L’emergenza dell’inconscio nel pensiero dell’Occidente. Conversazione con Michel Henry

Prof. Henry, Lei ha scritto un libro, Genealogia della psicoanalisi, che di fatto è un libro sull’emergenza dell’inconscio nel pensiero occidentale.

L’idea dell’emergenza dell’inconscio in Occidente nasce dal mio lavoro fenomenologico. Perché la fenomenologia riflette non sui diversi fenomeni, ma su quello che fa di ciascuno di essi un fenomeno, cioè sulla fenomenalità, su ciò che a un certo momento nella filosofia classica si è chiamato «coscienza». Ora questo è un problema fondamentale, perché sia che la si pensi esplicitamente, sia che la si faccia intervenire senza porvi attenzione, è la fenomenalità che fa da supporto ai fenomeni e fa sì che qualcosa si mostri a noi in modo che possiamo parlarne. In rapporto all’inconscio la fenomenalità è un tema o un’affermazione paradossale. Infatti, se si prende come criterio la definizione classica di fenomenalità in termini di coscienza, esso sembra negare puramente e semplicemente questa fenomenalità, questo apparire, senza il quale non c’è nulla: non c’è, per noi, esperienza. E allora cosa resta? Di che cosa possiamo parlare, se non c’è più niente, se non c’è più alcun dato? Per dei fenomenologi, i quali pensano che ogni discorso filosofico debba poggiare su un dato, l’affermazione stessa di un inconscio pone una specie di aporia. Che cosa significa parlare, pensare, se nulla si mostra? Perciò ho voluto chiarire il paradosso dell’inconscio a partire dai presupposti fenomenologici del mio pensiero.

Lei comincia la Sua analisi dal cogito di Descartes, che considera una fonte di questo pensiero dell’inconscio.

Il cogito cartesiano appare lontano in rapporto alla psicoanalisi, e al pensiero del XX secolo. Ma è una fonte, come Lei dice, che non si può occultare, per la buona ragione che non soltanto l’inconscio della psicoanalisi, ma ogni forma di pensiero nel XX secolo ha messo in questione il cogito di Descartes. E con la messa in questione del cogito di Descartes, veniva messa in questione la fenomenalità. Si voleva dire così non che la fenomenalità non esiste — perché sarebbe impossibile — ma che è un’apparenza, che è ingannevole. Perciò, invece di intenderla come un suolo sicuro per il nostro pensiero e per le nostre pratiche intellettuali, bisogna mettere in dubbio la fenomenalità. È stata la famosa «età del sospetto», come diceva Ricœur, cioè la contestazione di un momento in cui, al contrario, la filosofia aveva voluto fondarsi su una fenomenalità indubitabile. Perché in fondo il cogito è questo, è l’affermazione di una fenomenalità, di un apparire assolutamente incontestabile, sul quale si può fare affidamento.

Questo apparire non è un apparire qualsiasi, è un apparire a me stesso e innanzi tutto il mio apparire a me stesso. «Io penso» vuol dire: io appaio a me stesso e questo apparire a me stesso è assolutamente indiscutibile. Su questa certezza riposa tutto il sapere che posso acquisire su me stesso e sul mondo. Secondo Descartes, in quanto ho una conoscenza certa di me stesso e di tutti gli strumenti del conoscere, tutto quello che conosco beneficia di questa certezza invincibile che porto in me. Di conseguenza, se il pensiero del XX secolo, nel suo insieme, mette in questione il cogito di Descartes, mette in questione quello che è stato considerato dalla filosofia classica moderna, ma non da quella contemporanea, come un fondamento certo. Dunque tutto è rimesso in questione: è l’età del sospetto.

Quindi si mette in questione il cogito di Descartes, che serviva di fondamento non soltanto al nostro pensiero, ma alla verità di tutta la nostra esperienza. Allora bisogna domandarsi perché questa verità viene messa in questione da tutto il pensiero moderno, e bisogna inoltre domandarsi in primo luogo se si è compreso quello che Descartes voleva dire affermando il cogito. Questo è stato uno dei primi temi della mia riflessione, al quale ho dedicato tre capitoli di Genealogia della psicoanalisi. C’è stato sul cogito di Descartes un gravissimo malinteso: si è creduto che il cogito — e d’altronde è questo il senso della parola latina — volesse dire «io penso», nel senso che «mi rappresento [qualcosa]», nel senso che «ho delle evidenze» e [in primo luogo] ho l’evidenza della mia esistenza. Ora una evidenza è qualcosa che si vede, ed è qualcosa che si vede in modo tale che non se ne possa dubitare. Così l’esperienza sensibile per il senso comune appare indubitabile. Io vedo bene che sono qui in una stanza, che Le parlo, che vicino a me c’è una lampada, ecc. E poi ci sono altre evidenze, quelle razionali. Vedo che in un cerchio tutti i raggi sono eguali, vedo che «2+3=5» e vedo pure che, se penso, sono, perché, se non esistessi, non potrei pensare. Ecco che cos’è il cogito per i lettori di Descartes e per il pensiero moderno.

