L’enigma di Anassimandro sul fondamento originario. Interpretazioni di Emanuele Severino e Martin Heidegger a confronto

Tu vai per il sentiero della grandezza: ora è diventato tuo estremo rifugio ciò che in passato si chiamò il tuo pericolo estremo! Tu vai per il tuo sentiero della grandezza: ora bisogna che il tuo coraggio migliore consista nel non esserci alle tue spalle più alcun altro sentiero! Tu vai per il tuo sentiero della grandezza; qui nessuno deve venirti dietro di nascosto! Il tuo piede stesso ha cancellato dietro di te il sentiero, sul quale sta scritto: impossibilità.

—F.W. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, «Il Viandante»

Il sentiero anassimandreo fra Nietzsche, Heidegger e Severino

Trattare Anassimandro non significa in alcun caso estrarre dalla consueta storia della filosofia un autore con l’intento di descriverne un’attività speculativa, o una posizione storica con pretese di completa pertinenza storiografica. Volgere lo sguardo verso questo lontano filosofo vuol dire in primo luogo essere disposti a ridiscutere interiormente il senso che di volta in volta abbiamo, in quanto esseri umani, attribuito alle nostre umane metafisiche. Bisogna disporsi a un turbamento teoretico che non veda l’ontologia solo come studio dell’essere freddamente inteso, ma anche come abisso esistenziale di fronte ai problemi che tale studio comporta. L’inquietudine che ci viene procurata da una breve locuzione come quella anassimandrea corrisponde infatti a un anelito perenne: cercare di comprendere il fondo a partire dal quale e verso il quale l’Essere, inteso come fondamento immutabile, procura al mondo l’irrisorietà dell’esistenza, che è dunque mutevole. Anassimandro ci impone una radicalizzazione della domanda intorno al perché ciò che è poi scompaia, consentendoci di interrogarci su quale ruolo abbiano la giustizia e l’ingiustizia largamente intese, in senso cosmologico. Il dolore per l’apparente mancanza di senso del vivere e del perire è il problema per così dire inconscio della nostra civiltà, della nostra cultura; è qui che prende piede il ruolo del filosofo: egli ha l’esigenza di interpretare e ridiscutere le prospettive che questo ripetuto problema presenta nel decorso della storia del pensiero. Nonostante i cambiamenti del paesaggio delle credenze e dei linguaggi, anch’essi sottoposti al divenire, al loro giungerci sotto forma di cultura là dove un giorno vi era un sapere vivo. Il filosofo, mentre pensa al perire di tutto, vive; e mentre recupera la storia del pensiero che il mondo si getta alle spalle, si fa erede responsabile della domanda sull’essere che con fatica il passato ha consegnato. In questa ottica la posizione severiniana, come quella heideggeriana (e come del resto ogni posizione su Anassimandro), viene inevitabilmente a costituirsi come una posizione a partire da Anassimandro, come se questo enigmatico pensatore avesse (nel frammento che ci è giunto) impresso nel pensiero occidentale un punto intorno al quale ogni nostra disperazione e illuminazione vengono richiamate per spiegarsi. È lo stesso Severino a sostenere come «i grandi temi e problemi del pensiero occidentale sono già tutti presenti nelle poche parole che ci rimangono della filosofia di Anassimandro»,1 ovvero come la filosofia sia stata di fatto inaugurata dalla seguente locuzione, che in prima istanza sarà seguita dalla traduzione di Diels:

ἐξ ὧν δέ ἡ γένεσίς ἐστι τοἰς οὖσι καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεών˙ διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικιας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν [Onde è la nascita per le cose che esistono, lì dentro si compie anche la loro dissoluzione obbligatoriamente; poiché esse pagano reciprocamente giusto castigo ed espiazione per la loro ingiustizia secondo l’ordine del tempo].2

Come si può vedere in nota, già solo due traduzioni italiane dal tedesco di Diels (Cicero e Severino), che a sua volta traduce il greco di Anassimandro tramandatoci da Aristotele, Teofrasto e Simplicio, presentano una varietà di elaborazioni possibili. Ma vedremo come queste saranno ancora più dense e problematiche quando lasceremo parlare le riflessioni di Heidegger e Severino in proposito, dove la parafrasi troverà respiro teoretico, e non solo filologico. Nel caso di Heidegger il ponte fra la sua interpretazione di Anassimandro e quella della tradizione è di fatto costituito dallo scritto del 1873 di Nietzsche La filosofia nell’epoca tragica dei Greci,3 come lo stesso Heidegger annuncia all’inizio del suo saggio La locuzione di Anassimandro in Holzwege. La fortuna o, meglio, l’enigma di Anassimandro nella filosofia contemporanea, ha il suo proprio fulcro in questo snodo fra Nietzsche e Heidegger. Non a caso in esergo al presente paragrafo è stata introdotta la questione con le profetiche parole de Il viandante dello Zarathustra. Lo stesso Nietzsche, nel trattare a sua volta Anassimandro, non adopera che gli strumenti filologici propri dei suoi primissimi lavori, e non dà all’interpretazione della locuzione particolari suggestioni teoretiche. Ciononostante, la figura nietzscheana del viandante zarathustriano pare essere in sintonia con il percorso intellettuale di Heidegger, e soprattutto dell’Heidegger di Holzwege, ovvero dei Sentieri erranti nella selva (1936). Vincenzo Cicero riporta come in Der Spiegel del 1966, Heidegger sostenga che «così come non si possono tradurre poesie, non si può tradurre un pensiero. Si può comunque parafrasarlo. Ma non appena si vuol fare una traduzione letterale, tutto si trasforma».4 Perché quindi tornare ad Anassimandro? Come direbbe Nietzsche stesso, nella sua seconda inattuale:

Se supponiamo che uno si occupi di Democrito, mi sta sempre sulle labbra la domanda: perché non Eraclito? O Filone? O Bacone? O Descartes? E così via a piacere. E poi: perché mai un filosofo? Perché non un poeta, un oratore? E perché mai un Greco, perché non un Inglese, un Turco? Il passato non è forse abbastanza grande perché vi si possa trovare qualcosa di fronte a cui voi stessi non vi mostriate così ridicolmente arbitrari?5

La provocazione di Nietzsche è acuta e Heidegger non può non averla interiorizzata, in tutti gli anni che dedicò al confronto con l’intera opera.6 Ma il nocciolo della filosofia heideggeriana non poteva comunque arrendersi all’idea di essere uno scandaglio arbitrario di un passato casuale:

Molti sono i sentieri ancora ignoti. Ma a ogni pensante è assegnata sempre e soltanto una via, la sua: nelle cui tracce egli deve sempre costantemente vagare, per attenersi infine a essa come alla propria via, la quale però mai gli appartiene.7

Heidegger è accorto nel considerare il filosofo nelle mani di un destino, con il piede su una tratta che gli spetta ma che non è di sua proprietà, come una selva.8 Al passato in qualche maniera si appartiene fatalmente, e al filosofo dell’ Überwindung, dell’oltrepassamento della metafisica,9 preme collocarsi là dove considera la metafisica come storia dell’oblio dell’essere. Persino tornare a un’antichissima e ombrosa locuzione come quella anassimandrea pare non più così arbitrario, ma in piena coerenza con un debito con l’originario. Si profila una filosofia dell’Essere che si fa crocevia di un sentiero interrotto, e per l’appunto, da ripercorrere. Potremo, più avanti, capire e inquadrare storicamente anche Severino, con il suo ritorno a Parmenide (e in questo caso ad Anassimandro) senza questo sfondo storico, senza questa obliquità – e ubiquità – del problema dell’Essere. Prima di volgere al problema storico-ontologico del detto anassimandreo dal Sentiero della Notte (che Severino collega ad Heidegger) al Sentiero del Giorno (in cui invece Severino rivede sé stesso) è doveroso precisare preliminarmente il nucleo della questione: l’archè.

Precisazioni sull’archè

È proprio in Severino e nella sua opera La filosofia dai greci al nostro tempo che troviamo puntualizzazioni chiare:

“Centro di irraggiamento”, “punto dominante”, “principio”, “origine”, tutti termini, questi, con i quali si può esprimere il senso della parola archè (usualmente tradotta con “principio”), che sin dall’inizio è stata pronunciata dai primi pensatori greci (sembra per la prima volta da Anassimandro) per indicare l’unità da cui tutte le cose provengono e ritornano.10

Il punto da tenere a mente riguarda proprio il fatto che il pensiero dei primi filosofi si incentra soprattutto sul problema della realtà primaria, ovvero sulla natura delle cose che, così offerte allo spettacolo del mondo, sbalordiscono l’essere umano per il loro carattere di unicità non isolata, ovvero nel loro essere in qualche modo Tutto e contemporaneamente partecipare del Tutto. Ed è proprio qui, in questo Tutto, che i fisiologi, i fisiocrati o più comunemente intesi presocratici, pongono l’attenzione: non solo sullo spettacolo del mondo, ma anche sulla sua messa in scena perché «quando i primi filosofi chiamano physis ciò che essi pensano, non si rivolgono a una parte o a un aspetto dell’essere, ma all’essere stesso […] La filosofia si presenta sin dall’inizio come il lasciar apparire tutto ciò che è capace di rendersi manifesto e che pertanto si impone, ossia è verità incontrovertibile».11 Ciò che deve rendersi manifesto per gli albori della filosofia occidentale – e per l’albore par excellence come quello anassimandreo –, è quella ratio essendi in grado di spiegare e di individuare quell’ uno da cui le differenze provengono, quell’ identità del diverso per cui l’occhio del filosofo guarda e si riguarda nell’occhio della verità:

La filosofia può guardare sino agli estremi confini del Tutto, perché se, attraversando le varietà smisurate delle cose non si lascia distrarre e catturare da nessuna di esse, tuttavia essa vede che ogni cosa, per quanto diversa dalle altre, ha tuttavia in comune con ogni altra il suo essere un’abitatrice del Tutto.12

Un Tutto che non solo rappresenta la natura delle cose, ma la governa. I primi filosofi, fisici o metafisici che li si voglia intendere, ravvedono come «il divenire stesso delle cose (il processo del loro generarsi e corrompersi) è messo in movimento non dal niente, ma da una forza»,13 una forza per cui Severino trova, a margine dei momenti teoretici più tecnici, un’efficace ed icastica figurazione: «L’acqua del mare non è solo ciò da cui provengono e in cui ritornano le onde, ma è anche il vento, ossia ha in sé anche la forza del vento che forma le onde».14

Con un exploit poetico Severino raffigura l’àpeiron anassimandreo (dal gr. a-peras, non-limite) come concetto in grado di esprimere il punctum dell’unità delle cose (il mare) e del loro governo (la forza). Il nucleo del problema è: il cosmo è regolato da una legge immanente, così come il vento regola le onde? Martin Heidegger propone in Holzwege una posizione che sarà funzionale al comprendere più a fondo, e di rimbalzo, quella di Severino.

L’eco di Anassimandro in Heidegger

Martin Heidegger, nell’ultimo dei suoi Holzwege, dedica la sua attenzione alla Locuzione di Anassimandro manifestando sin dai primi passi la coscienza di come il frammento in oggetto sia passato sotto le mani illustri di tutta la storia della storiografia, da Aristotele a Teofrasto e Simplicio, sino ai più recenti studi di Nietzsche, Diels e gran parte della storiografia filosofica novecentesca. Ma il punto che pare messo in chiaro sin dalle prime battute riguarda proprio la sua presa di distanza rispetto a questi approcci:

Noi siamo vincolati alla lingua della locuzione anassimandrea. Noi siamo vincolati alla nostra madrelingua. Noi siamo, per entrambe le loquele, essenziatamente vincolati e impegnati nella loquenza e nell’esperienza della sua essenza. Questo vincolo nella loquenza si estende più lontano ed è più rigoroso, ma anche più inappariscente, dei criteri di misura di tutti i fatti filologici e storiografici, i quali soltanto da esso hanno in feudo la loro attualità. Finché non esperiamo questo vincolo, ogni traduzione della locuzione di Anassimandro non può che apparire un mero arbitrio.15

Anche Heidegger ha a cuore, come gli storiografi, il problema linguistico del detto. Ma, appunto perché linguistico nel senso di un orientamento del dire, ciò che deve maggiormente interessare è ciò a cui questo dire indica, ovvero all’Essere e al suo destino:

Quale diritto di parola e d’appello ha il primigenio, l’albore del mattino, per appellarsi e parlare a noi che , presumibilmente, siamo gli ultimi ultimogeniti della sera della filosofia? […] Che ce ne facciamo di tutte le filosofie della storia computate solo in maniera storiografica […] quando spiegano la storia senza mai pensare le fondamenta dei loro fondamenti esplicativi a partire dall’essenza della storia, e senza pensare questa essenza a partire dall’Essere stesso?16

