Sul limite della vita. La filosofia polare di Romano Guardini

1. Der Gegensatz: la polarità

Il piano in cui si stanziano i problemi dell’esistenza, il rapporto con la realtà, ha per Romano Guardini il nome della sua opera antropologica di maggior rilievo: la polarità. Poco esaustivo parlare di un «piano»; con il termine polarità, o «opposizione polare», si deve intendere al contempo una realtà — o meglio una struttura reale e corrispondente all’esistenza — e una metodologia d’indagine, di comprensione. L’intera opera di Guardini, così come la sua stessa vita, è profondamente condizionata, radicata e sviluppata a partire dal riconoscimento della consistenza oppositiva di tutto l’essere, capace di far luce, di far «vedere» la verità delle cose e della persona stessa: «Tutta l’estensione della vita umana sembra dominata dalla realtà degli opposti. In ogni suo contenuto sembra di poterli indicare. Probabilmente non soltanto nella vita umana; essi stanno, forse, alla base di ogni realtà viva e forse di ogni realtà concreta».1 La decisività di tale questione impone il riguardo e la consapevolezza di non poter certamente riuscire a esaurirne la portata; può essere possibile valutarne qualcuno dei nodi più critici e delle implicazioni che ne emergono. Il primo dato degno di attenzione è linguistico: Guardini sottolinea il pericolo di identificare l’opposizione (Gegensatz) con la contraddizione (Widerspruch), indicazione del dualismo antropologico che egli ha tanto analiticamente rifiutato. L’opposizione polare, concezione intellettuale ed ermeneutica dell’esistenza concreta, ha tutti i tratti di una reale ontologia e antropologia filosofica: in essa la vita è vista nella sua intrinseca dinamicità dialettica, nella sua ineliminabile compagine oppositiva tra forma e capacità informale, struttura e atto, alterità e singolarità. Il sistema degli opposti si volge all’esperienza personale, alla coscienza e nello stesso tempo alla storia, alla realtà tout court: la logica del processo di pensiero e conoscitivo non può essere disgiunta dalla logica della vita. L’opera, pubblicata ufficialmente nel 1925, si radica in un momento storico in cui l’orientamento delle scienze umane è vòlto soprattutto a contrastare le scienze positivistiche che sembravano pensare troppo meccanicamente la vita e l’uomo; un certo turbamento, dunque, insieme alla consapevolezza del rischio sempre incombente del caos e della costante frammentarietà del reale in cui la persona può rimanere irretita, costituiscono lo scenario in cui Guardini si trova a fare i conti con la grande questione degli opposti.

Attraverso la più attenta e approfondita osservazione della struttura particolare e generale del mondo e della vita, egli sostiene la radicale unità di tutto il reale esistente, capace di contemplare la totalità («La vita è volontà di forma chiara e di un rapporto univoco di senso»)2 preservandone il carattere individuale e distintivo. Il primo elemento di «metodo sul metodo» che bisogna rilevare è che Guardini non ha mai inteso fondare nessun sistema, anzi si è sempre ritratto da qualsiasi categorizzazione riduttiva dell’ampiezza totale della concretezza. Non è difficile, quand’anche si partisse da circostanze reali e da metodi la cui validità consiste proprio nel rifuggire eventuali sistematizzazioni, cadere dopo poco in un artificio di pensiero, che già tradisce l’origine della propria ricerca. La prima condizione del metodo oppositivo è quella di ricominciare continuamente, di ristabilire ad ogni attimo una relazione nuova con ciò che si può e si deve tornare a vedere: «questa è la natura […] della vita realmente vivente: dover essere sempre e ovunque origine, principio».3

Nessuna «continuazione», dunque, perché se la vita accade in una imperterrita dialettica di oscillazione, l’armonia tra i poli non è che una condizione transitoria e occasionale; nessuna continuazione ma, proprio per questo, eccezionale continuità: seguire la modalità concreta che l’essere stesso dètta vuol dire poterlo realmente (e ogni volta) vedere per come e per ciò che esso è. Guardini scorge il fallimento dei tentativi di fondare l’autonomia di qualche fattore della realtà escludendone i rispettivi opposti: «da una autonomia conforme all’essenza, in rapporto con la totalità, se ne sarebbe sviluppata una invece assoluta: l’autonomismo».4 Slegare ciò che è indissolubilmente legato non può che condurre ad una disgregazione dell’oggetto (o della realtà) in questione, o perlomeno ad un evidente impoverimento potenziale, poiché tutti i momenti — quantitativi, qualitativi, formali — si presuppongono sostanzialmente. Quando questo tentativo è rivolto nei confronti della persona accade che

si parla dell’uomo ma non si vede realmente l’uomo. C’è un movimento che tende verso l’uomo, ma non lo raggiunge. Lo si afferra con la statistica, gli si assegna un posto nelle organizzazioni, lo si utilizza per determinati scopi e ci si trova di fronte lo spettacolo singolare e terribilmente grottesco che tutto ciò si riferisce ad un fantasma. E persino quando l’uomo patisce violenza, quando è vittima di abuso, distrutto, non è lui al quale si dirige l’attenzione della violenza. L’uomo quale è concepito dai tempi moderni non esiste.5

Lo stesso proposito domina sulla scena della cultura, in cui da un lato nasce e si sviluppa la tecnica, la comunicazione di massa, l’insieme sempre più ampio e vario di strumenti; dall’altro sembra cambiare il fondamento stesso della cultura e i suoi obiettivi, le sue forme. All’affermazione di una cultura che si pone come complessiva e che, d’altro canto, separa gradualmente la possibilità di una conoscenza unitaria, consegue un’idea di mondo «adulto» e autonomo che sostituisce il tradizionale assoluto religioso — e la tradizionale struttura culturale — con un altro assoluto: l’infinito-finito, o l’infinito in(de)finito. In una prospettiva simile diviene difficile sperimentare la naturale conformità tra le varie scienze: se la cultura è assoluta ogni aspetto di essa è libero da vincoli e l’osservazione o la ricerca dei nessi, della stupefacente consonanza tra elementi anche evidentemente differenti sembra nei migliori casi una occasionale trovata individuale.

La cultura nasce quando l’uomo procede dal semplice fatto esistente fino a ciò che è significativo, essenziale. Ma questa operazione non può compiersi che in un atto di conoscenza che si diriga verso entrambi i poli, cioè che stia in equilibrio tra l’aspetto universale e l’aspetto concreto. […] Come, senza perdere il contatto col particolare, arrivare a prendere una visione d’assieme della molteplicità e dominarla?6

1.1. L’opposizione polare, modo della vita umana

La concezione oppositiva concerne quindi la vita anzitutto in quanto vita della persona, che si esprime nel suo originale carattere di novità, di imprevedibilità, di autentica individualità nell’orizzonte della relazione con la totalità: «La vita in ogni suo istante è diversa da prima, identica certo nell’essere, ma sempre nuova nella fase dell’avanzare e dello svilupparsi».7 Il rischio insito in questa prospettiva è senza dubbio quello di confondere l’opposizione con il contrasto, con la difformità; affermare la sostanziale contraddizione di due o più elementi induce (in nome di una coerenza intellettuale e quasi immediatamente di quella morale) ad individuarne, sottolinearne e in molti casi battersi per difendere la singolarità dell’uno e dell’altro, dunque la differenza e man mano la distanza di uno dall’altro; osservare la storia e il mondo fa emergere subito l’alternativa tra la differenza e l’identità, tra la molteplicità e l’unità, tra ciò che distanzia e ciò che accomuna.

Tutto ciò ha delle ripercussioni storiche e sociali di notevole interesse: se ne possono delineare soprattutto tre. In primo luogo, che la coerenza appena accennata sia reale o astratta, o che sostenere le differenze tra alcuni elementi corrisponda a sostenere differenze sempre — o ancora — concrete sembra una questione di poco conto. Si difendono ora cose, strutture, dinamiche e perfino problemi che non solo paiono anacronistici, ma spesso poco conosciuti da chi se ne fa portavoce. Secondo: considerare l’essenziale separazione tra tutte le cose o considerare, nell’osservazione del mondo, solo la dimensione discriminante e molteplice non può che tradursi in atteggiamenti e scelte riduttive e obbliganti: in nome della libertà piena si verifica la schiavitù o l’anarchia; in virtù della pace si fa la guerra; in nome del bene e dell’amore, la violenza. Per ultimo c’è questo: se il criterio unico di comprensione è un pensiero puro, che separa, che non interroga e non si interroga, il problema non si circoscrive alla coerenza più o meno labile e infondata; ciò che viene dal difendere un problema-non-problema, ciò che nasce da un’idea astratta di giustizia che non si incarna nell’esigenza personale e privata genera soprattutto un’incapacità di azione, una vacuità creativa, una povertà nella potenzialità a incidere sulla realtà pubblica. Non è forse un caso che, presto o tardi, non ci si «batte» neanche più, non si difende più nessun fattore (estraneo o no): alla vecchia astratta coerenza si sostituisce il nuovo — concreto — scetticismo.