Sfortunatamente o fortunatamente, con il cogito Descartes dice esattamente il contrario. Descartes dice: dubito di tutto quello che vedo. Dubito non soltanto di tutto quello che vedo con gli occhi della carne, con i miei sensi — e il dubbio sul giudizio dei sensi era noto fin dall’Antichità — ma dubito anche delle verità razionali. È qui che Descartes dice: «Supponiamo un dio che fosse un genio maligno e volesse ingannarmi quando credo che 2+3=5; ebbene io sarei ingannato, sarei nell’errore e il mio pensiero, il mio vedere intelligibile non varrebbe niente».

A questo punto Descartes riformula il cogito in un modo strano, a cui non si è prestata sufficiente attenzione. Vediamo come. Proprio nel momento in cui qualsiasi vedere è messo in dubbio, Descartes deve trovare il fondamento incrollabile di cui è alla ricerca. Questo fondamento appare ne Le passioni dell’anima, all’articolo 24, in cui Descartes fa l’ipotesi del sogno, e dice: quando vedo o immagino in sogno questa o quella cosa, è tutto falso. Ora il sogno ha una parte importante nella psicoanalisi. Il sogno è una specie di allucinazione. Io mi vedo correre sul marciapiede dietro un treno che parte, ma nella realtà non c’è marciapiede né treno. A questo punto Descartes dice: «dubito di tutto quello che vedo». E allora cosa resta? E subito dopo c’è una frase che trovo fantastica, e che invalida tutte le critiche che il pensiero moderno gli ha mosso. Dice Descartes: se in un sogno provo tristezza o un’altra passione qualsiasi, angoscia per esempio, benché si tratti di un sogno, quella passione esiste. Esiste in quanto io la provo. Se provo paura, nel momento in cui non resta più niente del mondo, perché ho dubitato di tutto, di tutto ciò di cui si può dubitare, ecco qualcosa di cui non posso dubitare: il fatto che ogni sentimento — se mi attengo non a quello che ne racconto, ma a quello che provo — ogni affetto, è indubitabile. Qui troviamo il vero cogito di Descartes: l’«io penso» è un «io sento». Il sentire testimonia di sé in un modo così incontestabile, che se provo un dolore, mi possono dare tutte le spiegazioni di questo mondo, ma per tutto il tempo che durerà il dolore continuerò a soffrire. Su questo nessuno mi potrà ingannare, il dolore non mente, tutto ciò che è dell’ordine del dolore non mente. Questo modo della rivelazione è rimasto occultato.

Quindi, quando La Senne proponeva il suo «soffro, dunque sono» non era poi così lontano da Descartes. Comunque Freud ne L’interpretazione dei sogni dice la stessa cosa: che il sentimento in un sogno non è mai interpretabile, latente e manifesto coincidono. Si possono interpretare le immagini, quello che si vede, nel sogno, ma non l’affetto — che è sempre autentico. Se in un sogno una scena bellissima mi crea invece angoscia, la scena va interpretata in modo da rendere comprensibile quella mia angoscia.

È una tesi che sostengo ne La genealogia della psicoanalisi. La problematica di Descartes, che non è stata veramente compresa, apre l’era moderna, tanto in ciò che ha di valido, quanto in ciò che ha di falso. Di che cosa dubita Descartes? Dubita della rappresentazione, cioè di quello che si vede. E quello che vediamo è sempre quello che è posto davanti a noi, quello che ci sta di fronte, in modo che possiamo vederlo, grazie alla sua distanza, sia con gli occhi della carne, sia con gli occhi dello spirito, con l’intelletto; come quando vediamo che i raggi di un cerchio sono tutti uguali, che è una verità razionale. Qui è in causa la rappresentazione. Ora il pensiero occidentale ha creduto soltanto alla rappresentazione, mentre in fin dei conti Descartes è il primo ad aver messo in questione la rappresentazione. Questo vuol dire che l’interpretazione heideggeriana di Descartes è completamente falsa: «io penso» significa tutto tranne che «io mi rappresento». E dal momento in cui Descartes ha messo in causa la rappresentazione, allora la fenomenalità, falsamente identificata con la rappresentazione, è diventata l’inconscio.

Ora, nell’articolo su L’inconscio del 1914, e in altri testi dell’epoca, Freud può introdurre il concetto d’inconscio, precisamente perché la rappresentazione sparisce. Uno dei suoi argomenti più rilevanti è il ricordo. Credo che se si guarda il mondo della rappresentazione, con la sua struttura, si vede benissimo che nel mondo della rappresentazione, davanti al mio sguardo, c’è posto solo per qualcosa, per una cosa [alla volta]. Così la radura [clairière] nella quale posso vedere limita il mio orizzonte, di modo che la cosa che vedo esce rapidamente da questa zona di luce, per cedere il posto a un’altra — e allora è quell’altra che io vedo. Ma c’è un prezzo da pagare. Nel mondo della rappresentazione, quando vedo una cosa, non vedo tutte le altre, che sono chiamate allora rappresentazioni inconsce. A questo punto, in un primo tempo Freud dimostra l’inconscio dicendo: vi sono delle rappresentazioni alle quali io penso, ma dal momento che non ci penso più esse abbandonano il cerchio di luce della rappresentazione, che le identifica con la coscienza, diventano rappresentazioni inconsce, o ricordi, e vanno a popolare quel sacco, quel ricettacolo che è il mio inconscio. Nasce così il concetto aporetico, insostenibile, di una rappresentazione inconscia, cioè di qualcosa che è lì davanti a me, che vedo e non vedo: è il caso di tutte le rappresentazioni che vedo solo per un istante e che nell’istante successivo spariscono. Questo è il primo tempo della psicoanalisi: il momento in cui si afferma l’inconscio a proposito della rappresentazione.

