L’origine del pensiero: spontaneità dell’astrazione? Riflettendo su Blondel e il tomismo

Parlare di astrazione è parlare del rapporto sensazione-pensiero. Perché sia possibile non parlarne si dovrebbe affrontare il problema di tale rapporto o escludendo che il pensiero vada oltre il dato sensibile, come fanno gli empirismi, per cui non si attingono elementi intelligibili universali, oppure sostenendo, come le filosofie innatistiche, che gli elementi del pensiero, i concetti universali siano presenti nel nostro spirito indipendentemente dall’esperienza. Noi riteniamo che tali due estreme soluzioni al problema sensazione-pensiero siano egualmente inaccettabili. Esula dai limiti di questo contributo giustificare esaurientemente questa affermazione, accenniamo solo alcune motivazioni, che nel corso della storia della filosofia sono state portate, a nostro sommesso avviso convincentemente.

La soluzione innatistica ha avuto come obiezione, come è stato osservato da molti,1 il fenomeno dell’accrescimento del sapere. È vero che, se si eccettua Leibniz (che trova peraltro un suo modo per giustificare una dinamica accrescitiva del sapere), nessun importante filosofo innatista ha sostenuto la presenza innata della totalità dei contenuti conoscitivi, non escludendo perciò l’apporto dei sensi, e con esso, la possibilità di una fecondità progressiva del sapere. Tuttavia pensare che, se non tutto, almeno il nucleo principale del sapere sia innato dovrebbe configurare un assetto del pensiero, se non altro filosofico, molto più stabile e universalmente condiviso di quanto la realtà della storia della filosofia (e della cultura) ci mostri. Aggiungiamo che ci sembra difficile negare che una impostazione innatistica, anche parziale (pensiamo ad esempio a quanti hanno cercato di mediare tra kantismo e realismo), comporti esistenzialmente una sottovalutazione dell’importanza dei fatti, in quanto postula un accesso al reale diverso da quello dei sensi, la decisività dirimente dei quali appare difficilmente opinabile.2 E chi è credente sa che il Mistero ha scelto di rendersi accessibile nella carne, dunque nel reale sensibile, ogni diaframma verso il quale è perciò ostacolo al Disegno creatore.3 Una parziale verità dell’innatismo peraltro è la presenza in noi di esigenze innate, connaturate all’essenza umana, tra cui l’esigenza di verità e di felicità; queste esigenze in qualche modo costituiscono una pietra di paragone con ciò che l’esperienza ci offre, non però allontanandocene, ma spingendoci ad aderirvi con più forza.

D’altra parte anche l’empirismo ci sembra smentito da argomenti piuttosto solidi. È stato molte volte notato, ad esempio, come esso non possa fondare il fenomeno della comprensione di leggi e di verità, percepite con certezza come valide assolutamente (non solo hic et nunc, ma necessariamente, sempre e ovunque); ora noi non possiamo fare a meno di affermazioni universali, come lo sarebbe tra l’altro lo stesso dire che «affermazioni universali sono impossibili». L’empirismo non può nemmeno fondare il senso della necessità e della possibilità, per cui si possa dire che «questa cosa è possibile», anche se non la vedo attuata, oppure che «questa cosa è necessariamente così». Ora, dal nostro pensiero non sono sradicabili né la categoria della necessità né quella della possibilità. Esistenzialmente inoltre l’empirismo comporta una abdicazione del giudizio, cosa che, nella misura della sua applicazione, rende un soggetto incontrollabilmente trascinato dall’onda delle proprie emozioni o dei condizionamenti esterni, incapace perciò di rendere unitaria, e dunque dignitosa, la propria vita. Una parte di verità peraltro può essere riconosciuta anche all’empirismo, l’imprescindibilità cioè dell’esperienza come realtà mai del tutto prevedibile: per un credente si tratta di tornare «come bambini»,4 aperti alla novità e senza mai credere di aver capito tutto, ma facendo comunque dei passi, giungendo a delle conclusioni, sì imperfette e perfezionabili, ma in qualche modo inattaccabili (ciò che, appunto, l’empirismo nega) .5

Se l’innatismo quindi ingessa la conoscenza nella noia di uno stagnante ripiegamento su di sé, l’empirismo la dissolve polverizzandola in un caos senza nessi e senza ordine, per la pretesa incapacità di giudicare. Se l’innatismo pretende di sapere già tutto, l’empirismo pretende di non sapere veramente mai niente. Se l’innatismo ripiega il soggetto nella asfittica infecondità di una fuorviante autosufficienza, l’empirismo lo dissolve estroflettendolo in una immediatezza esterna irrimediabilmente frantumata.

Ora, la via che assume il lato positivo sia dell’innatismo sia dell’empirismo è quella di ammettere che tutta la conoscenza inizi dalla sensazione, ma fiorisca, grazie all’astrazione, in un pensiero capace di affermazioni universali.

Veniamo allora alle soluzioni che ammettono l’astrazione, al cui interno troviamo la contrapposizione, che abbiamo accennato altrove.6 Abbiamo visto infatti come su questo punto vi sia una divergenza tra Tommaso, propenso a un’idea di spontaneità astrattiva (totalmente) mossa dalla oggettività intelligibile, e la linea agostiniano-blondeliana, che vede nell’astrazione una elaborazione in qualche modo consapevolmente pilotata dal soggetto. Crediamo che in proposito si debbano evitare due errori opposti, che si potrebbero definire come un eccesso di passività, quello a cui inclina la linea tomista, e un eccesso di attività, quello a cui inclina la linea blondeliana. Da un lato non ci pare possibile pensare al coglimento dei concetti come ad una attività puramente spontanea, per cui un soggetto individuale (grazie al suo intelletto agente) farebbe sprigionare, o meglio «si lascerebbe invadere» da tutta l’intelligibilità presente nel dato sensibile, in modo immediato ed esauriente. D’altro lato non riteniamo si possa pensare che gli ingredienti elementari del pensiero, quella misteriosa attività con cui pesiamo7 quel mistero tremendamente oggettivo che è il reale, siano una nostra arbitraria creazione, priva di fondamento in una intelligibilità presente nel reale, pena il cadere nello scetticismo. Cerchiamo ora di motivare tale duplice esclusione.