In Heidegger si rivendica l’autorità del pensatore su quella dello storiografo: il pensatore deve porre luce sulla Cosa che viene al pensiero, dove questo «dice il Diktat della verità dell’Essere».17 Dopo aver quindi messo in chiaro l’approccio alla Locuzione, Heidegger ne fa subito esercizio ponendosi come ipotesi di lavoro la seguente traduzione letterale:

Ma da ciò da cui per le cose è il nascere, nasce anche l’uscire verso di esso, secondo il necessario; esse si rendono infatti l’un l’altro giustizia e ammenda per l’ingiustizia secondo l’ordine del tempo.18

Da questa traduzione emergono dati importantissimi. Heidegger intende immediatamente sgomberare il campo dalle consuete interpretazioni del frammento, considerando fuori strada l’ interpretazione economica, secondo cui nel detto non si parla che dello scambio economico della natura, ed il nascere e il perire delle cose corrispondono ad un semplice contraccambio. Una visione, questa, che vede Anassimandro pronunciarsi in merito alla cosmologia secondo un mescolamento di concetti morali e giuridici. Qui Heidegger ha ben presente certi vizi della storiografia, della quale più avanti verranno illustrate le varianti. Ma su questo punto è opportuno lasciare parlare Heidegger, il quale ammonisce due «opinioni preconcette inadeguate»:19 quella appena menzionata sul mescolamento inopinato di elementi morali e giuridici e, inoltre, la persuasione che il detto tratti di una filosofia della natura, e dunque conduca ad una visione di stampo eminentemente aristotelico-teofrastico. A discredito di questa posizione Heidegger mette al centro dell’argomentazione il problema della traduzione di τά ὄντα, rifiutandone la traduzione restrittiva e parziale di φύσει οντα, di cose naturali. Innanzitutto, va sottolineato come questo interesse primario verso una traduzione di ὄντα che esprima il suo abbracciare la totalità dell’Essere, ha alla base un motivo metodologico ben preciso. Sulla scorta della lezione di Burnet,20 e quindi contro la traduzione dielsiana, Heidegger comincia a prendere in considerazione solo la seconda parte della Locuzione, rilevando come ἐξ ὧν δέ ἡ γένεσίς deve, per usanza greca, ritenersi parte di testo di Simplicio e non ancora una citazione dalla fonte diretta. Heidegger nota, inoltre, come quest’uso abbia un respiro fortemente aristotelico più che arcaico. Lo stesso viene fatto valere per la parte finale κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν. In tale maniera Heidegger, obbedendo a Burnet, restringe il terreno della Locuzione a: «κατὰ τò χρεών˙ διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικιας» [… secondo la necessità; infatti esse scontano l’un l’altra pena e ammenda per la loro ingiustizia].

È proprio da questa operazione che scaturisce con crescente legittimità l’importanza data a ὄντα come spiegazione di quell’ αὐτὰ/esse, come riferimento quindi a qualcosa che «non può non nominare altro che l’essente nella sua interezza, in modo preconcettuale».21 A rinforzo di tale osservazione Heidegger adduce un riferimento omerico: esattamente all’inizio dell’Iliade, dove Achille esorta il veggente Calcante a dire la ragione dell’ira di dio, poiché aveva conosciuto tutto ciò che è, che sarà e che fu, ovvero tutte le specificazioni di ὄντα come essenziante presente e come essenziante impresente. Questo deve appunto chiarire come l’ essente non indichi solamente le cose naturali; «purché ci lasciamo tragittare dal poeta sulla riva della Cosa detta»:22

Nel caso in questione, con ἐόντα il poeta nomina la situazione degli Achei davanti a Troia, l’ira del dio, l’infuriare della peste, le pire dei morti, l’irresolutezza dei comandanti e altro ancora. […] Omero non nomina soltanto le cose naturali, né in generale oggetti che stiano semplicemente di fronte a un rappresentare umano.23

Da questa sfaccettatura ne viene la traduzione che Heidegger fa di αὐτὰ come riferimento a ὄντα:

L’ αὐτὰ nomina ogni presenziante che essenzia nella modalità del dimorante volta-a-volta-trat-tenentesi: dei e uomini, templi e città, mare e terra, aquila e serpente, albero ed erba, vento e luce, pietra e sabbia, giorno e notte. L’intero presenziante si coappartiene nell’unire del presenziare.24

Dati questi presupposti, una volta stabilita la cifra dell’essente, si può cominciare la traduzione con in mente il quesito principe: come si spiega il fondamento di quest’essente, secondo quale Legge noi ne rinveniamo il senso? Per dirla con Heidegger: «in che modo Anassimandro, prima di Eraclito, esperisce il Tutto di quel presenziante che è arrivato a dimorare volta a volta reciprocamente nell’inascosità? Da cosa il presenziante è ovunque attraversato e attratto nel suo fondamento»?25 Da qui a seguire, la partita di Heidegger con la traduzione si afferma con l’interesse di far quadrare i conti con ἀδικία, termine comunemente inteso con ingiustizia, ma che, di fronte all’ αὐτὰ inteso come Intero del presenziante, pone di fronte al dubbio su che tipo di ingiustizia debba contenere ciò che presenzia. Proprio il presenziare, in quanto positivo, dovrebbe essere il suo compito da onorare. È un tratto oscuro.