La rappresentazione come modo finito dell’apparire fa nascere l’idea che la vera realtà è inconscia. Ma qual è questa realtà vera? È importante precisamente riconoscere che è una realtà di un ordine diverso da quello della rappresentazione, che si trova nelle profondità di me stesso e che Freud chiamerà «inconscio». È invisibile, ma non nel senso di qualcosa che è provvisoriamente visibile per trapassare in una invisibilità altrettanto provvisoria, in un campo di rappresentazioni inconsce, da cui potrà tornare nella condizione di visibilità, come quando faccio un lavoro di reminiscenza o di analisi che mi permette di ritrovare dei ricordi rimossi. Ci troviamo allora in un mondo che è quello del passaggio dal rappresentato al non rappresentato, in modo tale che il non rappresentato può sempre ritornare nel rappresentato. E questo è il mondo della rappresentazione, è il mondo in quanto tale. Ma la nostra realtà è di un ordine diverso. È una realtà molto particolare, che sussiste in una condizione di invisibilità — Freud parlerebbe di inconscio —, che non ha il potere di passare nel visibile, e che non ha nemmeno il potere di sparire, nel senso di un vuoto [divenire n.d.t.] invisibile, di un rappresentato che è là da sempre in me, invisibile. Bisogna chiamarlo allora «inconscio» o dargli piuttosto un altro nome?

Il suo vero nome è la vita. È la vita, se la vita è ciò che provo, come l’ha provata Descartes nel suo sogno, e come Freud l’ha trovata anche lui in fondo all’inconscio. È la vita come vissuto, ma invisibile, qualcosa che provo senza che possa venire mai sotto il mio sguardo. Tutti i miei vissuti sono di quest’ordine. Un’angoscia la provo, ma non la vedo. Forse è destinata a modificare il mio sguardo, anzi lo farà certamente, modificherà completamente il mondo della rappresentazione — è uno dei grandi temi di Freud, ma era stato già un tema di Schopenhauer e di Nietzsche. Ma l’angoscia in se stessa è di un altro ordine, non è dell’ordine della rappresentazione, e tuttavia è me stesso, è la mia vita.

Allora dovremmo ritornare all’emergenza, nel pensiero occidentale, di questo tema essenziale della vita e del mondo-della-vita. Dovremmo risalire a ciò che è monte di Freud — a Kant e a Schopenhauer — per vedere come si sviluppa questa centralità crescente del tema della vita e quindi degli affetti nel pensiero del Novecento.

La sua domanda è essenziale, perché questo tema ha una storia. L’inconscio non ha fatto irruzione improvvisamente nel momento in cui non si è compreso il cogito. È un fatto storico che, al momento della sua formulazione, i grandi cartesiani non hanno compreso il cogito: né Malebranche, né Leibniz, né Spinoza hanno capito il cogito. Appunto perché per loro era molto difficile capirlo, hanno creduto che il cogito fosse un’evidenza e dunque una rappresentazione. E ancora Heidegger critica questo modo di intenderlo, quando dice: «io penso vuol dire io mi rap-presento», «io presento me a me stesso», «io presento me davanti a me stesso», esattamente come mi rappresento le cose del mondo. Qui c’è un controsenso massiccio.

Anche Schopenhauer pensa nel solco di Kant. Kant aveva fatto, con l’Estetica Trascendentale, una teoria della rappresentazione — del mondo come rappresentazione. Le forme dell’intuizione sono appunto forme della rappresentazione: lo spazio nel quale le cose si dispongono davanti a me, come in questa stanza, e il tempo nel quale le cose si dispongono nel mio spirito, le une dopo le altre. E poi le categorie dell’intelletto mi permettono di collegare tutto quello che è disposto davanti a me per mezzo di sintesi che sono dell’ordine del pensiero. Forme dell’intuizione e concetti dell’intelletto costituiscono insieme l’universo della rappresentazione. Schopenhauer, che è nutrito di kantismo, ha un’intuizione folgorante: il mondo è rappresentazione, ma c’è qualcos’altro. Che altro c’è? C’è in me il voler vivere, che è totalmente diverso da una rappresentazione: è una specie di forza che mi attraversa, contro la quale non posso nulla e che è la realtà. La realtà, per esempio, della pulsione sessuale, che mi porta verso i suoi oggetti propri. La realtà del desiderio. La realtà inoltre che abita i sentimenti nella misura in cui hanno tutti un valore dinamico: per esempio l’amore, che mi porta-verso il suo oggetto, l’odio che mi fa provare ripugnanza. Questa è la nostra realtà.

Qui si gioca il destino del pensiero occidentale prima di Freud. Schopenhauer afferma che c’è qualcosa di totalmente differente dalla rappresentazione, dal mondo, e che questo qualcosa è in me. Ma siccome continua a identificare la fenomenalità, l’apparire, con la rappresentazione, dovrà dire che questa forza in me è cieca, è inconscia ed è anonima. Non a caso Freud parlerà di Schopenhauer come di un grande pensatore. E dirà: quello che Schopenhauer ha chiamato «voler vivere», io la chiamo «pulsione». Siamo di fronte a una realtà, che da questo momento — sono testi del 1818 — è compresa come la realtà profonda dell’uomo; mentre tutto il resto, il mondo della rappresentazione, è un mondo irreale, fantasmagorico, analogo in fondo a quello del sogno. Ed è la ragione per cui Schopenhauer accoglierà così facilmente il pensiero dell’India, perché il mondo è il velo di Maya, è apparenza, illusione. Perciò da una parte c’è il mondo della rappresentazione, che è il mondo dell’irrealtà, quello che vedo e che mi inganna continuamente, mi illude; e dall’altra c’è una realtà che mi attraversa senza che io la provi.

