Il caso Sloterdijk. Il terzo incomodo fra Beaufret e Heidegger sul problema dell’umanismo

Come ridare un senso alla parola «umanismo»? Come salvare l’elemento di avventura che comporta ogni ricerca, senza fare della filosofia una semplice avventuriera?

— Jean Beaufret, lettera ad Heidegger, 10 novembre 1946

Lei mi chiede: comment redonner un sens au mot «Humanisme»? La domanda nasce dall’intenzione di mantenere la parola «umanismo». Io mi chiedo se ciò sia necessario. O non è ancora abbastanza evidente il male che recano tutte le denominazioni di questo genere? Certo, già da molto tempo si diffida degli «ismi». Ma il mercato dell’opinione pubblica ne richiede sempre di nuovi.

— Martin Heidegger, Lettera sull’umanismo

1. Sloterdijk oltre Beaufret e Heidegger con le parole di Zarathustra

La contemporaneità, per ciò che riguarda lo sguardo della filosofia, rappresenta sempre un orizzonte inesauribile e sfuggente insieme, una stella polare di fronte alla quale ogni sapere è destinato a fare i conti. Nell’epoca del cosiddetto «post-moderno» questo orizzonte della contemporaneità si è opacizzato e sgretolato via via fino a profilarsi come scenario — o meglio come serie di scenari — piuttosto che come panorama nella sua precisa accezione di visione-del-tutto (pan-orào). La costante attuale delle filosofie della storia consiste proprio nel congedo da impostazioni speculative tese all’onnicomprensività: sparito il pan-logismo (Hegel), è sparito con esso il pan-orama.

Una frammentarietà di questo tipo ha da una parte modificato sostanzialmente il piano di lettura della storia come narrazione e teleologia per introdursi in un piano di depotenziamento del primato ontologico; da un’altra ha garantito una libertà di movimento all’interno del pensiero, con il proposito di indagare genealogicamente un concetto — fosse anche quello di «storia» — anziché prenderlo come presupposto in una sistematica lettura teoretica con pretese di coerenza logica universale.

Un quadro di queste tinte è quello notoriamente costituito dalla comparsa della filosofia di Nietzsche. La sua eredità è ben lontana dall’essere sopita e, un esempio particolare nell’ottica della attuale filosofia della storia, lo incontriamo nella figura di Peter Sloterdijk (Karlsruhe 1947), di cui in questa sede si prende in considerazione Regole per il parco umano, controversa relazione del settembre 1999 ora contenuta in Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger.1

Sloterdijk colleziona in questo libro una serie di saggi che hanno sì come perno le riflessioni di Heidegger, ma, come suggerisce il sottotitolo, si tratta di saggi dopo Heidegger e non su Heidegger: caratteristica che introduce all’intenzione dell’autore di superare il piano meditativo heideggeriano a favore di uno sguardo più spiccatamente antropologico, come ora vedremo. Il sottotitolo di Regole per il parco umano, invece, è emblematicamente Una risposta alla «lettera sull’umanismo» di Heidegger, il che balza direttamente all’occhio come una sorta di presa di posizione da «terzo incomodo» rispetto allo scambio epistolare fra Beaufret e Heidegger cui sinteticamente ci si riferiva nelle citazioni in esergo. Ma andiamo per gradi: si accennava al debito nietzscheano, e ci si riferiva più precisamente alla centralità data dallo stesso Sloterdijk alle parole dello Zarathustra de La virtù che rende meschini, delle quali le più altisonanti sono:

Io passo in mezzo a questa gente e tengo gli occhi aperti: costoro son diventati più piccoli e diventano sempre più piccoli; — ma in ciò consiste la loro dottrina sulla felicità è la virtù. […] Alcuni di loro vogliono, ma i più sono soltanto voluti […] Virtù è per loro ciò che rende modesti e mansueti: a questo modo trasformarono il lupo in cane, e l’uomo stesso nel miglior animale domestico dell’uomo.2