Che c’è di ingiusto nel presenziante? Il giusto del presenziante non è forse che esso volta a volta dimori sempre nel suo tratto, e qui s’intrattenga, e adempi così al suo presenziare? […] ἀδικία dice che, là dove è essa a vigere, le cose non vanno per il verso giusto. Questo significa: qualcosa è fuori sesto, è in una congiuntura sfavorevole.26

Heidegger traduce ingiustizia con essere senza giuntura. L’osservazione è la seguente: ciò che presenzia, in quanto tale, è disgiunto da una Giuntura originaria. Vediamo come Heidegger intende definire il carattere fondamentale degli ἐόντα:

Il trattenentesi persiste nel suo presenziare. In tal modo esso si arroga il diritto di mettersi fuori della transitività della sua tratta. S’impunta nell’ostinazione della persistenza. Non si volge più verso gli altri presenzianti. Si intestardisce nel perseguire la stabilità di una sussistenza permanente, come se il dimorare nella tratta consistesse in ciò.27

Ma il dimorare non consiste in ciò. La stabilità di ciò che si trattiene nella tratta della Dis-Giunzione non insiste in una mera persistenza, non è trasportato «come un tronco tagliato tra il presenziante impresente»,28 ma anzi, lascia (διδόναι) che la Giunzione sani la Dis-Giunzione lungo la tratta. Il lavoro di Heidegger è costituito principalmente da questo lavoro di positivizzazione dei termini presi in causa: la Dis-Giuntura (τῆς ἀδικίας) è in gioco con la Giuntura (κατὰ τò χρεών); infatti (γὰρ) gli enti (αὐτὰ) che scontano pena ( διδόναι δίκην) sono per Heidegger i «presenzianti che lasciano pertenere Giunzione»29 e Cura l’uno verso l’altro (καὶ τίσιν ἀλλήλοις):

Che cosa dice la seconda proposizione fin qui tradotta? Dice che gli ἐόντα, i presenzianti, in quanto trat-tenentisi, sono lasciati andare nella Dis-Giunzione trascurante, e dice in che modo essi, in quanto sono così presenzianti, involgono e sanano la Dis-Giunzione lasciando pertenere la Giunzione, e quindi Curanza l’uno all’altro.30

Ma a questo punto il passo finale dell’operazione heideggeriana ritorna alla prima parte della sentenza. Quel κατὰ τò χρεών deve spiegare maggiormente l’aspetto della Giuntura, ed è qui che Heidegger introduce il concetto di Fruizione. Vediamo in che senso. Innanzitutto, viene precisato il ruolo di κατὰ: esso riguarda «un’entità dall’alto della quale essenzia qualcosa che sta più sotto»;31 per quanto concerne χρεών, invece, Heidegger tiene conto del verbo χράω nel significato di dare una mano, investire qualcosa con la mano (χείρ significa mano), rimettendo a questa accezione il concetto dell’essenziare come «manutenzione del presenziare, manutenzione che emancipa il presenziare».32 Anche nella traduzione italiana, che vede l’uso di manutenzione, è riscontrabile la metafora manuale, anche se a onor del vero, la traduzione heideggeriana più precisa a proposito della traduzione di χρεών, sta in der Brauch che corrisponde al latino frui.

Il χρεών pensato nella locuzione è la prima e la più alta interpretazione pensante di ciò che i Greci, sotto il nome di Moῖρα, esperiscono come l’impartimento della partecipazione. Alla Moῖρα sottostanno gli dèi e gli uomini. Τὸ χρεών, la Fruizione, è l’emancipare che a volta a volta dà in manutenzione al presenziante una tratta entro l’inascoso […] l’essenza di Moῖρα e Λόγος è pre-pensata nel χρεών di Anassimandro.33

È qui che Heidegger finalmente porta a compimento lo studio del frammento 1 di Anassimandro traducendo così:

κατὰ τò χρεών˙ διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικιας. […lungo la Fruizione; giacché essi lasciano pertenere Giunzione e quindi anche Curanza l’uno all’altro (nell’involvere risanante) della Dis-giunzione].34

In questo cammino tortuoso di questo ultimo Holzweg, il filosofo tedesco ha di sicuro messo più carne al fuoco di quanta matassa abbia sbrogliato. Ma ciò che in questa sede più interessa è la linea di fondo rispetto all’originario rappresentata dall’approccio marcatamente filosofico, un approccio non filologico-storiografico (o perlomeno non solo) al frammento come veicolo del sapere e, nei termini della sua formale enigmaticità, della verità. Se la riflessione sull’Essere non può prescindere da un’ontologia storica, Heidegger è a pieno titolo il gigante del Novecento che ha riaperto le porte della storia della metafisica, pur mettendola a soqquadro e sotto scacco. Così facendo si è reinserito lui stesso nel grande coro filosofico della parola che l’Essere, di volta in volta, ha abitato. È in questo senso che Severino ritiene Heidegger importante; ed è per questo motivo che le precisazioni avvenute sin qui ambiscono a favorire l’esposizione della riflessione severiniana sul detto di Anassimandro. La storia della metafisica da Nietzsche in poi versa in un questionare critico, dove il testimone – attraverso l’eco dell’originario – passa da Heidegger a Severino stesso.

L’eco di Anassimandro in Severino

La cosa più immediata che si può rilevare a proposito di questo passaggio di testimone riguarda il comune intento di considerare i presocratici (e in questo caso Anassimandro), ben più di quanto invece intenda questo appellativo (solo dei predecessori di Socrate). Secondariamente i due pensatori sono accomunati dall’intento, del tutto attuale, di far partecipare il problema della tecnica all’interno del discorso su (e da) Anassimandro stesso.

In Essenza del nichilismo Severino esordisce ne La parola di Anassimandro mettendo in chiaro la sua presa di distanza da Heidegger, ammettendo al tempo stesso di aver ripreso – per «esprimere questa concordia essenzialmente discorde»35 – il tema dagli Holzwege, ma «differenziato e di ben più ampia portata di quello che lo Heidegger intende conferirgli».36 Ne consegue che Severino esprime la concordia là dove a Heidegger va riconosciuta la grande riapertura del problema dell’Essere nella storia del pensiero Occidentale. La discontinuità con Heidegger invece riguarda un differente metodo per la riqualificazione dello studio del presocratico, che Severino ritiene opportuno. Quella che è la parola più antica e preziosa della filosofia «risuona nel suo timbro più autentico solo se è lasciata a colloquio in quel consesso di re che sono i primi pensatori greci».37 Posizione coerente rispetto a tutta l’opera Essenza del nichilismo, contraddistinta dalla figura di Parmenide, a partire dal quale – e ritornandovi – Severino intende argomentare il suo fulcro ontologico, come vedremo più avanti. Il secondo punto in comune che si è prima annunciato riguarda il problema della tecnica. Heidegger, enfaticamente, così si pronuncia in chiusura del suo Holzweg su Anassimandro:

L’uomo è sul punto di abbattersi su tutta la terra e di lanciarsi nella sua atmosfera, di usurpare la nascosta vigenza della natura, riducendo quest’ultima alla forma di un insieme di forze, e di assoggettare l’andamento della storia alla pianificazione e all’ordinamento di un governo planetario. Questo stesso uomo insorgente e sovrastante è extrastante, non più in grado di dire semplicemente che cosa è, di dire che cosa è il fatto che una cosa è […] Si può tentare di chiudere gli occhi davanti a tale abisso, si può erigere un paravento dopo l’altro. L’abisso non si colma.38