Se avessimo il tempo di entrare nei particolari, vedremmo qualche contraddizione nei testi di Schopenhauer. Egli ha detto dapprima che la volontà si prova da sé stessa e che la volontà è la stessa cosa del corpo — ma qui si tratta del corpo soggettivo, del corpo come io lo vivo e che è irrappresentabile. E d’altro lato c’è la rappresentazione, il solo centro della luce. A questo punto l’equazione del mondo moderno è già posta: o la luce della rappresentazione, del pensiero, del mondo, o l’inconscio. Schopenhauer afferma dunque la realtà dell’inconscio in forma contraddittoria. In un primo tempo dà significato alla prova del voler vivere in me, dicendo che in fondo il voler vivere, la volontà — che qui non ha niente a che vedere con la volontà intellettuale del pensiero classico — è qualcosa come un modo di apparire. C’è una sua frase straordinaria che mi sembra di una verità intemporale: il nostro corpo appare a se stesso in due modi. Da un lato appare a se stesso come un oggetto nel mondo della rappresentazione — e in effetti vedo il mio corpo, la mia mano, posso toccarli. Ma d’altro lato appare a se stesso senza vedersi, dall’interno, nel desiderio, negli affetti, nella sofferenza, nell’angoscia, nella volontà di vita.

Si può dire che la rappresentazione, secondo Schopenhauer — e secondo noi che lo leggiamo — è il soggetto come oggetto della scienza, il soggetto come oggetto della psicologia scientifica, o sedicente tale?

Si può dire. E del resto nell’evoluzione ulteriore di Schopenhauer ci sarà un momento in cui lo dirà. Ma quello che importa per la formazione del pensiero moderno è questo chiasmo straordinario: da un lato l’irreale che è la luce e il visibile, e dall’altro il reale che sprofonda nell’inconscio. Questo grande chiasmo è ripreso da Nietzsche, che bisogna vedere come punto di riferimento intermedio, tra Schopenhauer e Freud, benché Freud sia molto più vicino a Schopenhauer che a Nietzsche. Allora in Nietzsche c’è uno sforzo, che trovo patetico e appassionante, per salvare la vita. Schematizzando un po’, Nietzsche in fondo accetta le tesi di Schopenhauer sulla rappresentazione. C’è un mondo della rappresentazione, che nel suo universo mitologico che usa, sarà la figura di Apollo. Apollo è il regno delle forme visibili, il regno della bellezza, ed è anche il regno di tutto ciò che si svela davanti a noi e che può avere una funzione di rasserenamento. Rasserenamento perché c’è un altro regno, quello del volere, che in Nietzsche diventa volontà di potenza. Ma è notevole che Nietzsche più spesso definisce quest’altro regno in termini di pathos: è il regno di Dioniso, e Dioniso è essenzialmente la nostra vita compresa essenzialmente come un soffrire…

E un godere anche!

… che è al tempo stesso un godere. E qui siamo davanti ad una delle grandi intuizioni di Nietzsche. Lei ha ragione di sottolinearla: è l’ambivalenza dell’affettività nelle profondità di noi stessi, un’ambivalenza che si può comprendere. Ne L’essenza della manifestazione ho tentato di proporre una spiegazione capace di rendere pienamente intelligibile questa ambivalenza. Nietzsche si contenta, per così dire, di darne degli esempi storici particolarmente pertinenti: la crudeltà, per esempio. Che cos’è la crudeltà? È il piacere di far soffrire. Nietzsche insiste nel mostrare come tanto nella Grecia primitiva quanto nel Medio Evo c’erano delle cerimonie il cui motivo era di offrirsi il piacere che la sofferenza dell’altro ci procura. Nel Medio Evo le pubbliche esecuzioni erano grandi feste. Vi si andava non solo per vedere impiccare qualcuno, ma anche per vederlo torturare. Si andava in massa a vedere spettacoli che sono per noi moderni, sensibili alla pietà, intollerabili. Ora per Nietzsche la forza e la grandezza dell’uomo consistono nel fatto che in lui si trova il piacere della sofferenza. Allora, in Nietzsche il nesso tra la sofferenza e il piacere si interiorizza straordinariamente, prefigurando temi freudiani. Non soltanto mi posso procurare uno straordinario godimento con la sofferenza dell’altro, ma posso rendermi anche in un certo senso scultore di me stesso e, per farmi soffrire, intagliare la mia propria carne. Ne derivano i grandi fenomeni della cattiva coscienza, del disgusto di sé, nei quali mi compiaccio nonostante tutto, perché racchiudono una gioia propria. Ma in definitiva il problema che Nietzsche non ha posto e che non è il caso di affrontare qui, è quello della comprensione interna del soffrire e del godere. Perché esiste originariamente questa connessione sul piano della vita? Questo è uno dei grandi problemi che abbiamo ereditato dal momento in cui Schopenhauer ha formulato l’antinomia tra la rappresentazione irreale e questo mondo oscuro che è il nostro.