È sulla scorta di questa illustre citazione che Sloterdijk fonda il nucleo della sua interrogazione circa l’umanismo. Assumendo la prospettiva di Nietzsche, il nostro filosofo solleva la questione se l’umanismo, di fondo, non sia sempre stato il nome dato alla storia di un addomesticamento e allevamento dell’uomo, per cui questi uomini «soltanto voluti» siano l’effetto di un rimpicciolimento rappresentato da «un rapporto necessario tra leggere, stare seduto e tranquillizzarsi».3 Ma non bisogna inquadrare questa riflessione come una denuncia pseudo-marxista che ravvisi una sorta di sopruso strutturale nelle forme pedagogiche della società, né quindi, in un’ottica per cui l’umanismo sia un «oppio per i popoli», i quali devono programmaticamente emanciparsi, magari assumendo un programma politico che Sloterdijk profili nella sua filosofia. Nulla di tutto questo. Infatti, leggendo Non siamo ancora stati salvati, non troveremo mai particolari proposte, bensì complesse (e a volte oscure) prese di visione di un crocevia della storia dell’uomo fra una umanità allevata in una maniera e un’umanità che si alleverà diversamente in un futuro non troppo lontano. Questo tono fatale delle pagine di Sloterdijk rispecchia la fortuna e al tempo stesso la sfortuna dei concetti da lui tirati in ballo, nella misura in cui prestano il fianco a facili entusiasmi, fraintendimenti come aspre critiche.4

È così infatti che, paradossalmente, mentre Sloterdijk dichiara di volersi allontanare da quello che considera un eccesso di «meditazione pastorale» di Heidegger, cita con non poca devozione un passo di Nietzsche che non primeggia certo per una teoresi cartesianamente «chiara e distinta», sebbene anzi proprio di «discorso teoretico sull’uomo» Sloterdijk parli descrivendo a margine la sua citazione. Paradosso che lascerebbe l’idea per cui il nostro filosofo non sia che un nietzscheano nutrito da interessi di pedagogia negativa e distopia, ravvisabili là dove dice: «inizia ad albeggiare l’orizzonte dell’evoluzione, anche se in modo ancora confuso e inquietante»5, punto che fa chiosa proprio al debito che Sloterdijk riconosce nei confronti di Nietzsche,6 ovvero quella lucidità con cui questi ha rifiutato quella «falsa ingenuità di cui si circonda l’uomo buono della modernità»,7 per effetto di un sospetto verso ogni cultura umanistica, che altro non sarebbe che il velo della domesticazione dell’umanità. Nietzsche delimita così lo spazio in cui si giocherà la partita (se non si sta già giocando ora) fra gli allevatori dell’uomo piccolo della tradizione e gli allevatori dell’uomo potenziato. L’intelligenza di Sloterdijk qui sta nel non identificare il secondo modello con una proposta di Zarathustra, bensì attribuendo alla parola di quest’ultimo un valore mediano (e forse ben più rilevante!) di intuizione dello spazio stesso fra le due modalità di allevamento; del resto egli stesso non si pronuncia espressamente a favore del secondo modello, preferendo piuttosto sottolineare l’importanza del pensiero pericoloso che è proprio di quella intuizione nei confronti della storia che legittima gli enigmi di filosofi come Heidegger, Nietzsche e per finire, potremmo dire, anche come Sloterdijk stesso.8

2. «Duemilacinquecento anni di effetto-Platone»

Ma è proprio qui che tutto parrebbe consegnare il discorso sloterdijkiano ad una fin troppo semplice figura di epigono del percorso Nietzsche-Heidegger che ha introdotto il ’900, che lo scritto del 1999 fa sentire tutto il peso di un secolo in più di tumulti filosofici e di problematiche umanistiche, non ultima quella della tecnica.