Si può e si deve confrontare il pensiero di Heidegger e Severino per notarne le differenze, ma non si va molto lontano all’interno del discorso sull’epoca contemporanea se non si associa il brano appena citato a quello di Severino, nelle prime battute del suo La parola di Anassimandro:

La tecnica propone – là dove diviene consapevole delle proprie possibilità – un’umanità che non riconosce Dio, ma lo costruisce con le sue mani e, anzi, si costruisce come Dio […] Anche la tecnica può riuscire, un giorno o l’altro, a rendere l’uomo un felice Dio in terra […] non può invece realizzare la sicurezza, nell’animo dell’uomo, che questa ottenuta signoria sul mondo sia definitiva […] Da quando è cominciata l’avventura dell’uomo nel mondo, è incominciata l’avventura dell’uomo nella verità. Che è ben più rischiosa, giacché se un fisico può oggi distruggere l’umanità, la verità è il luogo in cui si decide se non sia un bene distruggerla.39

È sotto questa prospettiva della ripresa heideggeriana del problema dell’Essere, e dell’approfondimento ontologico severiniano quindi, che si sviluppa uno scorcio filosofico sul destino dell’Occidente. Si sta dunque notando come il tema, riprodotto da Severino, ha un respiro di un’ampiezza non soltanto ascrivibile a una categoria storico-filosofica primitiva, antica: l’originario veicola il destino che l’uomo deve saper riconoscere. Un primo passo in tale ottica è rappresentato, come sopra citato, dal lasciar parlare quel consesso di re costituito dai primi pensatori greci. A Severino preme sottolineare l’ ingenerosità di Aristotele a proposito dei presocratici, riscattandone l’importanza sotto il comune punto di ricerca dell’identità dei contrari (cui si faceva cenno nel paragrafo sull’archè):

Le cose possono darsi tutte convegno nell’orizzonte dell’intero solo in quanto il loro reciproco differenziarsi sia sotteso da una comune identità, che appunto rende unitario il molteplice […] Anche Talete pensa e non può non pensare l’essere, ma ciò, che egli pur pensa e si tiene dinanzi, non lo riconosce come essere, ma lo interpreta come acqua, alla quale peraltro affida quel ruolo di identità del diverso che vede competere all’essere.40

È da questo presupposto che i presocratici vanno intesi sotto una comune tendenza e allo stesso tempo è da qui che va riconosciuta l’importanza di Anassimandro. Ma è anche da questo presupposto che si evolve l’interpretazione severiniana di questa importanza anassimandrea. Il filosofo bresciano osserva che «non c’è più alcun dubbio, oggi, che Anassimandro afferma che gli enti si pagano reciprocamente la pena e l’espiazione dell’ingiustizia», nel punto esatto in cui Anassimandro si riferisce ai contrari che «vicendevolmente si cacciano dalla scena del mondo tendendo ad occuparla tutta per sé».41 Il luogo della giustizia, per ∆ίκη, non è quello della interpretazione giuridico-economica; Severino rintraccia gli elementi per una giusta traduzione di questo snodo nella prossimità di Eraclito e Parmenide, nella δίκη ἔρις (la giustizia della lotta fra contrari) del primo42 e nella Giustizia dell’eternità dell’essere del secondo.43 Se infatti Anassimandro apre al concetto di àpeiron come identità delle differenze che non può essere un differente – ergo un indifferente –, così Eraclito interpreta quest’ultimo stabilendo il pòlemos, ossia la lotta, il contrasto, come l’organo di tutela benigno e principiale del positivo, come ciò che consente alle cose di mantenersi nel loro essere (che appunto è lotta, opposizione). Così Parmenide attribuisce alla Giustizia quel ruolo di tutela della positività dell’Essere che gli permette di asserire «tu non separerai l’essere dall’essere», nel Frammento IV del suo Sulla Natura. Nonostante le classiche differenze che di consueto si specificano tra i due filosofi, Eraclito e Parmenide – il filosofo del divenire e il filosofo dell’Essere –, per il discorso severiniano è importante comprendere come il terreno anassimandreo sia il punto d’incontro di questi due che possono essere parimenti intesi, limitatamente al discorso in atto, come filosofi della Giustizia.

Questo fondo comune a Eraclito e Parmenide è la stessa verità dell’essere, ossia è quella giustizia resa all’essere, che consiste nel rilevare ciò che ad esso fatalmente compete: di essere già da sempre e per sempre sottratto alla rapina del nulla.44

È da qui che Severino comincia il suo percorso nel Sentiero del Giorno parmenideo in contrapposizione al Sentiero della Notte, che, come vedremo, avrà esiti spietati nei confronti di tutti i pensatori presi in causa finora. Per voce di Parmenide, Severino getta nell’ombra del Sentiero della Notte sia Eraclito sia Anassimandro, là dove il filosofo eleate dice riguardo all’essere: «perciò né nascere né perire gli ha permesso la Giustizia disciogliendo i legami, ma lo tien ben fermo».45 A corroborazione della posizione parmenidea infatti Severino sostiene:

Ma Anassimandro vede l’uno sbocciare, e questo fiore immenso è l’universo dove i petali si fan guerra per esporre i loro colori alla luce. Lo sbocciare dell’essere è la separazione dei contrari […] ma anche nel pensiero di Eraclito si verifica quell’ambiguità preziosa, che già abbiamo rilevato in Anassimandro, per la quale il trascendentale è insieme visto come il librarsi del divino sul mondo […] La proibizione parmenide che δίκη disciolga i legami si riferisce a quanto in Eraclito e in Anassimandro era precisamente avvenuto […] Se l’unità originaria dell’opposizione è già pensiero di Anassimandro, l’essenzialità dell’opposizione affinché l’unità si costituisca è pensiero di Eraclito.46