In che senso Lei dice che Nietzsche ha salvato la vita?

Credo che il grande merito di Nietzsche sia di aver restituito alla vita la sua dimensione fenomenologica. Perché al limite l’affermazione secondo cui la vita è inconscia è priva di senso. Vivere è innanzitutto provare sé stessi [s’éprouver], sentirsi. Questo è vero già per la modalità più semplice della vita. Se si considera un’impressione di piacere, che senso potrebbe avere un piacere che non si provasse? La poltrona, che non si percepisce [ne s’éprouve], non prova né piacere né dolore, anche se le assestiamo un colpo d’ascia. Perciò spingere al limite l’affermazione che la vita è inconscia è un non senso. Dunque immenso è il merito di Nietzsche, in quanto non ha dato una definizione fenomenologica della vita in termini di rappresentazione — cioè di quella messa a distanza grazie a cui lo sguardo diventa possibile — ma ha dato piuttosto una definizione della fenomenalità in termini di affettività, di pathos. Una figura come quella di Dioniso, che soffre e gode insieme, è essenzialmente quella di un vivente. Perché piacere e dolore sono a mio avviso le modalità primarie della vita. La vita è in primo luogo il piacere o il dolore, è il bisogno, ma il bisogno è penoso, esiste solo sul piano affettivo. Se un bisogno non fosse sentito, non sarebbe nulla.

Dunque c’è in Nietzsche una volontà profonda di rifare della vita qualcosa di splendido, e di comprendere che questo splendore proviene dal fatto che è una rivelazione, anzi un’autorivelazione, perché ogni affetto si rivela da sé, sente se stesso. Abbiamo una prova di questo carattere fenomenologico della vita, del tutto opposto a un abbandono all’inconscio, all’oscurità, all’anonimato, qual si trova in Schopenhauer e parzialmente anche in Freud. La prova di questo valore di rivelazione della vita è che Nietzsche ha fatto della vita la fonte dei valori. Mentre in Schopenhauer era una fonte di assurdità, mentre in Freud sarà spesso una fonte di deliri, follie, fantasmi di ogni genere, in Nietzsche la vita è il principio dei valori. La vita crea i valori: per Nietzsche non ci sono valori nella natura, nelle cose, è la vita che conferisce loro un valore, dunque la vita è il principio delle valutazioni. Perciò la questione fondamentale che bisogna porre è: perché quel principio di valutazione, che è la vita, ha esso stesso un valore? Perché la vita ha un valore. E perché la vita per Nietzsche in fin dei conti ha un valore? Perché è felice di vivere, perché il sentire se stessi [s’éprouver soi-même], che è proprio dei vivi e che ci sarà ritirato quando saremo morti, è una cosa straordinaria.

In Nietzsche la vita è analizzata attraverso un certo numero di figure. Una delle figure principali attraverso cui Nietzsche analizza la vita, sono i nobili. Nietzsche fa dire ai nobili: «noi nobili, i buoni, i felici…» Ciò che giustifica la vita è dunque la felicità. Per questo bisogna difenderla contro tutti i processi che la attaccano, il più terribile dei quali, secondo Nietzsche, è il processo per cui la vita stessa si rivolge contro di sé. Questa è una delle scoperte più geniali di Nietzsche: l’aver riconosciuto nell’esperienza umana dei processi d’autodistruzione. E nel momento in cui ha scorto questi processi di autodistruzione, tra i quali il suicidio non è che una figura esteriore, Nietzsche si è ritratto inorridito, dicendo: che strana bestia l’uomo, che distrugge sé stesso! Ora, questi processi di autodistruzione sono all’opera nella cattiva coscienza, nel sentimento di colpa, in tutto ciò che ingenera disgusto verso se stessi, stanchezza, malessere. Esiste per Nietzsche una malattia della vita, ma la cosa più terribile è che questa malattia della vita è anche coscienza della sofferenza. Soltanto non è più una sofferenza che porta verso la vita, ma una volontà di autodistruzione. Perciò in Nietzsche la sofferenza ha un doppio ruolo: andare verso la vita per mettersi alla prova [s’éprouver soi-même], mentre poi comincia il terribile processo di autodistruzione, che abbiamo sotto i nostri occhi anche nel mondo moderno.

Che cosa pensa della celebre interpretazione deleuziana del pensiero di Nietzsche — in Nietzsche et la philosophie — in termini di conflitto tra forze attive e forze reattive?

