La mano di Heidegger: pratica di un pensiero in cammino

In una parola dirò che si tratta della mano, della mano dell’uomo, del rapporto della mano con la parola e con il pensiero.

1. La nozione (intraducibile) di Geschlecht: Heidegger e la mostruosità

Che cosa significa pensare? È questa la domanda fondamentale di Heidegger che meglio traduce il suo interrogare come Seinsfrage. La domanda dell’essere, sull’essere, cifra del pensiero heideggeriano, dice, nel suo tema, i termini e le relazioni fondamentali: tutto si gioca nella co-appartenenza di linguaggio, essere e pensiero.

Che cosa significa pensare?,1 è anche il titolo di un corso che Heidegger svolse nel 51’-52’dove emerge una questione che può apparire marginale — per lo spazio che ad essa è dedicato — eppure è una questione decisiva per tutto il suo pensiero, e della stessa questione pensiero. È la questione della mano. E Derrida le dedica un intero saggio,2 come naturale proseguimento e approfondimento nella collocazione della nozione di Geschlecht nel cammino di pensiero heideggeriano, ed è egli stesso in incipit a segnalare tale necessaria continuità, con il testo che lo precede: «In effetti, do per scontata la lettura di un breve e modesto saggio3 pubblicato sotto il titolo di Geschlecht, differenza sessuale, differenza ontologica. Questo saggio trattava del motivo del Geschlecht in un corso quasi contemporaneo a Sein und Zeit».4

Le letture su cui si concentrerà il lavoro decostruzionista si focalizzeranno in alcuni luoghi di Che cosa significa pensare? e di In cammino verso in linguaggio, in un saggio dedicato al luogo della poesia di Trakl.5 Derrida annuncia, appunto, che in questo testo si tornerà a parlare del Geschlecht e della sua potenza polisemica, della possibilità di tradurlo come sesso, razza, stirpe, genere, specie, famiglia, genealogia, comunità, generazione. Infinite possibilità di traduzione che Derrida non accoglierà comunque in nessun luogo della sua lettura; difatti proprio riguardo le difficoltà di traduzione egli si richiama a Fichte, per poi condurci direttamente, al cuore della questione:

Questo richiamo schematico mi è sembrato necessario per due ragioni. Da una parte, per sottolineare la difficoltà di tradurre Geschlecht, questa parola sensibile, critica e nevralgica; dall’altra, per indicarne l’irriducibile legame con la questione dell’umanità (versus animalità), e di un’umanità il cui nome, come il legame con la “cosa”, per così dire, resta problematico tanto quanto quello della lingua in cui s’inscrive.6

Lasciamo deliberatamente da parte le questioni legate alla nozione di Geschlecht nei suoi possibili approdi alla questione dell’adesione heideggeriana al nazionalsocialismo,7 per entrare direttamente nel nodo teoretico del testo, per parlare di ciò che Derrida annuncia come tema del suo saggio: Heidegger, la mostruosità. Per farlo leggiamo un passo che lo stesso filosofo tedesco cita dal poema Mnemosyne di Hölderlin, nell’ambito del corso Che cosa significa pensare?: «Ein Zeichen sind wir, deutungslos / Schmerzlos sind wir und haben fast / Die Sprache in der Fremde verloren».8 Perché parlare di mostruosità e di poesia insieme? Derrida cerca di spiegarlo introducendo innanzitutto la traduzione in francese di questi versi: «Nous sommes un monstre9 privé de sens / Nous sommes hors douleur / Et nous avons perdu / Presque la langue a l’étranger.»10 Poniamoci all’ascolto del Nous sommes un monstre:^[11]

Noi siamo un mostro, e singolare, un segno che mostra e avverte, ma tanto più singolare per il fatto che mostrando, significando, designando, è privo di senso (deutungslos). Si dice privo di senso, semplicemente è doppiamente mostro, questo “noi”: noi siamo segno — che mostra, che avverte, che fa segno verso, ma in verità verso il nulla, segno in disparte, in scarto rispetto al segno, indicatore [montre] che si scarta dell’indicazione, della mostra [montre] o della mostrazione, mo(n)stro [monstre] che non indica nulla.11

In cosa consiste la mostruosità, dunque? Nello scarto del segno rispetto a se stesso? Nell’aver perduto la lingua in terra straniera, forse — come spesso accade — magari nel aver tra-dito in una tra-duzione? O la mostruosità riposa nel noi, nell’uomo, nel noi che siamo un mostro?12 Anche Heidegger si è concentrato nel carattere mostruoso e inquietante dell’uomo nel commento all’Antigone di Sofocle. Ci sembra quantomeno necessario citarne dei passi; ecco come commenta il verso greco «pollà tà deinà, koudén anthrópou deinóteron pélei» (Molte cose sono inquietanti, ma nulla è più inquietante dell’uomo — Antigone, Sofocle, vv. 332 ss.):

Possiamo dunque circoscrivere approssimativamente l’ambito di significato di deinon dicendo, per riassumere, che ha un triplice significato: esso è ciò che è terribile, che è violento, che è inconsueto. Nella sua essenza, però, il deinon non è nemmeno tutte queste cose messe insieme. L’essenziale dell’essenza del deinon si cela nell’unità originaria di ciò che è terribile, di ciò che è violento e di ciò che è inconsueto. L’essenziale di ogni essenza è sempre unico. La piena essenza del deinon può quindi dispiegarsi solo in qualcosa di unico. […] L’inquietante appare dunque involto e dispero in molte specie, al punto da non essere qui dispiegato nel tratto semplice della sua piena e pura essenza. Tutte queste specie dell’inquietante nel loro tratto inquietante sono allora lasciate dal passaggio di quell’inquietante che è l’uomo. È dunque nell’uomo che l’inquietante deve dispiegare quel fondamento essenziale suo proprio che non si mostra nel resto dell’inquietante, e non si mostra perché manca (corsivi miei). Se ora l’uomo è il supremo deinon e in lui l’essenza della deinotés appare dunque nella sua specie unica, e se noi con diritto vediamo quest’essenza nel tratto inquietante, allora, a rigore di termine, solo l’uomo può essere chiamato con il nome di inquietante. […] L’esser-inquietante non è primariamente una conseguenza dell’umanità, ma è l’umanità a scaturire dall’esser-inquietante ed a restare in esso: l’umanità si spinge oltre a partire da esso e in esso si agita. L’inquietante stesso è, nell’essenza dell’uomo, il tratto prominente, ciò che si agita in tutti i suoi moti e in ogni sollecitazione: il tratto presente ed ugualmente assente. Abbiamo ancora l’abitudine a considerare l’inquietante più come un carattere emotivo, invece di pensarlo come la specie fondamentale dell’essenza dell’uomo.

Dobbiamo soffermiamoci, adesso sulle virtù che Derrida ci mostra nel tradurre Zeichen con monstre, sempre nell’itinerario che ci sta facendo interrogare sull’inquietudine della mostruosità (dell’uomo?): primo: richiamarsi a un motivo che spesso ritorna in Sein und Zeit, in altre parole il legame tra segno e mostrazione (rimando), tra Zeichen e Aufzeigung13; secondo: la traduzione francese indica lo scarto del segno con se stesso, del segno che non vuole indicare nulla, non mostra e non significa, e nel suo essere privo di segno annuncia la perdita di senso nella lingua; terzo: questa traduzione pone la questione dell’uomo. E ponendo la questione dell’uomo, del mostro, che noi, il sind wir, il nous sommes, siamo. Ponendo così nuovamente la questione del Geschlecht:

Si tratta anche di un discorso che dice tutto della mano, in quanto dona e si dona — tranne, almeno in apparenza, che della mano o del dono come luogo del desiderio sessuale, come si suol dire, del Geschlecht nella differenza sessuale. La mano: il proprio dell’uomo in quanto mo(n)stro (Zeichen).14

2. La mano e la parola: Heidegger e l’orizzonte logo-fonocentrico

Precisiamo subito, facendo eco a Derrida che l’uomo che qui è in questione non è l’uomo dell’umanismo classico nel quale spesso è stato inscritto il Dasein, erroneamente. La tematica di questo passo è comunque marcata dalla questione del dono, del donare, dell’es gibt, che deborda, senza capovolgerla la precedente elaborazione della questione sul senso dell’essere. Ma leggiamo direttamente il lungo passo da cui Derrida parte per elaborare la sua articolata riflessione sul pensiero della mano o della mano del pensiero:

Cerchiamo qui di imparare a pensare. Forse pensare è semplicemente la stessa cosa che costruire un armadio. È comunque un mestiere (Hand-Werk), un’opera della mano. Ma l’opera della mano è più ricca di quanto non siamo disposti a credere usualmente. La mano non soltanto afferra e prende, non soltanto prende e urta. La mano porge e riceve, e non soltanto le cose, ma anche porge se stessa e riceve se stessa nell’altra mano. La mano trattiene. La mano regge. La mano traccia dei segni, perché probabilmente l’uomo è un segno. Due mani si congiungono quando questo gesto dell’uomo deve condurre alla grande semplicità. Tutto ciò che è la mano ed è il vero lavoro della mano. Ma i gesti della mano trapassano ovunque attraverso il linguaggio, e questo avviene nel modo più puro quando l’uomo parla tacendo. Infatti è solo in quanto parla, che l’uomo pensa: non il contrario, come crede la metafisica. Ogni movimento della mano in ciascuno delle sue opere si compie attraverso l’elemento del pensiero, in esso si mostra come gesto. Ogni opera della mano poggia sul pensiero. Per questa ragione il pensiero è la più semplice e quindi la più difficile, delle opere della mano dell’uomo. Quando viene il momento in cui essa vorrebbe essere completata.15

Il luogo ove ci vuole condurre la lettura di Derrida, è la considerazione che la mano heideggeriana abbia poco a che fare con il sensibile, in quanto metafora della phonè metafisica, del pensiero come voce interiore, come voce senza voce. Se, infatti, la mano è legata alla parola e la parola di cui parla Heidegger qui non è essenzialmente distinta da ogni phonè possiamo aggiungere al testo di Derrida che tale mano, così come la phonè semantikè, deve essere rimossa dalla sua sensibilità, singolarità. Ma il problema dell’ontologia della mano risiede forse nell’enigma di ciò che potrebbe toccare.

La mano di Heidegger dice del linguaggio, di ciò che organizza. Il linguaggio comunica, manipola, prega, raccoglie dona: che cosa fa la mano? Lo stesso. Mano e linguaggio dicono lo stesso. Ma che cosa tocca questa mano? Potremmo dire, ciò che il Logos raccoglie. La mano, come il pensiero raccoglie — si presume che lo tocchi — ciò che è raccolto dal Logos, dalla sua mano. La mano così corrisponde alla mano dell’essere, prima che alla mano dell’uomo soggetto della tecnica. La nostra mano è il nostro dire, ossia un ascolto di un destino che dona, raccoglie. La mano sarebbe il simbolo di tutta una metafisica dell’afferramento, il che implica ciò che noi chiamiamo comprensione, versione sbiadita del Begriff, del concetto, come afferramento che strappa (Begreifen).16

L’essere della mano (Das Wesen der Hand) non si lascia determinare come un organo corporeo di prensione (als ein leibliches Greiforgan). Non è una parte organica del corpo destinata a prendere, ad afferrare se non addirittura graffiare — aggiungiamo pure a prendere, comprendere, concepire, se si passa da Greif — a Begreifen e a Begriff. Heidegger non ha potuto non lasciare che la cosa si dicesse e qui si può seguire come ho tentato di fare altrove, una problematica della “metafora” filosofica, in particolare in Hegel che presente il Begriff come la struttura intellettuale o intelligibile “che rileva” (Aufhebend) l’atto sensibile dell’afferrare, begreifen, del comprendere prendendo, impadronendosi, padroneggiando e manipolando.17

Ma ancora, perché Heidegger sceglie la mano mentre altrove accorda più volentieri il pensiero alla luce, alla Lichtung? La metafora della Lichtung, centrale soprattutto nell’ultima produzione del filosofo, è inserita per dare nuova figura sensibile al rapporto con l’essere, sostituendo l’usurata metafora dell’apertura all’esserci. Fondamentale è lasciarsi coinvolgere dal pensiero, saperlo ascoltare affinché nel più intimo sentire si raggiunga l’essenziale; Heidegger stesso ci ricorda che «il dono più alto che ci viene fatto, quello che autenticamente dura, è la nostra essenza».18 In una conferenza del 1962, Heidegger spiega, tramite i suoi famosi rimandi etimologici, che l’essere consiste in un dare (gaben) che dà (gibt) la propria donazione (Gabe).19

Eminente è la necessità di poter ricever il dono di poterci abbandonare al pensiero, diradando le oscurità che ci ha lasciato in eredità la tecnica, la verità nella sua luce.20 Pensare l’essere è collocarsi in quella condizione di luminosità indiretta, rifiutando le oggettivazioni e fare esperienza di quel pensiero che sopraggiunge all’improvviso come la luce nella radura (Lichtung) del bosco. Questa modalità di pensiero nella sua autenticità s’inscrive nell’orizzonte della alethéia: più l’uomo riesce a parlare il linguaggio della poesia allontanandosi dalla soggettività, tanto più riuscirà a percorrere il sentiero che conduce all’illuminazione-velata della verità dell’essere, smettendo di atteggiarsi come il padrone dell’ente, ma piuttosto accogliendo il dono di sentirsi pastore dell’essere.

Se c’è un pensiero della mano o una mano del pensiero, come Heidegger lascia intendere non è dell’ordine della presa concettuale. Appartiene piuttosto all’essenza del dono, di una donazione che donerebbe, se possibile, senza nulla prendere.21

Chiara è qui la dicotomia donare/prendere che Derrida rimanda come più approfondita nel suo Donare il Tempo dove emerge l’estrema vicinanza tra il gesto del donare e il gesto dello scrivere e del raccontare, dell’offrire tracce o simulacri, e a partire da questa vicinanza s’incomincia a intravedere la dimensione del dono come fedeltà al desiderio di un’alterità irraggiungibile e di cui non mi posso impadronire:22

Il nerbo dell’argomentazione mi parrebbe riducibile, in primo luogo e in prima approssimazione, all’opposizione assodata tra dare e prendere, la mano dell’uomo dà e si dà come il pensiero o come ciò che si dà a pensare e che noi ancora non pensiamo, mentre l’uomo, come semplice animale, se non addirittura come animal rationale, può solamente prendere, cogliere, impossessarsi della cosa. Nulla è meno assodato della distinzione tra dare e prendere.23

A questo punto dell’argomentazione è inevitabile, tornare a Sein und Zeit e al luogo della Vorhandenheit e Zuhandenheit: l’essere dell’ente intramondano innanzitutto è chiamato da Heidegger Zuhandenheit, mentre l’essere dell’ente dato in un’intuizione, è chiamato Vorhandenheit. Questi termini indicano normalmente l’essere a portata di mano e l’esser presente o pronto di qualcosa. Heidegger gioca sul significato di questi termini e sui prefissi Zu e Vor per definire due modalità d’essere in relazione alla prassi dell’esserci, se una cosa è zuhanden, è posta all’interno della prassi ed è in mano all’uomo per un certo fine: se una cosa è invece vorhanden, non è in mano all’uomo ed è quindi posta all’esterno della prassi e della relazione a un fine.

Quale dei due rapporti fonda con la mano fonda l’altro? Come descrivere questa fondazione secondo la mano in ciò che rapporta il Dasein all’essere dell’ente che esso non è (Vorhandensein e Zuhandensein)? Quale mano fonda l’altra? La mano che ha rapporto alla cosa come utensile manovrabile o la mano come rapporto con la cosa in quanto oggetto sussistente e indipendente?24

Questi interrogativi che Derrida introduce, servono a tirare le fila del suo lungo discorso, accostando il pensiero della mano alla questione del senso dell’essere in tutto il cammino del pensiero heideggeriano. Heidegger ripete sempre del pensiero che è unterwegs, in cammino e camminando il pensatore pensa incessantemente un’unica cosa: e secondo Derrida, Heidegger pensa incessantemente al pensiero della mano. Come non far valere lo stesso principio per Derrida che pensa incessantemente alla scrittura?

Se la mano dell’uomo è ciò che a partire da discorso o dalla parola (das Wort), la manifestazione più immediata e più originaria di questa origine sarà il gesto della mano per rendere la parola manifesta, ossia la scrittura, la manoscrittura (Handschrift) che mostra e inscrive la parola per lo sguardo.25

Tirare in gioco il problema della scrittura, dello scrivere a mano, che Heidegger affronta in alcuni luoghi di Che cosa significa pensare? significa per Derrida inscrivere il pensiero heideggeriano nel discorso logocentrico e fonocentrico. Secondo il filosofo tedesco, nella breve storia che traccia dei modi di scrivere, la parola è distrutta con l’avvento della macchina da scrivere, con l’avvento della tecnica nello scrivere, che distrugge l’unità della parola preservata e raccolta nello scrivere a mano, come dice egli stesso «strappa la scrittura al dominio essenziale della mano, cioè della parola, del parlato». Vi è, a quanto pare, una co-appartenenza26 essenziale tra mano e parola. La mano manifesta ciò che è velato, manifestandolo e tessendolo tramite le parole, è nel rapporto alla parola, nello scrivere che la mano mostra ciò che è nascosto «facendo segno, segni che mostrano, o piuttosto dando a questi segni o mostri il nome di scrittura».

