1. Hestia ed Hermes, divinità amiche
I Greci veneravano una coppia di dèi: Hestia ed Hermes. In un linguaggio attuale, potremmo chiamarli: Focolare e Angelo. Hestia è il nome proprio di una dea, ma anche nome comune che designa sia il focolare domestico che il focolare comune della Polis.1 Essa è raffigurata anticamente spesso in coppia con Hermes. «Entrambi — recita l’Inno omerico a Hestia2 — abitate nelle belle dimore degli uomini che vivono sulla superficie della terra, con sentimenti di mutua amicizia.»
Hestia è il focolare circolare, fissato nel suolo, è l’ombelico attorno al quale la casa si radica nella terra. Essa — nota Jean-Pierre Vernant3 — è simbolo e pegno di fissità, di immutabilità, di permanenza. Ed è in quanto centro fermo a partire dal quale lo spazio umano si orienta e si organizza, che Hestia, per i poeti e i filosofi antichi, potrà identificarsi con la terra, immobile al centro del cosmo. La terra intera, casa degli uomini, sarà il focolare fisso del mondo. Essa non scambia, resta casta: Hestia è vergine, come Athena e Arthemide.
Anche Hermes abita nelle case dei mortali, anzi, come gli dice Zeus nell’Iliade,4 «più di tutti gli dèi tu ami far da compagno a un mortale.» Ma vi abita come angelos, il messaggero, come chi è pronto a ripartire. «Non c’è niente, in lui, di fisso, di stabile, di permanente, di circoscritto, né di chiuso. Egli rappresenta, nello spazio e nel mondo umano, il movimento, il passaggio, il mutamento di stato, le transizioni, i contatti tra elementi estranei. Nella casa, …, protegge la soglia, respinge i ladri perché è lui stesso il Ladro […], per il quale non esistono né serrature, né recinto, né confine.»5 Presente alle porte delle città, ai confini degli stati, agli incroci delle vie, sulle tombe, che sono le porte del mondo infernale. Egli è presente ovunque gli uomini, fuori della loro casa privata, entrano in contatto per lo scambio — nelle discussioni e nel commercio —, o per la competizione, come nello stadio. Banditore, dio errante, padrone delle strade, sulla terra e verso la terra; introduce una dopo l’altra le stagioni, fa passare dalla veglia al sonno, dal sonno alla veglia, dalla vita alla morte. Hermes è quindi inafferrabile, ubiquitario. Quando una conversazione cade subitamente e subentra il silenzio, il Greco dice: «Passa Hermes».6 (Questa espressione del resto sopravvive anche oggi; nei paesi anglofoni quando la conversazione cade si dice «an angel passes».) Hermes porta una bacchetta magica che cambia tutto ciò che egli tocca. È anche ciò che non si può prevedere né trattenere, il fortuito, la buona o la cattiva sorte, l’incontro imprevisto, e anche il felice ritrovamento casuale.
Insomma, l’ambito di Hestia è l’interno, il chiuso, il fisso, il ripiegamento del gruppo umano su se stesso; essa assicura al gruppo domestico (e per estensione alla comunità cittadina) la sua perpetuazione nel tempo. Non a caso Platone, nel Cratilo, collega etimologicamente Hestia ad ousìa, che altri chiamano anche essìa, cioè «l’essenza fissa e immutabile».7 Invece l’ambito di Hermes è l’esterno, l’apertura, la mobilità, il contatto con l’altro da sé.
2. Progresso e Ritorno
Varie figure — in opposizione o in complementarietà o in contiguità — del pantheon greco-romano hanno ispirato la concettualizzazione nel mondo cristiano e moderno. Basti pensare alla fortuna della coppia Apollo-Dioniso, o di quella Eros-Thanatos, o ancora alle figure di Edipo, Narciso, ecc. È strano invece che sia stata ignorata proprio questa strana coppia, così dialettica, di Hestia ed Hermes. La figura fortunata è stata Hermes — ancora oggi usiamo il termine ermetismo —, non il suo far coppia con Hestia. Ma non è casuale che «ermetismo» significhi oggi in sostanza il contrario di ciò che Hermes rappresentava per i Greci: indica un sapere chiuso, non comunicato o non comunicabile agli altri, dal significato segreto, e per amplificazione ogni sapere non scientifico, vale a dire non sottoposto al controllo pubblico. I greci lo avrebbero attribuito piuttosto ad Hestia. Il fatto che Hermes abbia finito con l’accaparrare anche il significato della sua «dea amica» ci segnala quanto la solidarietà di quella coppia greca sia andata per noi perduta.