Il tempo di prendere la rincorsa con un originale e curioso riferimento all’antico Platone ed ecco che Sloterdijk ci catapulta nel cuore del bivio della nostra epoca di confusione sulla natura dell’uomo e nel cuore del suo «pensiero pericoloso», il quale, con il concetto di umanità come parco umano, vede Platone stesso come primo antropotecnico. Questa che a prima visione pare una provocazione forzata, ha invece per Sloterdijk una sua profonda legittimità dal momento in cui il Politikòs di Platone9 non è «significativo solo perché mostra, in modo più chiaro di altri, ciò che l’antichità intendeva realmente per pensiero […] La portata incommensurabile di questo scritto e il suo posto nella storia del pensiero sull’uomo, consistono innanzitutto nel fatto che il testo si sviluppa come un colloquio di lavoro tra allevatori».10 Qui Sloterdijk si riferisce al dialogo fra lo straniero e il giovane Socrate, ritenendolo fortemente elitario e con scopi manovrieri nei confronti della società, poiché essi «parlano della comunità umana come di un giardino zoologico»,11 forti di una considerazione dell’uomo sotto l’ottica della sua animalità da controllare, ma nei limiti imposti dalla caratteristica cooriginaria proprio all’animalità: la naturale tendenza a produrre un effetto parco; ovunque essi vivano «gli uomini devono farsi un’opinione sulle regole della conduzione di sé»12, e il parere a riguardo dei due dialoganti sfocia nella tesi per cui l’allevatore (per usare il vocabolario di Sloterdijk) deve essere non solo di grado superiore, ma di specie superiore. La critica al sofista, infatti, avviene dal momento in cui si ritiene mendace e affabulatore il suo pretendere parità con «il gregge» per ottenere il consenso, mentre l’onestà dell’allevatore platonico starebbe nel considerarsi differente e «farebbe capire discretamente che lui, poiché agisce con saggezza, è più vicino agli dèi di quei confusi esseri viventi che custodisce».13 Il paradosso per il bene dell’umanità consisterebbe quindi, per l’interpretazione che Sloterdijk ha di Platone, nel fatto che l’allevatore si pone su un piano di differenza antropologica — se non addirittura ontologica.

Per il lettore che oggi guarda indietro ai ginnasi umanistici dell’epoca borghese e all’eugenetica nazista e contemporaneamente getta già uno sguardo verso l’epoca biotecnologica, è impossibile misconoscere l’esplosività di queste riflessioni.14

Qui Sloterdijk si rivolge al lettore, ma senza particolari intoppi siamo disposti a credere che parli anche per sé stesso. In questa constatazione a metà fra il diaristico e il colloquiale, la possibilità che l’uomo sia da sempre solo l’effetto di una regolamentazione di un parco colpisce l’autore stesso che ne parla, con l’enfasi tipica di una tragedia:

Dopo duemilacinquecento anni di effetto Platone, ora sembra che non solo gli dèi, ma anche i saggi si siano ritirati, e che ci abbiano lasciati soli, con la nostra sconsideratezza e le nostre mezze conoscenze su tutto.15

Il tono nichilistico che qui l’autore adotta è confidenziale, vicino alle preoccupazioni dei nostri tempi. In una parola: umano. La freddezza impersonale con cui pronuncia il suo pensiero pericoloso sulla storia dell’uomo come storia della domesticazione (come quello di Nietzsche e di Platone), accompagnata proprio da questa sensibilità più preoccupata che preoccupante, tardano e fondamentalmente ridimensionano l’idea che potremmo farci di uno Sloterdijk post-umanista; definizione generalmente associatagli su cui il presente lavoro vuole ragionare con il beneficio del dubbio.

3. Il bivio del cupio dissolvi

A dieci anni di distanza dalla stesura del testo Regole per il parco umano, oggi, disponiamo della possibilità di ridiscutere i termini in cui si svolgono le sue tematiche al di fuori delle prime reazioni che all’epoca suscitò, fra riverberi mediatici enfatizzanti e demonizzazioni di rimbalzo. Ma oltre al privilegio storiografico del tempo che passa e rende più tiepido qualsiasi scandalo, a soccorrere il tentativo di obiettività del nostro lavoro è proprio la struttura del testo Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger,16 il quale, con una forma appunto piuttosto heideggeriana, presenta una collezione di saggi con una successione non arbitraria. Non a caso infatti, in un’operazione che voglia meglio contestualizzare il saggio cui ci si sta maggiormente riferendo, si può fare cenno a due passaggi chiave dell’intero volume, uno precedente a Regole per il parco umano e uno successivo, due passaggi in cui il pensiero sulla storia attuale appare ben più definito, o forse più complesso rispetto alla semplice storia della domesticazione sin qui accennata.