Scrittura fonetica, aggiunge immediatamente e senza timore, Derrida. Ciò che, in ultima battuta, porta Derrida a inserire Heidegger nell’orizzonte logo-fonocentrico sono due affermazioni perentorie che si leggono nel testo che stiamo tenendo costantemente in questione: la prima, su Socrate come unico vero pensatore dell’occidente che non aveva affidato alla scrittura nessuno dei suoi pensieri consegnandoli piuttosto al vento, di eterea consistenza così come la parola detta e subito svanita. E la seconda, la concezione del declino nel pensiero avverrebbe nel momento in cui si è iniziato a trascriverlo. Tutto questo porta Derrida ad affermare che:

Si può così vedere che introno alla mano e alla parola si organizzano, con fortissima coerenza, tutti i tratti la cui costante ricorrenza, sotto i nomi di logocentrismo e fonocentrismo, avevo altrove richiamato.27

Poniamoci alla ricerca di questo altrove: pensare radicalmente la necessità della scrittura equivale, allora, per Derrida, ammettere che all’inizio non vi è alcun logos puro e raccolto presso di sé, che si esteriorizzerebbe in un secondo momento nel segno. Se vi è logos, senso, esperienza, cioè presente e rapporto a un presente, vi è scrittura, cioè alterazione, mediazione, passaggio, e perciò vi sono articolazioni, relazioni, comunicazioni, segni tratti, differenze. Eppure la rappresentazione fonico-espressiva del linguaggio, che si è imposta all’alba del pensiero greco, non costituisce in alcun modo, come si è accennato, una conseguenza regionale della metafisica: in essa ne va, al contrario, della metafisica come tale.

La considerazione del linguaggio come espressione implica, infatti, il rimando a una interiorità: espressione significa estrinsecazione di un interno già costitutivo in se stesso. Il linguaggio non cessa di essere visto come espressione anche quando si volge l’attenzione al suo aspetto significante e si mette tra parentesi la dimensione puramente fisico-sensibile del suono, come della grafia. Il logocentrismo si propone quindi come una precisa gerarchia tra phonè e gramma, tra la temporalità della voce e la spazialità dell’iscrizione, tra una parola orale, viva e attuale, e una lettera morta, che espone il logos: la scrittura trascina il logos fuori di sé, ne aliena la presunta purezza e lo consegna alle vicissitudini mondane, fino alla possibilità della distruzione. A motivo di ciò da Platone fino a Husserl, non si è mai smesso di celebrare il rapporto naturale e immediato tra il pensiero e la voce, il senso e il suono. L’accreditamento di un logos originario e identico a sé ha bisogno del ruolo strano, ambiguo, dalla voce, la quale manifesta una natura al tempo stesso esterna e interna, sensibile e spirituale. Ecco perché il logocentrismo ha a che fare con un certo rapporto tra voce e scrittura, con l’innalzamento della prima e l’abbassamento della seconda: la voce milita nella sfera dell’originario (logos, pensiero, senso, spirito, intenzione) mentre la scrittura appartiene all’ambito del derivato (segno, corporeità, incarnazione, spazialità). La subordinazione della scrittura alla voce protegge dunque il pensiero della presenza vale a dire la possibilità di pensare un senso, una coscienza, una vita, come presenza a sé, come pienezza ontologica originaria, non contaminata dall’alterità, dal fuori.

In questo senso nella Voce e il Fenomeno28 che Derrida denuncia il legame ancora stretto di Heidegger con la metafisica della presenza, per quel che riguarda il legame logos/phoné e la pretesa d’irriducibilità di certe unità di parole (per esempio, la parola Essere), mentre nella Grammatologia29 l’orizzonte è occupato interamente dal problema della scrittura, della sua rimozione ed esclusione nel corso di tutta la storia della metafisica ad opera del logocentrismo:

La storia della metafisica, dai presocratici a Heidegger, ha sempre assegnato al logos l’origine della verità in generale: la storia della verità, della verità della verità, è sempre stata, pur con la differenza di una diversione metaforica di cui dovremo render conto, l’abbassamento della scrittura e la sua rimozione al di fuori della parola piena.30

È necessario, d’altronde, ricordare che per Heidegger, nonostante il senso dell’essere non sia né la parola essere né il concetto di essere tale senso non è comunque nulla al di fuori del linguaggio. Per Heidegger l’esperienza che apre la possibilità in quanto tale, è un dire originario, un mostrare ciò che ci ha incontrato e che ci è accaduto (l’aprirsi dell’essere), solo la parola già detta può far ritornare all’esperienza di possibilità della parola stessa, e tale parola detta è la poesia. La sua parola è, infatti, parola pura.31 Ma parola già detta, è parola già scritta, ed è qui che si compie lo scarto di Derrida rispetto a Heidegger. È qui che Heidegger rimane vittima dei meccanismi fonocentrici ed è nella pratica e nel gesto della scrittura che Derrida cerca di compiere un piccolo passo oltre, o forse al di là.

3. Geschlecht III: il luogo della poesia di Trakl

L’accenno che abbiamo fatto alla parola poetica non è casuale e ci aiuta a introdurre alla seconda parte del saggio (che potremmo intitolare, come ci suggerisce Derrida, Geschlecht III) in questione, indirizzato a Trakl, al luogo della sua poesia e all’interesse dedicatogli da Heidegger.

L’attenzione che Heidegger dedica alla lettura di Trakl è determinata nel predominare delle figure della Verwesung32 di una de-composizione che accompagna il tramonto dell’anima nell’azzurro della notte spirituale, ossia in quella dimensione che Trakl indica come il Sacro33 e che per Heidegger allude poeticamente alla differenza ontologica fra essere e ente. In Trakl fondamentale è il carattere della svolta, della decisione del poeta di pervenire fino all’abisso del nulla dell’ente, di corrispondere cioè alla chiamata dell’Essere stesso in quanto differenza ontologica fra essere presente ed essente presente: corrispondere alla chiamata della differenza significa tuttavia riconoscere la propria essenziale nullità, il proprio-essere-per-la morte, la propria autentica essenza in quanto apertura al nulla della differenza. Il luogo del poema di Trakl si configura come la parola della differenza, come la dipartenza dell’anima che, straniera sulla terra, si pone in cammino verso la regione di un’azzurra sacralità che prelude alla riappropriazione, da parte della stirpe umana (Geschlecht), decaduta e decomposta,34 della propria autentica obliata essenza, in quel tempo della povertà35 che il dolore della dipartenza redime e consacra e al tempo stesso come mito dell’assenza e dell’inizio indisvelato di ciò che Trakl indica come Abenland, terra della sera: Occidente.

Heidegger si propone perciò di indicare e di osservare il luogo che unifica in un unico poema il dire poetico di George Trakl, il titolo di questo scritto suona: Il linguaggio nella poesia. Il luogo del poema di George Trakl. La ricerca del luogo unificante del poema nella sfera del non-detto, il reciproco rimando di Erörterung ed Erläuterung, fra localizzazione del poema e spiegazione delle poesie, si configura come quel circolo ermeneutico nel quale già dimora e dal quale non può mai uscire ogni colloquio del pensiero con la poesia di un poeta, ogni colloquio che miri a evocare l’essenza del linguaggio. Emerge da queste parole lo scopo fondamentale che suscita il colloquio fra il pensare (Denken) di Heidegger e il poetare (Dichten) di Trakl: evocare l’essenza del linguaggio affinché i mortali imparino nuovamente ad abitare nel linguaggio. Per Heidegger il linguaggio viene considerato, dunque, come momento fondamentale nel rapporto ermeneutico dell’essere umano con la differenza tra presenza e ciò che può farsi presente.

Infatti, il luogo del poema di Trakl è ascoltato e raccolto da Heidegger nell’aspetto angosciante della Verwesung, di una de-composizione delle figure36 di un mondo (metafisico) dominato dall’oblio dell’essere, che è oblio della differenza ontologica fra essere ed ente, incapacità di corrispondere all’essenza del linguaggio che annuncia la differenza fra presenza e presente, fra mondo e cose: di un mondo, quello occidentale, dominato dall’es ist dalla semplice presenza (piuttosto che dall’es gibt), incapace di corrispondere all’appello della parola che dona e concede la cosa.

Il luogo del colloquio che Derrida intende illuminare si gioca nel luogo dove Heidegger nella ricerca della Erörterung del poema di Trakl nomina la parola Geschlecht, e ciò avviene in due punti del testo in questione, Il linguaggio nella poesia. Il luogo del poema di George Trakl. Il primo luogo riguarda il commento di Heidegger alla poesia Anima d’autunno (Herbseele),37 dove egli medita a riguardo guidato nel rapporto tra Schlag (colpo e tutti i significati derivati possibili) e Geschlecht. Leggiamone la traduzione che ne fa Derrida:

La nostra lingua chiama (nennt: nomina) l’umanità (Menschenwesen) che ha ricevuto l’impronta di una battuta — e in questa battuta è colpita da specificazione (und in diesel Schlag verschlagene: ed effettivamente verschlagen in senso corrente vuol dire specificare, separare, inframmezzare, distinguere, differenziare) — “Geschlecht”. […] Il termine Geschlecht significa sia la specie umana (Menschengeschlecht) nel senso dell’umanità (Menschheit) sia le specie in senso di ceppi, stirpi, famiglie, il tutto a sua volta colpito (dies alles wiederum geprägt: colpito nel senso di ciò che ha ricevuto l’impronta, il typos, il marchio tipico) dalla dualità generica dei sessi (in das Zwiefache der Geschlechter).38

Il secondo luogo è il momento in cui Heidegger sottolinea come il tema di due poesie di Trakl Abendland e Abendlandisches Lied sia il declino dell’occidente, soffermandosi particolarmente sul verso iniziale: O notturno batter d’ali dell’anima, ma soprattutto ciò che a questo verso segue annunciato dai due punti che precisano: Ein Geschlecht.

