Guido Cusinato, La totalità incompiuta. Antropologia filosofica e ontologia della persona, FrancoAngeli, Milano 2008, pp. 336.
Qual è il rapporto fondamentale tra uomo e mondo vitale, tra realtà sociale e realtà biologica? Esiste un tratto specifico che possa appartenere esclusivamente all’essere umano e che ci consenta, per parafrasare il titolo di una celebre conferenza di Max Scheler, di comprenderne la posizione nel cosmo? Chi è la persona? A un orientamento di queste domande cruciali e proprio sulla scia di un trasparente influsso del pensiero scheleriano e di motivi schellinghiani, ripresi con grande originalità, è teso il recente lavoro di Cusinato che spazia dall’analisi dell’antropologia filosofica alla teoria dei sistemi, fino alle questioni più rilevanti della attuale neurobiologia.
Il volume si distingue in due parti. La prima è dedicata a una approfondita ricostruzione dei temi portanti dell’antropologia filosofica novecentesca in cui sono da segnalare alcune direttive di ricerca rimaste finora completamente inesplorate, come l’influsso della filosofia della natura di Schelling e le convergenze verso la nuova teoria dei sistemi, e inoltre una grande attenzione pure ad autori apparentemente secondari come ad es. Paul Alsberg. Il tutto riprendendo aspetti già trattati da Cusinato in precedenti lavori, come quelli relativi all’eros platonico e al confronto con Nietzsche. Il quadro che ne emerge — in una ideale convergenza fra le prospettive di Max Scheler e dell’ultimo Foucault — è quello di un’antropologia filosofica non riduzionistica e non antropocentrica costretta a ripensare l’uomo, inteso come sistema aperto, a partire dalla sua capacità di dar forma alla propria “anima” e di sviluppare i propri strati affettivi in un continuo processo di Bildung “über sich hinaus”.
La seconda parte propone un’ontologia della persona da intendersi come compimento dell’antropologia filosofica, dove la persona diventa l’essere che si caratterizza ontologicamente per la capacità di ri-nascere una seconda volta attraverso la co-attuazione dell’atto: in questo senso l’atto diventa la “cellula” metabolizzata dall’ordo amoris del sistema personale (pp. 291-296). È nella co-attuazione (Mit-vollzug) — termine che Cusinato, seguendo Filippone-Thaulero, privilegia all’interno della terminologia scheleriana rispetto a quello di attuazione o esecuzione (Vollzug) — dell’atto che la persona dà forma alla propria anima ed è proprio tale processo di Umbildung, di «deviazione ontologica», a esprimere e distinguere la propria “essenza” (cfr. “principio di espressività”, pp. 284-290). Caratteristica della persona sarà allora quella di trascendere la chiusura operativa, tipica dei sistemi autopoietici e capace qui di tracciare il confine fra persona e Io, in direzione di una “compartecipatività” solidaristica. Sorprendentemente la persona esprime e incrementa la propria individualità non nella misura in cui si chiude, isolandosi nella riproduzione all’infinito della propria logica (come avviene invece nei sistemi psichici e organici), ma nella misura in cui si apre all’azione maieutica dell’esemplarità altrui. È la maieutica compartecipativa che aiuta la persona a partorire quella forma che non scaturisce dalla dimensione biologica e che caratterizza la persona come ente ontologicamente innovativo. Ed è proprio la ricerca di questa “nuova forma”, processo non solipsistico ma “solidaristico” di rettificazione, superamento, tras-formazione, Umbildung e rovesciamento del proprio egocentrismo, a risultare uno dei principali Leitmotiv del libro.
L’incipit è il tema nicciano dell’eccedenza dionisiaca, di una sovrabbondanza vitale che esprime un grado di potenza irriducibile «non solo alla filosofia del soggetto ma pure al vitalismo, all’utilitarismo e al principio di piacere» (p. 22). Ma dove situare questa eccedenza? L’uomo, nell’analisi di Nietzsche, è ciò che bisogna oltrepassare, è l’animale malato alle cui carenze organiche sopperisce l’abilità dell’intelletto e il cui esito sociale è la moderna Zivilisation, il predominio della dimensione tecnico-scientifica sulla creatività vitale, dimensione di cui, seppure in un ottica profondamente diversa, già Kant aveva acutamente evidenziato le carenze essenziali. La domanda consequenziale è quella che s’interroga oltre Nietzsche e oltre il nichilismo — ma senza cedere a facili seduzioni idealistiche — sulla possibilità di individuare uno spazio di trascendenza tramite cui riformulare la possibilità di una nuova antropologia filosofica.