Nel capitolo L’ora del crimine del mostruoso la storia dell’uomo viene vista in un’ottica per cui lo stato attuale è lo stato del superamento della modernità tramite la «globalizzazione come produzione del presente permanente sulla Terra»,17 idea per cui Sloterdijk ritiene doveroso precisare (come largamente fa il pensiero pos-moderno) che il pensiero contemporaneo sulla storia attuale deve staccarsi dalle strutture delle filosofie della storia tradizionale, sottolineando che gli uomini «non vogliono fare la storia […] ma hanno invece intenzione di concluderla»,18 come se il leitmotiv della modernità fosse la iperproduzione di un presente da ipostatizzare all’insegna di una autoriflessività in grado di rendere quel parco umano il luogo in cui il problema di una fine e di un fine termini nella coincidenza dell’una con l’altro. Il crimine del mostruoso corrisponderebbe di fatto proprio a questo — sebbene l’ambiguità del termine tedesco ungeheuer («mostruoso»; «enorme»; «smisurato») lasci molte porte aperte all’interpretazione.19

La condizione che però fa da specchio alla modernità sta nel bivio di fronte al quale la strada per l’epoca successiva presenta due vie: verso la catastrofe o verso la continuità. Sotto la prima vanno incluse le forme tradizionali dell’apocalisse delle epifanie teologiche al fianco dell’ipotesi di disastri biosistemici, verso le quali Sloterdijk non nutre particolare inclinazione, liquidandole rapidamente a favore della seconda via, in cui per «continuità» va intesa la legittimità del processo di domesticazione e allevamento dell’uomo secondo il prospetto cui si riferisce Regole per il parco umano. Ma a soccorrerci per meglio inquadrare questa prospettiva, imponente quanto poco chiara (e poco chiarita) dobbiamo fare riferimento, come sopra annunciato, a un capitolo precedente, ossia Aletheia o la miccia della verità, in cui si comprende come il passaggio alla «continuità» viva nel momento attuale una stagione di stallo, per cui «l’uomo è legato oggi alla sua immagine di fabbricatore che non sa convincere sul banco degli imputati e deve ascoltare le requisitorie dei pubblici ministeri, che gli imputano la sua hybris, la sua sopravvalutazione di sé […] la sua semicompetenza semicriminale nella presa di potere tecnologico sulla Terra».20 Questa «diffidenza» del mondo attuale nei confronti delle proprie potenzialità creative non deve però essere considerata come una categoria psicologica, ma come il clima della nostra epoca contrassegnata da una secolarizzazione che ha congedato le forme tradizionali di definizione della trascendenza per inaugurare il primato della tecnica.21 La creatività totalmente spoglia da inibizioni storiche ha i suoi tempi. Anche qui le parole di Zarathustra tornano curiosamente vicine, quando in Sulle Isole Beate egli sostiene che non può esservi dio altrimenti non sarebbe possibile creare.22

Ma la cosa più curiosa pare piuttosto essere l’evenienza a partire dalla quale l’uomo si risveglierebbe dal torpore umanista per poter creare — con la tecnica — senza più riserve:

Il lato della natura naturans, attraverso un sapere tecnico creativo, diventerà più virulento che mai sotto la pressione di un disastro ecologico o demografico incombente […] L’accusata volontà di potenza sarà citata nelle prossime sessioni processuali in qualità di soccorritrice nella miseria […] L’experimentum mundi potrebbe ancora riuscire, come sempre in modo temporaneo e regionale, solo se il nostro calendario si lacerasse per far apparire una verità finora latente.23