In virtù della tentazione a delimitare tutto, Guardini rileva la necessità di intendere le categorie nel loro principio unificante, di incontro — quand’anche non se ne rintracciasse immediatamente il fattore di mediazione — e di intendere la realtà nella sua complementarietà profonda: al centro è la visione (Anschauung), il bisogno di imparare a vedere la connessione tra tutte le cose. Se la contrapposizione è la scelta tra ciò che inevitabilmente si esclude (elemento affermativo e negativo, essere e non-essere, bene e male) l’opposizione polare è la relazione, la tensione e la dipendenza reciproca tra i differenti elementi concreti; Guardini vuole conquistare l’intero e sviluppare una filosofia pronta alla ricchezza smisurata della realtà:

Le coppie di opposti sono unità. Non meccanica, ma vivente. Non nel senso che l’uno venga appiattito, assimilato all’altro. Ognuno resta nella sua forma particolare […] . L’unità non consiste nell’esistenza, poniamo, giustapposta dei due opposti, nel loro essere [solo] legati fra loro. Si tratta di reale unità, talmente stretta e intima che nessuna delle comparti può esistere o essere pensata senza l’altra. Ognuna coesiste, non solo, ma inesiste nell’altra. Proprio questa è l’unità vivente.8

La configurazione oppositiva può rifuggire la tradizionale categorizzazione dei sistemi solo in virtù del fatto che non si tratta di una proprietà che concerne i dati della realtà ma essa è il vivente stesso, è il principio a fondamento della struttura e del movimento di tutto ciò che c’è: in una parola, è il dato originario della vita. La polarità non contraddice in modo incondizionato il fattore di volta in volta opposto ma piuttosto lo «contraria», vi si scontra integrandolo, poiché l’opposizione avviene sempre entro i confini dell’imprescindibile legame essenziale tra i poli (l’essere, scrive, non è «unilaterale», […] non è «unisignificante»). Un sistema di pensiero, una realtà o un approccio etico che non possieda tale proprietà e non sia capace di suscitarla tende naturalmente a due conseguenze: escludere tutto ciò che si contrappone, restando paralizzato dalla scelta per uno solo di due elementi indivisibili, e perdere la possibilità conoscitiva dell’oggetto autentico e la profondità della potenzialità vitale. L’opposizione polare si mostra come uno strumento ermeneutico che permette di cogliere i rapporti della e nella vita, anch’essa allo stesso tempo costituita dalla medesima opposizione.9 Sottolineare la coincidenza del metodo e della struttura della realtà stessa è significativo per affermare la polarità come fondamento ontologico e antropologico: soltanto una prospettiva gnoseologica polare, vòlta a tutti i dati del reale, restituisce una conoscenza effettiva; ma neppure un sistema genuinamente aperto potrebbe fino in fondo garantire la scoperta di qualche verità se non partisse dalla conformazione concreta della realtà che vuole osservare. La prima ragionevolezza dell’ermeneutica polare sta nel fatto che è conforme alla struttura originaria del reale e della persona: «Il metodo, la strada da percorrere, risulta talmente adeguato all’oggetto della ricerca che diviene esso stesso espressione della struttura essenziale di quest’ultimo: il metodo si identifica con la mèta stessa, l’euristica con l’ontologia».10

La riflessione sugli opposti è quindi centrale non solo da un punto di vista concettuale ma da un punto di vista esistenziale, storico; strumento ermeneutico e struttura della vita, l’opposizione polare si fa compito, responsabilità di favorire uno sguardo intero, un punto d’osservazione risoluto in cui decidere per una cosa coincide a valutare e includere istantaneamente anche l’altra. Tutto ciò diviene punto sorgivo di un incremento conoscitivo e attivo, di un’audacia, di una vitalità sconosciuta: ne scaturisce un insolito realismo, una profonda e acuita ampiezza umana in genere.

1.2. La persona nell’opposizione polare: il «concreto-vivente»

Il leitmotiv che sottende e sostiene la filosofia degli opposti è l’affermazione: «io sono un’unità»; la realtà molteplice dei fenomeni di differente natura che compongono la struttura della persona non confluiscono nella percezione e nell’autocoscienza di una caotica aggregazione di fattori. L’uomo fa invece esperienza di sé come un intero, in cui ogni particolare si pone in relazione reciproca con la totalità, la quale a sua volta si esprime nei fenomeni, ma che non si riduce ai fenomeni stessi:

Se un uomo intraprendesse l’inventario del suo esserci concreto, che cosa vi incontrerebbe? E in che rapporti si disporrebbe ciò che incontra? […] Partendo dalla propria esperienza l’uomo comprende di essere inserito in una rete di continui influssi reciproci con il mondo, di appoggiarsi al mondo e di creare a partire da esso; e, di converso, comprende di essere incluso nel mondo come uno dei suoi elementi.11

Guardini assume una radicale posizione nei confronti di un’idea pura di struttura e fenomeno, del soggetto «immaginato», recuperando invece il valore unico del concreto-vivente; ma una prospettiva che tende alla totalità come quella dell’opposizione polare non cade in un ingenuo rifiuto dell’astrazione (che giudica un momento importante), ma è capace di «trapassarla», servendosene e non rimanendone impigliata. Quanto più l’individualità si sviluppa, tanto più diventa incerto il suo sussistere, indefiniti i suoi confini, sfuggente la sua misurabilità: ciò accade perché la persona è definita anzitutto dal «centro». La prima caratteristica di questo centro è di non essere spaziale, ma vivente, cioè oscillante; non si può dire dove sia, non si può osservare, fissare e conoscere attraverso un processo intellettuale e neppure emotivo: esso «sta dietro un limite qualitativo, e viene conseguito solo con un trapasso: il centro vivente è interiorità».12 È proprio in questo centro che confluisce l’originaria tensione oppositiva in virtù della quale la persona sussiste, cerca, continua, soffre. La terza e decisiva implicazione insita nella concezione del «centro vivente» è la libertà: nella percezione del nucleo profondo e originale che lo costituisce, esso si mostra anche come radice della libertà, e così degli atti liberi che l’uomo compie o può compiere. «Il carattere dell’atto libero non consiste in una decisione fra varie possibilità, in una determinazione formale di orientamento delle energie volitive oscillanti, ma in un atto che esprime l’essere intimo. Un atto creativo dunque.»13

Si può in effetti rilevare che la familiarità «dell’io con il proprio io» è la condizione affinché si sostanzino insieme, unendosi, i tre piani della vita: quello dell’essere, quello dell’agire e quello della libertà. Ciascuno di essi è strettamente correlato all’altro e la realizzazione, lo sviluppo e la conoscenza di uno è direttamente proporzionale all’incremento degli altri: quanto più si riconosce il proprio essere, l’essenza, tanto più la libertà diviene capace di rifiutare ciò che è inautentico, ciò che non concerne la propria forma vivente; così la libertà che si attua in misura sempre maggiore e sempre più consona è la condizione di un agire più consapevole dei fini e dei limiti. Allo stesso modo, un agire che pur inconsapevolmente è adeguato al proprio essere conduce ad una libertà tale da far sorgere la domanda e la consapevolezza della personale «fisionomia» umana. Tutto ciò appare di eccezionale interesse se si considera la frequente difficoltà intorno a cosa sia e non sia «morale», eticamente corretto, essenzialmente necessario. Il tentativo di discutere di un sistema morale — o di atti morali — abbandonando o riducendo il piano dell’essere e della libertà, o porre il problema della libertà e di ciò che ne deve garantire la realizzazione al di fuori del suo indiscutibile presupposto (cioè che la libertà è sempre la libertà di qualcuno, di chi la vive, e quindi del suo essere ed essere-fatto) costringe in partenza ad una condizione ostile alla chiarezza e a qualche possibilità di autentica comprensione. La «fine dell’epoca moderna» di cui Guardini parla coincide con la pretesa di conoscere l’uomo entro i soli limiti delle scienze naturali e di comprenderne tutto l’essere a partire da concetti astratti, così formulando metodi applicativi (nell’educazione, nella società, nei rapporti personali, nella politica) inadeguati non perché esterni alla persona ma perché «estranei» ad essa. Il compito originario dell’esistenza e originale per un’adeguata antropologia è quello di «essere autenticamente», di imparare ad essere se stessi:

Ed ecco che il filosofo può fare esperienze singolari. Ad esempio, quando di sera sta seduto in camera, e tutto attorno, i libri, da tempo ben noti, i mobili, il quadro alla parete e l’oggetto sul tavolo perdono la loro familiarità, diventano strani, lontani, e al contempo avanzano opprimendolo — tanto che gli viene da pensare: «Che strano, che tu stia seduto qui! Che tu sia colui che sei, e faccia quanto i tuoi giorni esigono da te! Che tu esista! Che cos’è questo? Che cosa sta dietro alle cose? Che cosa c’è dietro a te stesso? […] Sarebbe un cattivo filosofo colui che facesse scomparire, con un qualsiasi artificio intellettuale, questo trasparire del mistero dell’esistenza. Al contrario, egli lo deve percepire chiaramente. Deve sperimentare come esso si intensifica costantemente. Allora egli vede come qualche cosa cambia: il mistero diventa abitabile.14

L’affermazione dell’«io» porta in sé tutto lo spessore ontologico e della ricerca inquieta del proprio fondamento e della propria responsabilità: in questa sollecitudine l’uomo fa esperienza della libertà, della conoscenza, della creatività: «La vita vi sarà rigogliosa e insieme avrà delicatezza di forma. E sarà un’ora ricca di quiete».15

1.3. Il limite, «legge della perfezione»

Se la filosofia polare è la tensione presente in tutto l’esistente e anche una filosofia del limite, ciò pone una domanda su quale sia il nesso tra due momenti apparentemente contraddittori. Guardini risponde affermando che la vita continuamente tende a trascendersi, ma ciò è possibile solo a partire dalla presenza di originari limiti e da continue de-limitazioni; la vita è sempre, afferma, vita «di confine». Qui emerge l’evidente nesso con la polarità, perché i confini obbligano a «vedere», indicano un «dentro» e un «fuori», un prima e un dopo, l’intero e la molteplicità. «Sul limite della vita» inizia, finisce e si invera l’esistenza nella sua concretezza e drammaticità: da ciò dunque bisogna partire.

Il tentativo di negare la contingenza del finito, di dimenticare la struttura oppositiva del reale e di porre (o concepire) fattori e problemi in un orizzonte assoluto contraddice una posizione di apertura e di ragionevolezza. La ragione si realizza come capacità di cogliere la realtà nella totalità delle sue forme e dei suoi modi; poiché l’esperienza si offre sempre entro dei limiti qualitativi, quantitativi e temporali, non c’è adeguato processo conoscitivo e razionale che non debba anzitutto fare i conti con la determinatezza e che non debba rinunciare alla pretesa di una esistenza «sconfinata» e di una illimitata potenza. Se il primo significato del limite è associato al «limitare» nel senso di una chiusura, dall’altro lato è la capacità del limite di «aprire». Esso indica una finitezza, ma una finitezza reale e comprensibile; quando la volontà e l’azione — in nome di un’astratta idea — tradiscono la struttura e la dinamicità propria delle cose, l’esito non è quello d’una nuova e incondizionata assolutezza, ma possibilmente di un nuovo limite, il quale porta con sé una triste condizione: non è più trasparente ma velato, quasi inaccessibile. Niente di reale si può sradicare senza che ciò induca l’imporsi inevitabile di qualche alternativa: in questo caso, dell’alternativa di un limite sconosciuto. E come in tutte le relazioni in cui ciò che si ha da scoprire appare indecifrabile e sempre più indecifrabile, non stupisce che, presto o tardi, si cerchi di eliminare la fonte del perturbante limite.