È in questo senso che Anassimandro prima ed Eraclito poi «lasciano che i legami vengano disciolti e che le monete dell’essere vadano e si cozzino per il mondo».47 Ora si tratta di capire come Severino legga la problematica compresenza della Giustizia e dell’Ingiustizia che, come si è visto in Heidegger, è il punto più impervio in merito al senso del frammento. A questo livello, infatti, Severino mette in gioco tutte le carte parmenidee con le quali riscattare la Giustizia, di fatto inglobando la forma dell’Ingiustizia – in cui consiste il divenire – in una subordinazione rispetto all’Essere, indissolubile e sovrano. Per fissare un concetto chiave, potremmo sintetizzare così: Severino non accetta una prospettiva per cui per Ingiustizia si intenda l’uscita dall’Uno e per Giustizia si intenda il ritorno all’Uno. Non la accetta nemmeno sulla scorta della convinzione per cui, nella metafisica greca, ogni posizione sulla cosmogonia non ammette che la generazione del mondo intacchi la pienezza dell’essere. Una pienezza che in alcun modo può perdersi e sgretolarsi nel divenire:

La parola di Anassimandro dice che le cose, rifluendo là donde si generano, o generandosi là dove rifluiscono […] rendono, nell’ingiustizia, giustizia all’essere e cioè restano avvolte dalla giustizia […] Il che significa […] che le cose si dischiudono certamente come mondo dell’opposizione e cioè come mondo in cui l’essere nasce e muore – come mondo dell’ingiustizia, dunque; ma in questo loro dischiudersi lasciano essere la sfera incontaminata del divino, dove l’essere è eternamente presso di sé […] L’ingiustizia […] esiste dunque solo come tolta nella giustizia, sì che l’essere può nascere e morire nel mondo solo in quanto esso vive eternamente nel divino, e dunque solo in quanto al divino resta necessariamente legato […] Le cose provengono da un grembo che già da sempre le contiene.48

Da questa prospettiva, la differenza rispetto all’ interpretazione heideggeriana che subito si rende evidente sta in quello che Heidegger intende come involvere risanante della Dis-Giunzione. Severino intende l’Ingiustizia come quella condizione che è tolta nella giustizia, dove l’eternità è sempre presso di sé e dove un concetto di risanamento non può che essere rifiutato e ritenuto alla stregua di una alienazione occidentale – il Sentiero della Notte – sotto cui giacciono Anassimandro, Eraclito e lo stesso Heidegger. Vediamo qui due solenni condanne: «Anche oggi il pensiero deve seguire le figlie del sole che, levatisi i veli dal capo, abbandonano le case della Notte (Parmenide, fr. 1, vv. 8-10)».49 E altrove, in Destino della Necessità:

Dal punto di vista storico-filologico si può considerare non ancora risolta la questione se i versi di Parmenide siano rivolti contro Anassimandro e Eraclito […] L’evocatore del Sentiero della Notte (cioè della testimonianza dell’isolamento della terra) non avverte di esserne l’evocatore e crede che esso sia già cominciato. È in questo modo che, secondo Parmenide parla con Anassimandro e Eraclito, è inevitabile che li veda come viandanti del Sentiero della Notte.50

Lungi dal trattare in questa sede tutte le varianti e le caratteristiche del discorso severiniano di Destino della necessità (che ovviamente è ben più denso e complesso di questa parte), e pretendendo piuttosto adeguate considerazioni sulla fortuna del detto di Anassimandro, è debito sottolineare il punto in cui anche Severino gli concede, per così dire, il beneficio dell’enigma:

L’interpretazione nichilistica che l’Occidente dà del proprio inizio incomincia cioè proprio con il pensiero che volge le spalle al nichilismo, ossia a ciò che da questo stesso pensiero è stato evocato. In questo modo, Parmenide spinge Anassimandro ed Eraclito oltre il bivio, lungo il Sentiero della Notte. Eppure se Parmenide è il seminatore di entrambi i sentieri che si dipartono dal bivio, Anassimandro e Eraclito rimangono nell’ambiguità del bivio. Le loro parole possono essere predisposte al viaggio lungo il sentiero dell’Occidente, ma possono anche essere il presentimento del Sentiero del Giorno.51

Sebbene il discorso di Severino voglia dipanare l’enigma appoggiandosi all’ontologia neo-parmenidea, il problema storico-filologico si pone accanto a quello teoretico, da cui possiamo solo evincere come davvero la Verità dell’Essere sia in mano a quel consesso di re dei presocratici, proprio come sostiene Severino al principio del saggio di Essenza del Nichilismo.52 Approfondito e non risolto l’enigma possiamo ancora chiamare i presocratici in questa maniera? Non sarà forse che la teoresi di questi due grandi filosofi (Heidegger e Severino) possa porsi come insegnamento in grado di indirizzarci verso un’attenzione per la filosofia greca meno antiquaria, ossia in grado di mostrarci una potenza attualissima dei concetti chiave?

La teoresi oltre la storiografia

La storiografia su Anassimandro è chiaramente costellata di nomi illustri e di studi scientifici di assoluto riguardo. Ciò che tuttavia è importante, in questo breve parallelo fra l’approccio speculativo di Heidegger e Severino e l’approccio storiografico tradizionale, è mettere in luce in che senso (e verso quale senso) il primo è in discontinuità con il secondo. Ad uno sguardo veloce ma attento, il libro I di Aristotele che qualifica tutti i presocratici come fisici, Teofrasto che ne segue le orme nelle opinioni dei fisici, così come sostanzialmente fa la Physis di Simplicio, intonano una volta per tutte la chiave in cui Anassimandro e i relativi coevi verranno letti. Se si pensa a quella sorta di lista di prescrizione di Ippolito nella sua Refutatio omnium haeresium (222 d.C.), in cui elenca Talete, Pitagora, Empedocle, Anassimene, Anassimandro, Eraclito, Anassagora, Archelao, Parmenide, Leucippo, Democrito, Senofane, Ecfanto e Ippone, tutti annoverati come filosofi della natura eretici, abbiamo un esempio, seppur estremo, di questa tendenza.53 Di sicuro dei passi in avanti sono stati fatti in tempi ben più recenti quando una certa storiografia – prendiamo come esempio Leszl – ha constatato come «la valutazione dell’autenticità dei frammenti […] non si basa solo sull’analisi delle fonti […] Si basa non poco sullo studio del linguaggio»,54 grazie al quale si può determinare sia l’estensione del frammento (cfr. Heidegger), sia la prossimità di una testimonianza all’originale (cfr. Severino). Eppure, è lo stesso Leszl che non si lascia sfuggire né la consapevolezza del lavoro dei nostri due teoreti, né una critica nei loro confronti:

Si può notare come certe interpretazioni molto speculative che sono state date del frammento 1 di Anassimandro (da Heidegger, da Severino e da altri) siano rese improbabili dalla semplice considerazione che formule come didonai diken (= pagare il fio) sono tipiche del linguaggio etico- giuridico (e religioso) del tempo.55

