«Perché ciò che Michel Foucault ci insegna a pensare, è che esistono crisi di ragione stranamente complici di ciò che il mondo chiama crisi di follia».1
1. Il problema del cogito nella critica heideggeriana al soggettivismo
Il processo secondo cui l’essere si destina nell’oggettività degli oggetti, sottraendosi però proprio così nella sua essenza in quanto essere, determina un’epoca della nuova sottrazione. Questa epoca caratterizza l’essenza più intima di quella che chiamiamo età moderna.2
Scrive così Martin Heidegger su ciò che ha definito come il pensare dell’età moderna, pensare secondo le logiche di calcolo, di dominio: caratterizzare l’essere in quanto oggettività e volontà, approdare alla terraferma del cogito cartesiano. Difatti è con la speculazione di Cartesio che s’inaugura lo spazio storico e teoretico della ratio moderna. Egli determina per la prima volta ed esplicitamente lo spazio di dominio della ragione come dominio di rappresentazione, di un pensiero tecnico e calcolante. L’uomo moderno si trova così intrappolato nelle maglie della metafisica, nella rappresentazione, il modo di darsi dell’essere che s’identifica nella sua semplice-presenza. Si pone come soggetto che pone di fronte a sé un oggetto attraverso procedimenti tecnico-scientifici che sembrano mettergli a portata di mano il dominio incontrastato sulla terra. In questa prospettiva l’idea cartesiana di ragione si costituisce come ragione fondante, principio assoluto di certezza. Questa ragione che è fondamento assoluto, non solo è capace di auto-garantirsi, ma garantisce la verità dell’intero contenuto della rappresentazione. Ed è così che Cartesio istituisce in questi termini l’idea moderna di ragione.
Riflettere sul senso del dialogo tra Foucault e Derrida, riflettere sul senso delle loro interpretazioni sul cogito cartesiano, sul ruolo del pensare nell’età moderna non poteva prescindere dall’ouverture delle riflessioni heideggeriane concernenti la struttura essenziale del tempo della modernità che è storia della metafisica occidentale, è storia del pensiero rappresentativo, è storia del pensiero come storia della dimenticanza. Inizia con Platone, la storia del pensiero come storia d’oblio, quella che Heidegger nomina come storia della metafisica occidentale3 caratterizzata dalla dimenticanza destinale dell’essere, pensato, anzi, rap-presentato nella sua semplice presenza, riducendolo così a mero ente e annullando ogni sorta di ontologica differenza.
2. Cogito e Storia della follia: il colloquio ermeneutico fra Derrida e Foucault
Posto in luce il ruolo dell’incontro del pensiero di Heidegger con le speculazioni cartesiane che determinano l’interpretazione più radicale della soggettività del soggetto, possiamo addentrarci nell’analisi dell’incontro ermeneutico fra Derrida e Foucault e degli stessi con Cartesio. La messa in questione di Cartesio, la posta in gioco su cui riflettere, nel ri-leggere il cogito cartesiano, ovvero ciò che il percorso di questo lavoro tenterà di domandarsi, mira a seguire le indicazioni di Derrida enunciate né La farmacia di Platone:
Un testo è un testo solo se nasconde al primo sguardo, al primo venuto la legge della sua composizione e la regola del suo gioco. Un testo peraltro resta senza impercettibile. La legge e la regola non si riparano mai nell’inacessibilità di un segreto, semplicemente non si affidano mai, al presente, a nulla che si possa con rigore chiamare una percezione. La dissimulazione della tessitura in tutti i casi può impiegare secoli a disfare la propria tela. La tela che avvolge la tela. Secoli per disfare la tela. Ricostruendola anche come un organismo. Rigenerando indefinitamente il proprio tessuto dietro la traccia tagliente, la decisione di ogni lettura. Riservando sempre una sorpresa all’anatomia o alla fisiologia di una critica che credesse di dominare il gioco, di sorvegliare contemporaneamente tutti i fili illudendosi anche nel voler osservare il testo senza toccarlo, senza mettere mano sull’oggetto, senza arrischiarsi ad aggiungervi, unica possibilità di entrare nel gioco impligiandovisi le dita, qualche nuovo filo. Aggiungere non è diverso qui da far leggere. Bisogna disporsi a pensare anche questo: che non si tratta di ricamare, a meno che si consideri che saper ricamare è anche essere capaci di seguire il filo offerto. Se c’è un’unità fra la lettura e la scrittura, come facilmente si pensa oggi, se la lettura è la scrittura, tale unità non designa né la confusione indifferenziata né l’identità più pacifica; l’è che unisce la lettura e la scrittura deve venire alle mani. Bisognerebbe dunque, in un sol gesto, ma sdoppiato, leggere e scrivere.4
Provando a seguire in maniera più aderente possibile il senso del testo citato, il senso che la decostruzione — tessendo e ritessendo la tela del pensiero, aggiungendo, spostando, smontando, intrecciando fili — opera, sarà giusto domandarsi, non cosa Derrida dice di Cartesio (a proposito del testo foucaultiano), ma, piuttosto, cosa si rigenera in questa lettura? Quali fili sono disfatti, quali rintrecciati? Dove s’impigliano le riflessioni dei due filosofi francesi? Quale filo le tesse, quale le disfa?