La curiosità di questa evenienza non sta nel tono profetico discutibile o meno che si voglia, quanto piuttosto, ad un occhio più acuto, nel fatto che in un altro momento (sopra citato) Sloterdijk ponga un bivio fra la possibilità di una catastrofe o la via della «continuazione», mentre in questa sede egli fa coincidere i due momenti come necessariamente richiamati. Questa, è lecito dirlo, è una incoerenza che non permette al nostro filosofo di comunicarci un pensiero esatto su questo bivio. Il tono profetico riesce così addirittura a non esserlo abbastanza. Nel frattempo, però, poco sotto a questo intoppo, l’intelligenza di Sloterdijk nel porsi fuori da una pericolosa adesione si manifesta in lucide parole:

Nel suo infausto colloquio con lo Spiegel Heidegger aveva detto: «Ormani solo un dio ci può salvare». Dopo tutto ciò che oggi sappiamo, la parola dio dovrebbe essere sostituita dall’espressione «la capacità di creare nature». Ma questa espressione suona così entusiastica che ci rende piuttosto perplessi riguardo a questo oracolo di Heidegger. Perché essa acquisisca un senso praticabile, bisognerebbe allora ritradurla in un’espressione come «la capacità di cooperare con le nature». La cooperazione presuppone avvedutezza e relativizzazione di sé rispetto all’altro. […] La società mondiale sarà una società dell’avvedutezza o non ci sarà affatto.24

È incredibilmente densa questa pagina di Sloterdijk in cui dalla prospettiva di un experimentum mundi fondamentalmente inevitabile si passa a un responsabile richiamo a una forma di «avvedutezza» e «relativizzazione di sé». Il rischio di una società mondiale che non ci sia affatto è in Sloterdijk motivo di suggestione alla pari con le potenzialità della creatività umana. Questo peculiare cupio dissolvi, questa paradossalità può essere vista come insufficienza teoretica, ma allo stesso tempo ci offre un ritratto esistenziale del pensatore del «mostruoso» che ha ben poco di post-umano. Le incoerenze sono ancora umane e la bellezza di uno stupore e di una meraviglia di un uomo — come dell’uomo in generale — di fronte all’inesplorabilità totale del reale, negativo o positivo che sia, sono qualcosa di simile alle parole di San Paolo nella Lettera ai Filippesi, 1, 23-24:

Sono messo alle strette tra due scelte: il desiderio di morire (cupio dissolvi) ed essere con Cristo […] ma d’altra parte è più necessario, per voi, che resti nella carne.

4. Sloterdijk umano troppo umano

Il problema che ora si pone, alla luce di queste incoerenze, sta nell’inquadrare quale tipo di contributo Sloterdijk ci consegna nel pensiero contemporaneo sui problemi che la tecnica ci sottopone. Si è visto finora, fra le considerazioni a margine di tratti salienti e le riflessioni nell’apparato di note, come l’idea di uno Sloterdijk totalmente post-umanista debba essere affrontata con cautela. La tiepidezza malinconica delle conclusioni cui volgono i capitoli di Non siamo ancora stati salvati, così come la puntualità con cui Sloterdijk si sottrae a un’adesione all’eugenetica o ad approfondimenti più curati nei punti più cocenti sono ancora elementi troppo poco consistenti per poter parlare di apologia dell’eugenetica o di un manifesto del post-umanesimo.