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1. Soluzioni inadeguate

La prima alternativa (a cui è più prossimo il tomismo) ci sembra da scartarsi perché non tiene conto di una serie di fattori, di cui già abbiamo detto. 1) Anzitutto le certezze calde si costituiscono solo grazie all’intersoggettività e al coinvolgimento dell’azione, dunque gli stessi concetti che in tali certezze sono implicati non si impongono immediatamente al soggetto individuale «contemplante» (diversamente questi, in base alla «forza» di quei concetti, potrebbe formulare dei giudizi esaurientemente certi, anche in assenza del contesto relazionale intersoggettivo). 2) Inoltre l’incontestabile fenomeno dell’accrescimento del sapere appare difficilmente conciliabile con l’idea di una necessaria autoimposizione dell’intelligibilità presente nella realtà oggettiva, suggerendo piuttosto l’idea di una ricerca attiva del soggetto intelligente. 3) In tale direzione sembra infine spingere anche il fenomeno del contrasto di interpretazioni della realtà. I tre fenomeni che abbiamo or ora richiamato, e che convergono ad esprimere la perfettibilità progressiva del pensiero, non negano una qualche necessità astrattiva, ma escludono che essa copra l’intero campo del passaggio sensazione-pensiero.

La seconda alternativa (verso cui inclinava Blondel, come abbiamo visto), se spinta alle sue estreme conseguenze, implicherebbe a sua volta esiti non meno inaccettabili, in quanto minerebbe le fondamenta stesse del pensiero. La volontarietà della astrazione infatti ci sembra implicare una estenuazione del valore oggettivo-rivelativo dei concetti. Se in effetti tutto ciò che di universale si forma nella mia mente fosse frutto di una mia libera scelta, gli universali sarebbero in qualche modo costruzioni arbitrarie. Ma se gli ingredienti elementari del pensiero fossero costruzioni arbitrarie, tutto il pensiero, che di quegli ingredienti è sostanziato, diventerebbe una costruzione arbitraria, e perderebbe la sua essenziale caratteristica di svelamento del reale, di pensiero della realtà. Mentre il fatto stesso che si pensi e si dibatta per la verità, dimostra che il pensiero non è invenzione arbitraria, bensì è adaequatio ad una oggettività.

2. Linee per una soluzione

Una soluzione che volesse evitare tali due estremi dovrebbe allora tenere fermi dei punti come i seguenti. Li elenchiamo dapprima in modo schematico, per poi svolgerli.

  1. Esiste una primordiale, originaria area concettuale, che non è frutto di una scelta di astrarre, ma si forma in noi necessariamente: si tratta del livello primo e fondamentale dei concetti. In questa area originaria ci sembra debbano collocarsi i concetti che stanno «al vertice» della piramide conoscitiva, cioè anzitutto quelli che la Scolastica chiamava i trascendentali e le categorie (quale che ne sia il numero e il tipo).8

  2. Ma l’uomo non si limita a tale, ristretta, base necessaria; si spinge oltre, cercando di elaborare un sistema concettuale più o meno elaborato, spinto a ciò dal desiderio di pienezza totale, nel suo impattarsi con una situazione concreta.

  3. Così, sull’area originaria, dove l’astrazione avviene automaticamente, e facendo leva su di essa, si viene costituendo, nella storia individuale e in quella collettiva, una ulteriore area di concetti, frutto di una scelta astrattiva, e di mutevole configurazione, ad esempio arricchendosi e complessificandosi in talune regioni, e altre trascurandone.

Cerchiamo ora di spiegare e giustificare quanto intendiamo dire.

2.1. L’area concettuale [|intelligibilità] originaria (dove vige una necessità astrattiva)

Occorre ammettere che alcuni concetti si formano in noi necessariamente. A sostegno di questa tesi possiamo portare il fatto della comunicazione univoca tra esseri umani. Senza questa dimensione di necessità astrattiva, seppur ristretta a un livello parziale del campo concettuale totale, tale possibilità risulterebbe inspiegabile. Inoltre, se non ci fosse un livello originario di astrazione necessaria, tutto l’edificio del sapere concettuale, come abbiamo sopra accennato, poggerebbe su basi di arbitrarietà, e non vi potrebbero essere delle certezze.

Quali sono i casi in cui si dà astrazione spontanea? Come accennavamo, ci sembra che ad essere astratti necessariamente siano i concetti che stanno al vertice della conoscenza, ad esempio i trascendentali e le categorie.