Non sono d’accordo con questa interpretazione, che Deleuze ha dato come soluzione a un problema nietzscheano cui non abbiamo ancora fatto allusione: quello dei forti e dei deboli. Per Nietzsche nei forti — poiché la vita è volontà di potenza, e qui sta la sua differenza con Schopenhauer — non c’è alcuna mancanza, ma piuttosto una specie di sovrabbondanza, che gode di sé stessa, una forma di felicità. Quindi si deve pensare che i forti sono felici perché hanno appunto il sentimento di questa pienezza che è la vita. Ma allora perché ci sono dei deboli? Interviene a questo punto l’interpretazione di Deleuze, perché ci sono per lui delle forze differenti quantitativamente. E dal momento in cui una forza più forte incontra una forza più debole, la forza più debole diventa reattiva nei confronti della forza più forte, e così nasce il risentimento e tutto l’insieme dei processi reattivi. È un’interpretazione celebre, perché il libro di Deleuze ha avuto a suo tempo a Parigi un’accoglienza molto favorevole, ma che non condivido. Perché non spiega veramente la debolezza dei deboli, perché ci sono degli esseri nei quali la forza sarebbe presente in una quantità inferiore a quella che è presente nei forti. Ebbene, in Nietzsche la forza in quanto tale non è mai segnata dalla debolezza. Poi c’è in Nietzsche un’altra straordinaria analisi della debolezza: quella del prete ascetico. Perché è vero che ci sono dei forti e dei deboli in Nietzsche, e si può ben considerare questo come un dato, misterioso d’altronde; ma poiché ci sono due forze anche nel discorso di Deleuze, la debolezza non può venire che da una decisione della vita, della forza vitale, di rivolgersi contro se stessa. E perché la vita dovrebbe rivolgersi contro sé stessa? Perché soffre. Dunque la debolezza s’insinua nella forza, nel momento in cui la forza, invece di accettare la sofferenza, le si rivolta contro con un atteggiamento suicida per distruggersi. Nasce a questo punto la debolezza: questa non è un dato primo, ma un atteggiamento metafisico, il quale promana dal fatto che la vita si rivolge contro se stessa. Dunque nel prete ascetico troviamo questo fatto straordinario: l’ascetico si mette alla testa del gregge dei deboli, perché quello che c’è di straordinario nei deboli è che continuano, nonostante tutto, a lottare. Una delle affermazioni più abissali di Nietzsche è che in fondo alla debolezza c’è una forza, in se stessa infinita. Dunque i deboli entrano in lotta con i forti con questa forza infinita, di cui il prete ascetico è depositario. Per questo essi devono inventare delle strategie, devono far credere ai forti che è male quello che fanno, che la forza è cattiva, e che la debolezza dei deboli, dei malati, è buona e che bisogna curarli. È questa l’inversione dei valori a cui procedono i deboli, ma una volta che l’hanno effettuata, quello che permette loro di battere i forti è il fatto che la forza che resta in fondo a loro stessi è in qualche modo più forte che nei forti, perché è minacciata. A quel punto gli istinti più profondi della vita fanno sì che in realtà i deboli abbiano la meglio sui forti. È questo uno dei paradossi di Nietzsche. Bisognerebbe poter entrare più a fondo in questa straordinaria descrizione.

E quindi arriva Freud. Anche Freud vuole, come Nietzsche, salvare la vita?

Credo che l’atteggiamento di Freud sia ugualmente ambiguo. Ma si può trovare una risposta precisa alla Sua domanda solo se si interroga il famoso Progetto di una psicologia scientifica del 1895. È un progetto estremamente interessante, perché in esso Freud propone una spiegazione scientifica dell’attività psichica, che in realtà è una descrizione del sistema neuronale. In questo senso è veramente moderna, può essere ricollegata con certe tendenze attuali delle neuroscienze. Qui Freud dice che il sistema neuronale si divide in due: un sistema j e un sistema y. Ciò che caratterizza i neuroni è che ce ne sono di due specie. Una specie è quelli sottoposti agli stimoli esterni e che determinano una serie di comportamenti atti a fuggire il pericolo esterno — perché lo si può fuggire, ci si può sottrarre alla sua azione, e ci sono molto modi per farlo. Ma il vero pericolo per Freud, come per Schopenhauer e Nietzsche, è interiore. Sfortunatamente ci sono dei neuroni la cui caratteristica è l’autoeccitazione, nel senso che subiscono un’eccitazione non già esogena, ma endogena. E quest’eccitazione interiore è terribile — non c’è niente da fare. E questo determina per Freud l’entropia. Per lui c’è un’eccitazione del sistema neuronale che da parte sua tende soltanto a liquidare le eccitazioni. Siccome l’eccitazione è qualcosa di fastidioso, il sistema neuronale tende verso una quantità d’energia Q = 0, cioè verso uno stato di inerzia o di morte. Di conseguenza tutta la teoria dell’attività psichica costruita sul modello neuronale è centrata sulla fuga dall’eccitazione. Perché secondo Freud l’eccitazione produce nel sistema neuronale, e dunque nell’attività psichica, una sofferenza, «il malessere del bisogno» avrebbe detto Schopenhauer, il malessere del desiderio, la libido, che diventa insopportabile man mano che le quantità di eccitazione aumentano. Che cosa bisogna fare allora? Liquidare le eccitazioni, e a questo fine bisogna tentar di portare il sistema neuronale — e dunque il sistema psichico che ne è il calco — verso uno stato Q = 0. Bisogna insomma liquidare le eccitazioni che ci provocano il malessere — è ancora Schopenhauer — e per liquidare il malessere bisogna sopprimere le eccitazioni. Ma in fondo per non provare malessere bisogna essere una poltrona o un paio di scarpe — è un sistema di morte. Perciò credo che alla fine l’apparizione nella metapsicologia della pulsione di morte non è dovuta al caso, ed è proprio questo aspetto del pensiero di Freud che non accetto. Di fronte a questo Freud ho la stessa reazione — se mi passa il confronto — di Nietzsche di fronte a Schopenhauer. Credo che la vita è buona e dunque penso che non si tratti di liquidare le nostre affezioni. Si tratta al contrario, come per Kandinsky, di ottenere che la vita divenga più intensa, e che sempre più senta se stessa [s’éprouve elle-même]. Credo che tutte le grandi opere d’arte hanno per effetto non già di permettere alla vita di liquidare la sua libido, ma al contrario di pervenire a gradi di felicità e di gioia, che tendono verso una specie di assoluta beatitudine.