Le riflessioni che seguono, come già chiaramente lasciava intendere il titolo di questa conferenza, prendono l’avvio del libro di Michel Foucault Folie et déraison. Histoire de la folie à l’âge classique. […] Il mio punto di partenza può sembrare sottile e artificio. In questo libro di 673 pagine, Michel Foucault dedica tre pagine — e per di più in una specie di prologo al secondo capitolo — ad un passo della prima delle Meditazioni di Cartesio, in cui la follia, la stravaganza, la demenza, l’insanità paiono — dico appunto paiono — allontanate, escluse, espulse dal cerchio di ogni dignità filosofica, private del diritto di cittadinanza filosofica, del diritto alla considerazione filosofica, revocate, immediatamente dopo esser state convocate da Descartes innanzi al tribunale, alla suprema istanza di un Cogito che, per essenza non può essere folle.5
È, quindi, proprio la Storia della follia che mette in campo la lettura derridiana del cogito6 dove Foucault denuncia che la certezza della ragione ha come sua condizione l’esclusione arbitraria e definitiva della follia e che la giustificazione di questa pratica — la storia del grande internamento filosofico della follia — si costituisce in quel passaggio della prima meditazione cartesiana, in cui il dubbio si esercita nel paradigma della follia: «Vi si parla di un “grande internamento”, della storia di un “silenzio” imposto e poi scientificamente legittimato, di una parola che viene tolta alla follia, ai folli, per non esserle più restituita. Internamento dei corpi, subito raddoppiato, all’alba dell’età classica, dalla sensazione giuridica che squalifica una volta per tutte la sragione, complice l’autorità filosofica di Descartes. E tanto più sarà ricco di parole il sapere montante dei medici e degli psichiatri, tanto più sepolte resteranno le voci della follia, più inesorabile e definitivo il loro silenzio. Raccontando questa storia di orecchie che si chiudono per non ascoltare e di muri sempre più spessi innalzati a separare la ragione da ciò che ragione non è e non ha da essere, Foucault riesce a porgere l’orecchio e a prendere un’altra parola; riesce a non farsi paralizzare dalle immagini sostitutive che tutti i saperi della psiche hanno disegnato su quei muri, dissimulandoli»7 così come leggiamo dal filosofo stesso:
Il procedere del dubbio cartesiano sembra testimoniare che nel XVII secolo il pericolo si trova scongiurato e che la follia viene posta fuori dal dominio di pertinenza nel quale il soggetto detiene i suoi diritti alla verità: quel dominio che per il pensiero classico era la ragione stessa. Oramai la follia è esiliata. Se l’uomo può sempre esser folle, il pensiero, come esercizio della sovranità da parte di un soggetto che si accinge a percepire il vero, non può essere insensato.8
L’analisi foucaultiana di Cartesio, seppure nelle poche ma significative pagine in cui appare, si muove nella direzione del metodo peculiare del suo giro di pensiero: decifrabile è l’opera cartesiana all’interno di ordini discorsivi già attivi9 e funzionanti già prima di essa. Si ha a che fare con un insieme di regolarità sufficientemente organizzate e ben connesse, tali da consentire e legittimare un enunciato che dichiari l’assoluto primato del Cogito. Ma, cosa si è deciso sul piano sociale, politico, culturale, istituzionale, circa ciò che è razionale e ciò che non lo è? È deciso il criterio di riconoscibilità: la ragione è essenziale misura, sensatezza. Così come ci spiega S. Natoli: «si può a buon diritto sostenere che è peculiare della cultura europea del Seicento comprendere la ragione come sensatezza. L’uomo razionale è colui che ha senno, che dunque non è folle. Se essere razionale equivale ad aver senno, il riscontro con la follia diviene immediato. Ma fatto altrettanto immediato è l’esclusione della follia dalla ragione. Se, infatti, la ragione equivale all’assennatezza, il folle non è capace di ragione; ciò significa che non la può esercitare, non ne ha il titolo perché non ne è il titolare.