Che le cose stiano così lo pensiamo a) probabile, in quanto riteniamo sia un fatto che tutti gli esseri umani dispongono di tali concetti, e b) certo, perché senza tale «vertice» non si potrebbero guadagnare altri concetti.

a) Che tutti gli esseri umani dispongano di alcuni identici concetti, lo possiamo ritenere vero pensando alla impossibilità assoluta di prescindere da tali concetti, anche in casi di estrema «rozzezza» intellettuale, come quello di un bambino piccolo o di un «selvaggio». Che anche tali esseri umani, dal pensiero concettualmente poco articolato, pensino ad esempio in termini di essere, ci sembra provato dal fatto che essi sanno bene la differenza tra l’esserci o il non esserci di una data cosa (un giocattolo, o una lancia); il che attesta un uso, seppur irriflesso, del concetto di essere, che perciò deve essere necessariamente presente al loro pensiero. Allo stesso modo, anche un bambino piccolo può capire se quello che gli viene detto è una bugia o no: dunque ha il concetto di verità, per quanto irriflesso. E analogamente per gli altri trascendentali: anche un selvaggio sa che una lancia spezzata non è come una lancia unita, dunque ha il concetto di unità; e anche un selvaggio o un bambino sanno la differenza tra bene e male. Come i trascendentali, anche le categorie, riteniamo siano presenti in tutti gli esseri umani, e quindi siano dei concetti necessariamente astratti. Prendiamo la categoria di sostanza: un bambino, anche molto piccolo, non ancora in grado di parlare, sa se ha davanti la mamma o il papà, anche se hanno cambiato vestito, o se il loro aspetto è un po’ cambiato, o se il contesto esterno è cambiato (dall’appartamento in città sono ora al mare); sa dunque che oltre certi aspetti accidentali (qualità, tempo, luogo) qualcosa resta, qual qualcosa che è la mamma, che è il papà, la loro sostanza, resta. È sempre la mamma, anche se ha cambiato vestito o pettinatura.

b) Inoltre senza un punto fermo su cui far leva, il lavoro della astrazione elaborativa non potrebbe svolgersi. Perché ad esempio dovrebbero interessare certe nuove regioni intelligibili e non altre? Per chiarire quanto intendiamo dire potremmo fare una analogia con le grandi esplorazioni oceaniche del ’500. Come gli esploratori dell’inizio dell’età moderna non andavano alla cieca, ma si basavano su quanto già conoscevano, e infatti non si inoltravano nel cuore dell’Africa nera, pur più vicina, ma cercavano di raggiungere le Indie, e in base a calcoli sensati, così qualsiasi direzione di ricerca intellettuale può inoltrarsi verso il non-ancora-noto solo a partire da un già-noto, non brancolando nelle tenebre più totali. È solo se si può partire da una base solida che la costruzione si può sviluppare. Ci deve dunque essere un primo noto, che funga da fondamento di ogni successivo ampliamento conoscitivo. Solo a partire da una base necessaria, necessariamente data, si possono poi svolgere, e diversificare, costruzioni guidate dalla consapevolezza intelligente.

Dunque all’origine ci sono alcuni punti fermi, c’è una intellezione necessaria di un livello intelligibile onniavvolgente (trascendentale e categoriale), che getta una prima, insostituibile luce su tutto. Non abbiamo peraltro la presunzione di fissare con esattezza quanti e quali siano questi concetti: di sicuro, lo ripetiamo, ci sono i trascendentali e le categorie (comunque queste siano concepite, come ho già detto). A questo ambito appartengono poi verosimilmente tutti quei concetti che accompagnano necessariamente il pensiero umano in quanto tale.

Se poi volessimo chiederci perché proprio questi concetti, in qualche modo supremi, siano oggetto di una astrazione necessaria, crediamo che una spiegazione potrebbe fondarsi sulla diversa qualità degli oggetti a cui si riferiscono, sulla loro, per così dire, diversa dignità e, per così dire, forza ontologica. Lo spirito, che è la dimensione antropologica direttamente impegnata nell’intellezione, non può essere (operativamente) inferiore a ciò che gli è (ontologicamente) inferiore; perciò nei casi di una intelligibilità, chiamiamola così, infraspirituale (una intelligibilità «debole») vige una prevalente attività dello spirito, quindi una volontarietà dell’astrazione. Ma lo stesso spirito umano non è la realtà suprema, vi sono tra i suoi dati conoscitivi aspetti che più riverberano la Realtà assoluta. Dunque nel caso di una intelligibilità per così dire para- o sopra- spirituale (una intelligibilità «forte»), tale intelligibilità si imporrà in modo necessitante allo spirito. Ci sembra che tale debba essere considerato il caso del concetto di essere, e dei trascendentali in generale.

2.2. La spinta ad oltrepassare l’area originaria

Se l’uomo non è passivamente invaso dall’intelligibilità oggettiva, è lui in qualche modo a muoversi per elaborare attivamente nuove regioni concettuali. Che cosa spinge l’uomo ad oltrepassare l’ambito dell’intelligibilità originaria, elaborando nuove intellezioni fino a giungere a sistemi concettuali (scientifici, filosofici o di altro genere) complessi?

Riteniamo che ci sia una parte di verità nella tesi blondeliana, e prima di lui bergsoniana, del desiderio come movente nella elaborazione concettuale, e dunque nel dire che tale elaborazione non costituisce un fattore «puramente» conoscitivo. L’uomo elabora nuovi concetti perché spinto dal desiderio, oltre che dal bisogno: dal desiderio di totalità, di felicità totale, nel suo frangersi e riverberarsi nei bisogni, cioè nelle esigenze contingenti, relative a situazioni concrete. Quello che peraltro né Bergson, né lo stesso Blondel hanno pienamente riconosciuto è che il bisogno di affrontare una situazione contingente non è che l’espressione, provvisoria e parziale, di una spinta affettiva più grande, cioè il desiderio di felicità piena e totale, il quale non ha un obbiettivo puramente pratico, ma inscindibilmente intellettivo e affettivo-pratico. Il termine ultimo del desiderio, secondo la tradizione cristiana, ben presente anche a S. Agostino e a S. Tommaso,9 è la visio (beatifica) Dei, è «vedere Dio», dove la visione è inscindibilmente anche amore e corrispondenza. Se si intende così il desiderio, come noi riteniamo sia adeguato alla realtà fare, si può al contempo dire che l’elaborazione dei concetti oltre l’area originaria di spontaneità astrattiva risponde a una esigenza affettivo-pratica, senza che ciò implichi una riduzione del concetto a mero strumento della prassi, privo di valore rivelativo dell’oggettività.