Tali questioni vanno necessariamente ricondotte, secondo l’autore, all’interno di un ontologia della persona che non vuole porsi in alternativa alla caratterizzazione psichico-organica dell’uomo ma intende invece mostrare la possibilità del metabolismo di tale livello in nuova dimensione eccentrica, quella dello spazio personale. Di questo spazio di trascendenza, Cusinato mette in risalto l’eccedenza creativo-vitale dell’essere personale nel suo tendere verso una illimitata apertura relazionale di compartecipazione alla realtà altrui, proponendo di ripensare radicalmente la distinzione tradizionale tra il piano psichico e quello spirituale. In questo senso è del tutto pertinente il richiamo al prendersi cura di sé, all’epimeleia del pensiero antico, magistralmente trattata da Foucault nel celebre corso al Collége de France del 1982. Anche sulla base di questi motivi mi sembra di notevole interesse che la discussione di Cusinato proponga di uscire dall’individualismo egocentristico (paradossalmente, del tutto alienabile dalle tecniche di manipolazione e controllo sociale), ponendo come centrale la questione della Bildung della persona. Solo attraverso l’approfondimento di tale questione può emergere l’espressione di un orientamento controfattuale rispetto al conformismo sociale e alternativo sia alle prospettive del relativismo che a quelle dell’assolutismo etico.
All’inverso dell’io psichico, è nella co-attuazione (Mitvollzug) dell’atto — secondo la celebre definizione di Scheler — che l’essere personale rivela se stesso e la possibilità autentica dell’accrescimento qualitativo della propria identità individuale. Piano psichico-vitale e piano spirituale-personale vanno quindi necessariamente distinti, ma ciò non significa che vi sia dicotomia: del tutto sterile risulta a riguardo la tradizionale opposizione tra natura e spirito, che tanto successo aveva avuto nelle interpretazioni scheleriane. Seguendo la Stufenfolge della filosofia della natura di Schelling e l’antropologia filosofica di Scheler, l’autore riprende la teoria di un’autocrescita spontanea dell’essere biopsichico, il quale, attraverso un graduale processo autopoietico, trasforma sé stesso metabolizzando il proprio ambiente e conservando, allo stesso tempo, il proprio carattere essenziale di totalità organica: la coscienza egologica, l’io psichico, non è che l’esito finale estremamente complesso di tale sistema autoreferenziale organico (cfr. soprattutto i §§ 5 e 6). Rispetto a questa Stufenfolge della centricità organica il livello personale si pone però come una e vera e propria rivoluzione ex-centrica, piuttosto che raffigurarsi come il suo apice.
La fondamentale prospettiva scheleriana di cui Cusinato si appropria, e attraverso cui nei fatti si differenzia qualitativamente dalle altre filosofie della persona recentemente proposte, è quella agapica. In tale prospettiva, l’essere personale emerge oltre quella tensione al rafforzamento dell’equilibrio nel proprio ambiente (Umwelt) che caratterizza la pulsione vitale (Drang), e oltre le strategie miranti al successo sociale, tipiche dell’Io: la persona scopre il proprio radicamento nell’apertura al mondo (Weltoffenheit) come relazione disinteressata di compartecipazione solidaristica all’esemplarità dell’altro in una serie di atti che sono svuotamento kenotico dalle azioni volte all’appropriazione e al dominio in cui si costituisce invece, al contrario, l’identità egocentrica.