La ragione moderna è dunque ragione legale, comunanza intersoggettiva di regole».10 Ciò che in prima battuta Derrida nota nel suo saggio è che il pregio ma anche l’impossibilità stessa del testo di Foucault risiede nel rendere la follia soggettodel suo libro tentando di restituirgli parola, nel tentativo appunto, pregevole e impossibile, di scrivere una storia della follia in se stessa. La difficoltà maggiore ovviamente sarà quella di fare una storia della follia come ci dice Foucault «prima di ogni cattura da parte del sapere».11 Ciò che qui è in gioco quindi sta nell’evitare la trappola dell’aggressione razionalista e oggettivistica, sta nel mantenere il discorso senza alcun sostegno assoluto di una ragione o di un logos, nel rifiuto di articolarsi in una sintassi della ratio. Per questo si tratta per Foucault di legare la follia del silenzio, fare l’archeologia di questo silenzio, risalire all’origine di questo silenzio, della parola interdetta dei folli. Ma cosa implica questo rifiuto del linguaggio della ragione a favore della ricerca dell’archè di un linguaggio che dica il silenzio della follia? Il problema del linguaggio, la difficoltà del dire, e ancora spiegarla la difficoltà del dire è un problema che Foucault ha ben presente: «In questo semplice problema di elocuzione si nascondeva e si esprimeva la difficoltà maggiore dell’impresa».12 E Derrida non manca nel sottolineare questa difficoltà:
Non è possibile svincolarsi totalmente dalla totalità del linguaggio storico che avrebbe prodotto l’esilio della follia, liberarsene per scrivere l’archeologia del silenzio; questo non può essere tentato, se non in due modi: o tacere con un certo silenzio, o seguire il folle sulla strada del suo esilio.13
In realtà si tratta per Derrida, come ci spiegherà subito dopo, di compiere ben altra operazione, d’installare un altro tipo di movimento, di disfare la tela che tesse le ragioni del silenzio, quella tela che ha portato la ragione ad ammutolire la follia. Si tratta di accedere al punto in cui ragione e follia hanno interrotto il loro dialogo:
Sembra così che il progetto di risalire al dissenso primo del logos sia un progetto diverso da quello dell’archeologia del silenzio e ponga problemi differenti. Si dovrebbe trattare questa volta di riesumare il suolo vergine e unitario nel quale si è oscuramente radicato l’atto di decisione che collega e separa ragione e follia. Ragione e follia nell’età classica hanno avuto una radice comune. Ma questa radice comune, che è un logos, un fondamento unitario è molto più antico del periodo medievale che Foucault evoca brillantemente ma brevemente nel capitolo iniziale.14
Il momento in cui ragione e follia hanno interrotto il loro dialogo, viene indicato da Foucault con una parola molto forte: Decisione, e quindi rendere conto di questa origine e indicarne l’autentico terreno storico. Per Derrida l’analisi foucaultiana lascia in penombra, in modo imbarazzante — come sostiene egli stesso — le riflessioni sul logos greco. Ed è qui che Derrida pone la domanda che interroga Foucault e che interroga il Cogito: Foucault non ripete forse ancora una volta, nella separazione tra ragione follia, proprio il senso del cogito? La domanda così formulata sposta il terreno della discussione in quanto chiama in causa un lavoro che non si attesta sugli esiti del Cogito, ma mette in discussione il fatto stesso di considerare il Cogito come inizio assoluto e non già esito di un gesto filosofico. Derrida arretra e colloca, quale punto iniziale di lavoro, la comprensione della funzione teorica del momento con la sua alterità, come riprenderà nel suo «Esser giusti con Freud»,15 come ci spiega nei motivi fondanti la conclusione dell’introduzione di Rovatti: «gioco (abissale) di luoghi: la psicoanalisi ci porta «regolarmente» (cosi scrive Derrida) da un’assegnazione topologica all’altra, come se la psicoanalisi avesse «due luoghi» o come se avesse «luogo due volte». Come se non potessimo arrestarci né sulla vita né sulla morte, né sul piacere né sul potere, perché ciascun luogo ci apre e ci porta all’altro squalificandosi e squalificandolo come principio.