Invece in questa congiunzione tra Hestia ed Hermes, tra il Focolare e il Trivio -possiamo tradurre in questo modo-, cogliamo una polarità ancora insistente della nostra civiltà, che nel mondo greco si inaugura, e che attraversa segretamente le forme di vita dell’Occidente.
Se la modernità avesse potuto ereditare qualcosa della religiosità pagana, certamente almeno un dio avrebbe conservato: Hermes. Da questo dio così mondano la modernità si sarebbe sentita adeguatamente rappresentata. Apertura, mobilità, scambio con l’altro, affarismo, innovazione perpetua: tutti questi caratteri hermetici sono anche i caratteri dell’uomo moderno, della «società aperta» popperiana, dell’uomo che, da Descartes in poi, si è progettato come «padrone e signore della Natura». E cioè: l’accelerazione spasmodica degli scambi, la razionalizzazione tecnologica, l’intensificazione parossistica della mobilità, il trionfo di una socialità basata sulla comunicazione. Che cosa è il nostro culto del Progresso se non l’apoteosi della cronica instabilità del Messaggero divino, che non sosta mai, ed è sempre sul punto di ripartire?
Di solito però si vede solo questo lato hermetico della modernità, e ci rendiamo ciechi alla faccia Hestia che pur accompagna senza un’ombra la progressione hermetica dell’Occidente. Siamo i figli non solo dell’Illuminismo hermetico, ma anche del Romanticismo che rivaluta le focolarità nazionali e arcaiche, che promuove il ritorno alle radici del «borgo nativo». La modernità non ha prodotto solo scienza, tecnologia e cosmopolitismo, ma anche le teorie più compiutamente regressive della storia del pensiero, a cominciare proprio da Rousseau. Questo è stato il secolo del grande sviluppo scientifico e delle filosofie della scienza, ma anche il secolo di Freud (che ci ha spinti a «ritornare» alla nostra infanzia), dell’antropologia culturale (che ci ricorda le culture selvagge che lo sviluppo hermetico ha accantonato o distrutto), di Heidegger che denuncia l’oblio dell’Essere, dell’angoscia ecologica, e poi dell’ermeneutica che si fonda sulla rilettura dei testi antichi — tutte idee che hanno riproposto un ritorno meditante o rammemorante alle radici arcaiche della nostra forma di vita e del nostro pensiero. Per lo meno dal Settecento in poi abbiamo avuto ad un tempo una corsa esaltata verso il futuro e un ritorno visionario alle nostre supposte origini. Il rousseauismo, come rifiuto dell’hermetismo individualista della Civiltà mercantile e come riconversione al grembo di un Focolare naturale, è più vivo e zelante che mai — basti pensare ai movimenti ecologisti, a Greenpeace, ai culti popolari delle vacanze naturaliste, alla cura pagana del corpo e della nostra parte «animale», all’ammirazione per i «pensieri selvaggi» che «danzano con i lupi».