Noi vogliamo conoscere per essere felici. Ma proprio per essere felici dobbiamo conoscere la realtà, dobbiamo essere attenti al reale, che dunque non abbiamo nessun (vero) interesse a stravolgere. Anzi la conoscenza stessa è ingrediente inscindibile della felicità, e non può essere vista come un semplice mezzo in rapporto a un fine. Né si può immaginare una spinta pratico-progettuale autentica, che possa intorbidare l’attenzione al reale nella sua verità, perché non sarebbe espressiva del desiderio profondo di piena e perfetta felicità che ci anima.

C’è insomma una differenza qualitativa profonda tra l’umana elaborazione astrattiva di concetti e l’uso di un bastone da parte di una scimmia che vuole far cadere una banana da un punto troppo alto per arrivarci con le mani: nel secondo caso abbiamo un bisogno puramente pratico, volto al raggiungimento di un soggettivo stato emozionale, nel primo l’apertura a una oggettività sempre ulteriormente esplorabile, pendici venerabili di una Santa Montagna, rapportarsi al cui Mistero è il movente profondo.

Il desiderio poi in effetti non deve essere visto in termini solipsistici: la sua dinamica è legata alle relazioni intersoggettive, e non solo nel senso che il rapporto con gli altri, e con alcune presenze in particolare, è desiderato, ma nel senso che la stessa attivazione, per così dire, del desiderio, è in qualche modo legata al rapporto intersoggettivo. Ciò è tanto più vero quanto più una relazione intersoggettiva è vera, volta cioè ad affermare l’altro, il bene dell’altro; riteniamo si possa dire che gli altri non sono solo termine (seppure parziale) del desiderio, ma anche sua origine, fuoco dove il desiderio si alimenta, e occasione per il dettagliarsi di progetti, che spingono anche a meglio focalizzare la conoscenza. Lo spazio della focalizzazione astrattiva è suggerito dal desiderio, in quanto concretamente declinato in articolate esigenze e progetti, in base all’intersoggettività.

2.3. l’area dell’elaborazione astrattiva

Come si passa dalle primordiali e necessarie intellezioni alla complessificazione della conoscenza con nuove intellezioni? Riteniamo non si debba pensare a un salto netto dal nulla alla piena attualità, ma piuttosto a un passaggio da una potenzialità intelligibile ad una attualizzazione selettiva e mirata.

Crediamo in tal senso che si possa prospettare un quadro esplicativo come il seguente:

  1. Esiste una intelligibilità potenziale, diffusa e continua (nel senso di non discreta), quello che si potrebbe chiamare lo spazio noematico isotropo della realtà totale.10 Tale intelligibilità diffusa non è colta immediatamente e in tutta la sua estensione: riguardo ad essa non si formano automaticamente e lungo tutto l’arco della sua ampiezza concetti attuati. A suo riguardo perciò pensiamo si possa parlare di una sorta di intelligibilità potenziale.

Ad esempio esplorando un bosco incontro moltissime specie vegetali o animali, di cui non ho un concetto attuato (tant’è che non so definirle, non so dire quale ne sia il nome). E tuttavia nemmeno posso confondere le une con le altre. E ciò non solo perché i sensi mi dicono che non sono identiche (infatti anche due individui della medesima specie non sono identici), bensì perché colgo qualcosa di comune a più individui (ad esempio piante), che pur non sapendo focalizzare ed esprimere, non è comunque un nulla.

La tendenza del tomismo, in virtù della sua concezione di astrazione spontanea, ci pare essere stata quella di credere automaticamente attuale questo oceano di intelligibilità, che invece resta per lo più potenziale. Se in effetti l’astrazione, o almeno quella che alcuni tomisti11 intendono come abstractio totalis, fosse sempre e comunque spontanea non vi sarebbe questa vasta area di intelligibilità diffusa e puramente potenziale, ma tutta l’intelligibilità presente nel reale sarebbe, nel momento in cui entra nel campo percettivo di un soggetto (nel campo di quello che S. Tommaso chiamava il suo intelletto agente), portata ad attualità. Ma così, evidentemente,12 non è.

  1. Facendo leva sul già focalizzato, mediante la primordiale spontaneità astrattiva, e mosso dal desiderio di pienezza totale, stimolato e aiutato dal contesto intersoggettivo, il soggetto umano decide di focalizzare, attualizzandone l’intelligibilità, alcune regioni noetiche di questo onniavvolgente oceano di potenzialità intelligibile, fino a quel momento oggetto di una confusa e indistinta conoscenza, di una conoscenza che si potrebbe dire pre-concettuale. Nasce così l’intelligibilità per così dire discreta e focalizzata, che amplia e complessifica l’area intelligibile originaria e necessaria; si tratta di ciò che noi di fatto pensiamo.