Per essere «giusti» con Freud, propone Derrida, bisognerebbe riuscire a partire da qui, collocarsi in questo pendolo) .16 L’interesse di questa torsione nella formulazione della domanda è visibile nel fatto che produce l’allargamento della questione in quest’ottica, il Cogito appare come l’indice di una problematica più generale e la separazione ragione/follia diventa la possibilità di far emergere il senso del Cogito, fino a riconoscerlo come un paradigma storico di razionalità: non si può parlare della follia se non in virtù di quest’altro tipo di follia che permette agli uomini di non essere folli e cioè in rapporto alla ragione. Si tratta per Derrida di recuperare nel momento della sua genesi, il senso del Cogito e perciò di:
Ripetere, una volta ancora, nel luogo di questa divisione tra ragione e follia come dice molto bene Foucault il senso, un senso di questo Cogito o dei Cogito perché il cogito di tipo cartesiano non è né la prima né l’ultima formulazione del cogito e di provare che si tratta, qui, di un’esperienza che, nella sua punta più acuta, non è forse meno avventurosa, perigliosa, enigmatica notturna e patetica di quella follia ed è a lei meno avversa accusatrice oggettivamente di quanto Foucault non sembri pensarlo.17
Derrida dunque difende Cartesio si schiera per Cartesio e contesta che si possa attribuire al cogito di rappresentare, come vorrebbe Foucault, l’operazione rassicurante di esclusione del suo altro, ciò che si è costruito costruendo il suo contrario come oggetto per proteggersene e disfarsene, rinchiudendolo. Per Derrida la crisi classica si sviluppa a partire da e dentro la tradizione elementare di un logos che non ha contrari, ma porta in sé e dice ogni contraddizione determinata; esclude inoltre, come abbiamo già notato, che si possa fare storia del silenzio della follia respingendo in blocco la lingua della ragione e cioè la lingua dell’ordine perché non si può dar alla follia stessa (intesa non come un argomento, ma come soggetto parlante), se non ponendosi già dalla parte della ragione stessa perché la ragione non è un ordine di fatti, potremmo dire è inoltrepassabile.
In questa prospettiva l’età classica non avrebbe né specificità né privilegio. E tutti i segni che Foucault raccoglie sotto il titolo di Stultifera navis non avrebbe luogo che alla superficie di un dissenso recidivo. La libera circolazione dei folli, a parte il fatto che non è poi così libera, così semplicemente libera, non sarebbe un epifenomeno socio-economico alla superficie di una ragione giù divisa contro se stessa fin all’alba della sua origine greca. Quello che mi pare certo, in ogni caso qualunque sia l’ipotesi che si formula a proposito di quello che in fondo è solo un falso problema e una falsa alternativa, è che Foucault non può salvare nello stesso tempo quella che afferma sulla dialettica già rassicurante di Socrate e la sua tesi che suppone una specificità dell’età classica in cui la ragione si sarebbe rassicurata escludendo il suo altro, vale a dire costituendo il suo contrario come un oggetto per difendersene e disfarsene. Per imprigionarlo. A voler scrivere la storia della decisione, della divisione, della differenza, si corre il rischio di costituire la divisione come avvenimento o come struttura che si aggiunge all’unità di una presenza originari; e di convalidare così la metafisica nella sua operazione fondamentale.18
È lo stesso Foucault a cogliere la profondità della domanda che Derrida pone al suo testo come ben delinea nella sua risposta come lunga appendice della sua Storia della follia, solo nel 1972 con il testo Il mio corpo, questo foglio, questo corpo, dove leggiamo:
L’argomentazione di Derrida è degna di attenzione per la sua profondità, e forse più ancora, per la sua franchezza. La posta in gioco del dibattito è indicata con chiarezza: potrebbe esservi qualcosa di anteriore o di esterno al discorso filosofico? Può avere la sua condizione in un’esclusione, in un rifiuto, in un rischio escluso, e perché no, in un timore? Sospetto che Derrida respinge con passione.19
Sospetto che abbiamo visto già respingere. Ma se come sottolinea Natoli: «se il significato della ragione cartesiana fosse un altro, se esistesse veramente un discorso della ragione non un insieme di pratiche discorsive, se, in sostanza il Cogito cartesiano fosse la metamorfosi di un logo eterno, allora l’interpretazione di Foucault cadrebbe». In sostanza Derrida intende emancipare la ragione cartesiana dai dispositivi discorsivi, per ricondurla nel suo ambito proprio e peculiare: l’interrogazione originaria. I nodi d’interpretazione ove i due filosofi divergono nelle loro discussioni intorno a Cartesio divergono, in effetti, intorno a una concezione diversa della ragione e del discorso. Lì dove questo significa per Foucault impugnare il testo derridiano e lo metterlo a confronto con Cartesio,20 e con la sua lettura delle Meditazioni per riconfermare al di là delle questioni sul logos della ragione e sul logos della follia piuttosto ribadendo ancora che la follia è esclusa dall’occidente ad opera del testo cartesiano: la follia come possibilità e rischio è messa al bando e internata.