All’autore non sfuggono le innumerevoli aporie — soprattutto nella fase finale del pensiero scheleriano — legate al tentativo di mediare l’elemento erotico-vitale dell’amore con quello agapico-spirituale, e soprattutto l’enigma di come dall’energia vitale possa originarsi quello stravolgimento rivoluzionario che si traduce poi in una sorta di quiete spirituale (il controverso tema nell’ultimo Scheler dell’integrazione-correlazione tra impulso vitale e spirito, tra Drang e Geist). Oltre tali difficoltà resta però centrale, nella metamorfosi dello psichico nello spirituale, il principio agapico come rettificazione spirituale, come continua tensione organizzativa della trama dei valori personali, del loro reciproco equilibrio e all’accrescimento qualitativo delle relazioni interpersonali che essi mettono in gioco. Sulla base di questo intreccio anche le questioni etiche assumono un peso differente sia oltre le posizioni relativistiche che quelle assolutistiche. Di qui la distinzione proposta dall’autore fra un’etica materiale volta al prendersi cura di sé e una morale normativa volta alla mera riproduzione del consenso sociale: non è la regola esteriore ma il contagio dell’esempio (Vorbild) della vita felice ciò che mette in risalto l’inesauribile ricchezza dell’essere personale.
È il tema straordinario dell’ordo amoris, la cui fecondità è intensamente metabolizzata dal lavoro di Cusinato, che tra l’altro, a mio parere, ha il merito di metterne in risalto una delle caratteristiche essenziali, vale a dire il nesso motivazionale inscindibile che sussiste tra Wissen e Bildung, tra l’autentico sapere, la sua condivisione e la formazione personale. Sullo sfondo del problema della relazione tra sapere e formazione personale, l’autore mette in luce come Scheler individui «il nodo nevralgico attorno a cui si costituisce la società umana nell’organizzazione della produzione distribuzione e trasmissione non tanto dei beni di consumo bensì del Wissen. […] È dunque la “funzionalizzazione del sapere” ciò che distingue l’ambiente artificiale umano da quello degli altri esseri viventi» (p. 155). Cusinato sottolinea la fondamentale importanza della questione della «centralità della distribuzione sociale del sapere» pur criticando i limiti in Scheler dell’aspetto elitario di tale funzionalizzazione «dall’alto verso il basso», (p. 156). La contrapposizione tra Kultur e Zivilisation — che in termini scheleriani si traduce nell’opposizione tra la dimensione personale spirituale e quella tecnico-pratica dell’homo faber — si rivela però del tutto insoddisfacente. Per Cusinato, «Scheler non si rende conto che nella civilizzazione avviene un fenomeno di “mutazione genetica”: non è vero che la civilizzazione sia un caso particolarmente sviluppato d’adattamento animale, piuttosto la civilizzazione utilizza i risultati e le logiche della Weltoffenheit. […] L’homo faber è l’uomo che ritorna sui propri passi e si trasforma nella “scimmia tecnologica”. […] La duplicità della civilizzazione si esprime in un’eccedenza dei mezzi sui fini: in una “animalità” dei fini (sopravvivenza, dominio) ottenuta attraverso una “umanità” dei mezzi (sapere pratico, linguaggio)». Rimane però centrale nell’antropologia di Scheler che nell’uomo vi sia una sorta di sovvertimento (Umkehrung) dell’ordine naturale: grazie alla Weltoffenheit, all’apertura radicale al mondo che lo caratterizza essenzialmente, «l’uomo è l’essere capace di compiere il passaggio dal punto di vista psichico a quello spirituale» (p. 199).
Tale passaggio è dunque Umkehrung, rivolgimento totale dell’essere umano, tragitto che sfocia nella dimensione dell’essere personale. L’abbandono della centralità dell’ego che conduce all’essere personale, è per Cusinato un processo di riduzione kathartica: è «la messa fra parentesi del punto di vista egologico, l’in-versione del processo di centricità e la con-versione verso la rottura ontologica rappresentata dalla persona» (p. 200). Nella dimensione agapica della persona avviene la rottura radicale con l’egocentrismo. L’altro, nel contagio personale si rivela come Vorbild, come esempio per il proprio orientamento e la propria tras-formazione: «nel cogliere l’altro come esempio, o nel diventare esempio, non rinuncio alla mia identità, ai miei valori, devo rinunciare però alle mie ideologie e al modo in cui si è costituita l’identità del mio io psichico», l’esempio non è il modello da imitare, «l’esempio promuove la differenza individuale, invece il modello produce livellamento» (p. 227). E per queste ragioni che Cusinato insiste sulla “compartecipatività” dell’essere personale che è qualcosa di ulteriore rispetto alla semplice partecipazione: qui la parte, l’essere singolo non smarrisce la propria identità individuale non si dissolve nella relazione con l’altro ma, al contrario, trova la propria ragion d’essere nel compimento solidaristico dell’amore spirituale che è atto e non azione, perché non impone, non uniforma, ma maieuticamente aiuta a tras-formarsi, a rinascere, facendo emergere e valorizzando le qualità individuali personali.