Il rifiuto dei limiti costitutivi della realtà apre le porte ad un mondo indefinito, infinito (ma non per questo libero): in un siffatto mondo non c’è spazio per le periferie, perché non c’è neppure un centro; non c’è spazio per le mancanze, perché non c’è un punto sorgivo di pienezza. Un procedimento logico pur elementare giunge rapidamente a comprendere che una concezione e una cultura in cui non vi è mancanza equivale all’affermazione che nulla possa o debba colmare una mancanza, dunque che null’altro è necessario se non ciò che già c’è. Tentare di ridurre ed eliminare i limiti dell’esistenza, sconfessare o relativizzare la possibilità che qualcosa d’altro accada equivale a conti fatti a sopprimere la possibilità di conoscere se stessi, di dire «io»: «alla radice di tutto sta l’atto mediante il quale accetto me stesso. Debbo acconsentire ad essere quello che sono. Acconsentire ad avere quelle qualità che ho. Acconsentire a stare nei limiti che mi sono tracciati».16 In questo senso è importante osservare il divario che esiste tra l’accettazione positiva del limite e ciò che sembra esserne diventato l’unico occasionale sostituto, cioè il «pluralismo». Anche nella prospettiva concreta, il mancato riconoscimento dei limiti essenziali non si risolve in una possibilità decisionale ed etica più «adulta» e totalizzante, ma in una moralizzazione assai più stringente ed angusta per l’uomo, la cui espressione è al massimo una collettiva «tolleranza». Quanto di più distante Guardini immaginasse parlando della conformità al limite, che dovrebbe invece essere compreso, conosciuto e addirittura perseguito con vivacità, in netto conflitto con qualsivoglia pensiero o programma umano e umanitario astratto.

L’associazione tra il termine «collettivo» e «tolleranza» sembra qui essere notevolmente appropriata (forse non a caso si tratta di due termini graditi e sovente utilizzati nei dibattiti e nel lessico teorico, politico, sociale dei nostri tempi); sarebbe in effetti più complesso e di improbabile riuscita persuadere un singolo, nella propria intima soggettività e nella propria personale vita quotidiana, a «tollerare» qualcosa che non conosce, che non accetta, o che riconosce come radicalmente diverso da sé. Ma quanto la condiscendenza moderna ha a che vedere con una maggiore liberazione, con l’abbattimento delle frontiere culturali? Sembra piuttosto che essa si aggrappi al naturalismo spontaneo perché non ha nulla da proporre, accetta tutte le idee e le posizioni perché non ne sa e non ne può difendere fino in fondo nessuna. L’internazionalizzazione, l’eccezionale iper-sincronismo informativo e la capacità di trasferire e trasformare non sembra aver garantito e garantire di per sé nessun incremento spirituale, comunicativo in modo compiuto e quindi culturale in senso pieno; è un gioco al rialzo che può dire tutto senza però significare nulla. La tolleranza collettiva non solo è inadeguata all’oggetto del suo interesse, ma ne decentra il problema, disperdendo la possibilità di un cambiamento autentico, di un dialogo. La diversità cui la tolleranza vorrebbe rispondere si fa problema nel solo momento in cui intercetta l’esistenza concreta di una persona precisa. Se si osservano i casi specifici, ci si trova di fronte ad un dato visibile: la difficoltà di trattare con chi è quasi una replica di se stessi e l’incapacità di sopportare la differenza, tanto più essa appare sostanziale. La potenzialità conoscitiva è spesso relegata alla ricerca di ciò che restituisce all’uomo un’immagine pressoché identica alla propria; quando questo non accade impera lo sconcerto, padre della rabbia. La diversità irrita e nessun disagio che non riveli prima o poi il germe di una possibilità costruttiva può a lungo essere sopportato: si cerca allora di eliminarla, mediante motivazioni manifeste (a volte persino estreme: «è diverso», dunque «sbagliato»; non importa che ciò sia reale, la «collettività» ne garantisce la ragion d’essere e di dire) oppure mediante la più democratica indifferenza, cioè la tolleranza, che — rispettosamente? — mantiene ad oculata distanza ciò con cui non sa trattare. A tutto ciò Guardini risponde con una proposta ardita per il pensiero e per l’agire: «fare del limite la legge della perfezione»17; ancora la prospettiva dell’opposizione polare rende comprensibile un nesso che sembrerebbe naturalmente contraddittorio: vi è perfezione (che dal latino perfĭcĕre indica il realizzare, realizzarsi) solo a partire da un essere limitato e insufficiente a se stesso, che per questo «chiede» che la propria mancanza sia compiuta.

2. Il potere del potere

La riflessione sul potere muove dalla domanda e da una passione di Guardini per l’uomo vivo; la lealtà intellettuale nel portare alla luce gli aspetti tanto critici quanto positivi del progresso scientifico, tecnico, di un mutamento culturale si radica nella ferma convinzione di non dover sostituire un’ideologia nuova ad un’ideologia vecchia, ma piuttosto di suggerire un approccio nuovo di visione, di comprensione, di impegno verso la propria esperienza e dunque verso il mondo. Constatare il fallimento di una cultura, di una mentalità che non ha risposto e non risponde alle esigenze della vita è possibile in primo luogo a partire da una chiarezza circa tali esigenze. L’agire privato della coscienza personale equivale a produrre — anche in grande misura — ma non più a generare: la differenza che intercorre tra queste due possibilità è ciò che all’uomo viene restituito in termini di ragione, di potenzialità, di bellezza, di realizzazione. Il vuoto singolare cui Guardini si riferisce è anzitutto il frutto della perdita della responsabilità, condizione nella quale la volontà non sa più a chi rivolgersi, a chi rendere conto né all’interno della persona né al di fuori. A qualcuno presente, o meglio reale — presupposto indispensabile per la possibilità della relazione e dunque della «personalizzazione» della persona — si sostituisce un’organizzazione anonima, tanto strutturata quanto non riconoscibile, o neppure conoscibile nei suoi elementi costitutivi: «Il pericolo maggiore per il futuro uomo è il “si”, ossia, lo schema anonimo, sostenuto da partiti, giornali, radio, cinema, che stabilisce come si dovrebbe pensare, giudicare, agire […]. Non appena tutto questo predomina la persona diventa impotente».18

Tutto ciò descrive il diffuso sentimento di trovarsi inseriti in un mondo che non è stato scelto: non tanto nel senso che esso c’era prima che ciascuno nascesse o perché nessuno ha scelto di nascere, ma per la coscienza di essere parte di qualcosa di cui non si fa (o non si può fare) parte, che non diviene impronta della propria vita. Qui, come nel caso dell’essere-libertà-agire morale, i piani sono imprescindibilmente legati: se la responsabilità non è richiamata a realizzarsi concretamente, a muoversi nell’una o l’altra direzione, perde la propria sostanzialità, la propria capacità di rettificare, trasformare; tra la potenzialità dell’azione responsabile (e quindi della relazione con la realtà) e l’indolenza progressiva della coscienza che non riconosce tale potenzialità si apre il divario in cui il potere trova spazio.

Gli uomini di cui conosciamo la condotta — ognuno nel proprio campo — danno l’impressione di sentirsi responsabili di ciò che accade? E questa responsabilità influenza la loro attività professionale e privata? Gli organi che guidano lo svolgersi della vita pubblica danno l’impressione, in definitiva, di sapere di che si tratta e di regolare di conseguenza la propria azione? La misura del potere disponibile è garantita da un corrispondente giudizio sul senso dell’esistenza umana, da una proporzionata risolutezza nel prendere posizione sulle questioni morali, da un’adeguata forza di carattere? Esiste un’etica del potere costruita su di un reale contatto con il fenomeno? Il giovane, […] l’uomo adulto viene educato al retto uso del potere? Questa educazione forma un elemento stabile della nostra formazione umana, sia individuale che sociale? Io temo che, se rispondiamo lealmente a queste domande, la risposta sia allarmante. Si ha in buona parte l’impressione che la maggioranza delle persone non sappia di che si tratti. E quando lo sappia, si trovi in un’assoluta incertezza circa il da farsi, e, considerando le cose nell’insieme, le lasci andare per la loro china. […] Quale fra i valori che il tempo moderno credeva di aver garantito […] non è stato rinnegato? Che cosa è rimasto integro di tutte le conquiste della cultura? La dignità del vero e la nobiltà del giusto, l’onore dell’uomo, l’inviolabilità del suo essere corporale e spirituale, la libertà […]; l’indipendenza della scienza, responsabile di fronte al proprio significato; arte, educazione, attività medica, che cosa di tutto questo non è stato distrutto? La violenza e la menzogna non sono divenute atteggiamento permanente? Non facciamoci illusioni; ciò non è avvenuto nella forma di uno smarrimento momentaneo, ma in quella di un sistema teoretico e pratico elaborato in ogni aspetto.19

A furia di realizzazioni, aggiunge, si è perso di vista colui che le realizza,20 si è tracciata la situazione in cui l’uomo possiede ed è posseduto da ciò che possiede. All’eccezionale raffinatezza strumentale non si è ragionevolmente affiancato un vaglio costante degli strumenti stessi, non si è strutturata e rinnovata la domanda sul significato ed una linea di «utilizzo critico» di ciò che veniva e viene prodotto: «al loro posto subentrano […] gli ordinamenti meccanici e formali: l’«organizzazione». Ma l’organizzazione da sola non crea una morale».21 All’«ente» che sempre più sembra essere «in nessun luogo» (basti pensare a come i termini linguistici che dovrebbero essere i più comprensibili sono divenuti via via più slegati da un immaginario concreto: il «mercato», l’«economia», la «finanza», la «crisi») non si può domandare, da esso non si può pretendere una corrispondenza. Ora, perlomeno in un senso elementare comune le opzioni che sembrano delinearsi sono essenzialmente due: contrastare questo anonimo potere (ma poiché non se ne può contrastare l’«anonimato» ciò si traduce normalmente nell’accanimento contro uno o l’altro aspetto di volta in volta contingente, oppure contro un’indistinta globalità che non spaventa nessuno) o — con spirito più o meno disilluso, più o meno polemico — abbandonarvisi; in entrambi i casi pare ancora difficile tematizzare l’aspetto essenziale: l’impressione di una radicata «necessità» delle cose come sono.