Dopo questi due versi, due punti e due semplicissime parole “Ein Geschlecht”. “Ein”: la sola parola che in tutta la sua opera — nota Heidegger — Trakl rileverà in questo modo. La parola così sottolineata (Ein) darebbe dunque il tono fondamentale, la nota fondamentale (Grundton). Ma si tratta del Grundton del Gedicht e non della Dichtung, poiché Heidegger distingue regolarmente il Gedicht, che sempre rimane impronunciato (ungesprochene), silenzioso, dalle poesie39 (Dichtungen) che, invece, dicono e parlano procedendo dal Gedicht.40

Innanzitutto: la tematica dell’occidente che non designa solo geograficamente, ma ontologicamente il luogo della nostra civiltà, nel passaggio dall’alba al tramonto in essa celato. Come scrive Gianni Vattimo: «l’occidente non è la terra in cui l’essere tramonta, mentre altrove splende, splendeva, splenderà alta nel cielo di mezzogiorno; l’occidente è la terra dell’essere, l’unica, proprio in quanto è anche, inscindibilmente, la terra del tramonto dell’essere. »

In quest’orizzonte, l’occidente è la terra dell’essere e del tramonto, in quanto l’essere si dà soltanto nel suo tramontare. E soprattutto perché vivere pienamente il tramonto significa prepararsi a vivere di un nuovo inizio, perché è nella luce del tramonto che si cela già da sempre l’alba di un nuovo dì. La terra della sera custodisce perciò l’alba dell’Ein Geschlecht, e Heidegger in questa parola intende far conservare la plurivalenza di significati che abbiamo già evidenziato: esso caratterizza la stirpe dell’uomo cui è costitutiva la storicità il genere umano in contrapposizione agli altri esseri viventi, le generazioni, i ceppi, le schiatte, le famiglie di questo genere umano, la duplicità dei sessi, il punto focale d’interesse derridiano:

È vero che questa volta Heidegger parla della differenza sessuale che arriva di nuovo, in seconda battuta, a colpire, a battere il Geschlecht in tutti i sensi che abbiamo testé enumerato. Su questa seconda battuta si concentreranno le questioni che solleverò più tardi.41

Già in precedenza Heidegger aveva caratterizzato la stirpe degradata in virtù della dilacerante discordia dei sessi che in essa regna, conducendo alla cieca animalità e alla sfrenata individualità.42 È l’Ein dell’Ein Geschlecht che negherà tale discordia, ma non per rovesciarla in una piatta unità indifferenziata, ma come segno della forza unificante ritrovata di un comune destino di mortalità, ma il carattere terreste e mortale dell’essere, con i suoi tratti indebolenti e alleggerenti, non può che garantire la gioia delle possibili deboli differenze, nelle quali soltanto si dà, a mezza luce, la differenza ontologica che a, sua volta è assenza di radicale evidenza e pluralità di sfumature.

In questo senso, Derrida individua come uno dei punti focali della sua lettura,43 nel rapporto animalità-umanità come pensiero della differenza, della differenza tra due differenze sessuali, come un’ulteriore marca del Geschlecht. Più volte nel testo su Trakl si fa riferimento a un’azzurra fiera44 che il poeta esorta a serbare memoria dello straniero. Si sta sicuramente parlando di un’animale, ma non di uno qualsiasi perché:

… il suo sguardo deve cercare e affissare lo straniero. La fiera azzurra è un animale, la cui animalità non consiste evidentemente nella bestialità, bensì in quel memorante guardare cui esorta il poeta. Una tale animalità è ancora così lontana che appena è dato intravederla. Perciò l’animalità dell’animale del quale qui si parla è ancora in uno stato di indeterminatezza: non è ancora giunta alla verità del suo essere. Per usare la parola di Nietzsche, questo animale, cioè l’animale pensante, l’animal rationale, l’uomo, non è ancora fest gestellt.45

Perciò, secondo Heidegger, l’animale in questione è l’uomo quale si è configurato nella storia della metafisica occidentale a partire da Platone, quell’animal rationale che lo stesso Nietzsche considera non ancora saldamente fissato nel suo autentico essere: è l’uomo contemporaneo la cui animalità non è ancora pervenuta al sicuro, nel luogo d’origine della sua essenza velata. È l’uomo che comprende il tempo a partire dall’ora-presente in relazione al quale il futuro è semplicemente il non-ancora-presente, e il passato soltanto il non-più-presente, l’uomo che non è ancora pervenuto all’attimo che dischiude il futuro autentico come avvento dell’esser-stato, poiché non è stato ancora sfiorato dall’azzurro crepuscolare del Sacro.

Heidegger, però, è proprio nel confronto con Rilke, che definisce la differenza metafisica tra uomo e animale, cui ci richiamiamo un momento per chiudere le riflessioni intorno al primo punto focale sul quale Derrida ci aveva chiamato a riflettere:

L’animale, al contrario, non vede affatto l’aperto, non lo vede mai, con nessuno dei suoi occhi, quali siano. Eppure l’inizio dell’ottava elegia46 di Rilke dice esattamente l’opposto.47 L’aperto di cui parla Rilke non è l’aperto nel senso dello svelato,48 il significato fondamentale, determinante, basilare della parola aperto è per Rilke lo sconfinato, l’infinito, ciò in cui gli esseri viventi esalano l’ultimo respiro per librarsi nello sconfinato.49

Per Heidegger, Rilke, poetando, raggiungerebbe la vertigine dell’animalità. Non a caso anch’egli è poeta nel tempo della povertà, dove nella parola povertà è sottintesa quella dell’animale che non ha parola. La povertà di linguaggio significa animalità, e dunque, povertà di mondo. Quando le parole ci mancano, quando non riusciamo a proferire parola, diventiamo animali. È chiaro che, così stando le cose, Heidegger si dichiarerebbe reo agli occhi di Derrida di dare ancora preminenza al potere della voce e del logos rispetto alla scrittura, animale, nel senso heideggeriano di quell’avere-senza-avere.

Si potrebbe anche dire che l’animale non può che prendere o manipolare la cosa nella misura in cui non ha rapporti con la cosa come tale. Non la lascia essere ciò che nella sua essenza. Non ha accesso all’essenza dell’ente come tale.50

E noi aggiungiamo, non avere accesso all’ascolto di quel logos dis-velante, non avere accesso all’ascolto del dire originario, e compiendo un piccolo salto verso il luogo del filosofare proprio derridiano, tutto questo significa rimanere ancorati ancora entro i limiti della metafisica logo-fonocentrica della presenza. Come scrive Ferraris: «la filosofia heideggeriana della differenza si muove per l’essenziale entro i canoni dell’essere, di cui la differenza sarebbe che una modificazione determinata. Il logocentrismo, infatti, non vuol dire altro che pensare l’essere sotto la forma della presenza e del presente, che si attualizza nella parola».51 Un altro nodo intorno al quale Derrida ci invita a riflettere è la distinzione Erörterung ed Erläuterung e il loro reciproco rapporto (Wechselbezug). Può considerarsi in coincidenza con quello che altrove Heidegger nomina circolo ermeneutico?52

Erörterung deriva dal verbo erörtern che significa, nel nostro caso, indicare e osservare il luogo (Ort) e perciò il luogo del poema stesso, sarà dunque nel Dire originario, si muoverà nella sfera del non-detto, di ciò che manifestandosi si occulta e occultandosi si manifesta. Saranno i singoli componimenti poetici ad additarci quel luogo, a farcelo intravedere. L’Erörterung si qualifica come il riecheggiare del non-detto, ciò che ci conduce in un luogo di velato disvelamento, in cui s’illuminano debolmente gli sfondi oscuri della parola poetica. È facile riconoscere nell’Erörterung molti dei caratteri che abbiamo in precedenza ravvisato nell’Erläuterung, come se, nel cammino heideggeriano l’erörtern sia destinato a sfumare nell’erläutern.