All’approfondimento di questi temi risulta quasi inevitabile l’attraversare il confronto tra Scheler e le fenomenologie dell’alterità (cfr. pp. 231-255) attorno al problema dell’empatia (Einfühlung). Scheler denuncia le carenze della posizione di Lipps che stigmatizza il rapporto empatico nell’immediatezza del contagio affettivo che sarebbe invece da attribuire ad un rapporto unipatico (Einsfühlung) dove l’io e l’altro risultano essere indistinti in un’unica fusione affettiva. Invece di empatia Scheler preferisce parlare — ma solo come primo grado del complesso rapporto con l’alterità — di Nachfühlen. In sostanza, per Scheler, il Nachfühlen è quel momento ripresentativo in cui rivivo in me i sentimenti altrui, che «mi mette in contatto con l’altro, ma unicamente dal mio punto di vista, in quanto non apre veramente all’alterità, ma solo a ciò che ho in comune con l’altro» (p. 238). L’empatia è allora un livello dell’esperienza personale che si mantiene ancora in superficie rispetto agli strati affettivi più profondi della relazione con l’altro, quelli della simpatia (Mit-gefühl) e dell’amore e dell’odio. In tale quadro la ripresa della polemica di Scheler con Husserl e con Edith Stein assume un rilievo senz’altro di grande interesse. Si tratta di un intreccio tematico e storiografico piuttosto articolato che ruota proprio attorno al problema dell’Einfühlung come uno dei suoi cardini principali. Va detto per inciso che una discussione approfondita del rapporto tra Husserl e Scheler su questi temi inevitabilmente influenzata dal peso interpretativo che si vuol dare al corpus ormai notevole del Nachlass husserliano (in particolare i voll. XIII, XIV, XV dell’Husserliana sull’intersoggettività), la cui importanza del resto non sfugge alle accurate analisi di Cusinato.
L’identità della persona non è dunque un’acquisizione fattuale, come non è il sostrato identico di un agire individuale, essa è piuttosto un’identità dinamica che, come si è visto, è del tutto vincolata alla realtà diacronica del proprio ordo amoris, poiché la persona è tale solo nel compimento dei propri atti che sono necessariamente compartecipativi in un divenire che scorre qualitativamente e non può mai esaurirsi: la persona in questo senso è apertura infinita. «In ogni atto è la totalità della persona a premere, ma in questa espressione è la totalità stessa a divenire e cioè a rivelarsi ontologicamente incompiuta. L’incompiutezza significa che il divenire e il processo di formazione dell’identità della persona non è concludibile ma costitutivamente aperto». Tale incompiutezza non è un limite personale ma il suo aspetto salvifico: «è lo spazio in cui può inscriversi la libertà creativa quale momentanea e intermittente connessione a una rete compartecipativa» (p. 294). A differenza dell’io psichico che deve sempre potersi riaffermare, riprodursi, agire per riconfermare il proprio ruolo sociale, la persona si salva nella deviazione ontologica, nella rettificazione: «sente che il divenire altrui, passandole accanto, può catturarla nella sua scia esistenziale, spingendola in avanti o indietro e permettendole così di singolarizzarsi nello spazio d’interazione con l’altro» (pp. 290-291). La persona pur rivelandosi come essenzialmente differente dall’io non ne è però l’annullamento perché l’io è pur sempre il centro da cui si stacca ma a cui può fare ritorno. «L’io psichico umano è in definitiva il soggetto che dirige il mio modo di vivere preminente» (p. 290), quel modo di vivere noicentrico rispetto al quale la vocazione personale è chiamata a rinascere. Vi è dunque una sorta di intermittenza soterica tra l’Io e l’essere personale. Anche questo forse è un paradosso eccentrico della persona: un costante potersi porre al bivio tra la forza della consuetudine e il disorientamento radicale dell’apertura all’alterità.