Questa posizione è da considerarsi fortemente influenzata da Rodolfo Mondolfo, per il quale la chiave di comprensione del pensiero presocratico sta nel ricorso a concetti e a schemi tratti dall’esperienza di tipo politico, dove la riflessione del presocratico non concerne immediatamente la realtà cosmica ma è proiezione di una legge di giustizia del mondo umano.56 Posizione che, come visto, non convince prima Heidegger57 e poi Severino, che liquida in poche righe la questione come vizio storiografico marxista:

Il pensiero filosofico non nasce desumendo le proprie categorie dal mondo giuridico, come vorrebbe Jaeger, o dal mondo politico- sociale, come ritiene il Mondolfo […] giacché la filosofia nasce perché conferisce a tali figure [le figure linguistiche della cultura preesistente, NdA] una forza che prima non possedevano.[…] resta tuttavia comune a Jaeger e Mondolfo quel presupposto della storiografia marxista, per il quale il compito dello storico della filosofia è finito quando egli abbia stabilito i rapporti determinati che intercorrono tra una filosofia e la società in cui sorge.58

In un colpo solo Severino si stacca dalla tradizione storiografica di Diels, Mondolfo e Jaeger, ma anche da Vlastos che vede rapporti fra Anassimandro e la politica di Clistene e Solone e da Hoelscher che, di tutt’altra scuola, procede a ritroso fino a collegare le dottrine cosmologiche presocratiche alle cosmogonie mitiche e religiose egiziane. Nemmeno il pur acuto Cherniss, che giustamente critica la diminuzione di valore di Anassimandro da parte di Aristotele, è sullo stesso piano di un confronto teoretico profondo (sebbene costituisca un ottimo approccio storiografico). L’insoddisfazione di Severino, che molto probabilmente è stata la stessa di Heidegger, sta nel fatto che «se si bada a ciò che più conta, e cioè alla verità di quella parola, si deve allora riconoscere che poco si è fatto per scoprirla»,59 poiché il grande merito della teoresi rispetto alla storiografia sta nel fatto che della storia della filosofia non viene mai dimenticato il suo essere preminentemente storia della verità, con la quale bisogna fare i conti oltre la routine dell’elencazione e della mono-tonalità filologica. Su questo Leszl, nonostante la chiusura ad Heidegger e Severino, ha parole importanti da dire, che sottoscriviamo in pieno:

Il ricorso ad una varietà di modi di approccio non deve essere visto come un difetto e che anzi è un bene guardarsi da ogni interpretazione che offra una versione monolitica del pensiero dei presocratici, facendo di essi per esempio tutti dei mistici o tutti degli scienziati positivisti: se già la poca documentazione a nostra disposizione rivela tanto grandi differenze di posizione fra essi, c’è da presumere che, ai fini dell’obiettività storica, si possa solo peccare nel sottovalutare le differenze e non nel sopravalutarle.60

Un enigma come quello anassimandreo non potrà mai essere risolto da una sola via, da un solo sentiero; e proprio perché esso ha aperto quella particolare storia dell’umanità – che è la storia della filosofia –, che tutta questa sinora giuntaci e tutta quella futura non deve far altro che stare dietro alla fatica che comporta la sua traduzione. Oltre il dovuto rispetto filologico che gli dobbiamo, emerge un imprescindibile legame meditativo con i temi che indissolubilmente attanagliano l’esistenza e il pensiero dell’uomo occidentale. Un ascolto dell’eco della nostra anima greca ci permette di frequentare riflessivamente gli enigmi che, imperituri, riguardano strettamente il senso del nostro soggiorno presso tutto ciò che in qualche maniera “è”.61 Nello scorcio fra Severino e Heidegger che ci siamo sin qui proposto, abbiamo frequentato l’enigma di Anassimandro, antico maestro che ancora serpeggia invisibile ma presente, nelle trame di un Occidente che è sempre chiamato a riscoprire l’abissale grandezza delle sue domande originarie.


  1. E. Severino, La filosofia antica e medievale, in La filosofia dai greci al nostro tempo, BUR, Milano 2004, p. 52. ↩︎

  2. Vedi traduzione di Diels riportata da Severino in E. Severino, Il detto di Anassimandro, in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 395. Cfr. con la traduzione di Diels che riporta V. Cicero in Holzwege. Sentieri erranti nella selva, a cura di Id., Bompiani, Milano 2002, p. 380: «ma là da cui le cose hanno il nascere, ivi va anche il loro perire secondo la necessità; infatti esse scontano l’un l’altra pena e ammenda per la loro malvagità secondo il tempo fissato». Nella sede di questo saggio sarà funzionale, come vedremo, passare in rassegna traduzioni diverse per scorgerne dettagli teoretici; ma per una consultazione diretta dei frammenti crediamo sia importante menzionare il volume I presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di H. Diels, W. Kranz, a cura di G. Reale, Bompiani Il Pensiero Occidentale, Milano 2006. ↩︎

  3. F.W. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei greci, Adelphi, Milano 1991. Nietzsche traduce così: «Là donde le cose hanno la loro nascita, ivi devono anche andare in rovina, secondo la necessità; infatti, esse devono scontare ammenda e venire giudicate per le loro ingiustizie, in conformità all’ordine del tempo», pp. 157-162. ↩︎

  4. M. Heidegger, Holzwege. Sentieri erranti nella selva, a cura di V. Cicero, Bompiani, Milano 2002, “note del traduttore” di Vincenzo Cicero, p. IX. ↩︎

  5. F.W. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano 1974, p. 44. ↩︎

  6. Cfr. F. Volpi, Il nichilismo, Laterza, Bari 2005, p. 107: «Heidegger finisce per esperire su di sé tutta la devastante potenza della sua scepsi. Va incontro a Nietzsche senza paventare la profonda verità a cui metteva di fronte Thomas Mann con il suo prudente ammonimento: “chi prende sul serio Nietzsche è perduto”. E nel suo corpo a corpo con i testi e con le pericolose fantasmagorie che essi evocano finisce per precipitare, egli stesso, in quello che da un certo momento in poi chiamerà l’'abisso' di Nietzsche. L’esperienza del nichilismo innesca in Heidegger una profonda crisi, personale e filosofica. Negli anni che seguono immediatamente il confronto con Nietzsche, scrive a Jaspers: “ho la sensazione di crescere ormai solo nelle radici, non più nei rami”. In casa va ripetendo: 'Nietzsche mi ha distrutto!'. Il 16 agosto scrive all’amico Medard Boss: 'sto ancora nell’abisso di Nietzsche'». ↩︎

