è anteriore rispetto all'ousía: infatti l'attualità -- come già visto -- non soltanto s'identifica con l'ousía, ma rappresenta anche il fine verso cui tende ogni processo, naturale e non: «Infatti gli animali non vedono affinché abbiano la vista, ma hanno la vista perché vedano, e ugualmente [gli uomini] possiedono la tecnica della costruzione affinché costruiscano e la capacità di indagare affinché indaghino» (Metafisica IX.8, 1050 a10-12 [greco]).

Sommario

4.8. L'ousía divina

Con la determinazione dell'ousía come entelécheia sembra essere raggiunto il compito principale della scienza di ciò che è in quanto è. In diversi passi della Metafisica Aristotele accenna però ad un secondo compito, il cui svolgimento ne occupa il dodicesimo libro: esso riguarda l'indagine su una eventuale ousía non «naturale», cioè perenne e immobile, che viene identificata con l'ousía divina. È questo secondo problema realmente consequenziale rispetto al primo? Gli argomenti a favore di una coerente continuità sono solidi. Nel contesto della Metafisica, il legame più chiaro è offerto dalla definizione della sapienza che si trova nel primo libro: la scienza ricercata dev'essere scienza dei princìpi primi della realtà, quelli che la spiegano non per questo o quel settore, ma nella sua totalità (Metafisica I.2). E l'ousía divina viene appunto ricercata da Aristotele come la prima causa produttiva, vale a dire «ciò da cui viene il primo principio del cambiamento o della quiete».

Ma la dottrina teologica dice qualcosa riguardo all'indagine sul senso dell'essere? Lo stesso primo libro della Metafisica completa in questo modo la presentazione dei caratteri della sapienza: «La più dominante delle scienze, e più dominante della scienza subordinata, è quella che fa conoscere in vista di che cosa ciascuna cosa va fatta, e questo è il bene di ciascuna cosa, e in generale ciò che è migliore in tutta la natura» (I.2, 982 b4-7). Si tratta dunque d'indagare sul bene e cioè sul fine più alto, perché altrimenti la stessa determinazione dell'essere come compiutezza rimarrebbe incompleta. La scienza di ciò che è in quanto è non può infatti affermare che la totalità della realtà esiste in quanto avente una finalità, senza insieme tentare d'individuare quale sia la suprema finalità: questo, ovviamente, non perché possa postularsi un'identico fine per tutte le cose (ciò equivarrebbe a ricadere nell'essere indifferenziato di Parmenide) né perché debba cercarsi un'ousía «per eccellenza» (nessuna ousía è «più» di un'altra), ma perché il senso dell'universo dev'essere garantito da qualcosa che esprima al livello più alto e nobile il finalismo che lo pervade interamente. Da questo punto di vista, la teoria del divino non solo non contraddice la dottrina dell'ousía, ma vuole assicurarne la completezza. Questo pare il motivo fondamentale per cui la filosofia prima può essere chiamata da Aristotele anche «filosofia teologica» (Metafisica VI.1, 1026 a19 [greco]).

La strada seguita nella Metafisica però, come detto, in maniera diretta parte dalla ricerca di una prima «causa producente», che giustifichi effettivamente quel movimento del quale la distinzione tra materia e forma e la preesistenza di entrambe erano state individuate come condizioni: che cos'è che in ultima analisi fa sì che nel cosmo esista un incessante passaggio dalla potenzialità all'attualità? Il primo passo consiste quindi nell'accertare l'esistenza di qualcosa di «perenne e immobile». Ciò può avvenire solo in maniera «induttiva», vale a dire sul presupposto di qualcosa già dato e costatato. Per Aristotele ciò è il movimento globale del cosmo, che va riconosciuto perenne: assumendo infatti per assurdo un «primo movimento», esso dovrebbe essere stato preceduto ancora dal movimento con il quale qualcosa ha assunto potenzialità a muoversi o è stato posto in condizione di muoversi operativamente: e dunque esso sarebbe contemporaneamente primo e non primo, il che è impossibile. Ed ecco le righe in cui Aristotele ricava da tale premessa l'esistenza di una prima causa movente:

Le ousíai sono prime tra le cose che sono, e se fossero tutte distruttibili, tutto sarebbe distruttibile. Ma è impossibile che il movimento o nasca o si distrugga (infatti c'è sempre stato), né il tempo: infatti non potrebbe esserci il prima e il poi se non ci fosse il tempo. ... Ma se c'è qualcosa capace di muovere o produrre, però non operante, non ci sarebbe movimento: infatti è ammissibile che ciò che ha potenzialità non operi. ... Inoltre: neanche se opererà, ma la sua ousía fosse potenzialità: infatti, non ci sarebbe un movimento perenne, perché è ammissibile che ciò che è potenziale non sia [operativo]. Bisogna dunque che ci sia un principio tale che la sua ousía sia attualità (déi ára éinai archén toiáuten hés he ousía enérgeia). Inoltre, dunque, bisogna che queste ousíai siano senza materia; bisogna infatti che siano perenni (se mai c'è qualcosa di perenne). Allora sono attualità (Metafisica XII.6, 1071 b5-22 [greco]).

In sintesi: per spiegare un movimento è necessario un principio movente operativo (altrimenti il «mobile» non potrebbe appunto muoversi); ma, dato che il movimento è nella sua globalità perenne, è necessario un principio che sia attualità per la sua stessa ousía, senza alcuna traccia di potenzialità. E «senza potenzialità» equivale a dire «senza materia»: il principio del movimento perenne sarà dunque immateriale e non sensibile.

Integrazione: Si osservi che questa argomentazione suppone la priorità dell'attualità sulla potenza, della quale già abbiamo detto: è questa che costringe a supporre che all'origine di tutto vi sia non la pura potenzialità, il caos, ma la perfezione di un principio immobile (che appunto significa «senza potenzialità» e quindi già da sempre totalmente attuato). In questo modo non viene semplicemente affermato l'esserci di qualcosa di predefinito, ma la presenza di un principio viene scoperta nel momento in cui se ne mette a fuoco la qualità: il contrario contrasterebbe con il principio secondo cui l'ousía non è un dato neutro e universale, ma appunto lo specifico essere determinato di qualcosa. Fine dell'integrazione

Tutto ciò suscita però un ulteriore problema: come può qualcosa muovere rimanendo immobile? Aristotele risponde che tale è il modo in cui operano gli oggetti del desiderio e della volontà (cioè del desiderio razionale): questi ultimi si muovono appunto verso ciò che è buono e bello, che in sé rimane però immobile: «[Il primo movente] muove in quanto amato (hos erómenon), e muove le altre cose tramite ciò che da esso viene mosso» (Metafisica XII.7, 1072 b3-4 [greco]). Ecco dunque che il discorso confluisce nell'identificazione dell'ousía come entelécheia, perché gli oggetti del desiderio sono appunto per definizione i fini, i «compimenti» (vedi Etica Nicomachea, I,1-2). L'attualità del divino è dunque l'attualità del fine supremo di ciò che è, ed esso può essere causa produttiva (benché ovviamente non creativa) proprio perché causa finale.

Integrazione: Ciò implica che il primo movente eserciti la sua azione, o meglio attrazione, su esseri animati, quali per Aristotele come per gran parte della cultura greca sono gli astri: essi in effetti costituiscono un cielo perennamente mosso (di movimento solo locale, che è l'unico che può essere in sé sempre uguale a sé). Aristotele, seguendo l'astronomia del tempo, tenta anche di calcolare il numero di tali esseri animati, e giunge al numero presuntivo di cinquantacinque. Molto sfumata è lasciata la questione se tali moventi vadano considerati propriamente «dèi». La tradizione araba e cristiana da parte sua s'ispirerà a queste pagine aristoteliche per dare una base razionale al concetto di «angelo». Fine dell'integrazione

Non basta però indicare l'ousía del primo movente come attualità. Bisogna anche domandarsi quale sia tale attualità. Per Aristotele è possibile rispondere individuando quali siano le attività più perfette, quelle cioè che contengono in sé stesse il loro fine e non presuppongono alcuna materia. Dalla risposta a questa domanda nasce una delle pagine più belle e celebri della Metafisica:

Da un principio tale dunque dipendono il cielo e la natura: e la sua condotta è la migliore, quale noi abbiamo solo per piccolo tempo. Esso infatti è sempre così (per noi infatti sarebbe impossibile), perché la sua attualità è anche piacere, e per questo la veglia, la sensazione e il pensiero sono le cose più piacevoli, e grazie a queste anche le speranze e i ricordi. E il pensiero che è di per sé è di ciò che è migliore di per sé, e il pensiero per eccellenza è di ciò che è per eccellenza. L'intelletto pensa sé stesso per partecipazione del pensabile: infatti diventa pensabile toccando e pensando, cosicché intelletto e pensabile sono la stessa cosa. L'intelletto è infatti ciò che può accogliere il pensabile e l'ousía, e opera quando li possiede, cosicché più ancora di quella capacità è questo che l'intelletto sembra avere di divino: e l'indagine è la cosa più piacevole e migliore. Se dunque il dio sta sempre così bene come noi qualche volta, è meraviglioso; e se ancora meglio, è ancora più meraviglioso -- e sta così. E sussiste come vita, perché l'attualità dell'intelletto è vita, ed esso è attualità. E la sua attualità che è di per sé è la vita perenne e migliore. In verità affermiamo che il dio è il vivente perenne e migliore, cosicché al dio appartiene una vita e un tempo vitale continuo e perenne: perché questo è il dio (Metafisica XII.7, 1072 b13-30 [greco]).

Il valore di queste considerazioni può essere giudicato da diversi punti di vista. Anzitutto come un evidente richiamo al primato del divino nell'interpretazione della realtà. Tutto l'essere risulterebbe inintellegibile se non fosse supposto un principio di perfezione eterna che dia vita e coerenza a tutto ciò che è. Anche al di fuori dell'ipotesi della creazione dal nulla, che solo con il cristianesimo diventerà oggetto di riflessione per la filosofia, per Aristotele è ovvio che «il dio sembra a tutti essere una causa e un principio» (Metafisica I.2, 983 a8-9 [greco]), anzi la causa e il principio primo, e lo scopo della filosofia prima, che è anche «scienza delle cause», dev'essere quello di tessere la trama concettuale che permetta di comprendere la sensatezza dell'essere tramite il ricorso non emotivo, ma argomentato, a ciò che è migliore nell'intera natura.

Un secondo valore è più indiretto e forse non del tutto chiaro allo stesso Aristotele, e riguarda il valore dell'autocoscienza. Le pagine dedicate al dio sono infatti anche all'origine di quella riflessione che (soprattutto attraverso Plotino) individua proprio nella capacità di pensare sé stesso, e dunque in ultima analisi di possedere consapevolezza e libertà, la caratteristica fondante dell'uomo in generale, e non solo del dio. Anche nei testi aristotelici, del resto, nello stabilire lo status della mente umana si nota una certa esitazione: la parte suprema dell'anima è da giudicare divina, o va addirittura identificata con il dio «pensiero di sé stesso»? Comunque vengano interpretate le sintetiche osservazioni al riguardo (Sull'anima, III 5), è certo che per Aristotele c'è un legame stretto tra quello stato di perenne perfezione autocosciente posseduta dal dio e la riflessione alla quale l'uomo libero aspira con tutte le sue capacità. Questa è anche la prospettiva finale che viene indicata in sede etica: «Se in verità l'intelletto è qualcosa di divino in confronto all'uomo, anche la vita secondo esso è divina in confronto alla vita umana» (Etica Nicomachea, X.7, 1177 b30-31 [greco]).

Sarebbe sbagliato vedere in ciò soltanto una nostalgia aristocratica verso una vita di pura speculazione, libera da ogni preoccupazione naturale. In questo modo Aristotele indica piuttosto anche un progetto di felicità dell'uomo, la cui ultima realizzazione viene indicata nel compimento di quella tensione che è inscritta nell'universo stesso: desiderare la trasparenza dell'autoscienza, rendersi conto di sé, e dunque essere libero da un semplice gioco di condizionamenti meccanici. Alla fine della Metafisica si ritrova dunque proprio ciò che c'era all'inizio: la scienza libera scopre come senso della realtà il pensiero libero, posto fin dall'eternità come garanzia di vita e felicità. Ma non è un semplice ritorno al punto di partenza: tra il punto di partenza e la meta c'è lo sguardo sull'esistente, che proprio essendoci indipendentemente dal mio pensiero può suscitare al mio pensiero la meraviglia e può guidarmi a intravedere quella vita divina che è «ancora più meravigliosa», un unico sguardo sulla quale ripaga della fatica dell'intero itinerario:

Infatti, benché raggiungiamo [le cose perenni] solo in piccola parte, tuttavia, per la nobiltà della [loro] conoscenza, ciò ci è più dolce che conoscere tutte quante le cose attorno a noi, così come rimirare una casuale piccola parte di coloro di cui siamo innamorati ci è più dolce che vedere molte altre grandi cose con esattezza (Sulle parti degli animali, I.5, 644 b31-35).

Sommario

Pronuncia