È anche interessante che accanto all’incremento del sapere e dell’abilità nel «maneggiare» la realtà si è verificata una «sperimentazione» sempre minore di ciò che viene prodotto o gestito: così è accaduta la separazione tra la sfera lavorativa e l’esperienza, la vita. La professione entra anch’essa nella schiera dell’anonimato, perdendo il suo originario significato del «prŏfĭtēri», vale a dire esprimere e dichiarare pubblicamente il proprio ruolo e la propria scelta di vita: l’essere (l’essere fatti in un certo modo, avere un talento o un altro), la volontà e il lavoro divengono fattori sempre più scindibili. Tale divisione non sarebbe neppure sconcertante se ad essa equivalesse una reale separazione degli àmbiti, e dunque ad una pertinente competenza nel compiere il proprio compito da un lato e nel trarre dall’esperienza ciò che si vuole e si desidera. Di fatto accade però che il rapporto tra lavoro e vita viene sovvertito: si vive per lavorare e non si lavora per vivere; le «scelte di vita» sottostanno al criterio della spendibilità lavorativa, ma il lavoro — quando non coincide con la vocazione — sempre più difficilmente è occasione per l’uomo di inverarsi, di realizzarsi; così il tempo del lavoro diviene una prigione, e il tempo della vita che resta è speso con avidità, come se dovesse risarcire la persona per ciò che ha perduto. Il rapporto con il lavoro è lo stesso che si instaura poi con il tempo, con le cose e nei rapporti interpersonali.

Ma immaginiamo raggiunta la mèta cui tendono gli sforzi delle assicurazioni e creata quella organizzazione che abbraccia tutti i cittadini e tiene conto di ogni situazione di bisogno. In tale sistema, che cosa diverranno a lungo andare e per la media delle persone la coscienziosità ed il buon senso, l’indipendenza ed il carattere, la fiducia nella vita e la disponibilità davanti al futuro? Un tale sistema di previdenza automatica non diverrà insieme un sistema che riduce l’uomo in condizione di minorità? Non si attenuerà sempre di più lo stretto rapporto con ciò che si chiama iniziativa, destino, provvidenza? Oppure: se il traffico si svolge in modo più celere e completo, si guadagna realmente tempo? Ciò sarebbe vero se l’uomo trovasse più agio e divenisse più tranquillo. E invece egli appare sempre più incalzato, e il risparmio di tempo attraverso l’accelerarsi del traffico ha in realtà l’effetto che egli si imprigiona sempre più nel tempo. E quando davvero l’uomo guadagna tempo, come se ne serve? Si libera forse dalla folla, o non si butta invece nella ressa di chi si diverte o si dedica a sport assurdi, legge, ascolta, vede roba inutile? La fretta ansiosa che lo svuota non prosegue in altra forma e la teoria della vita più ricca non getta la maschera rivelandosi illusione? […] La vera giustificazione del progresso culturale non può consistere in una utilità comunque concepita, perché tutto questo conoscere, lavorare, creare porta con sé anche un pericolo che si aggrava sempre più. Vivere secondo la cultura significa in definitiva vivere secondo la decisione dello spirito; ma ciò significa che quanto più grande diventa il dominio del mondo, tanto più è rischioso il vivervi.22

Qui, quanto più un pensiero e una cultura sono capaci di equilibrare e far coesistere diplomaticamente tutti i dati naturali, tanto più essi sembreranno morali, eticamente corretti. Invece, sostiene Guardini, tra le decisioni fondamentali per il futuro c’è quella di riconoscere che tutto ciò non è vero: l’uomo è sì animato dallo spirito, ma lo spirito non è la natura; egli non risponde ad una mera necessità storica ma è mosso dal centro in cui risiede la libertà, e la sua integrità e personalità saranno tanto più formate quanto egli vivrà e sostanzierà il suo rapporto con la verità. Affermare la coincidenza del buono e del naturale vuol dire in qualche modo dimensionare anche il male, e così ridurre il bene; il rapporto con la verità — cioè l’ascesi, il sacrificio — vuol dire anzitutto protestare contro questo impasse. «L’uomo non appartiene in modo assoluto al mondo, ma sta al suo limite», e «la storia non si svolge da sé, ma viene fatta».23 Ciò che si intende è che vi è per ogni essere una forma significativa, dalla quale scaturisce un principio di giustizia e bontà dell’agire.

2.1. Una ragione non più vitale

«La questione che mi tormentava era questa: è ancora possibile, in mezzo a tutto ciò che accade, un tipo di vita che sia completamente imperniato sulla natura dell’uomo e sull’opera dell’uomo?»;24 di fronte alla progressiva e smisurata capacità di comunicazione, di spiegazione del reale e di ogni struttura naturale che nei tempi passati era, in taluni casi, soltanto vagamente immaginata, la questione antropologica torna più che mai a farsi problema, la persona diviene di nuovo un enigma da decifrare. I tentativi scientifici, tecnici, umanistici o spirituali non soddisfano, afferma Guardini, l’ansia che l’uomo ha di conoscere se stesso: egli ha perciò l’unico obiettivo di portare alla luce quelle che chiama «leggi immutabili della vita», che non si sottopongono al preteso scacco della modernità né di alcun’altra epoca.

Ogniqualvolta la verità è ridotta a mera preoccupazione intellettuale da discutersi negli ambienti elitari non si pone al suo posto la semplice menzogna (la quale porta in sé già il segno della sua limitatezza); il contrario della verità è l’opinione, la relatività di un pensiero che apre le porte alla propaganda, che si esprime a sua volta nella confusione di un pensiero critico con le sempre più generali «competenze», con le omogenee e ripetitive «istruzioni per l’uso»: «al posto della verità […] è subentrata la «parola d’ordine».25

Ad un’esistenza incapace di aprirsi oltre sé, si affianca la condizione in cui il baluardo della verità diviene il collettivismo, capace di proporre unicamente programmi astratti. Quanto più i limiti divengono indeterminati, tanto più la potenza assume una smisurata capacità; a ben guardare la persona si ritrova però nell’ironico paradosso di poter avere tutto e tutto comprendere, tranne ciò che vuole veramente o di cui realmente necessita. La crisi antropologica su cui Guardini riflette è una crisi della ragione e del «cuore»: ciò che anzitutto è «andato in crisi» è la fiducia (e dunque la speranza, e inevitabilmente l’agire) nella capacità significante del mondo e della vita. La fragilità intellettuale e morale, l’estremo timore che impedisce la dedizione piena a un ideale, la crisi affettiva sono l’esito dell’esistenza in cui viene a mancare la ragionevole certezza di una prima e ultima positività. È quella che il filosofo Teilhard de Chardin ha definito «la perdita del gusto di vivere»: «Il pericolo maggiore che possa temere l’umanità oggi non è una catastrofe che venga dal di fuori, una catastrofe stellare, non è né la fame, né la peste; è invece quella malattia spirituale, la più terribile perché il più direttamente umano tra i flagelli, che è la perdita del gusto di vivere».26

Ci sono stati tempi in cui crimini efferati sono stati indotti da dogmi e poteri, vi sono state condizioni violente, autorità schiavizzanti sino alla logica totalitaria; tutto ciò oggi appare (perlomeno nei paesi «sviluppati») superato, in virtù dei diritti umani riconosciuti e di un generale progresso costituzionale, legislativo, culturale; eppure accanto a tale sviluppo è andata man mano progredendo, fino ad un livello forse mai sfiorato prima, la mancanza di una ragione vitale, dell’affermazione pubblica e di una testimonianza diffusa di un motivo per cui valga la pena vivere, o persino morire. La confusione circa la propria responsabilità, e non in ultimo la mancanza di creatività e incisività sono i segnali di una cultura che «dispone» di tutto e su tutto ma in cui non è più tanto chiaro il fine di questo disporre; soprattutto non è più ovvio che un fine ci sia. Ciò è penetrato tanto a fondo nella sfera psicologica e spirituale comune che sembra essere divenuto un tratto costitutivo di una nuova generazione genetica. Verificare l’infondatezza di un simile pensiero è possibile osservando non soltanto i casi — anche numerosi — in cui si evidenziano personalità salde, che si arrischiano con coraggio per sostenere il proprio compito con coscienza, ma anche in linea assai più generale quando ci si riferisce alle dinamiche della vita concreta: nell’esperienza personale, nell’orizzonte della sfera affettiva o semplicemente di un interesse che riguardi la persona, il vigore della responsabilità e dell’azione emerge nella sua «antica» integralità. La prima indicazione che dalla riflessione di Guardini si può allora rilevare è l’urgenza di percepire, concepire e richiamare nuovamente l’uomo alla sua insostituibilità, poiché il potere esercita la sua violenza laddove nell’uomo decade o è già decaduto il rispetto di sé, la difesa della propria essenzialità.