Ma tale sfumare è, insieme, un effondersi, un farsi diffuso: l’emergere del non-detto accade in un orizzonte più ampio che è indicazione del luogo di un’intera opera poetica, all’interno del quale ogni singola parola si intreccia con le altre e dialoga con esse in quell’apertura comune che è provenienza e invio. L’Erläuterung, così come l’abbiamo tracciata secondo le indicazioni heideggeriane conserva i suoi tratti ed è per essa che ogni parola poetica va soggetta a un ascolto che è, insieme, interpretazione; essa può, però, condurci alla radura del non-detto soltanto diffondendosi in un Erörterung che sia collocazione dell’ascolto nel luogo in cui l’essere accade, in un susseguirsi di aperture e di nascondimenti. Come dice Heidegger, ogni colloquio del pensiero con la poesia non può uscire da questo reciproco rimando tra Erörterung ed Erläuterung.

Possiamo, così, rispondere all’interrogativo (probabilmente retorico) posto precedentemente da Derrida: si è già detto, d’altra parte, come un’Erörterung del poema sia possibile soltanto attraverso un ascolto interpretante, un’Erläuterung delle singole opere poetiche. Ci troviamo pertanto a contatto, con una delle più chiare immagini del circolo ermeneutico, in un’ottica d’indispensabile pre-comprensione.

Importante è, ancora, analizzare ciò che Derrida chiama una certa manovra di scrittura, ovvero il ricorso nei momenti focali del testo, da parte di Heidegger, a idiomi in concreto intraducibili derivanti dall’alto o antico tedesco. Ovviamente Derrida sta pensando alla parola Geschlecht, ma essendo questa parte del saggio semplicemente una sintesi di quello che nel proprio manoscritto è intitolato Geschlecht III, si affida alla lettura di un brano di David Krell intitolato Colpi di amore e morte: Heidegger e Trakl, per rendere evidente tutta la manovra heideggeriana sull’idioma Geschlecht messo in connessione con Schlag:

Schlagen significa assestare un colpo, colpire o battere. Uno Schlag può essere la stretta di mano, il rintocco della mezzanotte, o il colpo apoplettico, il battito delle ali o del cuore. Der Schlag può quindi voler dire un conio particolare, un’impronta o un tipo. È grazie a questo senso che Schlag costituisce la radice di una parola molto importante per Trakl, das Geschlecht, in cui riposano tre significati principali: in primo luogo, traduce il termine latino genus, das Geschlecht è un gruppo di persone che condivide un’ascendenza comune, in special modo se costituiscono una parte della nobiltà ereditaria; in secondo luogo, das Geschlecht può indicare una generazione di uomini o donne che muoiono per far strada ad una generazione successiva. In terzo luogo, ci sono Geschlechter maschili e femminili, e Geschlecht diventa radice di molte parole perciò che maschi e femmine hanno e fanno in funzione dei due primi significati.53

C’è poi la parola fremd. Canta Trakl, Es ist die Seele ein Fremdes auf Erden. Straniera è l’anima sulla terra. L’anima è “cosa straniera” sulla terra, ma non perché sia incatenata in quel carcere chiamato “corpo” dal quale dovrebbe liberarsi quanto prima. Il suo essere ein Fremdes significa all’opposto, per Heidegger, l’essere in cammino verso un luogo (Ort) che le è pre-riservato, verso quel luogo nel quale essa, in quanto viandante, potrà sostare e restare. L’anima, straniera sulla terra, segue una voce, un richiamo (Ruf) appena percettibile sulla via che conduce al suon proprio. Il cercare la terra cui si appartiene, è essere viandante; l’appartenere alla terra che si cerca è essere in cammino. L’anima che ha in sé la sua terrestrità ha in sé, ne sia o meno consapevole, il destino di divenire. A tale destino essa è chiamata; è chiamata a realizzare quella terrestrità per potervi poeticamente costruire e abitare.

Il Dichten, come il Denken, sono opere della mano, della mano che dona, dell’opera della mano che poggia sul pensiero. Nell’es gibt della Lichtung parla l’Ereignis, cioè quel donare o quel dare che si trattiene in se stesso, che si destina sospendendosi nella e a favore della donazione. Perché anche il pensiero, così come il suo colloquio con la poesia, è la più difficile e semplice opera della mano.

4. Gesto del dono, gesto della scrittura

La problematica del dono non emerge nel pensiero di Derrida, all’improvviso, essa risponde più chiaramente a una necessità teoretica sorta dal confronto con Heidegger, ed è in quest’orizzonte di colloquio che egli tende a sottolineare infaticabilmente che occorre far avvenire l’evento, occorre muoversi affinché avvenga il gesto della pratica: cioè se la verità, l’essere, così come la metafisica l’ha inteso non esiste, e si dà in una differenza, è la pratica che deve marcarsi. Detto questo, l’apertura delle domande heideggeriane permane e caratterizza comunque la struttura d’interrogazione del filosofare derridiano, eppure certi temi prendono derive teoretiche nuove, e probabilmente inaspettate: siamo collocati nell’orizzonte di quella pratica di pensiero e di scrittura che confrontandosi comunque con Heidegger e con il tema della differenza ontologica portano Derrida a un confronto che assume connotati e valenze di mutato segno rispetto al rapporto con il pensiero heideggeriano.54

Per mostrare questo movimento di pensiero, abbiamo focalizzato la nostra attenzione esclusivamente sul testo la Mano di Heidegger, composto di tre saggi,55 tre voci autonome che costituiscono comunque nel loro insieme una maglia che tesse un unico percorso ermeneutico nei confronti del pensiero heideggeriano. Ciò che in essi emerge più significantemente, più che una critica ad Heidegger è l’intricato intreccio tra pratica, gesto e dono. Emerge una pratica, quella di Derrida, che andrebbe letta come un gesto che offre, che dona ed espone l’altro a una nuova possibilità di sguardo. Un gesto dunque è davvero un segno, ma non inteso in senso semiotico, quanto come un’indicazione tesa a mostrare qualcosa, come indicazione che nasconde mentre rivela, in quanto indicazione fatta di pieni e vuoti, luci e ombre.

Se c’è un filo che corre lungo tutto il pensiero di Derrida, è la dicotomia possibile-impossibile, nella loro logica aporetica. Tutto può essere pensato sotto la categoria di possibile, se non la possibilità stessa dell’evento perché se fosse possibile esplicitarlo, rivelarlo, svelarlo, allora non sarebbe più evento.

Un evento per essere tale deve essere una sorpresa assoluta, deve interrompere il corso della storia e di conseguenza l’intreccio delle possibilità. L’evento deve essere possibile come impossibile, non può essere un evento se non a condizione che giunga laddove non è anticipabile, dove sembrava impossibile.56

Insieme all’evento, questa logica, appartiene al dono. È per questo che Derrida si rivolge all’Ereignis heideggeriano scorgendone il gesto che prova a pensare e preparare a un evento che dà l’essere, esponendolo come dono e sottraendolo all’appropriante e definente potenza della voce e dell’intelletto.

Il dono come apertura della possibilità stessa di pensare, è ciò che Heidegger lascia intravedere nell’es gibt, nel si — dà essere, facendo così supporre che se tale essere, come ci diceva già la differenza ontologica, è la differenza stessa, allora essa è il dono da pensare.57 Interessante ciò che nota a riguardo C. Resta «Pensare l’essere come donazione vuol dire dunque allontanare l’equivoco, su cui si fonda tutta la metafisica occidentale, che conduce alla confusione tra essere e ente e restituire al pensiero il senso di questa differenza. Una differenza che ora Heidegger radicalizza fino al punto di volersi quasi sbarazzare della parola essere, a favore dell’es gibt».

Nel pensiero del dono, nuovamente, Derrida sottolinea in Heidegger il movimento del proprio e della propriazione, ma per egli non esiste il proprio dell’Ereignis, il proprio del dono, perché esso come il dono è un evento unico, singolare e irripetibile. L’Ereignis, dunque, nel senso dell’evento come dono serve a Derrida per sottolineare il carattere passivo dell’esperienza del pensiero e del compito decostruttivo. Ma questa concezione del ritardo, della passività totale, si esperisce nella scrittura, nella scrittura di Derrida in cui egli fa risuonare l’evento come eccedenza, dono e apertura all’altro. È la scrittura, l’evento.

