Recensione a Didier Franck, Heidegger e il problema dello spazio

Didier Franck, Heidegger e il problema dello spazio, trad. it. di C. Fontana, Ananke, Torino 2006.

Originariamente pubblicato nel 1986, Heidegger et le problème de l’espace rappresenta per certi versi il proseguimento di un’indagine avviata da Didier Franck alcuni anni prima con il libro su Husserl Chair et corps. Un libro, quest’ultimo, il cui titolo contiene già quella che, per certi versi, possiamo considerare la parola-chiave del pensiero franckiano: chair, «carne», termine col quale egli intende rendere in francese il tedesco Leib, le cui traduzioni abituali («corpo proprio», «corpo organico» o «corpo vivente») Franck giudica insufficienti ad evidenziarne l’irriducibilità alla dimensione del Körper (la dimensione, cioè, del corpo come «cosa»). Come avverte giustamente Claudio Fontana nella Prefazione all’edizione italiana, «la riflessione di Didier Franck è una sorta di indefesso esercizio di verifica circa valore e limiti della fenomenologia» e, in questo contesto, «il corpo nella sua dimensione carnale» viene assunto come «banco di prova radicale e ineludibile dell’esperienza fenomenologica» (pp. 10 e 13). Una prova che, secondo Franck, né la fenomenologia di Husserl né l’ontologia fenomenologica di Heidegger sarebbero davvero riuscite a superare. Ma c’è di più. Secondo Franck, infatti, l’intera tradizione metafisica occidentale, in quanto fondata sul «primato indiscusso» di «interiorità, coscienza, temporalità ed eternità» — e qui Fontana rileva giustamente le significative affinità col pensiero di Jacques Derrida, «sin dai suoi esordi attento a sottolineare il peso schiacciante, la natura oppressiva ed ossessiva della questione del tempo» (p. 8) —, non sarebbe stata capace di pensare adeguatamente i concetti di corpo, mondo e spazio, cosicché essi rappresenterebbero il vero grande “rimosso” dell’Occidente, da Platone sino a Heidegger.

Per tale ragione, sin dall’Introduzione a Heidegger e il problema dello spazio Franck spiega come il suo intento sia quello di prendere le mosse dal fallimento del progetto complessivo di Essere e tempo — il progetto, cioè, di rivelare il tempo quale orizzonte fondamentale di ogni comprensione ontologica —, per mostrare come la ragione profonda di tale fallimento risieda nell’irriducibilità all’orizzonte temporale dei concetti di carne e spazio. Dall’irrompere della consapevolezza di tale irriducibilità, peraltro, Franck fa derivare la stessa necessità della celebre «svolta (Kehre)» di Heidegger negli anni Trenta e della conseguente «sostituzione dell’essere con l’Ereignis quale parola-guida della speculazione heideggeriana» (p. 101). Nonostante ciò, Franck ritiene alla fine che nemmeno il cosiddetto “secondo Heidegger” sarebbe riuscito a comprendere appieno il significato e la portata della «spazialità carnale», eccetto che in alcuni «rari testi in cui [il suo] pensiero, nella sua parte più profonda, si arrischia fuori di sé» (p. 150). Ed è proprio a questi «rari testi», allora, che egli cerca di riallacciarsi nel corso della sua approfondita analisi, al fine di evidenziare come Heidegger, sebbene abbia frainteso in definitiva il «fenomeno carnale» — che Franck non esita a definire «il fenomeno più difficile», addirittura «il fenomeno che custodisce il segreto della fenomenicità» (p. 144) —, comunque abbia fornito alcuni spunti necessari per interpretare tale fenomeno in maniera nuova, diversa, più autentica. Una volta inquadrato Heidegger e la questione dello spazio in questa cornice generale, passiamo a esaminare più dettagliatamente i contenuti e risvolti principali.

Sorvolando sul primo capitolo del libro (La questione dell’essere), il quale per certi versi è “semplicemente” un’introduzione al problema fondamentale di Essere e tempo (la Seinsfrage, per l’appunto), possiamo notare come già nel capitolo seguente (Neutralità e incarnazione) Franck metta in atto la propria strategia di radicale interrogazione dei testi heideggeriani, soffermandosi in particolare sulle tre «determinazioni ontologiche del Dasein»: la «meità», l’«esistenza» e la «neutralità». A fare problema, per Franck, è soprattutto quest’ultima determinazione (indicata da Heidegger nel corso del 1928 sui Principi metafisici della logica, laddove le prime due erano già contenute in Essere e tempo), in quanto «affermare la neutralità del Dasein significa, di rimando, impegnarsi a chiarire […] a partire da quale esistenziale la carne si lascia comprendere» (p. 74). Infatti, la spiegazione heideggeriana dei rapporti tra il «Dasein neutro» e il «Dasein fattizio, […] incarnato e sessuato» — spiegazione vertente sull’idea di una «dispersione trascendentale [fondata] sull’essere-gettato che assicura, in ultima istanza, la possibilità esistenziale dell’incarnazione sessuata» — viene giudicata da Franck insoddisfacente, giacché in questo modo risulta impossibile «comprendere le relazioni carnali-sessuali tra più Dasein fattizi in quanto unione generica, senza con ciò concepire in maniera surrettizia l’esistenza nell’orizzonte dell’essere davanti-alla-mano» (pp. 75-76).