3. Sogno, ragione e follia
Ma a parere di Derrida il colpo di forza operato da Cartesio, secondo la lettura di Foucault nell’espulsione della follia dal pensiero stesso non sarebbe avvenuto fino in fondo. Per Derrida l’unico intento con il quale Cartesio fa riferimento alla follia non lo fa con l’intento di escluderla, ma nella volontà di introdurla come una funzione pedagogica. Nel momento in cu dice che la conoscenza che ci viene dai sensi ci inganna, nel momento in cui pone il dubbio riguardo la certezza sensibile, lo attenua per il non filosofo, come se fosse un’invenzione retorica per un pubblico non avvezzo al pensare filosofico. Per questo, secondo Derrida, immediatamente dopo Cartesio parla del sogno: il sogno diversamente dalla follia è accessibile alla comprensione di tutti, ma ugualmente esemplare circa il modo in cui i sensi possano ingannarci, come egli stesso spiega:
Questo riferimento al sogno non è dunque un passo indietro nei confronti della possibilità di una follia che Cartesio avrebbe tenuto a bada o perfino esclusa. Al contrario, esso costituisce, nell’ordine metodico che proponiamo, l’esasperazione iperbolica della follia.21
Per questo motivo, il sogno è nient’altro che un esempio più riuscito rispetto a quello sulla follia, parlare dell’esperienza del sogno perfeziona quanto la follia esprimeva in maniera inadeguata. Il sogno, non esclude la follia, ma ne conferma l’inclusione nel Cogito, radicalizzandola e introiettandola a sé. Come abbiamo detto Foucault replica dettagliatamente, ma noi focalizzeremo la nostra attenzione proprio nel punto in cui il filosofo tenta, riferendosi costantemente al testo cartesiano, di distinguere il sogno e la follia contrariamente a quanto affermato da Derrida. Innanzitutto l’errore d’interpretazione che Foucault adduce a Derrida è quella concernente il vocabolario che riguarda la speculazione cartesiana sul sogno da un lato e sulla follia d’altro. Leggiamo:
Paragrafo della follia: vocabolario del confronto: se voglio negare che «queste mani e questo corpo siano miei» è necessario che «io mi confronti a certi insensati» (comparare); ma sarei molto stravagante «se mi regolassi sui loro esempi» (si quod ab iis exemplum ad me trasferrem: se applicassi a me stesso qualche esempio proveniente da loro). Il folle: termine esterno col quale io mi confronto. Paragrafo del sogno: vocabolario della memoria: «io ho l’abitudine di rappresentarmi i miei sogni»; «quante volte mi è capitato», «pensandoci attentamente, io mi ricordo». Il sognatore: ciò che io mi ricordo d’esser stato io stesso; dal fondo della mia memoria emerge il sognatore che io stesso sono stato e che sarò.22
Il secondo punto focale ove desideriamo focalizzare la nostra attenzione consta di nuovo nell’evidenziare le differenze fra sogno e follia ma questa volta riguardo l’esercizio meditativo del dubbio:
I temi dell’esercizio meditativo: questi appaiono negli esempi che il soggetto meditante propone a se stesso. Per la follia: considerarsi un re quando si è poveri; credersi vestiti quando si è nudi, immaginare di avere un corpo di vetro o di essere una brocca. La follia è l’assolutamente diverso, essa deforma e trasporta: suscita un’altra scena. Per il sogno: essere seduto (come lo sono ora); sentire il calore del fuoco (come lo sento oggi); tendere la mano (come mi decido, in questo momento a fare). Il sogno non trasporta la scena; esso duplica i dimostrativi che indicano nella direzione della scena in cui mi trovo. L’immaginazione onirica si appunta esattamente sulla percezione attuale.23
L’assoluta estraneità di ragione e follia espressa dai verbi comparare e trasferre rimane, la discriminante fondamentale: io non posso pensare come i folli per il fatto stesso che la nozione comune di ragione esclude la follia, per questo motivo Foucault sottolinea in Cartesio la continuità dell’esercizio meditativo con le pratiche della memoria (del sogno) e può asserire sull’esclusione della follia dal trono della ragione. Eppure Derrida, nella sua seconda parte del saggio, lo aveva espresso chiaramente di voler leggere il testo alle spalle di Foucault, e quindi forse oltre Foucault o forse semplicemente senza di lui, nel tentativo più proprio del suo filosofare di tessere e intrecciare i fili di ragione e follia, di ricomporre una nuova tela, o forse nella volontà di riscoprirne nuove trame:
Per questo l’atto del Cogito nel momento iperbolico in cui si misura con la follia, o meglio si lascia misurare da essa, questo atto deve essere ripetuto e distinto dal linguaggio o dal sistema deduttivo nel quale Descartes deve inscriverlo dal momento in cui lo propone all’intelligibilità e alla comunicazione, vale a dire dal momento che lo riflette per l’altro, lo significa per sé. È in questo rapporto all’altro come altro io che il senso si rassicura contro la follia e il non-senso… è la filosofia è forse questa garanzia colta nel punto più vicino alla follia contro l’angoscia di essere folle.24
E spingendosi ancora oltre, conclude Derrida il suo saggio, asserendo:
Definire la filosofia come voler-dire-l’iperbole, significa confessare — e la filosofia è forse questa gigantesca confessione — che nel dettato storico in cui la filosofia si rasserena ed esclude la follia, essa si tradisce da sé (o si tradisce come pensiero), essa entra in una crisi e in una dimenticanza di sé che sono un periodo essenziale e necessario del movimento. Io non filosofo se non nel terrore, ma nel terrore confessato di essere folle.25
Il cogito cartesiano dunque ben sopporta la decostruzione derridiana giacché nel suo estenuante duello con la follia mostra di vivere nella differenza a sé (dunque nella différance), di costituirsi nella relazione all’altro. Ma forse in questo passo appena citato di Derrida, l’eco delle domande heideggeriane, risulta assordante all’orecchio foucaultiano che nel giro conclusivo della sua risposta, con l’eleganza altezzosa tipica delle sue speculazioni non manca di farlo notare al suo allievo,26 seppure rimanendo lungi da riferimenti espliciti:
Non dirò che questa è una metafisica, la metafisica ovvero una chiusa che si nasconde in questa testualizzazione delle pratiche discorsive. Andrò molto più lontano: dirò che si tratta di una piccola pedagogia strumentale ben determinata che si manifesta in modo assai visibile. Pedagogia che insegna all’allievo che non c’è niente al di fuori del testo, ma che in esso, nei suoi interstizi, nei suoi silenzi, e nei suoi non detti, domina la riserva dell’origine; che non è dunque affatto necessario andare a cercare quell’altrove, ma che qui stesso, non tanto nelle parole certe, quanto nelle parole come raschiatura, come griglia, si svela il senso dell’essere. Pedagogia che, inversamente dà alla voce dei maestri questa autorità senza limiti che permette loro di ridire il testo indefinitamente.27
E poi dieci anni di silenzio. E non risulta difficile non domandarsene la cagione. Derrida risponderà quando ormai sarà troppo tardi, quando Foucault non potrà più rispondere nuovamente. E non è volontà del nostro lavoro riflettere sulla successiva risposta derriana.28 Se però leggiamo cosa scriveva Derrida nel 1963, ci accorgiamo che le critiche al modo in cui Foucault aveva trattato il tema della follia in Descartes erano un tentativo di scavare dentro il medesimo discorso della follia. Derrida non ne scorgeva tanto un’episodica irruzione ma il fondo enigmatico e non cancellabile dell’intera meditazione cartesiana, una volta che il dubbio fosse stato spinto alla sua iperboliticità e fosse stato evocato qualcosa come un «genio maligno». Il punto di Derrida era all’incirca: il colpa di forza con cui Descartes squalifica la sragione e suppone di sbarazzarsi della follia è illusorio nella misura stesa in cui sulla stessa sragione viene poi a pesare l’intera scienza del soggetto. Non solo l’esorcismo fallisce, ma è poi sull’insistenza di questo «fantasma» della follia che qui, come in seguito, la filosofia non potrà cessare di attestarsi. Ciò che qui era in gioco era la riflessione sul senso del cogito come paradigma di lettura delle filosofie di Derrida e Foucault che seppure impegnate in un ulteriore piano interpretativo non hanno mancato di mostrare le loro peculiarità, le loro pratiche filosofiche, le loro domande, le loro risposte. Ciascuna per sé, ciascuna nella lettura delle meditazioni cartesiane, ciascuna leggendosi e leggendo l’altra. Per scoprirsi, poi, forse non così distanti almeno in ciò che sembra consegnarci Foucault con la chiusa alla Storia della follia:
La follia in cui sprofonda l’opera è lo spazio del nostro lavoro, è l’infinita strada per venirne a capo, è la nostra vocazione sia di apostoli che di esegeti … la follia è contemporanea dell’opera poiché inaugura il tempo della sua verità.29
-
J. Derrida, Cogito e storia della follia, in La scrittura e la differenza, trad. it. a cura di G. Pozzi, Einaudi, Torino, 2002, pag. 79. ↩︎
-
M. Heidegger, Il principio di ragione, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano, 2004. ↩︎
-
La storia della metafisica è per Heidegger la storia della soggettività, stagione inaugurata dalla filosofia cartesiana dell’ego cogito. ↩︎
-
J. Derrida, La farmacia di Platone, trad. it. di R. Balzarotti, Jaca Book, Milano, 1985. pp. 45-46. ↩︎
-
J. Derrida, Cogito e storia della follia, presente in La scrittura e la differenza, trad. it. di G. Pozzi, Einaudi, Torino, 2002, pp. 39-40. ↩︎
-
Ecco il passo cartesiano riportato integralmente che sarà il terreno e d’incontro e di scontro tra di due filosofi: «tutto ciò che ho ammesso finora come sapere vero e sicuro l’ho appreso dai sensi, o per mezzo dei sensi: ora, ho qualche volta provato che questi sensi erano ingannatori, ed è regola di prudenza non fidarsi mai interamente di quelli che ci hanno una volta ingannati. Ma benché i sensi ci ingannino qualche volta, riguardo alle cose molte minute e molto lontane, se ne incontrano forse molte altre, delle quali non si può ragionevolmente dubitare, benché noi le conosciamo per mezzo loro: per esempio, che io son qui, seduto accanto al fuoco, vestito da una veste da camera, con questa carta fra le mani; ed altre cose di questa natura. E come potrei negare che queste mani e questo corpo sono miei? A meno che, forse, non mi paragoni a quegli insensati, il cervello dei quali è talmente turbato e offuscato dai neri vapori della bile, che asseriscono costantemente di essere re, mentre sono dei pezzenti; di essere vestiti d’oro e di porpora, mentre sono nudi affatto; o s’immaginano d’essere delle brocche, o d’avere un corpo di vetro. Ma costoro sono pazzi; e io non sarei da meno, se mi regolassi sul loro esempio». R. Cartesio, Meditazioni Metafisiche, trad. it. di S. Landucci, Laterza, Milano, 2010, pag. 85. ↩︎
-
Pier Aldo Rovatti, Introduzione in J. Derrida, Essere giusti con Freud — Storia della follia nell’età della psicanalisi, trad. it. a cura di G. Scibilia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1994, pag. 7-8. ↩︎
-
M. Foucault, La storia della follia nell’età classica, cit., pag. 53. ↩︎
-
«Con la filosofia cartesiana trionfa l’ordine della ragione. Se è vero che il significato dell’enunciato non si esaurisce nella sua forma logica, si deve allora dire che questa proposizione rinvia ad altro da sé e quindi ad altri contesti enunciativi. In ogni caso è verosimile che essa riappaia in questi diversi contesti o che vi si ricolleghi in forme peculiari e da determinare analiticamente. Con tale assunzione di merito si vuol dire semplicemente questo: l’istituzione di una nuova idea di ragione a determinazione delle regole di un nuovo ordo rationalis che sia veramente tale e perciò rigoroso, tutte queste cose non significano solamente la mutazione di una prospettiva teorica ma alludono a una modificazione delle pratiche discorsivi nel loro complesso. Ora l’insieme degli eventi discorsivi per Foucault, è sempre un insieme «finito ed attualmente limitato dalle sole sequenze linguistiche che siano state formulate; possono essere anche innumerevoli, per la loro quantità possono benissimo andare oltre ogni capacità di registrazione di memoria e di lettura: tuttavia costituiscono un insieme finito». La filosofia di Cartesio è un costrutto teorico, che si costituisce, esso pure, all’interno di un regime discorsivo, diciamo approssimatamente quello filosofico. Ma questo stesso regime è contestuale ad altri ordini. Motivo per cui la filosofia di Cartesio per essere compresa deve essere situata in quell’insieme di pratiche che costituisce il suo campo storico. Così intesa, l’opera di Cartesio non è un’innovazione teorica interpretabile unicamente in ragione del contenuto espresso (cioè in ragione del suo significato formale), ma è essa stessa espressione o momento di una riorganizzazione del sapere, cioè del campo discorsivo a cui appartiene. Propriamente in ciò consiste la peculiarità dell’analisi di Foucault: la filosofia di Cartesio può essere compresa solo se è vista nell’orizzonte discorsivo che le è proprio, solamente se è considerata all’interno dei meccanismi di controllo e di esclusione della parola, che ordinano il linguaggio e definiscono i significati in relazione alle funzioni. In tal senso la filosofia di Cartesio è un sintomo più generale di quella pratica di assoggettamento della parola». ↩︎