Finora abbiamo tentato di mostrare come Derrida tenti di prolungare la questione heideggeriana di quale sia il compito del pensiero, chiamato ad un nuovo rapporto con l’essere, nella posta in gioco della scrittura. Ma come è possibile pensare l’evento della scrittura, del dono dell’altro che è altro? Come pensarlo al di là dell’orizzonte del senso e della verità? Chiaramente l’evento che più d’ogni altro, per Derrida, decostruisce il sistema della pura e cristallina presenza del senso è la scrittura, come scrive M. Telmon «essa sola (la scrittura) si fa carico di quello spostamento che nell’Ereignis heideggeriano si è operato dall’essere al si dà, mostrando nuove direzioni per il pensiero».58

Il dono però, come l’evento, lo avevamo annunciato, è attraversato dall’aporetica logica possibile-impossibile: esso può essere ciò che, un dono puro e incondizionato, solo a condizione di non apparire e di non essere percepito come tale, di non presentarsi e significarsi in quanto dono. Se il dono appare come tale, scompare come tale. Oppure, detto positivamente: un dono può apparire come tale solo scomparendo come tale. Esso non deve apparire e presentarsi come tale al destinatario del dono, poiché solo questo basterebbe a innescare il processo di sdebitamento, reale o simbolico, e a garantire il ritorno economico. Ecco lo spiazzamento, il double bind del dono:

Perché ci sia dono occorre che il dono non appaia neppure, che non sia percepito come dono. Perché ci sia dono non occorre solamente che il donatario o il donatore non percepiscano il dono come tale, non abbiano né conoscenza né memoria né riconoscenza, occorre anche che lo dimentichino all’istante, che questo oblio sia così radicale da debordare perfino la categoria psicanalitica dell’oblio.59

Paradossalmente dunque il riconoscimento del dono si sovverte in una logica del possesso, del calcolo della spesa, in un’economia del dominio, finalizzata all’utilità e all’estinzione del debito, perché già il semplice riconoscimento del dono costituirebbe un risarcimento, per quanto simbolico, ancor prima di ogni esplicito render grazie, e annullerebbe il dono:

Affinché ci sia dono, non deve esserci reciprocità, ritorno, scambio, contro-dono né debito. Se l’altro mi rende o mi deve, o mi deve rendere ciò che gli dono, non ci sarà stato dono, il dono è annullato. Esso si annulla ogni qual volta c’è restituzione o contro-dono. Ogni volta, secondo lo stesso anello circolare che porta a rendere c’è pagamento, saldo di un debito.60

Ecco perché il dono dovrebbe sorprendere di continuo, sorprendere ed eccedere la soggettività dell’“io dono”; il dono non è mai donato da un soggetto che intende, vuole, può donare, e questo rimette in questione l’assioma moderno del soggetto cogitante cartesiano che è sovrano e padrone di sé e dei suoi atti.

Per questo, se c’è dono, il dono non può più aver luogo tra soggetti che si scambiano oggetti, cose o simboli. Il problema del dono dovrebbe così cercare il suo luogo prima di ogni rapporto con il suo soggetto, prima di ogni rapporto con sé del soggetto, conscio o inconscio.61

È necessario, perciò, un pensiero, una scrittura che tenta di pensare e di scrivere il dono al di là dei meccanismi di dialettica della ragione: non deve lasciarsi afferrare e possedere dalla ragione calcolante. Ed è la scrittura in Derrida, forse, il tentativo più visibile di questo riconoscimento del dono e del debito, insieme, come ci spiega Derrida:

Benché tutte le antropologie, o metafisiche del dono, abbiano, a giusto titolo e con ragione, trattato insieme, come un sistema, il dono e il debito, il dono e il ciclo della restituzione, il dono e il prestito, il dono e il credito, il dono e il contro-dono, noi ci separiamo qui, in modo brusco e deciso, da questa tradizione. Cioè dalla tradizione stessa. Non c’è dono, se ce n’è, che in ciò che interrompe il sistema o il simbolo stesso, in una partizione senza ritorno e senza ripartizione, senza l’essere-con-sè del dono/contro-dono.62

Di riconoscerlo volta dopo volta, gesto dopo gesto, come qualcosa di impossibile. Il dono, se ce n’è, è possibile solo come l’accordo miracoloso e gratuito di queste due istanze contrapposte e inconciliabili: ecco il carattere eccessivo, eccedente, smisurato, e impossibile del dono. Esso può avere luogo solo a condizione di non aver luogo. Bisogna che il dono appaia senza apparire, si annuncia senza presentarsi, sia avvertito come tale senza essere avvertito come tale, sia cosciente senza coscienza, intenzionale senza intenzione, involontario, ricordato e subito consegnato all’oblio. Nello stesso tempo, nel tempo di uno stesso respiro, entrambe. Tutto questo è possibile? Impossibile. Leggiamo ancora Derrida:

Ovunque il tempo domina e condizione l’esperienza in generale, ovunque domina il tempo come circolo, il dono è impossibile. Un dono potrebbe essere possibile, può aversi dono solo nell’istante in cui un’effrazione avrà avuto luogo nel circolo: nell’istante in cui ogni circolazione è stata interrotta e nella condizione di questo istante. Non ci sarebbe dono che nell’istante paradossale che lacera il tempo. In ogni caso il tempo, il presente del dono non è più pensabile come un’ora, cioè come un presente incatenato nella sintesi temporale.63

Ma il dono, se ce n’è, richiede la fatica nella sopportazione di questa aporia, l’evento di questo impossibile. Si tratta perciò di avere a che fare, in ultima analisi leggendo insieme l’insistente riferimento di Derrida alla scrittura parimenti a quello heideggeriano al linguaggio,64 nella continua pratica di quella scrittura che guarda al carnale, al corporeo, al gesto fisico, concreto e materiale della scrittura. Una carnalità che avendo a che fare con il dono si rivela, impossibile. Nella nostra conclusione, ci consegniamo alle parole di G. Zingari:

Il compito della filosofia, a mio modo di vedere, dovrebbe essere quello di confrontarsi una volta per tute con la ragione e con i rischi non affatto evidenti della razionalità, emanciparsi da essa è emanciparsi da una costruzione arrogante e oppressiva del reale, e ritorna a quella filosofia originaria definita in un modo straordinario da Aristotele: una filosofia nascente dello stupore, della meraviglia. In fondo potrebbero essere proprio questo messaggio e quest’idea, a permettere il congiungersi e configurarsi nella riflessione sul dono. Alla pratica del dono si accompagna sempre uno stupore, una meraviglia, un’apparizione di qualcosa di inaspettato. Questa idea di Aristotele io la trovo in questo contesto attualissima. La filosofia dovrebbe muoversi per iniziare un cammino da questi modi di sentire e di lasciare da parte l’asservimento, rinunciare all’avvilimento del prosaico, per accogliere e rivolgersi a queste apparizioni inattese dell’altro. Il dono è una di essa. Il significato del dono potrebbe essere questo: essere ciò che è sempre imprevedibile verso l’altro e estraneo ad una logica di scambio interessato. Donare e fare dono di qualcosa, vuole dire interrompere una catena razionale e fare del gesto prodigo del dono un dispendio e una rinuncia e insieme una dimenticanza felice e impensata di sé, mettendosi da parte e dispensandosi a favore degli altri.65


  1. M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, trad. it. di U. Ugazio e G. Vattimo, SugarCo, Milano, 1996. ↩︎

  2. La Mano di Heidegger (Geschlecht II), conferenza pronunciata nel marzo del 1985 a Chicago in occasione di un convegno organizzato da John Sallis, e i cui atti sono stati successivamente pubblicati dalla University of Chicago Press (Decostrution in Philosophy). ↩︎

  3. Questo saggio è un preliminare abbozzo, come ci suggerisce Derrida, volto alla collocazione della nozione di Geschlecht nel cammino di pensiero heideggeriano - e anche nel cammino della sua scrittura - che verrà proseguita nel saggio seguente intitolato, appunto, Geschlecht II↩︎

  4. Da questo punto in poi ci riferiremo all’edizione del saggio in questione presente nel volume J. Derrida, Psychè Invenzione dell’altro, vol. 2, trad. it. di R. Balzarotti, Jaca Book, Milano 2009, pag. 40, utilizzando la sigla Ge. II seguita dal numero di pagina. ↩︎

  5. Gli studi su Trakl sono presenti nel volume M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, trad. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Mursia, Milano, 1990, pp. 27-44 e 45-81. ↩︎

  6. Ge. II, pag. 41. ↩︎

  7. A noi basti ciò che Heidegger afferma riguardo la sua incapacità di distinguere tra il nazionale e il nazionalismo, tra il nazionale e un’ideologia biologista e razzista: «Ero intervenuto nel 1933 sì al nazionale e al sociale (e non al nazionalismo) e non ai fondamenti intellettuali e metafisici su cui poggiava il biologismo della dottrina del Partito, perché il sociale e il nazionale come li vedevo io, non erano essenzialmente legati a un’ideologia biologista e razzista». D’altronde lo stesso Derrida non è interessato a riaprire il “dossier” sul problema del versante “politico” del pensiero di Heidegger, avendolo già fatto altrove. ↩︎

  8. «Un segno noi siamo che nulla indica, Senza dolore noi siamo e abbiamo dimenticato la lingua in terra straniera». M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cit., pag. 43. ↩︎