Tale discorso viene proseguito nei capitoli successivi, nei quali Franck mostra come, dall’interno dell’analitica esistenziale, emergano a tratti concetti e determinazioni di natura spaziale e carnale che non si lasciano inquadrare pacificamente all’interno dell’impostazione “dualistica” della filosofia heideggeriana (“dualistica” in quanto imperniata su due soli modi d’essere che ricavano la propria possibilità da due modi della temporalità: esistenza e realtà, Dasein e Vorhandenheit). Così, ad esempio, nel terzo e quarto capitolo del libro (rispettivamente intitolati La mano e il mondo e Il tatto e la vita) sono le nozioni di «mano» e «vita» ad aprire squarci difficilmente sanabili nel cuore stesso dell’ontologia fondamentale, scardinandone dall’interno l’impianto. Per quanto riguarda la mano, infatti, dopo un’attenta disamina dell’analisi heideggeriana dell’«essere-nel-mondo (In-der-Welt-sein)», Franck mostra che «la mano è una cosa a parte», in quanto senza di essa «non vi sarebbe né mezzo né ente a-portata-di-mano o davanti-alla-mano»: la mano, pertanto «detiene una finalità in proprio» e, «ontologicamente, non può appartenere ad un Dasein neutro e disincarnato» (p. 95). Il che, da un lato, risulta evidentemente incompatibile con l’analitica esistenziale di Essere e tempo; dall’altro, concorda invece con alcune considerazioni sviluppate dallo stesso Heidegger in Che cosa significa pensare? del 1951-52. Analogamente, nel capitolo successivo, seguendo passo dopo passo l’analisi heideggeriana dell’«in-essere (In-Sein)» Franck arriva a mostrare come essa metta capo infine al problema di stabilire «quale sia il modo d’essere della vita e se esso sia compatibile con la distinzione di Dasein e di essere davanti-alla-mano che struttura l’intera ontologia fondamentale» (p. 105). Compatibilità che Franck, ovviamente, esclude con risolutezza, ritenendo peraltro di poter trovare conferme alle proprie idee in un altro importante scritto del secondo Heidegger, la celebre Lettera sull’«umanismo» del 1946.

Nei due capitoli seguenti emerge in maniera più netta il problema dello spazio, al quale il libro di Franck è propriamente dedicato. Nel quinto capitolo (L’angoscia, la carne e lo spazio), lo studioso francese cerca infatti di mostrare come il sentimento dell’angoscia in Essere e tempo, essendo disvelatore sia della «temporalità ekstatica del Dasein», sia del mondo come «“nessun luogo” nel quale ogni ente può prendere posto», risulti contemporaneamente legato tanto alla dimensione temporale dell’esistenza quanto a quella spaziale. A partire da ciò, egli trae alcune decisive conclusioni. In primo luogo, se «l’angoscia nei confronti dello spazio è tanto inevitabile quanto quella nei confronti della morte», allora «lo spazio disvelato dall’angoscia» si configura come «un fenomeno inderivabile, nemmeno dalla temporalità» (p. 120). In secondo luogo, poi, se è vero che sussiste un legame tra il sentimento dell’angoscia e la «carnalità» — cosa che Franck evidenzia anche basandosi su brani dello stesso Heidegger, in questo caso tratti dal corso del 1936-37 La volontà di potenza come arte —, allora ne consegue che «il Dasein è incarnato e l’angoscia è una modalità dell’incarnazione»; ma «la carne», aggiunge Franck, «s’incarna senza essere e senza tempo», cosicché «nel cuore [stesso] dell’analitica del Dasein, ci troviamo ad avere a che fare con un fenomeno che sfugge alla sua tutela» (pp. 122 e 125). Proseguendo tale discorso, quindi, nel capitolo seguente (Lo spazio e l’essere-con) Franck prende le mosse dall’analisi heideggeriana dell’«ad-lontananza (Ent-fernung)» e dell’«orientazione (Ausrichtung)» e, facendo riferimento alla struttura dell’«essere-con (Mitsein)», mostra come tale struttura chiami innegabilmente in causa la «carne sessuata» e lasci trasparire una «spazialità carnale» che starebbe «a fondamento di quella della preoccupazione (Besorgen), il cui senso è temporale», rendendo così vano «il tentativo di ricondurre la spazialità del Dasein alla sua temporalità» (pp. 139-141).