Bisogna ammettere l’ubriacatura della quantità, di cui sono sintomi l’esperienza del vuoto, dell’angoscia, del disorientamento, della nausea ecc., ossia del fatto che l’uomo moderno si occupa solo del finito. Ciò equivale, nello stesso tempo, a dimostrare che il bisogno di valore e di significato dell’uomo esige non solo il sempre di più e il sempre più grande, ma l’assoluto.27

2.2. Uomini e città del mondo, uomini e città di nessuno

Nel nuovo rapporto che l’uomo ha con gli strumenti che utilizza, le capacità naturali lavorative appaiono naturalmente rafforzate, centuplicate, il mondo assume una configurazione di eccezionale mobilità, potenzialità, duttilità; il carattere significante di un ordine naturale stabilito appare però sempre più incerto, alla mercé di opinioni e credenze soggettive. Le strutture prodotte e progettate dall’uomo non riflettono l’essenza umana: ciò che viene prodotto e che non possiede vita propria sembra acquisire autonomia, capacità di sviluppo e di direzione individuale. La trasformazione processuale delle macchine corrisponde alla trasformazione del lavoratore, non soltanto da un punto di vista pratico e logico (decade il lavoro artigiano, la piccola produzione, l’impresa locale) ma soprattutto dal punto di vista antropologico: «nella misura in cui si sviluppa la macchina, viene a cessare quella forma di lavoro immediato in cui cooperano l’occhio, la mano, la volontà di raggiungere uno scopo, il senso del materiale utilizzato, la fantasia e la capacità di imprimere una forma».28 Va perduto l’eccezionale valore sia pratico che simbolico della creazione personale;29 l’uomo inventa strumenti e macchine, le quali dopo un po’assumono un’identità mutata: egli inizia a servire ciò di cui solo avrebbe dovuto servirsi, diventa funzionario e non più signore della sua opera (e più in generale della sua vita), «nasce l’operaio servo della macchina».30 Dall’altro lato, la «soggettivazione» della macchina fa sì che si sviluppi una certa tendenza a produrre solo ciò che essa consente, e un particolare scetticismo verso tutto ciò che invece non consente. In sostanza, ciò che appare particolarmente pericoloso è che l’utilizzo pratico strumentale incide man mano nell’orizzonte culturale, concettuale nella (in) capacità di astrazione: si riduce cioè la categoria — propria della ragione sana e formata — della possibilità, la quale anima la creatività, l’inventiva, e dunque la libertà.

La gravità dell’uniformazione collettiva non consiste quindi nell’omogeneità di per sé, ma nella paralisi della ragione, dell’intelligenza, del pensiero cui conduce: la «normalità» coincide con la morte dell’identità, con la stanchezza dell’azione, con l’incapacità di rischiare. Parallelamente alla disgregazione dell’organicità individuale emerge quella delle classiche strutture sociali come la famiglia, la comunità, la città; in luogo dell’unità degli opposti o della sana diversità si erge un’indistinta associazione: le città sono sempre più simili, città «del mondo». Osservare le tendenze architettoniche è estremamente interessante: una scienza come l’architettura, fortemente necessitante di comprendere tutti i fattori con cui ha a che fare,31 sembra sempre più ridursi a ricettacolo della mera tecnica o della mera utilità (anche quest’ultimo termine potrebbe essere oggetto di grandi riflessioni: cosa è veramente utile? quando si può dire «utile» e chi ne decreta la validità?). Elementi come la simbolicità, la capacità significante, la bellezza, la funzionalità, la razionalità strutturale, legati uno all’altro da nessi anche evidenti paiono divenire all’occasione logiche sufficienti unicamente in sé, perciò determinanti. Basti pensare alle periferie delle grandi città con le massificanti costruzioni: in esse non soltanto il criterio del «bello» pare essere decisamente superfluo, ma in gran parte quello della funzionalità pratica e persino delle norme di sicurezza edile. Nelle Lettere dal lago di Como, nate come un giudizio storico su quel tempo, Guardini scrive:

Tutta la civiltà possiede fin dall’origine questo carattere astratto. Ma quando si diffuse il pensiero moderno, il pensiero concettuale e matematico e quando la tecnica moderna si inserì nel mondo del lavoro, questo carattere astratto acquistò una decisiva preponderanza. Esso determinò in maniera definitiva il nostro rapporto con l’universo, il nostro indirizzo e, di conseguenza, il nostro essere. Qui in Italia ho avvertito la svolta del secolo. L’ho sentita vedendo sul lago, accanto alle vecchie barche a vela, i nuovi motoscafi veloci, ben sagomati, ma pur sempre macchine. Oppure quando mi capitava di andare in giro per le strade di Padova, le cui case mostrano una architettura così viva: quasi in tutte il primo piano poggia su colonne mentre il piano terreno è rientrante; queste sporgenze si collegano le une alle altre formando ai due lati della strada un colonnato ininterrotto. Ogni casa è stata costruita in proprio ma non di meno ha presieduta a queste costruzioni un profondo senso di comunità. Tutt’a un tratto ecco ergersi in mezzo ad esse un edificio moderno, gettato in cemento armato, inorganico, schematizzato, astratto e, nonostante tutta la sua funzionalità, barbaro.32

Il terzo fattore che emerge è il corrispettivo di quella chiusura della categoria della possibilità ed è più allarmante delle necessità artificiose indotte dai nuovi strumenti: la tecnica precede l’idea stessa, o meglio è considerata presupposto inscindibile dall’idea. Pensare a qualcosa, pensare un’idea vuol dire pensare già a come attuarla, a meno di voler cadere in un diffuso e comune giudizio di idealismo, di illusionismo: è ragionevole solo ciò che è fattibile secondo i modi e i tempi che — non si sa bene da chi — sono decretati possibili. Così il desiderio si assesta su un’infondata idea di equilibrio, e l’ordine della realtà, della fantasia e del potere si sovverte. Avere un’intuizione porta con sé il «come fare» e non più e non in primo luogo il perché farla, o per chi farla. Allo stesso modo comprendere il valore di una cosa, di un’attività, di una disciplina coincide sempre più con la domanda sull’utilità dell’oggetto in questione, poiché tutto si deve consumare, il valore delle cose sta nella capacità di consumabilità che hanno: «a cosa serve?»; quando la risposta a tale domanda non contempla un’utilità pratica e immediata, forse anche «primitiva» nel riconoscimento di essa come di un bisogno, essa è presto confinata nell’ambito di quelle forse anche belle per riempire il tempo libero, ma non fondamentali. (Nell’immaginario comune e sempre più in quello scolastico la poesia c’entra con la fantasia e la filosofia è buona per conoscere cosa hanno detto certi uomini del passato un poco stravaganti, per farsi qualche problema «inutile»: tutto ciò non è evidentemente indispensabile. Ma ci domandiamo: indispensabile rispetto a cosa?) L’infinità di possibilità — indubbiamente interessante e attraente — poggia sempre più su un vuoto, su una vacuità: il problema qui non è l’incremento degli strumenti ma piuttosto il fatto che il criterio per giudicare e misurare l’utilità passa (e fa passare) dall’idea della vita, cioè dal paradigma della vita e della realizzazione, a quello della sopravvivenza.

Questo iter conoscitivo investe dopo poco anche la percezione e la concezione di se stessi: pensare a sé è immaginare «come fare», come fare questa o quella cosa, come «farsi». La domanda su «come servire» è rimpiazzata da come «servirsi». Sembra venir sempre meno la domanda del perché si è al mondo, di quale sia il compito per la realizzazione personale; forse si può dire che viene meno la convinzione che la realizzazione personale passi realmente attraverso un «compito», che la vocazione sia cosa di ciascuno. Il vantaggioso progresso in materia di prevenzione, igiene, cure mediche, sicurezza, agricoltura, allevamento ecc. che la scienza e la tecnica hanno favorito non ha automaticamente coinciso con una maggiore originalità intellettiva, creativa: «Nella miseria della nostra vita — si sente dire — questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino.33

Il «migliore», quando non guarda al bene, non equivale all’ottimo, l’abbondanza non equivale alla pienezza; la grande capacità riproduttiva e distributiva portata dalla tecnica, dalla meccanica, dalla gestione organizzativa ha impresso su ogni cosa la stessa traccia: è possibile trovare rapidissimamente ciò che si cerca, rispondere a ciò che serve, ma non è possibile sostenere una speranza, pacare la smania, saziare la noia, «produrre» la pace: «Il mondo è diventato più profano. Malgrado tutta l’importanza della conoscenza scientifica e della produzione tecnica, l’esistenza si è essenzialmente appiattita».34 Il desiderio di pienezza appare ancor meno plausibile quando vuole tradursi in un progetto concreto, nella volontà e nella convinzione di intraprendere un’opera di cui non è possibile immaginare degli effetti quasi immediati, una «risoluzione» in tempi brevi (di cui invece la storia, la storia dell’arte, la letteratura, la musica offrono significativi esempi): desterebbe un certo disorientamento un odierno settantunenne (qual era al tempo Michelangelo Buonarroti) che decidesse di progettare una maestosa cupola di San Pietro sapendo che non riuscirà certamente a vederne la fine.

Quanto più decisamente si razionalizza l’esistenza, quanto più questa razionalità diviene una componente generalizzata della cultura, tanto più forte deve avvertirsi il sentimento che l’esistenza non presenti alcun «mistero», ma solo «problemi» che potranno risolversi scientificamente. Lo stesso effetto viene esercitato dalla tecnica. Questa è la somma dei metodi con cui l’uomo può conseguire i propri fini, produrre ciò di cui abbisogna, «costruirsi» il proprio mondo. Quanto più forte e ovvia diviene la consapevolezza che, con i mezzi razionali-tecnici, ci si può procurare a volontà ciò che attiene alla sicurezza e allo sviluppo della propria esistenza, tanto più, nel sentimento della vita, le cose e gli avvenimenti si riducono all’elemento logico-tecnico. La dimensione dell’irrazionale, del concesso, del gratuito va perduta.35

Da tutte queste osservazioni emerge un dato utile: se la macchina è andata man mano soggettivandosi, al contempo l’uomo si è oggettivato; non è particolarmente difficile notare una certa ossessione per le cose di contro ad una pallida premura per le persone e per il dato di fatto problematico della «persona». Dinanzi alla progressiva strutturazione dei singoli e degli impressionanti risultati in materia di potenzialità comunicativa, sembra si debba tuttavia ammettere una sempre maggiore solitudine esistenziale: essa è per Guardini il tratto peculiare dell’«uomo di massa», che è l’uomo con innumerevoli contatti ma privo di legami, la «polvere umana»36 e su cui la logica totalitaria si sostanzia. Quando la coscienza personale è mercificata in una società impersonale, l’uomo diviene un concentrato di contraddizioni che non sostengono ma tradiscono la sua originaria struttura oppositiva. E laddove la sfera privata si allontana da quella pubblica, proprio a partire dagli aspetti che nella relazione tra le due sarebbero capaci di offrire un reciproco arricchimento, questo divorzio non si traduce neppure in una effettiva autonomia dello spazio privato, perché, afferma Guardini, «è in atto una generale pubblicizzazione dell’esistenza. […] Dappertutto la sfera pubblica penetra nella privata; dappertutto viene dato in pasto al pubblico ciò che invece dovrebbe essere protetto».37 Alla comunità si sostituisce la collettività, all’unità l’aggregazione; la capacità di raggiungere facilmente cose e persone non riesce a restituire l’unica risposta soddisfacente, vale a dire l’intima certezza di sapere chi e cosa vale la pena raggiungere.