  2. Ma che cosa si deve intendere con questa focalizzazione astrattiva, attualizzatrice della potenzialità intelligibile?

a) Anzitutto crediamo si debba escludere si tratti della invenzione di qualcosa di non esistente, anche se ciò che viene concettualizzato non esiste in quanto tale, nella realtà.13 L’astrazione volontaria, il lavoro della elaborazione di nuove aree di intellezione è sì, da un lato, voluto dal soggetto, sulla scorta del già noto (area intelligibile originaria e intelligibilità potenziale «diffusa»), ma è d’altro lato anche un paziente lavoro di fedeltà ai meandri oggettivi del reale, un far emergere, un far meglio venire alla luce una complessità che pur non esaurendo mai l’oggettività, sempre più ricca di ogni pensiero, ne costituisce un reale, oggettivo livello, seppur solo parzialmente conosciuto. L’intelligibilità della realtà in effetti non è, per così dire, monolivellare, piatta, ma plurilivellare, multistratificata, complessa, senza peraltro che con ciò si debba intendere un labirinto caotico. La parvenza di creatività, che viene unilateralmente sottolineata da Blondel, e specularmente misconosciuta da molto tomismo, nasce proprio da qui. Ma ci può aiutare l’efficace immagine di Duns Scoto14 di un solido trasparente (nel suo esempio una piramide, come quella che un tempo si usava nelle scuole), che fa vedere al tempo stesso in modo «distinto e perfetto» un suo livello e in modo indistinto e imperfetto ciò che è oltre tale livello. Il reale oggettivo si dà a noi con una complessità di aspetti e livelli molto maggiore di quanto possa immaginare un realismo «ingenuo». Il soggetto può decidere su quale livello, su quale aspetto dell’intelligibilità focalizzare la sua attenzione astrattiva, ma una volta focalizzato quel settore intelligibile il suo compito perde ogni dimensione propriamente creativa, per diventare fedele rispecchiamento dell’oggettivo. Così come un esploratore può scegliere su quale strada incamminarsi, magari inoltrandosi su una via mai prima esplorata, ma non può poi decidere se la strada sia in salita o in discesa, lineare o contorta, sassosa o piana, stretta o larga, se attraversi rade brughiere o fitta boscaglia: la natura, in quel luogo, è oggettivamente così, e se vuole giungere alla meta, deve adattarvisi il più fedelmente possibile. Insomma ammettere una certa componente di volontarietà nel processo di astrazione non implica ritenere arbitrario il risultato del processo astrattivo, che è al contrario vincolato ad una oggettività di struttura intelligibile.15 La focalizzazione astrattiva non si configura perciò come creativa, ma come rivelativa.

b) In secondo luogo crediamo vi siano buone ragioni per implicare in questa attività astrattiva «pilotata» tanto una componente di visione quanto una di costruzione. Se infatti ammettessimo solo una componente di visione, per cui ogni intellezione sarebbe esclusivamente un «vedere nelle cose» dovremmo dire che tutta l’intellezione è necessitata, esaurientemente imposta dall’oggettività intelligibile, ma contro questa spiegazione abbiamo già cercato di mostrare valide obiezioni; d’altro lato, se vi fosse solo una componente di costruzione elaborativa, verrebbe meno la dimensione di rivelatività del reale propria dell’intellezione, che invece riteniamo sia necessario ammettere, affinché l’intera conoscenza intellettiva non sia da intendersi in modo arbitrariamente soggettivistico.

Vorremmo sottolineare alcune implicazioni di questa tesi, per quanto riguarda la natura del fenomeno astrattivo. Una impostazione diffusa tra alcuni neotomisti del ’90016 presenta l’astrazione come un «prescindere», un «trascurare» le note individuanti presenti nel dato sensibile in quanto tale. L’intelligibile astratto sarebbe in tal modo il residuo di una operazione di ablatio, di toglimento. Questa impostazione ci appare inadeguata, in quanto non sottolinea abbastanza la differenza qualitativa tra sensazione e intellezione. È in effetti ridurre troppo il potere dell’intelligenza, la sua superiorità rispetto alla sensazione, attribuirle solo un potere di toglimento; questo sarebbe vero se si restasse sul piano del sensibile, ma l’intellezione, pur partendo dal sensibile, lo oltrepassa. Certo, quel modo di intendere l’astrazione mira a salvaguardare la derivazione esclusiva della conoscenza umana dalla sensazione, al cui dato il pensiero nulla può aggiungere; ma, se nulla può aggiungere, il pensiero può scavare nel dato sensibile, trovandovi qualcosa che già vi è contenuto, ma che la sensazione in quanto tale non riesce a cogliere. Non occorre pensare all’a-priori kantiano (o rosminiano) e ancor meno alla reminiscenza platonica: ci sembra si debba parlare di un potenziamento della conoscenza, un «vederci» qualitativamente meglio dei sensi. Lo stesso Aristotele paragonava l’astrazione alla luce che irrompendo in una stanza buia rende visibili le cose che già prima c’erano, ma non si potevano vedere per l’oscurità che vi regnava. Per fare un ulteriore esempio si potrebbe paragonare l’intellezione astrattiva alla visione resa possibile da un telescopio, o da un microscopio: in questi casi non c’è l’invenzione di qualcosa di inesistente, ma la possibilità di vedere qualcosa di invisibile a occhio nudo; la cresta di quella lontana vetta, così dettagliata non la posso vedere senza un potente binocolo, ma questo non significa che essa non sia oggettivamente data in ciò che vedo: non vedo un’altra cosa, vedo altrimenti, cioè meglio, la stessa cosa che gli occhi vedono. Un altro esempio ci può venire dalle diverse interpretazioni che della medesima realtà sentita possono dare diversi soggetti: ci possono essere due persone che vedono le stesse cose, ma uno ne trae, meno intelligentemente, certe conclusioni, banali, l’altro ne ricava altre, ben più profonde;17 i loro occhi, i loro sensi vedono lo stesso fenomeno, ma diversa è l’intelligenza che ne hanno. Così gli aspetti intelligibili portati ad attualità nell’intellezione sono oggettivamente presenti nel dato sensibile, senza che la sensazione li possa vedere in quanto tali. Il che significa che astrarre è in qualche modo vedere.