Si prendano due esempi molto chiari: il primo riguarda la mancanza di una fondazione chiara del concetto di abbrutimento: cosa intende Sloterdijk quando dice: «chi oggi si interroga sul futuro dell’umanità e dei media umanizzanti, vuole in fondo sapere se c’è una speranza di padroneggiare le attuali tendenze all’imbarbarimento dell’uomo»?25 Altrove egli dice giustamente: «L’umanista stesso dovrebbe perdersi almeno una volta nella folla schiamazzante, solo per chiarire che anche lui è un uomo e che perciò può venire contagiato dall’abbrutimento […] il senso di questi media risiede nel disintossicarsi dalla propria possibile bestialità».26 La valorizzazione di una filosofia en plein air come quella cui si riferiva Günther Anders è apprezzabile, ma allo Sloterdijk (a cui peraltro manca la biografia «in mezzo alla folla» dinamica e ispirata di Anders) manca tutta la cura con cui Anders tratta del passaggio da homo faber a homo materia27 per concentrarsi esclusivamente sulle noie e gli scrupoli di un ideale homo faber, salvo sporadici cenni a pericoli che invece meritano il beneficio di riflessioni di più ampio respiro: il cupio dissolvi, altrimenti, risulta essere un fragile esercizio di immobilità speculativa.

Questo non gli permette, di fatto, di poter ragionare a fondo su cosa sia l’abbrutimento, e soprattutto su cosa questo sia diventato, il che lo pone in una posizione intermedia fra umanismo e post-umanismo che può condizionare ben poco nella nostra presente considerazione sulla condizione dell’uomo o su ciò che dovrebbe essere la sua condizione futura: dopotutto, l’abbrutimento, proprio perché pericolo incessante, è una forma suscettibile di presentarsi sotto diverse forme nella storia, e non è, come Sloterdijk vorrebbe presentarci, una baratro sempre identico per ogni uomo male allevato. In questo il nostro pensatore dimostra di non avere una psicologia molto diversa dal discorso fra lo straniero e il giovane Socrate cui si richiama alla fine di Regole per il parco umano.

Il secondo esempio di incoerenza di Sloterdijk risiede nella mancata costruzione di un pensiero eticamente direzionato a supplire ai pericoli della nostra epoca: si ricordi esemplarmente il richiamo ad un pericolo di una società inesistente senza «avvedutezza». Il pensatore tedesco mette in tavola, sapientemente, tutte le carte su cui può giocarsi la validità di un intervento atto a modificare il modello di «allevamento» dell’uomo futuro, salvo poi, però, ritirare la mano quando con profonda coscienza umanista, sottolinea la necessità di una forma cautelare nei confronti della cooperazione fra le nature, senza tuttavia fare alcun cenno su quale sia una minima occasione di supporto a questa cautela, quale sia l’indirizzo che questa cautela debba prendere: il saggio di cui ci si sta occupando è intitolato Regole per il parco umano, ma di regole o indirizzi etici non si parla mai. I detrattori moralmente condizionati si sono concentrati fin troppo su questo titolo, ma a ben guardare i contenuti del saggio, il grande difetto di Sloterdijk sta proprio nel non essersi pronunciato fino in fondo in materia, lasciando così alla superficie i gradimenti come piuttosto le malevolenze dei lettori con più voce in capitolo. Leggere Sloterdijk accompagnato da Jonas, Apel, Gadamer, Anders, Mumford, Ratzinger, Severino, a questo punto, è il proposito migliore per lo studioso della nostra epoca e dei risvolti tirati in ballo in questa sede; se non altro il contributo di questo particolare filosofo può estendersi ad una forma di «allievo del sospetto» (per clonare il modo in cui Ricœur si riferisce a Marx, Nietzsche e Freud) da confrontare con i «maestri dello sguardo», per così dire, che si è appena elencati.

In ultima analisi l’idea conclusiva con cui si può considerare il pur coraggioso lavoro di Sloterdijk nel rimettere in ballo concetti heideggeriani e nietzscheani è che il nuovo regime post-epistolare e post-umanistico che il pensatore tedesco dichiara essere la tratta della trasmissione del sapere attuale, non è né cominciato né continuato con il suo contributo, ancora (comprensibilmente!) legato ad una forma di trasmissione letteraria, ad una logica spettatoriale nei confronti dei cambiamenti della storia e a inquietudini sane e non fraintendibili sui pericoli cui la nostra natura umana è rivolta, che siano per mano nostra o per mano di un destino enigmatico — verso il quale l’umanismo e le sue mille, continue forme ancora hanno molto da indagare.