Il venir meno della verità per la coscienza si traduce nell’impoverimento di una possibilità di appartenere, di essere e fare parte liberamente di qualcosa, di una società; e ancora in questo senso il primo passo per la disgregazione della persona, cioè della sua libertà, è sradicarla da ciò cui appartiene, vale a dire sradicare o ridurre la verità che essa ha a cuore. L’ondivaga «massa» che Guardini prende in esame non può di fatto volere nulla; è legata alla pianificazione e alla progettualità, in essa non c’è spazio per la gratuità: soprattutto non c’è spazio per il «dato», al posto del quale si erige l’organizzazione, l’artificialità, gli effetti speciali.

La dimensione collettiva in cui viene a mancare la coscienza individuale, in cui vi è la «perdita di contatto fra uomo e uomo» non sa bene dove poggiare; essa si è stratificata in un orizzonte assoluto, senza però essere assoluta. Deve tenere insieme i pezzi del mondo che ha edificato e anche di ciò che non può eliminare e da cui non può prescindere; tutto ciò richiede un impegno non facilmente sostenibile: l’uomo di massa è, per tale ragione, il tratto distintivo di quella che Guardini definisce «la fine dell’epoca moderna». Quattro sono i momenti (rispettivamente tre «cause» e un effetto) che avevano caratterizzato tale epoca: la tecnica perfetta, il grande numero, il benessere assoluto, la chiusa compattezza del mondo: «Ma l’uomo con il suo destino è davvero presente alla coscienza di coloro che determinano il corso dell’evoluzione tecnico-scientifica?».38

La crisi è la condizione in cui si decide tra le possibilità positive e negative; in questo senso «il potere» esemplifica ottimamente tale condizione, poiché esso non è cattivo o buono di per sé, ma secondo l’uso cui si piega. E per questo è necessario tornare alla natura dell’essere, tornare a porre in modo radicale la domanda sul lavoro, sulla proprietà, sul significato del governare; ciò che Guardini scriveva qualche decennio fa sembra essere profetico e trova oggi incarnazione in forme differenti, in taluni casi esasperate; le riflessioni sui «modi» e sull’eticità del progresso tecnologico, le controversie su problemi disparati — che si tratti del diritto di famiglia, delle «differenze di genere» nella politica e nella società, delle disposizioni in materia di salute, aborto, eutanasia — continuano a risultare parziali e inconcludenti. L’approccio di Guardini appare ragionevole perché teso a comprendere l’origine e l’insieme dei problemi particolari: discutere in generale di qualsivoglia stato di diritto non può prescindere dal suo necessario contro-polo: lo «stato di dovere», la comprensione della responsabilità individuale e sociale, la chiarezza sui confini entro i quali il diritto può esser detto tale. In sintesi, il problema della libertà. Osservare la fine dell’epoca moderna vuol dire guardare da vicino la percezione innegabile di pericolo che l’uomo ha avuto nei confronti di quanto ha costruito; il mondo, sempre più autonomo, si è rivolto ad un uomo che non era ancora pronto, che non esisteva ancora. Ridottasi la fede nel progresso infinito, l’uomo comprende la vertiginosa potenzialità distruttiva e costruttiva del potere da lui avviato, e comprende allora di dover nuovamente imparare a decidere, ad agire responsabilmente e liberamente. Non è facile delineare i tratti di come quest’uomo o quest’ordine ideale dovrebbero potersi concretizzare senza cadere nell’idealizzazione astratta: bisogna, per Guardini, raccogliere indizi, tentativi, sviluppi e fatti che la storia ha offerto, leggere la storia in una visione quanto più possibile unitaria e significante, rispondere «francamente un energico “sì” e accingerci risolutamente».39

Si possono rilevare in tal senso tre grandi indicazioni: un nuovo «rivolgimento», una ritrovata conoscenza della verità propria e della realtà, la cui espressione è l’urgente capacità di dominare sul potere; l’educazione della coscienza, affinché avvenga la conoscenza stessa della verità e perché si possa saldare la domanda di senso che l’uomo e la vita portano; il giudizio e l’esperienza della libertà autentica, che confluisce nella capacità di una matura appartenenza, nella possibilità di una reale «cura» per l’uomo e per il mondo, nell’amore.

3. Il potere sul potere

L’uomo «oggetto» della speranza per il futuro deve in primo luogo ristabilire un rapporto originario con il potere, con la tecnica, con tutto ciò cui egli ha dato avvio e sviluppo senza però mantenere stretto il legame vitale con sé, il legame funzionale e il valore gerarchico: alla spasmodica ricerca del progresso deve subentrare e affiancarsi la potenza sul potere, il dominio che presuppone un ethos differente da quello del potere o da qualsivoglia suo surrogato (utilità, garanzia, produttività). «Dobbiamo nuovamente imparare che il dominio del mondo presuppone il dominio di noi su noi stessi; come potranno gli uomini controllare l’immenso potere che cresce ininterrottamente fra le loro mani se non sanno formare se stessi? Come potranno prendere delle decisioni politiche o culturali, se vengono a mancare continuamente di fronte a se stessi?»40

Occorre ristabilire un rapporto intelligente e libero con le cose di cui l’uomo dispone e che forgia, crea: soprattutto un rapporto in cui vi sia chiarezza circa la natura e la funzione dell’uno (l’uomo) e dell’altro (la cosa, lo strumento), del loro valore, del loro rispettivo ordine. Quando quest’ordine viene sovvertito, si aggiunge a quanto già osservato una duplice alternativa: la nostalgia per il passato o un avvilito giudizio sul presente e sul futuro. L’originalità dell’analisi di Guardini consiste anche nel fatto di aver fronteggiato e di gran lunga superato entrambe queste posizioni, mostrando come la verità è possibile e deve essere necessariamente riscontrabile nella condizione presente e reale.

Il nostro posto è nel divenire. Noi dobbiamo inserirvici, ciascuno al proprio posto. Non dobbiamo irrigidirci contro il «nuovo», tentando di conservare un bel mondo condannato a sparire. E neppure cercare di costruire in disparte, mediante una fantasiosa forza creatrice, un mondo nuovo che si vorrebbe porre al riparo dai danni dell’evoluzione. A noi è imposto il compito di dare una forma a questa evoluzione e possiamo assolvere tale compito soltanto aderendovi onestamente; ma rimanendo tuttavia sensibili, con cuore incorruttibile, a tutto ciò che di distruttivo e di non umano è in esso. Il nostro tempo è dato a ciascuno di noi come terreno sul quale dobbiamo stare e ci è proposto come compito che dobbiamo eseguire.41

La percezione del tempo è tutt’uno con la percezione della responsabilità e con l’aspirazione alla realizzazione che ciascuno persegue; di fronte ad esso bisogna stare a partire dalla propria complessiva umanità: «nostro sangue e nostra anima, questo è il nostro tempo».42 L’evoluzione — e la medesima mentalità su cui si riflette — non ha nulla di anticristiano; può esserlo la mentalità a partire dalla quale si dispiega, possono esserlo le modalità in cui si sviluppa, ma non la scienza in assoluto, poiché essa nasce anzi da una posizione religiosa: l’uomo che abbia riconosciuto la salvezza della sua anima fuori dalla mera natura può spingersi e si è spinto oltre le certezze offerte dalla natura stessa, non tornandone annientato. Eppure il moto iniziale non è sufficiente a garantire la persistenza di una domanda e di una ricerca instancabilmente votate alla verità e di un positivo esito morale. Non si tratta allora di negare il «nuovo» né di obbedirvi ciecamente, ma di attraversarlo, imbattervisi profondamente: «attraverso gli avvenimenti dell’esistenza passa l’orientamento verso la nuova creazione, nella quale l’uomo nuovo vive […] tanto più fortemente e puramente, quanto più diverranno limpida la sua fede e audace il suo amore».43

L’elaborazione delle potenze e delle potenzialità deve poter seguire un ordine riferito all’uomo, e proprio per questo deve «partire» dall’uomo; ma anche l’uomo dev’essere un «uomo nuovo», capace di libertà e creatività, capace di forgiare il mondo perché in esso riconosce i nessi con la propria stessa essenza vitale: questa è l’unica possibilità di un atteggiamento costruttivo non formale — e durevole — verso le cose, poiché la persona è in tale battaglia protagonista e destinataria. Occorre sostanzialmente decidere se percorrere la strada della demagogia o quella della ricerca dei modi essenziali della realtà. Per questo

non abbiamo bisogno di ridurre la tecnica, ma, al contrario, di accrescerla. O meglio: ciò che ci occorre è una tecnica più forte, più ponderata, più «umana». Ci occorre più scienza, ma che sia più spiritualizzata, più sottomessa alla disciplina della forma; ci occorre più energia economica e politica, ma che sia più evoluta, più matura, più cosciente delle proprie responsabilità, che discerna il particolare nei complessi di cui esso fa parte.44