  9. (corsivo mio) ↩︎

  10. Ge. II, pag. 46. ↩︎

  11. Ge. II, pag. 46. ↩︎

  12. M. Heidegger, L’inno der Ister di Hölderlin, trad. it di C. Sandrin e U. Ugazio, Milano, Mursia, 2003, pp. 60-67. ↩︎

  13. «La presente interpretazione del segno non doveva che offrire la base fenomenica per la caratterizzazione del rimando. La relazione segno e rimando è triplice: 1) L’indicare, in quanto possibile concrezione dell’a-che di un’utilità, è fondato nella struttura del mezzo in generale, nel per (rimando). 2) L’indicare proprio del segno, appartiene, in quanto carattere di mezzo di un utilizzabile, a una totalità di mezzi, a un complesso di rimandi. 3) Il segno non è soltanto utilizzabile insieme ad altri mezzi, ma la sua utilizzabilità rende il mondo-ambiente esplicitamente accessibile alla visione ambientale preveggente. Il segno è un utilizzabile ontico che, in quanto è questo determinato mezzo, funge nel contempo da qualcosa che indica la struttura ontologica dell’utilizzabilità, della totalità dei rimandi e della mondità». M. Heidegger, Essere e Tempo, trad. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano, 2001, pag. 107. ↩︎

  14. Ge. II, pag. 47. ↩︎

  15. M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, cit., pp. 108-109. ↩︎

  16. Come sottolinea C. Resta: Passare dal pensiero dell’essere al pensiero del dono comporta, innanzitutto, la denuncia e la condanna nel tentativo metafisico di ridurre l’essere a cosa, a ente-presente, a oggetto di rap-presentazione. Heidegger invita dunque a questo impensato e forse impensabile: dare, donare non qualcosa, ma il gesto di una rinuncia, rinuncia a prendere, a cogliere a fissare lo sguardo, a rap-presentare, forse persino a com-prendere attraverso un be-greifen. C. Resta, Pensare al limite, Guerini, Milano, 1990, pag. 177. ↩︎

  17. Ge. II, pag. 53. ↩︎

  18. M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, cit., pag. 207. ↩︎

  19. Fondamentale sarà imparare a rendere grazie e abbandonarci al dono del pensiero perché «Denken ist Danken». Ivi, pag. 92. ↩︎

  20. Ricordiamo che il manifestarsi della verità, così come del linguaggio, è anche sempre un occultarsi: «il linguaggio è avvento diradante-velante dell’essere». M. Heidegger, Lettera sull’Umanismo, trad. it. diF.Volpi, Adelphi, Milano, 1995, pag. 79. ↩︎

  21. Ge. II, pag. 45. ↩︎

  22. «Non c’è problematica del dono che a partire da una problematica conseguente della traccia e del testo. Non ce ne può mai essere a partire da una metafisica del presente, del segno, del significante, del significato o del valere. È una delle pagine per le quali si parte sempre dai testi, nell’elaborazione di questa problematica, dai testi nel senso corrente e tradizionale di lettere scritte o della letteratura, o dai testi nel senso di tracce differenziale secondo un concetto elaborato altrove». J. Derrida, Donare il tempo, Raffaele Cortina Editore, Milano, 1996, pag. 130. ↩︎

  23. Ge. II, pag. 57. ↩︎

  24. Ge. II, pag. 58. ↩︎

  25. Ge. II, pag. 60. ↩︎

  26. «Al contrario, insiste sulla co-appartenenza essenziale e originaria di Sein, Wort, legein, logos, lese, Schrift come Hand-schrift. Questa co-appartenenza che li raccoglie dipende d’altronde dallo stesso movimento del raccogliere che Heidegger legge sempre, qui e altrove, nel legein e nel Lesen». Ge. II, pag. 62. ↩︎

  27. Ge. II, pag. 63. ↩︎

  28. J. Derrida, La voce e il fenomeno, trad. it. V. Costa, di Jaca Book, Milano, 1984. ↩︎

  29. J. Derrida, Della grammatologia, trad. it. di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano, 1969. ↩︎

  30. Ivi, pp. 5- 6. ↩︎

  31. Il pensiero greco, e in questo caso quello parmenideo, ci restituisce il modo di esserci dell’essere con quella meraviglia tipica del pensiero aurorale. Il frammento dispiegandosi in una duplicità fondamentale, ci dice, secondo Heidegger, che l’esserci nel suo essere e nel suo darsi è essente. Il puro pensiero significa che l’essere chiama a sé il dire e il pensare. Questa purezza del pensiero, e del linguaggio, Heidegger la rintraccia oltre che nel pensiero greco, anche nella parola poetica: «Parola pura è la poesia». Non solo la poesia va letta con intenti ontologici, ma l’ontologia - nel suo sforzo di oltrepassare la metafisica - può forse dispiegarsi solo in una forma poetica, per tali motivi, bisogna riconoscere l’esperienza estetica come il luogo dell’esperienza della verità. ↩︎

  32. «Quel che capita al Geschlecht come sua decomposizione (Verwesung), sua corruzione, è un secondo colpo che viene a colpire la differenza sessuale e la trasforma in discordia, in guerra, in selvaggia opposizione. La differenza sessuale originaria è tenera, dolce, pacifica. Quando è colpita da maledizione, la dualità o la duplicità del due diventa opposizione scatena, ferina, addirittura». Ge. II, pag. 79. ↩︎

  33. Il sacro è la traccia della divinità, la regione di una manifestatività dell’essere che rientra nella struttura epocale dell’essere stesso, nel suo donante sottrarsi come nulla dell’ente, come differenza ontologica fra essere ed ente. ↩︎

  34. «La lingua tedesca chiama la natura umana uscita da e improntata a un’unica matrice “das Geschlecht”. Questa parola indica così la stirpe umana, nel senso di umanità, come pure le stirpi, nel senso di ceppi schiatte e famiglie; tutto questo a sua volta distinto nella duplicità dei sessi. La stirpe in cui l’uomo appare nella “figura della decomposizione” il poeta la chiama stirpe sfatta». M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, trad. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Mursia, Milano, 1990, pag. 55. ↩︎

  35. Il tempo della povertà estrema sul quale Heidegger fonda le sue speculazioni teoretiche, è il tempo in cui l’uomo, rotto il rapporto autentico con l’essere, si abbandona al proprio volere soggettivo, alla strumentalizzazione tecnica della natura, si crede il padrone dell’ente, filosofa anziché pensare, considera il linguaggio come strumento di baratto e di dominio, dimentica gli dei fuggiti. È la notte del mondo, notte che raggiunge la sua estrema povertà quando l’uomo vive nell’oblio, e perfino nell’oblio di se stesso, ed è con queste parole che il filosofo commenta: «questa incapacità per cui la stessa indigenza della povertà è stata dimenticata, è la vera e propria povertà del tempo». Lungo è il tempo dell’indigenza, della sofferenza, dello smarrimento. Ma questo sprofondamento nel nulla, nel fondo dell’abisso, come canta Hölderlin, potrebbe condurci alla svolta, alla salvezza e riportarci nel sentiero interrotto verso l’essenza perduta; a tal proposito Heidegger scrive, commentando ancora Hölderlin: «Perciò i poeti del tempo della povertà devono espressamente poetare l’essenza stessa della poesia». ↩︎

  36. Le figure richiamate nel poema di Trakl sono ombre che si aggirano, come quel del dipartito che, chiamato nel tramonto che è un perdersi nell’azzurro della notte spirituale, si mette in cammino verso la terra sera che permette e consente l’abitare umano, ossia ciò che nel linguaggio di Sein und Zeit suona come l’esistenza autentica. Per un ulteriore approfondimento alla figura del diparito rimandiamo a L. A. Manfreda, Frühling der Seele. Trakl e la nuova misura del dipartito, in «OU — Riflessioni e provocazioni», n. 1, 1993, pp. 47-56. ↩︎

  37. «Tra poco dileguano pesci e fiere/ O anima azzurra, oscuro peregrinare/ Ci staccò presto dai cari, dagli altri/la sera muta senso e immagine». M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cit., pag. 54. ↩︎

  38. Ge. II, pag. 70. ↩︎

  39. Questa distinzione è operata anche più avanti, da Derrida: «Da una parte si tratta della distinzione tra Gedicht e Dichtung. Il Gedicht (parola, ancora una volta, intraducibile) è, nel suo luogo, ciò che raccoglie tutte le Dichtungen (le poesie) di un poeta. È il luogo d’origine donde provengo e verso cui risalgono le poesia secondo un “ritmo”. Non è altrove, non è altro, e tuttavia non si confonde con le poesie, nel loro dire (sagen) qualcosa. Il Gedicht è “impronunciato”(ungesprochen). Ciò che Heidegger vuole indicare, annunciare piuttosto che mostrare è il Luogo unico (Ort) di questo Gedicht». Ge II, pag. 75. ↩︎