  1. P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger (trad. it. Anna Calligaris e Stefano Crosara), Milano 2004, Bompiani. ↩︎

  2. F.W. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, in Opere, Adelphi, Milano, 1964 sgg., vol.VI, t.I, pp. 203-206. ↩︎

  3. P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger (trad. it. Anna Calligaris e Stefano Crosara), Milano 2004, Bompiani, p. 256. ↩︎

  4. Critica inaugurata da accuse formulate da Reinhard Mohr né Der Philosoph Peter Sloterdijk propagiert «pränatale Selektion» und «optionale Geburt»: Gentechnik als angewandte Gesellschaftskritik. Seine jüngste Rede über «Menschenzucht» trägt Züge faschistischer Rhetorik, «Der Spiegel», 6 giugno 1999, in cui si ritiene la tematizzazione di Sloterdijk al livello di una «visione di orrore fascista». Disputa notoriamente proseguita fra Sloterdijk e Habermas sul piano mediatico a furia di frecciate sulla reciproca antipatia professionale e non. Si noti esemplarmente l’implicito riferimento a Sloterdijk in J.Habermas, Il futuro della natura umana, Torino, Einaudi 2002, pp. 24-25: ««un pugno di intellettuali psichicamente crollati [che] cerca di leggere il futuro nei fondi di caffè di un «post-umanesimo» naturalisticamente declinato […] Le fantasie nietzschiane di questi auto-promotori per il momento servono soltanto a soddisfare spettacoli mass-mediatici». L’idea che a dieci anni di distanza ci possiamo fare su questa disputa è che proprio il processo mass-mediatico di questo affaire Sloterdijk abbia imploso, come accade per ogni disputa mediatica, la sua importanza limitatamente al periodo in cui è nata. D’altro canto, porre la questione su un piano storiografico di critica filosofica a riguardo, ora, significherebbe creare senza alcuna legittimità una differenziazione fra i due pensatori su una base arbitraria, o nel migliore dei casi, parziale. In questa sede si ritiene perciò valido considerare il contributo del pensiero di Sloterdijk isolatamente da ogni nemesi forzata con altri pensieri e da circoscriversi alla posizione che incarna sullo sfondo del discorso sull’umanismo di Heidegger, nella consapevolezza, peraltro, che un serio confronto con Habermas meriti approfondimenti che questo studio non può né vuole soddisfare. ↩︎

  5. P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger (trad. it. Anna Calligaris e Stefano Crosara), Milano 2004, Bompiani, p. 260. ↩︎

  6. «Chi ha abbastanza fiato per rappresentarsi un’epoca in cui Nietzsche sarà storicizzato così come lo era Platone per Nietzsche?», Ibidem. ↩︎

  7. Ivi, p. 257. ↩︎

  8. Questo punto potrebbe, insieme ad altri, scagionare da accuse estremiste di «fascismo» nei confronti del nostro autore, il quale va piuttosto giudicato per debolezze filosofiche all’interno del suo discorso, anziché per i risvolti dottrinali che potrebbe avere e che, onestamente, non pare proprio avere nemmeno come presupposti e tantomeno come interessi. In questo senso, il «pensiero pericoloso» non lo è per quanto possa portare a fare, ma per quanto esso stesso disfaccia all’interno di metodologie tradizionali nella considerazione della storia da parte dei filosofi. Anche la filosofia ha i suoi panni sporchi da lavare in famiglia. Potremmo osare dicendo che questa sia abbastanza una costante nel pensiero del post-moderno, della post-histoire, le quali, coerenti con il loro percorso di «pensieri deboli», non vanno di molto oltre al pensiero stesso. ↩︎

  9. Platone, Politico, trad. di A. Zadro, in Opere complete, Laterza, Bari 1982. Le parti a cui Sloterdijk fa maggiore riferimento sono situate nel vol.II, 265b-c, pp. 267-268. ↩︎