3.1. Educazione e Università: una «comunicazione da cuore a cuore»

Il senso delle idee comprese o in generale sviluppate non può e non deve trascurare la domanda sulla possibilità attraverso cui tali idee possono realizzarsi, concretizzarsi o anche essere smentite. L’opera e la vita stessa di Guardini sono attraversate da quell’«ansia per l’uomo» che, nell’originale tedesco Sorge, ha lo stesso significato della «cura», della possibilità di prendersi cura dell’uomo. Egli costantemente ha dovuto porsi davanti a persone vive, il cui animo non richiedeva ricette pronte all’uso ma l’intimo desiderio di un rapporto umano, di un’iniziativa reale, di un comune e fecondo lavoro. L’Università e l’educazione sono per Guardini espressione di quell’orizzonte di significato, in cui può cominciare a realizzarsi la responsabilità di uno (dello studente) nei confronti della cultura: «Vorrei aprire per così dire occhi nuovi per vederlo in modo nuovo; vorrei rendere ognuno consapevole di una forza creatrice del suo intimo, finora depressa dal «discredito dell’obbedienza». Quindi aiutare non a dimostrare, ma a vedere in modo nuovo».45

Al sistema dell’istruzione è stato inferto il grave colpo del divorzio dalla vita. Rispetto a ciò Guardini ha dato, nella sua lunga e profonda esperienza accademica, grande testimonianza. La sua indefessa ricerca della verità, la dedizione ai problemi e ai fatti ha aperto in lui la strada ad una lealtà intellettuale e morale, alla capacità di far emergere attraverso tutto e rispetto a ciascuno la verità del momento, che si declinava nella grande capacità di ascolto, di rispetto, di risolutezza:

La vita viene destata e accesa solo dalla vita. La più potente “forza di educazione” consiste nel fatto che io stesso in prima persona mi protendo in avanti e mi affatico a crescere […] Siamo credibili solo nella misura in cui ci rendiamo conto che un’identica verifica etica attende me e colui che deve essere educato. Innanzitutto, vogliamo entrambi diventare ciò che dobbiamo essere.46

La mancanza di una simile apertura intellettuale o della capacità di incidere sulla realtà lascia il posto alle forme anche sottili di dominio, di potere, di asservimento: il «pericolo da cui tutti siamo minacciati, cioè il burocratismo — che, in realtà, è una modalità del totalitarismo nella sua corrente fredda — attinge la sua forza dall’intrinseca anarchia della nostra cultura».47 Guardini risponde affermando che solo nella solitudine come ricerca e scoperta di sé si destano le esigenze che sollecitano l’inquietudine, la ricerca delle risposte autentiche: non c’è violenza maggiore che narcotizzare nell’uomo tali domande. Il contrario del «sì» — che egli afferma essere il compito personale da assumere verso il proprio tempo — non è tanto il «no» ma piuttosto il «si dice», il «come se» che diffusamente ha conquistato spazio. L’uomo

deve lottare per la libertà e la sanità del suo interno; combattere contro il meccanismo della réclame, contro il flusso delle sensazioni, contro l’invadenza molteplice dello strepito. Deve educarsi a stabilire delle distanze, ad acquistare un’indipendenza del giudizio, resistere contro ciò che «si» dice. […] Non qualcosa di programmatico, ma ciò che di volta in volta è giusto, qui, ora […] Questo è un cammino che, percorso con onestà e coraggio, conduce molto lontano, nessuno sa quanto lontano, là dove si decidono le cose del tempo.48

4. Libertà obbligatoria

Percorrere fino in fondo e con lealtà la strada delle domande poste finor vuol dire domandarsi cosa sia la libertà, l’amore; quale senso abbia il dolore, la finitudine dell’esistenza, l’obbedienza, la fedeltà, e in che rapporto tutte queste esperienze stanno tra loro. In ultimo, cioè in primo luogo, vuol dire chiedersi cosa sia la vita, se vi sia in essa un ordine e un significato, e se tale significato sia ragionevolmente, umanamente comprensibile e affermabile. La libertà obbligatoria vuol dire due cose: la prima è la conseguenza dell’incertezza circa la risposta a quelle domande.49 La coscienza di una gerarchia propria della realtà viene meno quando i criteri di giudizio sono alla mercé del caso e del momento contingente, del mondo; non può che generarsi una violenza, fosse pure la violenza che mira e tenta di istituire la «libertà», o che — come nel caso dei totalitarismi storici o degli atteggiamenti totalitari molto più quotidiani che passano indisturbati — addirittura sembra esaltarla. Un solo problema: non è più libertà. Si profila allora una duplice possibilità: primo, che la libertà corrisponda ai semplici «atti liberi» (o meglio, a quelli che ciascuno considera per sé atti liberi), confluendo nelle due affermazioni altrettanto allarmanti per cui dove c’è un atto sentito libero c’è libertà, e al contempo dove non ci sono atti liberi non può esservi libertà. Essa diviene qui una somma o una sottrazione; in ogni caso una «cosa» perfettamente misurabile e identificabile poiché comincia e finisce nelle circostanze. Secondo: la libertà può farsi oggetto dell’ideologia, svuotarsi di ogni contenuto attuale, sconfinare oltre i confini dell’esperienza reale. Quando non si incarna più nell’esperienza concreta della vita dell’uomo, di un preciso uomo, ne resta solo un concetto. Sicché non è difficile che venga identificata oggi con l’uguaglianza, domani con l’indipendenza, altrove con la sovranità: viene svuotata nel momento in cui si separa dalla verità, nel momento in cui la sua stessa verità diviene un valore mercificabile, opinabile. Questa libertà si fa strumento del potere di volta in volta dominante, poiché ha la parvenza di un bene comune: ora ognuno gestisce a proprio modo la sua parte, ma tutti sono gestiti dalla Libertà.

Come provare l’autenticità della libertà, nelle forme in cui viene proposta? Tanto più la libertà — o qualsivoglia proposta e rapporto umano che si fondi su di essa — è vera, tanto più non teme la realtà: piuttosto la interroga, include, interagisce con la realtà in tutti i suoi fattori, continuamente verificandosi, correggendosi, ricominciando. Essa non ha nulla da «difendere», ma accade. Tutto il resto è libertà obbligatoria, che abolisce formalmente le differenze (ineliminabili) per apparire più raggiungibile, più universale, dimentica del fatto che il rispetto, come indica la sua etimologia (respectŭs, da respĭcĕre), è «guardare di nuovo», ma guardare quello che c’è e non un impegno verso quello che ci dovrebbe essere o che non c’è ancora. Livellare le differenze o confonderle è la via per l’oppressione, per la defraudazione dalla propria e altrui vita. Il rispetto, al contrario della tolleranza, non abiura le differenze ma le attraversa, perché al suo fondamento non vi è l’equilibrio (o meglio l’equilibrismo della convivenza civile) ma la verità: la prima verità da cui esso nasce e in cui permane è che ciò che ha davanti è «dato». Quanto più germoglia questa coscienza, tanto più è possibile anche la convivenza, ma una convivenza capace di accogliere: «Noi vogliamo far sì che il nostro cuore divenga lieto. Non allegro, che è qualcosa di completamente diverso. Essere allegri è un fatto esterno, rumoroso, e presto si dissolve. La gioia invece vive nell’intimo, silente, è profondamente radicata. Essa è la sorella della serietà; dove è l’una, è anche l’altra».50

La verifica della libertà autenticamente vissuta e realizzata è una imprevedibile, «ingiustificabile» e incalcolabile originalità, vale a dire la capacità di rispondere alla realtà e alla storia superando la pura logica dell’azione-reazione ma di fatto facendosi portatori di un elemento nuovo, di una posizione differente.

Ogni cosa viva, essere od opera o azione, è in ultima analisi cosa nuova. In essa non è stato adattato qualcosa di preesistente, ma generato qualcosa di nuovo. Essa non realizza schemi dati, ma ci mette davanti ciò che non era mai esistito. Ogni cosa viva esiste una volta sola. Vivere significa creare. E tanto più viva è la vita, quanto più è creatrice. Tanto più originale, quanto più c’è di sorgivo in essa […] . Vita è fecondità. E tanto più è viva la vita, quanto più è grande la sua forza di presentare ciò che ancora non esiste; […] quanto più puramente nuovo è ogni attimo; quanto più tutto è inizio. […] Nell’essere interamente vivo non ci sarebbe mai nulla puramente «là», tutto sarebbe appena creato. […] L’ultimo sigillo della vitalità è la forza d’essere, ad ogni istante, nuova. D’essere sempre più ricca di quanto ha già realizzato […], di spendersi fino alla povertà.51

Il secondo significato di «libertà obbligatoria» è questo: l’urgenza, l’obbligo di un richiamo alla dimensione propria in cui l’uomo può e deve inverarsi. Qui si giunge all’ultima indicazione, in cui tutto quello che finora è stato osservato trova spazio, necessità, e che sinteticamente si potrebbe esprimere con le parole stesse di Guardini, quando afferma che «nell’esperienza di un grande amore […] tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito».52

4.1. Amore e benessere: qual è la legge della vita?

La libertà è il presupposto dell’amore perché solo un essere libero può essere se stesso pur nel sacrificio di sé, nell’uscita da sé che va verso l’altro; l’amore, poi, è la forma più profonda della libertà, poiché in esso accade l’inimmaginabile: l’uomo che sempre e solo si autoappartiene, che ha in sé il suo centro, si riscopre, scopre di «essere» ancora di più nell’istante in cui l’altro — la persona amata — diviene più importante di se stesso. Guardini lo chiama l’«amore decentrante». Questa esperienza si insinua in tutto l’essere, in tutta la vita, poiché «essa è come contenuta in tutto, tutto la fa ricordare, a tutto essa dà un senso».53 L’amore esige la libertà perché in essa si può esperire l’altro e intraprendere un’azione personale: ancora a fondamento vi è l’opposizione polare. Come potrebbe cominciare e svilupparsi un amore se non potesse incarnarsi in una unità che è al tempo stesso costituita dalla differenza?

amare significa scorgere la struttura di valore nell’ente diverso da sé, […] avvertire la sua validità, sentire che è importante che esso sussiste e si sviluppi; essere preso dalla sollecitudine per questa realizzazione come per una cosa propria. Chi ama passa continuamente nella libertà.54