Si può obbiettare tuttavia che questa liquidazione della libido corrisponde per Freud alla sua soddisfazione, corrisponde a un godimento. Per Freud il fatto di liquidare la libido è piacevole.

Lei ha ragione. Ci sono due momenti nella risposta di Freud, poiché ha dato lui stesso una risposta alla Sua domanda. C’è il momento in cui il godimento è l’attenuazione dell’eccitazione, quindi non la sopprime — Freud dice che è impossibile sopprimerla. Il godimento la fa tornare a uno stato stazionario, secondo il principio di costanza non di morte, e di conseguenza deve soddisfare, nella misura del possibile, le pulsioni, il bisogno. A quel punto si trova una specie di equilibrio, preferibile al desiderio. Questa è una prima risposta. E poi ce n’è un’altra, molto diversa, che interviene alla fine, sulla quale ha riflettuto specialmente Paul Ricœur nel suo bel libro su Freud: arriva improvvisamente Eros. In questo mondo in cui regna, in cui spande il suo dominio la pulsione di morte, arriva improvvisamente Eros — non si sa da dove, né perché — a riattivare la vita, a rianimare la scena. Eros è l’amore in tutti i sensi della parola, che ridà alla vita quel carattere di attività che, nonostante tutto, le è inerente. Credo che qui Freud abbia senza dubbio ragione; ma è anche vero, come ha notato Ricœur, che qui c’è una falla o faglia [faille] nel discorso freudiano, in quanto il principio di Eros cade in un certo senso dal cielo.

Comunque, a Suo avviso, Freud costituisce veramente un superamento della filosofia classica della rappresentazione, o è piuttosto un compromesso tra la riscoperta della vita come fatto buono e la visione classica? Forse Freud resta a metà strada tra classicismo e dionisismo?

Credo che Freud sia molto vicino a Schopenhauer. C’è in lui l’affermazione decisiva, cui assento pienamente, che il fondo del nostro essere non è dell’ordine della rappresentazione, che la rappresentazione è una irrealtà, e che la nostra realtà si trova nelle profondità dell’inconscio. Ma in fondo all’inconscio ci sono due cose in conflitto. Da un lato c’è l’affetto, di cui Freud ha detto — in una nota marginale che mi sembra magnifica — che non è mai inconscio, nel senso che l’affetto prova se stesso [s’éprouve]. Ma d’altro lato c’è in Freud una teoria dell’inconscio che ci fa restare dal lato della rappresentazione. Poiché in fondo, nei testi del 1912 e 1914, è attraverso la rappresentazione inconscia che l’inconscio ritrova diritto di cittadinanza. Mentre per quello che riguarda la realtà profonda, c’è anche in Freud una contraddizione: da una parte c’è un inconscio che, al limite, è assoluto; e dall’altra c’è un affetto che è per lui, come per me, il fondo della vita. È degno di nota che nell’ultima formulazione della cura analitica è in questione una storia di affetti. A questo proposito Freud ha avuto delle intuizioni di una profondità ammirevole, per esempio nella sua teoria dell’angoscia. Egli pone l’angoscia sul percorso di tutti gli affetti. Ogni affetto, prima di realizzarsi, nel momento in cui non ha trovato ancora il suo adempimento, quando è in qualche modo abbandonato al semplice peso che esercita su se stesso, muta in angoscia. E l’angoscia non è superata finché l’amore non trova una nuova incarnazione. Qui Freud, in rapporto alla filosofia classica, ha esplorato un dominio essenziale.

Filosoficamente parlando, qual è secondo lei la differenza essenziale tra l’angoscia di Freud e quella di Heidegger?

L’angoscia di Freud mi sembra molto più vicina alla realtà. Direi che è molto più vicina all’angoscia di Kierkegaard che a quella di Heidegger — o se preferisce, mi sento molto più vicino alla descrizione kierkegaardiana dell’angoscia che a quella di Heidegger. Perché per Heidegger l’angoscia ci mette alla presenza del mondo; mentre per Freud, così come per Kierkegaard, l’angoscia sorge nel rapporto di sé [du soi] a se stesso. Più precisamente, sorge dal soffrire puro, nel quale la vita si dà a se stessa e nel quale la sofferenza del malessere si dà se stessa. Il peso del bisogno, quando diventa intollerabile, fa sorgere l’angoscia. Dunque l’angoscia nasce in Freud dal rapporto dell’io con sé stesso. In alcune frasi Freud lo dice esplicitamente: l’io non può più sopportarsi. Mentre in Heidegger l’angoscia mi mette in rapporto col mondo. Ma io non credo che questo rapporto col mondo angosci veramente la gente, tanto più che questa frase di Heidegger — «l’angoscia mi pone di fronte al nulla» — è ripresa da Kierkegaard, nel quale però ha un senso completamente diverso. Ho detto «il nulla», perché Heidegger, come Hegel, identifica il mondo con il nulla. Il mondo è quest’orizzonte di visibilità in cui non c’è ancora niente e nel cui campo le cose si mostrano. Allora qui c’è uno spostamento completo dall’angoscia della vita, che è quella di Kierkegaard e di Freud, verso un’angoscia del mondo, che mi sembra meno pertinente.