Da un lato dunque si dà una componente di «visione». Ci sembra si debba dire che essa è (prevalente) all’inizio e al termine del processo intellettivo. All’inizio, in quanto il punto di partenza non può che essere il dato «duro» del già noto, del noto-in-atto), dunque del visto, dell’intellettivamente visto. Al termine, in quanto il compimento della nuova intellezione, il suo darsi allo stato compiuto, non può che coincidere con un nuovo vedere. Ma tra i due estremi si dà anche una componente costruttiva, elaborativa. E al riguardo non si può non parlare del giudizio, o meglio del rapporto tra concetti (astrazione) e giudizi. L’elaborazione di una nuova intellezione non può che essere il frutto di una sinergia complessa, dove l’attività del giudicare e del ragionare giocano un loro insostituibile ruolo.

In questo senso riteniamo possa essere interessante rivisitare la questione, tipicamente medioevale, della priorità tra concetti e giudizi: sono i concetti condizioni per la possibilità dei giudizi o viceversa sono i giudizi condizione per la formazione dei concetti? Come abbiamo accennato la linea aristotelico-tomista porta a sottolineare la prima tesi, mentre nell’impostazione schematicamente indicabile come agostiniano-francescana è il giudizio a costituire il cuore della conoscenza intellettiva. Per la prima impostazione infatti è l’astrazione del concetto a segnare il vero inizio della conoscenza intellettiva, essendo la sensazione a un livello qualitativo nettamente staccato (il che, notiamolo en passant, richiama la tesi metafisico-cosmologica della materia come pura potenzialità, per cui il dato sensibile, tale perché materiale, è costitutivamente opacità inintelligibile, e la tesi antropologica della sensazione come atto del composto corporeo-spirituale, il che significa che sentire è prevalentemente una registrazione passiva di dati che per così dire premono dall’esterno). Per la linea agostiniano-francescana invece la vera discontinuità non è tra sensazione e pensiero (poiché lo stesso dato sensibile è in qualche modo permeato di intelligibilità, il che richiama la tesi metafisico-cosmologica della materia come in qualche modo attuale e intelligibile, e si abbina alla tesi antropologica della sensazione come atto dell’anima, che può attivamente cogliere elementi di quella stessa intelligibilità/spiritualità che la costituisce), ma tra conoscenza stabile e certa, da un lato, e conoscenza instabile e incerta, dall’altro. E il discrimine tra questi ultimi due tipi di conoscenza è dato dalla qualità del giudizio: vi sono giudizi certi (/stabili) e giudizi incerti (/mutabili). Per la prima impostazione quindi centrale è il concetto, e decisiva l’astrazione, che lo forgia. Per la secondo centrale è il giudizio, mentre il problema dell’astrazione passa decisamente in secondo piano.

Ancora una volta ci sembra che siano da evitare due soluzioni in qualche modo estreme: quella di affermare un primato esclusivo dei concetti, che non spiegherebbe perché tutta l’intelligibilità oggettiva non si sprigioni immediatamente e necessariamente; e quella, opposta, di affermare un primato della ratio (discorsiva, contrapposta all’intellectus), la cui attività elaborativa sfugge a una soggettivistica arbitrarietà solo a patto di essere misurata da un dato oggettivo («duro»), che sia «visto». Ci pare allora si debba dire che esiste una reciproca necessità, una vitale circuminsessione nel dinamismo intellettivo, anche se si può dire che da un punto di vista strutturale, ovvero logico, è vero che senza concetti non si danno giudizi, così come senza mattoni non si dà un muro, mentre, da un punto di vista dinamico, il giudizio orienta e condiziona la formazione dei concetti, così come il progetto di un architetto precede e condiziona la scelta e il posizionamento dei mattoni. È il giudizio, cioè il capire, ciò che è, con terminologia scolastica, «primo nell’ordine dell’intenzione», pur essendo «ultimo nell’ordine dell’esecuzione». È infatti impensabile che si diano in noi concetti per così dire sparsi, atomici, privi di un qualche riferimento al giudizio. Lo stesso S. Tommaso riconosce che la verità non è nei concetti, ma nei giudizi:18 senza negare, potremmo dire, una qualche autosufficienza ai concetti, il loro pieno e compiuto senso è solo nel giudizio.

Più in generale ci sembra che, nella conoscenza, il tutto venga prima delle parti. Il giudizio unifica, orienta; i concetti forniscono gli strumenti per giudicare, ma non hanno una compiuta autosufficienza di senso. Nella conoscenza decisivo è il capire, come osserva Lonergan,19 e il capire consiste essenzialmente nel giudicare. È perché ho bisogno di capire qualcosa che focalizzo una determinata regione concettuale, è perché ho bisogno di capire, che elaboro dei concetti. E il bisogno, la volontà, il desiderio di capire (intus-legendo l’immediato) è mosso da un lato da una situazione particolare, contingente, concreta, e dall’altro dalla tensione alla totalità, che affettivamente significa desiderio di felicità senza limite.20