  40. Ge. II, pag. 72. ↩︎

  41. Ge. II, pag. 70. ↩︎

  42. «La maledizione che colpisce la stirpe in disfacimento consiste nel fatto che questa vecchia stirpe è nella dilacerane discordia dei sessi. Per tale discordia ciascuno dei sessi tende all’erompere sfrenato dell’animalità pure ed egoistica della bestia. Non la duplicità in sé, ma la discordia è maledizione. Per la cieca animalità cui conduce la discordia porta la stirpe alla dilacerazione e la getta così nella sfrenatezza dell’individualizzazione egoistica. Ridotta a tale dilacerazione e frantumazione, la stirpe decaduta non rinviene più in sé la capacità di ritrovare la giusta impronta. La giusta impronta c’è solo per quella stirpe in cui la dualità si stacca dalla discordia e trapassa nella mitezza di una duplicità che è insieme semplicità o unità». M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cit., pag. 55. ↩︎

  43. «La mia preoccupazione più costante concerne, evidentemente, la marca “Geschlecht” e in ciò che in essa rimarca la marca, la battuta, l’impressione, una certa scrittura come Schlag. Mi sembra che questo ri-marcare intrattenga un rapporto essenziale con ciò che, un po’ arbitrariamente, colloco in questi cinque punti focali da interrogare». Ge. II, pag. 74. ↩︎

  44. Citiamo, a paradigma, l’ultima strofa del Declino dell’estate: La verde estate si è fatta così lieve/ e risuona il passo/ dello straniero nell’argentea notte./ Oh, serbasse un’azzurra fiera memoria del suo sentiero,/ dell’eufonia di suoi anni spirituali. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cit., pag. 49. ↩︎

  45. Ivi, pag. 51. ↩︎

  46. «Con tutti gli occhi vede la creatura/l’aperto. Gli occhi nostri soltanto/sono come rivoltati e tesi intorno a lei,/ trappole per il libero suo uscire./ Ciò che è fuori, puro, solo dal volto/animale lo sappiamo». R. M. Rilke, Poesie 1907-1926, a cura di F. Rella, BUR, Milano, 2004, pag. 315. Questa Elegia Rilke l’ha definita «La silenziosa», in questi versi si insinua l’ombra della tristezza, della fragilità degli esseri, pur nel loro riscoperto destino di essere faccia a faccia con il mondo. È l’Elegia dello sguardo animale, degli esseri minuscoli che siamo noi nel nostro essere. ↩︎

  47. L’elegia ci canta la nozione di Aperto che nel linguaggio del poeta rappresenta qualcosa privo di ogni limite, uno spazio puro che si apre dinanzi piante e animali senza mai opporre frontiere al loro cammino e al loro sguardo. Come luogo che non innalza ostacoli, l’Aperto è ciò che consente di camminare infinitamente avanti verso la purezza che solo la libertà assoluta può donare. All’uomo sembra essere assegnato un altro destino, quello di volgersi nella direzione contraria all’Aperto, sempre e solo di fronte a esso, senza potere fare parte della sua grandezza ove gli è precluso quello spazio che non è delimitato da nessun orizzonte in cui gli eventi dell’essere acquistano profondo senso. ↩︎

  48. Come afferma Heidegger, in Sentieri Interrotti: «Nella concezione dell’Aperto proposta da Rilke è anche del tutto esclusa ogni sua possibile identificazione con l’originaria ed essenziale illuminazione dell’essere, poiché la poesia di Rilke è all’ombra di una metafisica nietzschiana addolcita». M. Heidegger, Sentieri Interrotti, trad. it. di P.Chiodi, La Nuova Italia, Firenze, 1997, pag. 245. ↩︎

  49. M. Heidegger, Parmenide, trad. it. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano, 2005, pag. 278. ↩︎

  50. Ge. II, pag. 57. ↩︎

  51. M. Ferraris, A mano, troppo a mano presente in J. Derrida, La mano di Heidegger, cit., pag. XI. ↩︎

  52. «L’interpretazione, che è promotrice di una nuova comprensione, deve aver già compreso l’interpretando. Si tratta di un fatto già notato da tempo, benché solo nell’ambito di forme derivate di comprensione e di interpretazione come l’interpretazione filologica. Questa cade nel dominio della conoscenza scientifica. Un tal genere di conoscenza richiede la rigorosa giustificazione dei propri asserti. Il procedimento dimostrativo scientifico non può incominciare col presupporre ciò che si propone di dimostrare. Ma se l’interpretazione deve sempre muoversi nel compreso e nutrirsi di esso, come potrà condurre a risultati scientifici senza avvolgersi in un circolo, tanto più che la comprensione presupposta è costituita dalle convinzioni ordinarie degli uomini e del mondo in cui vivono? Le regole più elementari della logica ci insegnano che il circolo è circulus vitiosus. Ne deriva l’espulsione a priori dell’interpretazione storiografica dal dominio del conoscere rigoroso. Poiché il costituirsi del circolo è un fatto che non può essere eliminato, la storiografia finisce per doversi accontentare di procedimenti conoscitivi meno rigorosi. Si crede di poter in qualche modo ovviare a questa mancanza di rigore facendo appello al “significato spirituale” dei suoi “oggetti”. Anche secondo l’opinione dello storiografo, l’ideale sarebbe, certo, che il circolo potesse essere evitato e trovasse fondamento la speranza di poter un giorno costruire una storiografia indipendente dall’autore, come si presume lo sia la scienza della natura. Ma se si vede in questo circolo un circolo vizioso e se si mira ad evitarlo o semplicemente lo si “sente” come un’irrimediabile imperfezione, si fraintende la comprensione da capo a fondo. Non è il caso di modellare comprensione e interpretazione su un particolare ideale conoscitivo, che, in ultima analisi, è pur sempre una forma derivata di conoscere, smarritasi nel compito in sé legittimo della conoscenza della semplice-presenza nella sua incomprensibilità essenziale. Il chiarimento delle condizioni fondamentali della possibilità dell’interpretazione richiede, in primo luogo, che non si disconosca in partenza l’interpretare stesso quanto alle condizioni essenziali della sua possibilità. L’importante non sta nell’uscir fuori dal circolo, ma nello starvi dentro nella maniera giusta. Il circolo della comprensione non è un semplice cerchio in cui si muova qualsiasi forma di conoscere, ma l’espressione della pre-struttura propria dell’esserci stesso. Il circolo non deve essere degradato a circolo vitiosus e neppure ritenuto un inconveniente ineliminabile. In esso si nasconde una possibilità positiva del conoscere più originario, possibilità che è afferrata in modo genuino solo se l’interpretazione ha compreso che il suo compito primo, durevole ed ultimo è quello di non lasciarsi mai imporre pre-disponibilità, preveggenza e pre-cognizione dal caso o dalle opinioni comuni, ma di farle emergere dalle cose stesse, garantendosi così la scientificità del proprio tema». M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., pp. 185-186. ↩︎

  53. Ge. II, pag. 77. ↩︎

  54. Ci riferiamo ai primi luoghi di confronto con il testo heideggeriano che precedono il saggio sulla mano che stiamo predendo in questione. ↩︎

  55. Geschlecht I (pp. 3 - 29), La mano di Heidegger, Geschlecht II (pp. 31 - 76) e L’orecchio di Heidegger (pp. 81 - 170). ↩︎

  56. AA. VV. A partire da J. Derrida, Scrittura, decostruzione, ospitalità, responsabilità, Jaca Book, Milano, 2007, pag. 40. ↩︎

  57. Fondamentale è lasciarsi coinvolgere dal pensiero, saperlo ascoltare affinché nel più intimo sentire si raggiunga l’essenziale; Heidegger stesso ci ricorda che «il dono più alto che ci viene fatto, quello che autenticamente dura, è la nostra essenza». In una conferenza del 1962, Heidegger spiega, tramite i suoi famosi rimandi etimologici, che l’essere consiste in un dare (gaben) che dà (gibt) la propria donazione (Gabe). Eminente è la necessità di poter ricever il dono di poterci abbandonare al pensiero, abbandonarci all’ascolto della parola poetica che può disvelare, diradando le oscurità che ci ha lasciato in eredità la tecnica, la verità nella sua luce. Pensare l’essere è collocarsi in quella condizione di luminosità indiretta, rifiutando le oggettivazioni e fare esperienza di quel pensiero che sopraggiunge all’improvviso come la luce nella radura (Lichtung) del bosco. Questo pensare senza mediazioni, è appunto il poter accogliere l’essere come dono. ↩︎

  58. M. Telmon, La differenza praticata, Jaca Book, Milano, 1997, pag. 146. ↩︎

  59. J. Derrida, Donare il tempo, cit., pag. 29. ↩︎

  60. Ivi, pag. 15. ↩︎

  61. Ivi, pag. 26. ↩︎

  62. Ivi, pag. 15. ↩︎

  63. Ivi, pag. 11. ↩︎

  64. La via per giungere all’essere è l’esperienza del pensiero poetante. È ascolto della parola poetica detta. È un raccoglimento che illumina e custodisce la radura in cui l’essere si dà, si dona, si cela, si concede, si lascia pensare. ↩︎

  65. G. Zingari, Il dono e l’occidente, le Nubi Edizioni, Roma, 2005, pp. 47- 48. ↩︎