  10. P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger (trad. it. Anna Calligaris e Stefano Crosara), Milano 2004, Bompiani, p. 261. ↩︎

  11. Ibidem. ↩︎

  12. Ivi, p. 262. ↩︎

  13. Ibidem. ↩︎

  14. Ivi, p. 265. ↩︎

  15. Ibidem. ↩︎

  16. Titolo originale Nicht gerettet. Versuche nach Heidegger, Suhrkamp, Franfurt am Main, 2001, tradotto e pubblicato in italiano nella edizione finora citata di Bompiani del 2004. ↩︎

  17. P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger (trad. it. Anna Calligaris e Stefano Crosara), Milano 2004, Bompiani, p. 303. ↩︎

  18. Ibidem. Per una precisa collocazione di queste tematiche post-metafisiche sulla fine della storia si veda l’eccellente studio A. Rizzacasa, L’eclisse del tempo. Il fine e «la fine» della storia, Città Nuova, Roma 2001. ↩︎

  19. L’idea che ci si fa a riguardo è che il termine «mostruoso» crei più difficoltà di quante ne possa scansare. La traduzione con «smisurato» o «enorme», invece, ci suggerisce uno spazio di interpretazione ben più aperto, dove quest’enormità e smisuratezza giustifica ancora il beneficio del dubbio se la produzione umana o il suo destino al di là della volontà siano di fatto prospettive imprigionabili dalla nostra attuale comprensione, e se quindi ciò non lasci qualche spiraglio alla nostra prudenza, che con un sano scetticismo può essere l’unico baluardo per non abbracciare troppo frettolosamente dottrine sul post-umano come piuttosto dottrine di fede tradizionali per absurdum↩︎

  20. P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger (trad. it. Anna Calligaris e Stefano Crosara), Milano 2004, Bompiani, p. 237. ↩︎

  21. Cfr. E. Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982. ↩︎

  22. Cfr. F.W. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Adelphi, Milano 1976, pp. 94-96.«Dio è una supposizione; ma io voglio che il vostro supporre non si spinga oltre i confini della vostra volontà creatrice […] Dio è un pensiero che rende storte tutte le cose dritte e fa girare tutto quanto è fermo». Rimane da osservare come certi collegamenti vadano fatti con grande cautela, un secolo dopo sufficienti strumentalizzazioni del pensiero di Nietzsche da tiranni, eugenetisti o detrattori. Nietzsche deve rimanere, nella nostra considerazione, la più alta forma di lettura del crocevia della nostra storia, e non come una scrittura di questa. Un mondo che congeda i suoi dèi con sbalorditiva unitarietà non può essere responsabilità di uno scritto o di un (seppur grandissimo) pensatore. Vorrebbe dire che l’umanismo come sistema di diffusione del sapere e «allevamento» funziona definitivamente; e ciò paradossalmente stride, a proposito, con l’idea proprio di Sloterdijk per cui l’umanismo come scambio epistolare del sapere sia finito da tempo — e Sloterdijk fa un uso ampio del termine «epistola» per intenderlo come l’attività di comunicazione di chi è sapiente, cfr. P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger (trad. it. Anna Calligaris e Stefano Crosara), Milano 2004, Bompiani, p. 243. «L’era dell’umanismo nazional-borghese è giunta a compimento perché l’arte di scrivere lettere […] non sarebbe più sufficiente a tenere insieme il filo tele comunicativo tra gli abitanti di una moderna società di massa […] questi fondamenti sono decisamente post-letterari, post-epistolari e di conseguenza post-umanistici».Tuttavia Sloterdijk non ammette mai di essere anch’egli in pieno in questa insufficienza. ↩︎

  23. P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger (trad. it. Anna Calligaris e Stefano Crosara), Milano 2004, Bompiani, p. 238. ↩︎

  24. Ibidem [corsivo mio]. ↩︎

  25. Ivi, p. 244. ↩︎

  26. Ivi, p. 245. ↩︎

  27. G.Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992. Si veda ad esempio p. 15. ↩︎