Vi è insomma una circolarità tra intellezione e giudizio. Si possono distinguere, ma non separare i due momenti della conoscenza: non vi è prima una pura intellezione di concetti (atomicamente concepiti), e poi una ricomposizione dei concetti, precedentemente astratti, nel giudizio, quasi questo fosse una attività giustapposta all’intellezione. Del resto quanto stiamo dicendo risulta evidente se si pensano casi concreti di intellezione di nuovi concetti. Nel bambino che si affaccia alla vita, ad esempio, l’ampliamento dei concetti avviene da un lato osservando, a occhi sgranati, ma dall’altra elaborando, mosso dal desiderio di felicità-soddisfazione, alimentato dall’intersoggettività, con il frequente ricorso a domande, come «che cos’è? », «chi è? », «perché? ». Nel dinamismo affettivo-conoscitivo che suscita tali domande è implicito il giudizio: «mi interessa quella realtà» (quella persona, quell’oggetto, quella situazione), dunque «la voglio focalizzare meglio»; dunque mi avvalgo del rapporto intersoggettivo, e dell’osservazione, per cercare di capirlo, elaborando di conseguenza dei concetti, il cui fine esauriente è quello di consentire un giudizio, per un più adeguato rapporto di corrispondenza al reale. Analogamente avviene nella evoluzione della conoscenza intellettiva di chiunque: ci capita di provare interesse per una certa nuova regione intelligibile prima conosciuta solo vagamente, e lavoriamo per capirla meglio, elaborando nuovi concetti che ce lo permettano.21

Abbiamo detto che il desiderio che anima e orienta la selettività astrattiva è alimentato dall’intersoggettività. A questo proposito importante è il problema, che qui possiamo solo accennare, del rapporto concetto/parola. Le parole, che esprimono concetti già focalizzati, non sono in effetti solo un punto di arrivo (l’espressione di concetti già formati), ma, ad esempio nel caso della ricerca intellettuale, possono essere anche un punto di partenza, come dei chiodi piantati nella roccia di una parete scoscesa, che consentono allo scalatore di fissare la corda e salire: non sono la vetta che deve essere raggiunta (l’acquisizione di una nuova conoscenza in atto), non sono nemmeno la capacità attiva del soggetto (che scala = conosce-astraendo), ma sono egualmente degli strumenti utilissimi, anzi indispensabili. Infatti la comunicazione intersoggettiva è fondata in modo non esclusivo, ma centrale sulle parole.

  1. Il risultato dall’attività astrattiva è la creazione di quello che potremmo chiamare uno spazio noematico anisotropo (assiale) . I concetti attuati in effetti non sono fluttuanti in uno spazio isotropo di intelligibilità diffusa, ma si dispongono in quello che potremmo chiamare uno spazio di intelligibilità assiale, dove l’asse è orientato tra la polarità del soggetto desiderante e la polarità di quell’alterità oggettiva che a tale desiderio possa corrispondere, e in cui centrale è il ruolo degli altri soggetti (in ultima analisi il Tu divino, ma immediatamente dei tu umani). È quell’asse la fucina dell’intelligibilità in atto. Come le stelle di una galassia non sono disseminate in modo omogeneo, ma si dispongono e addensano su un piano che si diparte dal centro della galassia, così vi è, nel rapporto del soggetto intelligente con il reale intelligibile, una anisotropia concettuale, una condensazione assiale dell’intelligibilità che un soggetto focalizza e porta ad attualità. Tale condensazione assiale significa, come sarà già chiaro, che non tutta l’intelligibilità presente nel reale viene portata ad attualità nel soggetto conoscente.

Ci sembra dunque che una certa componente di volontarietà nel processo astrattivo sia compatibile con il realismo gnoseologico, e che al contempo essa intersechi il tema delle certezze calde. Queste sono rese possibili, come abbiamo detto,22 dall’intersoggettività, che interpella la libera risposta del soggetto, ed è proprio in tale fucina, che, lo abbiamo osservato, viene focalizzata l’intelligibilità «assiale», che esplicita ed attua certi aspetti e certi livelli dell’intelligibilità «diffusa» totale. Resta da chiedersi se, una volta emersi ed esplicitati, tali concetti, che hanno costituito gli ingredienti di una certezza calda, mantengano inalterabilmente la loro piena portata conoscitiva, ovvero possano, venendo meno l’esperienza generante,23 scolorare e perdere il loro vigore noetico. È quanto in un prossimo cobntributo conto di trattare, parlando della questione della determinatezza dei concetti.


  1. Tra gli altri ricordiamo Kant, che tuttavia ci sembra poi essersi contraddetto, ammettendo una componente di a-priori, che mal si concilia con la «fecondità» del sapere. ↩︎

  2. Si potrebbe obiettare che anche l’esperienza mistica pretende di attingere il Reale per una via diversa da quella sensibile: noteremmo però che i veri mistici non disprezzano il mondo sensibile. Del resto la fede, a cui fa riferimento chi parla di mistica, attesta che nessuno più di Gesù ebbe una vita mistica, dettata da un intenso rapporto col Padre e nessuno fu più di lui, con buona pace di Comte e di Hegel, affezionato alla carne e al sangue dell’umano, amante della vita reale, concreta, al punto da commuoversi spesso e profondamente per la sofferenza umana (si pensi ad esempio alla vedova di Naim, o alla resuscitazione di Lazzaro). ↩︎

  3. Cfr. Lc, 10: «[21] In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: «Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così a te è piaciuto. [22] Ogni cosa mi è stata affidata dal Padre mio e nessuno sa chi è […] il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare».» ↩︎