Si può tuttavia obiettare che anche per Freud l’angoscia è relazione con un oggetto. Specialmente quando egli parla di angoscia fobica: c’è un oggetto fobico, un oggetto esterno è fonte di angoscia.

Si. Ma in Freud l’angoscia, per scaricarsi, cerca un oggetto. L’oggetto fobico, che non ha niente a che vedere con la situazione reale, è semplicemente un modo per proiettare fuori di sé il peso insopportabile dell’angoscia. Dunque l’oggetto fobico è una specie di inganno che l’angoscia tende a se stessa per sfuggire a se stessa. Ma non è l’oggetto fobico che permette all’angoscia di liberarsi di se stessa. Solo un’autentica trasformazione dell’affetto sul piano dell’affetto permette all’angoscia di liberarsi di se stessa. È un’autotrasformazione della vita che potrà sbloccare la situazione — per esempio poter amare di nuovo, senza proiezioni ingannevoli. In queste proiezioni consiste la malattia. È curiosa questa malattia che cerca di fuggire l’angoscia nel mondo della rappresentazione, e si chiude in una via senza uscita, e continuerà a restarvi chiusa fin tanto che non avrà ritrovato la vera via che Freud indica nella cura: l’abreazione dell’evento affettivo traumatico. Bisogna ripartire da questo evento traumatico per trovare la soluzione sul piano della vita e della realtà, accettando il piano della realtà, ritrovando sul piano della realtà una ragione di vivere, cioè un’attualizzazione della nostra potenza affettiva.

Una domanda meno filosofica: la Sua simpatia per il pensiero di Freud si estende anche all’odierna pratica della psicoanalisi? In pratica, consiglierebbe ad un caro amico che avesse dei problemi di andare da un analista?

Credo che la pratica psicoanalitica abbia seguito due vie. Ha seguito una prima via che era la via stessa della filosofia occidentale, la via dei Greci: la via della conoscenza, della presa di coscienza. Si pensava che il soggetto, prendendo coscienza dell’evento traumatico, se ne sarebbe potuto liberare. E ci si è accorti nel corso del lavoro analitico che prendere coscienza dell’evento traumatico, che spesso era d’altronde affabulato, immaginario, a volte inventato dall’analista o dall’analizzante, non portava a niente. Di conseguenza il lavoro analitico ha in realtà cambiato completamente natura, come è stato messo in evidenza da Mikel Dvorák-*** nei suoi notevoli lavori su Freud. È precisamente nella stessa cura analitica, sul piano dell’affetto e dunque della realtà della vita, mediante una modificazione dell’affetto e non lavorando sulla rappresentazione, che la cura potrà avanzare piuttosto che bloccarsi. Credo che sia possibile una convergenza con questo modo di intendere la psicoanalisi.

Lei ha lavorato a lungo anche su Marx. Ci può dire qualcosa su affinità e differenze tra Marx e Freud?

Credo che su Marx circolino gli stessi controsensi che su Freud. Si è assegnato Marx all’«età del sospetto», come ha detto Ricœur. Come Freud, Marx sarebbe un pensatore che ci fa sospettare dei nostri discorsi. La soluzione, per Marx come per Freud, si troverebbe sul piano della realtà. Io per dieci anni non ho fatto altro che leggere Marx. E quello che invece ho trovato di notevole in Marx, e che ho scoperto per caso, è che alla radice della realtà egli pone un corpo soggettivo. Lo dice non soltanto negli scritti giovanili, ma anche negli ultimi manoscritti, che sono ammirevoli, e che sono andati a costituire il Libro III del Capitale. Per Marx tutte le spiegazioni partono dal lavoro, che è un modo dell’attività corporea — qui si ritrova Schopenhauer. Ma questo lavoro è inteso come lavoro soggettivo e non inconscio; perché dopo tutto, se soprattutto il lavoro del XIX secolo — fisicamente molto duro — era penoso, allora non era inconscio. I computer e le macchine non lavorano. Le si possono far «lavorare» quanto si vuole, ma in un altro senso.

Il lavoro umano è soggettivo, individuale, vivente. È soggettivo in quanto sofferente — ma può essere anche felice. Il lavoro umano è individuale — mentre una forza anonima non è individuale. E dire che il lavoro umano è vivente vuol dire che sente se stesso [s’éprouve]. Se avessi qui i tardi manoscritti di Marx, Le potrei mostrare che ogni volta che egli definisce l’uomo, parla sempre di «forza soggettiva del lavoro vivo». E quando questo tema interviene nei manoscritti, Marx lo scrive sempre in corsivo. Per costruire l’economia, si è dovuto quantificare — cosa impossibile — e qualificare — cosa altrettanto impossibile — questo lavoro soggettivo e vivo. Impossibile perché non si può quantificare e qualificare un’esistenza, una sofferenza, l’amore — a meno che non si tratti di prostituzione, e forse nemmeno in questo caso. Dunque la realtà umana è in fondo sempre la stessa, anche se la studiamo nei campi così diversi della psicopatologia e della vita economica.

Intervista fatta a Parigi il 30 gennaio 2001.