Giungiamo così al settimo capitolo del libro (L’intreccio delle mani), che per certi versi ne costituisce il cuore e l’autentico punto di svolta, dal momento che Franck dapprima tira le fila del discorso sin qui condotto sulla «carne spazializzante», e quindi avanza una serie di domande davvero radicali, le quali aprono il campo per una riflessione generale sull’intera storia della metafisica occidentale. «Le questioni e le aporie sollevate dalla carne e dallo spazio», si chiede infatti Franck, a quale conclusione conducono, se non a quella per cui «la carne e il suo spazio s’impongono come originari nel momento stesso in cui vengono ritenuti secondari?»; e tali aporie, d’altro canto, «non fanno allora cenno verso un pensiero della carne refrattario tanto alla sovranità dell’essere quanto allo strapotere del tempo?» (pp. 145 e 147). E ancora: se è vero che la lingua, al pari della mano, «non dipende né dall’essere né dal tempo», bensì «si fonda sulla mondanità» ed è «determinata mediante significati spaziali»; e se è altresì vero che «la mano, così come la parola, custodisce il rapporto dell’essere con l’uomo e le relazioni di questi con l’ente»: se tutto ciò è vero, non ne consegue forse che proprio «la mano e la parola, la carne e la lingua, che hanno essere, aprono l’essere alla propria verità» (pp. 92-93 e 151-152)? E ancor di più, aggiunge Franck, se le cose stanno davvero così, allora il pensiero stesso non si dovrà configurare come la «manovra […] più propriamente manuale»? Pensare, cioè, non dovrà significare «prestare la mano all’essenza dell’essere»? Il pensiero, che «assume la propria vocazione dall’alétheia», si rivela così «opera delle mani: incarnazione» (p. 152). E infine: se è vero che «la metafisica, in ogni epoca del suo destino, non ha mai realmente interrogato la carne», e se è altresì vero che «la scrittura e la voce costituiscono “il carnale della lingua”», non ne conseguirà forse che pensare in modo autentico l’alétheia «significherà anche pensare la mano, la carne e il carnale — lo spazioso — della lingua», che già i Greci abbandonarono? E tutto ciò non risulta tanto più urgente proprio in un’età come la nostra, in cui «la macchina da scrivere estirpa la parola — rapporto dell’essere con l’uomo — dall’ambito carnale della mano», e in cui «la tecnica diviene l’organizzazione della carne» stessa, prima ancora che quella degli enti (pp. 154-155)?

Una volta poste tali radicali domande, nell’ottavo e nono capitolo del libro (rispettivamente intitolati Il discorso e lo spazio e Spazio e temporalità) Franck riprende la sua meticolosa analisi di Essere e tempo, e lo fa proprio partendo dal «discorso (Rede)», il quale, al pari delle altre due determinazioni fondamentali del Dasein — la «comprensione (Verstehen)» e la «disposizione (Befindlichkeit)» —, risulterebbe legato alla carne e allo spazio. Infatti, una serie di oscillazioni e indecisioni presenti nel capolavoro heideggeriano — in particolare, il fatto che «il discorso, che “è esistenzialmente cooriginario al sentimento della situazione e alla comprensione”, non si temporalizzi […] in una determinata estasi» (p. 165) — convincono Franck che, a emergere dalle pieghe nascoste del discorso di Heidegger, sarebbe proprio «l’atemporalità del discorso». Un’atemporalità che porterebbe a compimento «la detemporalizzazione del “da”, nel quale convergono tutte le caratteristiche ontologiche del Dasein, restituendogli un significato pienamente spaziale secondo un “senso” dello spazio non più fondato nella temporalità» (p. 167). A questo punto, Franck sposta la propria attenzione sul momento che, a suo giudizio, «costituisce la chiave di volta dell’intera analitica esistenziale», quello cioè dell’analisi della «genesi del concetto volgare di tempo» (p. 171). Anche qui, la sua operazione consiste nel mostrare come la pretesa di Heidegger «che la spazialità non [vi] giochi alcun ruolo» si dimostri insostenibile e infondata, giacché «lo spazio è, invece, coinvolto in ciascuna delle strutture del tempo mondano: databilità, es-tensione, mondanità e pubblicità» (p. 177). Da ciò, Franck trae una decisa, drastica conclusione: «la detemporalizzazione dello spazio scalza qualsivoglia progetto di comprensione temporale dell’essere e invita il pensiero a non soggiornare più nella congiunzione di essere e tempo» (p. 180). Ciò che, evidentemente, equivale a sancire una volta per tutte il fallimento non soltanto di Essere e tempo, ma di ogni ontologia fondata sul privilegio della dimensione temporale.