  7. M. Heidegger, Holzwege. Sentieri erranti nella selva, op. cit., p. 249. ↩︎

  8. Ivi, pp. 250-251: «Nella storia del pensiero occidentale, sin dal Principio, si pensa l’essente con riguardo all’Essere, ma tuttavia rimane impensata la Verità dell’Essere e la Verità non è soltanto denegata, in quanto esperienza possibile, al pensiero, ma è lo stesso pensiero occidentale, nella figura della metafisica, a velare appositamente, sebbene inconsapevolmente, l’accadimento destinale di questo diniego. Il pensiero preparatorio si mantiene perciò necessariamente nell’ambito della meditazione storica. La storia, per questo pensiero, non è la successione di periodi temporali, ma un’unica vicinanza dello Stesso, il quale incita il pensiero nelle modalità insondabili del destino e in base a differenti gradi di immediatezza.» ↩︎

  9. Cfr. Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 2007, “oltrepassamento della metafisica”, pp. 45-65. ↩︎

  10. E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo, Bur, Milano 2004, vol. 1, p. 32. ↩︎

  11. Ivi, pp. 27-28. Interessante a riguardo l’analisi linguistica di Severino intorno alla parola physis: «Physis è costruito sulla radice indoeuropea “bhu”, che significa “essere”, e la radice “bhu” è strettamente legata (anche se non esclusivamente, ma innanzitutto) alla radice “bha”, che significa “luce” (e sulla quale è appunto costruita la parola “saphes”», ovvero quella parola chiave a cui diffusamente Severino si riferisce circa la costruzione del termine “filosofia” e circa il compito del filosofo, che è appunto quello di “curare la luce”, di aver cura per la verità. ↩︎

  12. Ivi, p. 31. ↩︎

  13. Ivi, p. 34. ↩︎

  14. Ibidem↩︎

  15. M. Heidegger, Holzwege. Sentieri erranti nella selva, op. cit., p. 387. ↩︎

  16. Ivi, p. 384. ↩︎

  17. Ivi, p. 387. ↩︎

  18. Ivi, p. 388. ↩︎

  19. Ivi, p. 389. ↩︎

  20. J. Burnet, Early Greek Philosophy. London and Edinburgh: A. and C. Black, 1892. 4th edition, 1930. ↩︎

  21. M. Heidegger, Holzwege, op. cit., p. 404. ↩︎

  22. Ivi, p. 407. ↩︎

  23. Ivi, p. 413. ↩︎

  24. Ivi, p. 417. ↩︎

  25. Ibidem↩︎

  26. Ivi, p. 418. ↩︎

  27. Ivi, p. 419. ↩︎

  28. Ivi, p. 422. ↩︎

  29. Ivi, p. 427. ↩︎

  30. Ibidem↩︎

  31. Ivi, p. 429. ↩︎

  32. Ivi, p. 433. ↩︎

  33. Ivi, p. 437. ↩︎

  34. Ivi, p. 440. ↩︎

  35. E. Severino, La parola di Anassimandro, in Id., Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 391. ↩︎

  36. Ibidem↩︎

  37. Ibidem↩︎

  38. M. Heidegger, Holzwege, op. cit., p. 440. ↩︎

  39. E. Severino, La parola di Anassimandro, op. cit., pp. 392-393. ↩︎

  40. Ivi, p. 396. ↩︎

  41. Ivi, p. 399. ↩︎

  42. Cfr. Frammento 53 di Eraclito: “Πόλεµος πάντων µὲν πατήρ / Polemos di tutte le cose è padre”. ↩︎

  43. Cfr. Frammento 6 di Parmenide (Sulla Natura): “Ἔστι γὰρ εἶναι, µηδὲν δ’οὐκ ἔστιν / L’essere è, mentre il nulla non è”↩︎

  44. Ivi, p. 401. ↩︎

  45. Cfr. versi 13-15 frammento VIII de Sulla Natura di Parmenide. ↩︎

  46. E. Severino, La parola di Anassimandro, op. cit., pp. 404-406. ↩︎

  47. Ivi, p. 406. ↩︎

  48. Ivi, p. 409. ↩︎

  49. Ivi, p. 410. ↩︎

  50. E.Severino, Destino della necessità. Katà tò chreòn, Milano, Adelphi, 1980, p. 530. ↩︎

  51. Ibidem↩︎

  52. Sarà in un volume del 2015, Dìke, però, che Severino riprenderà in mano questo scorcio giovanile sul detto di Anassimandro, con l’intento di contestualizzarlo con gli sviluppi degli scritti della maturità. Ai fini del presente saggio è sufficiente, anche se obbligatorio, farne un richiamo, poiché un confronto serrato fra il Severino giovanile e quello della produzione tarda richiederebbe una contestualizzazione teoretica ad hoc, che nel caso di questo saggio potrebbe fuorviare. In ogni caso, per chi volesse addentrarsi nei meandri speculativi severiniani, si rimanda alla lettura del volume: E. Severino, Dìke, Adelphi, Milano 2015. ↩︎

  53. Cfr. Hyppolitus, Refutatio omnium haeresium, Hildeschem, New York 1977. ↩︎

  54. W. Leszl (a cura di), I presocratici, Il Mulino, Bologna 1982, p. 47. ↩︎

  55. Ivi, p. 48. ↩︎

  56. R. Mondolfo, Natura e cultura alle origini della filosofia, in W. Leszl (a cura di), I presocratici, Il Mulino, Bologna 1982, pp. 223-259. ↩︎

  57. Cfr. Paragrafo 3 – dove viene messo in luce il rifiuto di una interpretazione giuridica del frammento sebbene non nominando direttamente Mondolfo o Jaeger. ↩︎

  58. E. Severino, La parola di Anassimandro, op. cit., pp. 398-399. ↩︎

  59. Ibidem↩︎

  60. W. Leszl (a cura di), I presocratici, op. cit., p. 55. ↩︎

  61. Per ulteriori approfondimenti si segnala anche AA.VV. La filosofia futura n. 8/2017. Sull’infinito II, a cura di Nicoletta Cusano, Mimesis, Milano 2017. ↩︎