  4. Cfr. Mt 18,3. ↩︎

  5. Si potrebbe infine notare, andando oltre l’ambito gnoseologico, come l’empirismo implichi una antropologia materialistica, incapace di fondare il senso di una dignità infinita della persona umana. L’empirismo infatti riducendo il pensiero alla sensazione, nega che l’uomo abbia un livello di conoscenza superiore alla sensazione, vista come atto fisiologico; solo se si ammette che l’uomo non ha un anima tale soluzione è accettabile. Viceversa ammettere l’esistenza di un’anima e non farla entrare in gioco nella conoscenza sarebbe assurdo. Un empirismo davvero coerente (ovviamente ci sono delle eccezioni, come lo stesso Locke, dovute appunto ad incoerente svolgimento del principio empirista) pertanto implica una antropologia materialistica. Ma il materialismo non può fondare la dignità dell’uomo: se questi è solo un mucchio di atomi, un grumo di fosfati destinato a precipitare nel «nulla eterno» che valore può pretendere di avere? Non sarebbe qualitativamente superiore neanche a una pozzanghera. Mentre gli esseri umani avvertono, se non altro quando pensano a sé stessi, un valore non negoziabile della propria persona. Con ciò, ovviamente, facciamo salve le possibili eccezioni di autori ascritti all’empirismo, e non pienamente coerenti con le loro premesse; così ad esempio Passerin d’Entrèves interpretava Locke come più vicino alla tradizione tomista di quanto normalmente si pensi. Cfr. C. Lottieri, «Le origini tomiste della tradizione lockiano», in Per la filosofia, n.57, anno XX, gen-apr 2003, pp. 45/63. ↩︎

  6. «Provocazioni sul tema della verità nel tomismo», Divus Thomas, 10 (1995), pp. 9/26; «La verità in Blondel o la non-possedibilità del vero [1a]», Divus Thomas, 26 (2/2000),pp. 110/132; «La verità in Blondel o la non-possedibilità del vero [2a]», Divus Thomas, 29 (2/2001),pp. 179/202. ↩︎

  7. Intendiamo riferirci all’etimologia di «pensare» come «pesare» (cfr. anche «ponderare» da «pondus»). ↩︎

    1. A nostro avviso ad esempio le dieci categorie aristotelico-tomiste dovrebbero essere ripensate, nel senso di un ampliamento e di una articolazione, che ne integri una certa esclusività oggettivistico-naturalistica.

    ↩︎

  8. Come ha ben evidenziato De Lubac. Cfr. il nostro De Lubac, ESD, Bologna 1994. ↩︎

  9. Tale intelligibilità potremmo vederla radicata, come vuole il tomismo, soprattutto nel principio della forma. Ma un’impostazione cosmologico-metafisica attagliata alla tesi qui sostenuta dovrebbe concedere qualcosa alle idee agostiniano-francescane, cui abbiamo poco fa accennato, di una certa intelligibilità/attualità dello stesso principio materiale: tale idea soltanto sembra spiegare come il dato sensibile sia permeato di una intelligibilità, che renda ragione appunto di quella che abbiamo chiamato intelligibilità diffusa. Quello che conta in ogni caso è ammettere che la realtà sia in se stessa intelligibile, possa essere pensata, e che riguardo ad essa il pensiero non sia irrimediabilmente condannato a fluttuare in una assenza di punti di riferimento veritativi. ↩︎

  10. Come la Vanni Rovighi, EF1, 146/7. ↩︎

  11. Abbiamo ricordato all’inizio di questo paragrafo tre fenomeni che giustificano questa nostra tesi. ↩︎

  12. Come dice la tradizione scolastica si tratta di un ens rationis, sia pure «cum fondamento in re». ↩︎

  13. Cfr. Oxon. 4, d.49, q.6, n.10: «una intellectione perfecta ac distincta existente in intellectu, multae intellectiones indistinctae et imperfectae inesse possunt. Exemplo rem declaro; nam visus in pyramide, et infra basim videt unum punctum in cono distincto et tamen in eadem pyramide et infra basim eamdem videt multa imperfecte et indistincte: una interim tantum est visio perfecta potentiae visivae; id siquidem praecise, perfecte ac distincte intuetur, super quod cadit axis pyramidis: si hoc est possibile in sensu, multo magis in intellectu.». ↩︎

  14. Si potrebbe forse dire, riprendendo la terminologia di Lonergan che da un lato ciò che viene astratto (la species quae) non è qualcosa di arbitrario, ma il rispecchiamento, il coglimento di un quid oggettivo, di uno strato per così dire solido del reale; al contempo, d’altro lato, ciò in cui (la species in qua) la species quae viene colta è pur frutto (almeno in molti casi) di una attività volontaria del soggetto. ↩︎

  15. Pensiamo ad esempio a Maritain o alla Vanni Rovighi: cfr. Maritain (1983), Œuvres complètes, vol. IV, Éditions universitaires Fribourg Suisse, p. 497 «en laissant de côté les notes individuantes»; o Vanni Rovighi (1975), Elementi di filosofia, vol. I, La Scuola, Brescia, p. 145: «l’astrazione è un puro prescindere». ↩︎

  16. Pensiamo al diverso modo di considerare possibili indizi di un delitto tra un esperto detective e un qualunque passante: quello che al passante può apparire un dettaglio insignificante, al detective potrebbe apparire come un indizio decisivo. ↩︎

  17. Tra l’altro, nel De Veritate, q.I, a.3 (Ver, p. 6). ↩︎

  18. Cfr. Comprendere ed essere, tr. it. Città Nuova, Roma 1993, passim. ↩︎

  19. Può essere interessante notare che l’universalità del concetto è dunque sospesa tra la singolarità del concreto contingente e la singolarità della totalità. Essa è in qualche modo al servizio di tali singolarità. Il che, del resto, è la necessaria conseguenza del fatto che il reale è singolare, e che la conoscenza è volta a conoscere il reale. ↩︎

  20. Ad esempio, interessati a conoscere il pensiero greco, vogliamo imparare la lingua di Platone e Aristotele, e allora ci dobbiamo formare il concetto di aoristo. ↩︎

  21. «Verità e certezza: il ruolo dei fattori extrateoretici», Divus Thomas (2008), 51, pp. 207-39. ↩︎

  22. Che è, come abbiamo detto, esperienza di intersoggettività intensamente partecipata dalla libertà del soggetto. ↩︎