Una volta portata a termine la propria opera di “decostruzione” del progetto fondamentale di Essere e tempo, nel decimo e ultimo capitolo del libro (Il problema della carne e la fine della metafisica) Franck può quindi ricollegarsi alle questioni epocali sollevate nel settimo capitolo e ricollocare i risultati conseguiti sin qui in un quadro più ampio. In altre parole, cioè, si tratta di lasciar emergere «la necessità istoriale [del] problema della carne» e di stabilire che «il compimento della metafisica pone in rilievo l’esigenza di volgersi verso un pensiero dell’incarnazione. […] La costellazione finale della filosofia deve essere circoscritta a partire dalla carne» (pp. 183 e 187). Per far ciò, Franck rivolge la propria attenzione a quelle che, secondo la visione caratteristica della «storia dell’essere (Seingeschichte)» heideggeriana, si possono considerare l’origine e la fine della metafisica occidentale, cioè le filosofie di Anassimandro e Nietzsche, nella convinzione che, «al fine di identificare il problema della carne», non sia sufficiente «collocarla semplicemente alla fine della metafisica», ma sia «inoltre necessario documentarne l’emergere all’alba del suo destino» (p. 187). Ora, nel caso del filosofo di Così parlò Zarathustra Franck prende esplicitamente le distanze dall’interpretazione heideggeriana che lo colloca «all’estrema propaggine della metafisica» e afferma che, invece, proprio Nietzsche avrebbe il merito di aver sottratto la carne alla dicotomia corpo/anima, svincolandosi così dalla prospettiva platonico-cristiana sull’essenza dell’uomo. Nel caso di Anassimandro, al contrario, egli sottolinea il valore illuminante dell’interpretazione heideggeriana, la quale attraverso un complesso gioco di richiami etimologici avrebbe colto nel to kreon anassimandreo (la «“parola più antica” in cui l’essere dell’ente perviene al linguaggio») un decisivo riferimento alla mano, al «rimettere in mano propria [che] custodisce nella presenza il presente in quanto tale». Ma, conclude Franck ponendo un’ultima radicale domanda, «se la mano riecheggia nella prima parola dell’essere» — la quale «conserva traccia della differenza» e «racchiude tanto la possibilità della metafisica come oblio dell’essere quanto la possibilità di un pensiero rivolto verso la sua verità» —, non è allora «con, per e a partire dalla mano, dalla carne, che deve costruito, abitato, pensato “il luogo in cui l’essere e la sua essenza giungono alla lingua”? […] Custodia della presenza, la carne non si offre ormai al pensiero come l’autentico luogo del suo dispiegamento? » (pp. 189-190).

In definitiva, il libro di Didier Franck rappresenta non soltanto un’attenta analisi del pensiero heideggeriano, condotta con estrema sicurezza e padronanza dei testi, ma anche uno sforzo di far leva sulle crepe interne a tale pensiero, al fine di proseguirne (non di abbandonarne) l’intensa meditazione sulla storia dell’essere e, addirittura, di sopravanzarlo quanto a intensità e radicalità del domandare. In virtù di tali considerazioni, credo che Heidegger e la questione dello spazio rappresenti indubbiamente uno studio estremamente avanzato e originale, che si distingue nel panorama generale dei contributi sul filosofo di Meßkirch. Uno studio che, per certi versi, include anche la proposta di una nuova traduzione di alcuni termini fondamentali del lessico heideggeriano — basti citare, oltre al summenzionato caso di Leib, anche quelli di Vorhandenheit (être devant-la-main: essere davanti-alla-mano), Zuhandenheit (être à-portée-de-main: essere a-portata-di-mano), Weltlichkeit (mondanité: mondanità), Umsicht (circumspection: circospezione), Gegend (contrée: paraggio), Jemeinigkeit (mienneté: meità) e Bewandtnis (finalité: finalità). Il che, forse, può rendere il libro di Franck ancora più stimolante per gli studiosi italiani del pensiero di Heidegger, tra i cui interessi di ricerca negli ultimi anni (ad esempio, con le due nuove traduzioni italiane di Essere e tempo del 2006, a cura di Alfredo Marini e Franco Volpi) rientra in maniera fondamentale anche la questione della resa terminologica in italiano dell’inusitato tedesco di Heidegger. Una questione che, lungi dal rappresentare una mera preoccupazione stilistico-formale, probabilmente racchiude in sé anche il problema della piena comprensione dei contenuti concettuali veicolati, per così dire, dalle parole stesse.