Dal grado di dedizione, fedeltà, passione per questa libertà dell’altro, è possibile scorgere qual è il fondamento sopra il quale il rapporto è nato e vive, su cui la persona stessa si sostiene. Nessuna esperienza più dell’amore è capace di mostrare come nulla che voglia restare vivo può continuare, ma può solo ricominciare continuamente; così, se nell’esperienza di un grande amore tutto ciò che avviene diventa un avvenimento, al contempo si deve dire che fuori dall’esperienza di un grande amore nulla di quanto accade diviene un avvenimento. Al vuoto di questa «mancanza di vita» si propongono agevoli sostituti, ingannevoli cambiamenti incapaci di generare la bellezza, poiché questa — afferma Guardini — è l’espressione dell’amore realizzato. La vera decisione, la domanda in cui si gioca si identifica probabilmente in quale sia la legge vera della vita: il bene e la sua insonne, inquieta e instancabile ricerca, che si traduce nella percezione di dover in qualche modo «custodire» il mondo; oppure il benessere, o meglio il «benestare» e la sua non immediata ma rassicurante conquista. La vita e il contributo intellettuale di Romano Guardini sono stati una significativa testimonianza della prima possibilità, attraverso il passaggio dalla ricerca e dalla conoscenza della verità all’esperienza del vero. Egli lo descrive così:

Mi era divenuto a grado a grado chiaro che v’è una legge secondo la quale l’uomo, quando «conserva la sua anima», cioè rimane in se stesso e accetta come valido soltanto ciò che gli appare immediatamente evidente, perde la sua realtà essenziale. Se vuole invece giungere alla verità e nella verità al suo vero se stesso, allora deve donarsi. […] Io sedetti dinanzi al mio tavolino, e il mio pensiero procedette: dare la mia anima, ma a chi? Chi è in grado di chiedermela? Di chiedermela in modo che non sia ancora io che la prendo in mano? Non semplicemente «Dio», poiché quando l’uomo vuole avere a che fare soltanto con Dio, allora dice «Dio» ma intende se stesso. Deve perciò esserci un’istanza oggettiva, capace di trar fuori la mia risposta da ogni nascondiglio dell’affermazione di sé. […] . La questione del dare o conservare la propria anima viene decisa in ultima analisi non dinanzi a Dio, ma dinanzi alla Chiesa. Allora mi sentii nell’animo come se portassi nelle mie mani tutta, ma veramente tutta la mia esistenza, come su una bilancia che fosse in equilibrio: «Posso farla pendere a destra o a sinistra. Posso dare la mia anima o tenerla». […] L’istante fu del tutto silenzioso: non fu né una scossa, né una illuminazione, né una qualche esperienza di particolare riverbero emotivo. Fu la chiara convinzione: «È così» — e il moto impercettibilmente sommesso: «Così dev’essere!». […] Era risuonata la parola direttiva: «La maggior chance di verità è là, dov’è la maggior possibilità di amore».55


  1. Romano Guardini, Der Gegensatz. Versuche zu einer Philosophie des Lebendig-Konkreten, Matthias Grünewald, Mainz, 1925; tr. it. L’opposizione polare. Saggio per una filosofia del concreto vivente, Morcelliana, Brescia 2007, Premessa alla seconda edizione (1955), p. 29. ↩︎

  2. L’opposizione polare, cit., p. 85. ↩︎

  3. Ibid., p. 116. ↩︎

  4. Ibid., p. 23. ↩︎

  5. Romano Guardini, Das Ende der Neuzeit: ein Versusch zur Orientierung, Basel 1950; insieme a Die Macht. Versuch einer Wegweisung, Würzburg 1952; tr. it. La fine dell’epoca moderna. Il potere, Morcelliana, Brescia 2007, p. 79. ↩︎

  6. Romano Guardini, Briefe vom Comer See. Die Technik und der Mensch, Matthias Grünewald, Mainz 1990; tr. it. Lettere dal lago di Como, Morcelliana, Brescia 1993, p. 28. ↩︎

  7. L’opposizione polare, cit., p. 117. ↩︎

  8. Ibid., p. 151. ↩︎

  9. Ibid., p. 141. ↩︎

  10. Enrico Santini, Esistenza ed opposizione. Ermeneutica della libertà in Romano Guardini, Dehoniane, Roma 1994, p. 96. ↩︎

  11. Romano Guardini, Der Mensch. Grundzüge einer christlichen Anthropologie; tr. it. L’uomo. Fondamenti di un’antropologia cristiana, in Opera omnia III/2, Morcelliana, Brescia 2009, p. 166. ↩︎

  12. Romano Guardini, Welt und Person: Versuche zur christlichen Lehre vom Menschen, Werkbund Verlag, Würzburg 1939; tr. it. Mondo e Persona. Saggio di antropologia cristiana, Morcelliana, Brescia 2000, p. 138. ↩︎

  13. L’opposizione polare, cit., p. 171. ↩︎

  14. Romano Guardini, Die Lebensalter: Ihre ethische und pädagogische Bedeutung, Werkbund, Würzburg 1959; tr. it. Le età della vita. Loro significato educativo e morale, Vita e Pensiero, Milano 2003, p. 79. ↩︎

  15. L’opposizione polare, cit., p. 107. ↩︎

  16. Romano Guardini, Die Annahme seiner selbst: Den Menschen erkennt nur, wer von Gott weiß, Matthias Grünewald, Mainz 1987; tr. it. Accettare se stessi, Morcelliana, Brescia 1993, p. 17. ↩︎

  17. L’opposizione polare, cit., p. 235. ↩︎

  18. Lettere dal lago di Como, cit., p. 92. ↩︎

  19. Romano Guardini, Die Macht. Versuch einer Wegweisung, Werkbund-Verlag, Würzburg 1951; tr. it. Il potere. Tentativo di un orientamento, Morcelliana, Brescia 1963, p. 111. ↩︎

  20. Pierre Teilhard de Chardin, Il fenomeno umano, Il Saggiatore, Milano 1980, p. 311. ↩︎

  21. Sul limite della vita, cit., p. 41. ↩︎

  22. Romano Guardini, Tre scritti sull’Università, Morcelliana, Brescia, 1999, p. 58. ↩︎

  23. Il potere, cit., pp. 78-82. ↩︎

  24. Romano Guardini, Sorge um den Menschen, Werkbund-Verlag, Würzburg 1966; tr. it. Ansia per l’uomo, Morcelliana, Brescia, 1969, p. 59. ↩︎

  25. Il potere, cit., p. 66. ↩︎

  26. Ibid., pp. 75-76. ↩︎

  27. Ibid., pp. 117-118. ↩︎

  28. Ibid., p. 56. ↩︎

  29. In un frammento tratto da Il denaro, Charles Péguy scrive: «Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore assoluto, come si addice ad un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore esigevano che la gamba fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali. […] Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o di non essere visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto». ↩︎

  30. Il potere, cit., p. 56. ↩︎

  31. Interessante a questo riguardo è il parallelo sentire di Paul Valéry, il quale scrive: «Smarrito in lunghe attese, mi ritrovo per le sorprese che mi cagiono e, attraverso questi gradi successivi del mio silenzio, procedo nell’edificazione di me stesso, mi accosto a così fedele rispondenza tra aspirazioni e facoltà mie da credere d’aver trasformato l’esistenza che mi fu data in una specie d’edifizio umano. Tanto costrussi — fece sorridendo — da credere d’essermi anch’io costruito». Paul Valéry, Eupalino o l’architetto, Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1986, p. 33. ↩︎

  32. Lettere dal lago di Como, cit., p. 31. ↩︎

  33. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 2008, p. 35. ↩︎

  34. Sul limite della vita, cit., p. 65. ↩︎

  35. Ibid., p. 63. ↩︎

  36. Romano Guardini, Sorge um den Menschen, Werkbund, Würzburg 1966; tr. it. Ansia per l’uomo, Morcelliana, Brescia, 1969, p. 27. ↩︎

  37. Ivi↩︎

  38. Ibid., p. 60. ↩︎

  39. Sul limite della vita, cit., p. 10. ↩︎

  40. Il potere, cit., p. 127. ↩︎

  41. Lettere dal lago di Como, cit., p. 91. ↩︎

  42. Ibid., p. 95. ↩︎

  43. Mondo e persona, cit., p. 228. ↩︎

  44. Lettere dal lago di Como, cit., p. 99. ↩︎

  45. Romano Guardini, Vom Sinn des Gehorchens (1920), in Auf dem Wege, Matthias Grünewald, Mainz 1923, pubblicato poi in Wurzeln eines großen Lebenswerks. Aufsätze und kleine Schriften, Grünewald/Shöningh 2000 e 2001, 2 voll.; tr. it. Il senso dell’obbedienza, in Opera Omnia VI, Scritti politici, Morcelliana, Brescia 2005 p. 20. ↩︎

  46. Romano Guardini, Persona e libertà. Saggi di fondazione della teoria pedagogica, a cura di C. Fedeli, La Scuola, Brescia, 1987, p. 223. ↩︎

  47. Romano Guardini, Tre scritti sull’Università, cit., p. 67. ↩︎

  48. Il potere, cit., pp. 128-130. ↩︎

  49. Pur considerando tali problemi in un’ottica generale perché presenti in ogni tempo, non si può trascurare il fatto che le riflessioni e le osservazioni sulla libertà appartengono al periodo tra le due guerre e del secondo dopoguerra, in cui la percezione della fatica e del dramma è notevolmente viva e l’impegno accademico chiede anzitutto una chiara posizione educativa, spirituale, esistenziale. ↩︎

  50. Sul limite della vita, cit., p. 7. ↩︎

  51. L’opposizione polare, cit., p. 59. ↩︎

  52. Romano Guardini, Das Wesen des Christentums, Werkbund-Verlag, Würzburg 1938; tr. it. L’essenza del cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1980, p. 12. ↩︎

  53. Ivi↩︎

  54. Mondo e persona, cit., p. 154. ↩︎

  55. Romano Guardini, Berichte über mein Leben: Autobiographische Aufzeichnungen, Patmos, Düsseldorf 1984; tr. it. Appunti per un’autobiografia, Morcelliana, Brescia 1986, pp. 91-92. ↩︎