-
S. Natoli, Foucault e la genealogia della «ragione moderna», in La verità in gioco, Feltrinelli, Milano, 2010, pag. 42. ↩︎
-
J. Derrida, Cogito e storia della follia, cit., pag. 43. ↩︎
-
Ivi, pag. 47. ↩︎
-
Ivi, pag. 45. ↩︎
-
Come approfondisce Derrida: «Poiché il silenzio di cui si vuol fare l’archeologia non è un mutismo o una non parola originaria ma un silenzio che è sopravvenuto, una parola interdetta per imposizione, si tratta dunque, all’interno di un logos anteriore della lacerazione ragione-follia, all’interno di un logos che permetteva in sé il dialogo tra quello che più tardi si è chiamato ragione e follia (insensatezza), che lasciava circolare liberamente in sé in mutuo scambio ragione e follia nello stesso modo in ci si permetteva ai folli di circolare nella città del medioevo, si tratta, all’interno di questo logos del libero scambio, di accedere all’inizio del protezionismo di una ragione che mira a porsi al sicuro e a costruirsi dai ripari, e a costituirsi essa stessa come riparo». Ivi, pag.48. ↩︎
-
Discorso tenuto a Parigi da Derrida nel 1992 in occasione del IX Colloquio della Società Internazionale di storia della psichiatria e della psicanalisi, adesso in J. Derrida, Essere giusti con Freud — Storia della follia nell’età della psicanalisi, trad. it. a cura di G. Scibilia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1994. ↩︎
-
Pier Aldo Rovatti, Introduzione in J. Derrida, Essere giusti con Freud — Storia della follia nell’età della psicanalisi, cit., pag. 19. ↩︎
-
J. Derrida, Cogito e storia della follia, cit., pag. 42. ↩︎
-
Ivi, pag. 51 (corsivi miei) . ↩︎
-
M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, cit., pag. 486. ↩︎
-
La replica foucaultiana è densa e serrata: riporta passo per passo le argomentazioni derridiane presenti nel testo Cogito e storia della follia e le argomenta criticandole a volte con poco diritto di replica in altrettanto serrato confronto con il testo cartesiano d’origine. ↩︎
-
J. Derrida, Cogito e storia della follia, cit., pag. 63. ↩︎
-
M. Foucault, La storia della follia in età classica, cit., pag. 491. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
J. Derrida, Cogito e storia della follia, cit., pag. 75. ↩︎
-
Ivi, pag. 76. ↩︎
-
Come Derrida stesso si definisce nei riguardi di Foucault e di tutta l’inquietudine d’esserlo: «Ora la coscienza del discepolo, quand’esso comincia, non dirò a discutere, ma a dialogare con il maestro o meglio a esprimere il dialogo interminabile e silenzioso che lo costituiva come discepolo, questa coscienza è allora una coscienza infelice». Ivi, pag. 39. ↩︎
-
M. Foucault, Storia della follia in età classica, cit., pag. 508. ↩︎
-
Per una concisa riflessione su questo decennale silenzio e la postuma risposta derridiana, riportiamo un passo dell’introduzione a cura di Pier Aldo Rovatti all’opera Essere giusti con Freud (cit.): «nelle prime righe del testo Derrida accenna, con una nota di rammarico, alla discussione avuta con Foucault dopo l’uscita della storia della follia, a proposito di Descartes. Non voglio tornarci più sopra, afferma Derrida, perché quella discussione produsse in realtà «un’ombra che ci resi invisibili l’un l’altro durante quasi dieci anni». Il decennio sul quale si distende l’ombra che adesso Derrida vorrebbe lasciarsi alle spalle è quello che va dalla replica del 1972 alla morte di Foucault. Triplice rammarico si potrebbe dire: per l’incomprensione dimostrata da Foucault nella sua replica, per il mancato chiarimento successivo (dieci anni di invisibilità reciproca), e per l’impossibilità, oramai, di un dialogo. Quest’ultimo rammarico si raddoppia alla fine del saggio: cosa risponderebbe Foucault alla mia domanda di oggi? Possiamo, oramai, solo tentare di immaginarlo». Pier Aldo Rovatti, Introduzione in J. Derrida, Essere giusti con Freud — Storia della follia nell’età della psicanalisi, cit., pp. 12-13. ↩︎
-
Ivi, pag. 481. ↩︎