Pensiamo solo all’importanza di un concetto così fortunato nel nostro secolo: l’autenticità. Nel mondo sempre più dominato dalla razionalità scientifica e tecnica, come per contrappunto il pensiero e l’arte del 900 hanno proclamato come assolutamente necessario l’ideale di autenticità — cioè un modo di pensare e di essere secondo la propria verità intima. Questo ideale, certo, è stato declinato a seconda delle varie teorie;8 ma, aldilà delle varianti, esso si contrappone radicalmente alla verità nel senso della scienza moderna, come adaequatio rei et intellectus, come adeguazione del discorso alla cosa; l’ideale di autenticità afferma piuttosto l’adaequatio animae et intellectus, il ritorno del discorso ad una «focolarità» originaria del soggetto. Se il mondo sociale — dello scambio come do ut des, del «vile danaro», della mauvaise foi, delle formalità burocratiche, dell’ipocrisia, della alienazione — ci separa da noi stessi, il cammino verso l’autenticità ristabilisce il contatto con il centro primigenio del nostro io (isolato di volta in volta come volontà, o bisogni, o desiderio, Wille o Lust, volontà di potenza o principio di piacere. o senso della mortalità e della finitezza, o singolarità, o Vita). Mentre Hermes avanzante separa, in un backlash eguale e contrario Hestia riunisce e riporta al centro e al fondo. Hermes è scambio e comunicazione, ma che oggettificano lo scambiante dividendolo definitivamente dall’oggetto scambiato; Hestia è riappropriazione e riunione di ciò che è stato frammentato e disperso nello scambio e nella comunicazione.
Questa simultanea oscillazione tra progressione hermetica e ritorno hestiaco non deve essere letta solo come tensione, contraddizione, dilemma, dolore, conflitto: ma, come già i Greci, va interpretata come una solidarietà segreta e profonda, dove il Focolare apre il Trivio, e il Trivio conduce inesorabilmente al Focolare.
3. Dalla sfera di Parmenide alla caverna di Platone
Tutti questi esempi paiono indicare che la modernità ha ridato nuova pregnanza ad una opposizione-complementarietà che i Greci avevano divinizzato, e che la civiltà successiva aveva rimosso. In effetti l’opposizione e complementarietà Hestia-Hermes aveva perso la sua pregnanza già attraverso il platonismo, e poi ancora di più con il cristianesimo. Prima di Platone le filosofie si orientavano verso Hermes oppure verso Hestia, in modo appena appena velato.
Il pensiero di Parmenide segna l’apoteosi metafisica del Focolare: «l’essere è, il non essere non è».9 E l’essere stesso è una sfera finita e circolare, un tutto equilibrato e chiuso: ingenerato, imperituro, tutto intero, unico ed Uno, immobile, illimitato nel tempo e compiuto. Questa immobilità eterna e conclusa ricorda appunto il focolare miceneo, circolare, dei Greci. Al contrario, il campione dell’Hermes filosofico è Eraclito, per il quale panta rhei, tutto scorre, e «nello stesso fiume entriamo e non entriamo, siamo e non siamo».10 Il linguaggio stesso di Eraclito — che fa invidia all’ermetismo dei critici e filosofi decostruzionisti contemporanei — dispiega l’ubiquità inafferrabile di un universo dove ogni identità stabile e fissa si disgrega nel divenire. L’ambiguità dei motti eraclitei introduce nel linguaggio stesso uno slittamento irrefrenabile dei significati. «… Per loro vale quel detto: sono qui e sono altrove».11
Ma se il pensiero pre-socratico porta ancora con sé, e pienamente, le tracce dell’opposizione casa-trivio (o focolare- angelo) — vale a dire del modo in cui l’uomo greco concettualizzava e rappresentava le strutture dello spazio — ben presto la filosofia cambierà i propri paradigmi mitologici. Dopo Platone, non è più tanto la dialettica tra l’immobilità centripeta e la mutazione centrifuga a strutturare la discussione filosofica — piuttosto, è il mito della caverna.12 Da questo mito platonico in poi, il pensiero occidentale si confronterà ad una dialettica alquanto diversa: quella tra le ombre delle rappresentazioni e la chiara luce della verità. Da una parte il mondo cavernoso, «oscurantista», delle parvenze, delle doxai — oggi diremmo: dei segni — dall’altra il mondo solare, illuminato o illuminista, delle cose reali e dell’episteme. I fuochi accesi nella caverna con i prigionieri incatenati appaiono una derisoria caricatura di Hestia: essi inaugurano una lunga discendenza metaforica, quella del Focolare dell’Angustia, vale a dire della casa stretta e seclusa dove lo spirito si imprigiona.
Certo, la questione dell’alternativa tra il movimento e l’immobilità — tra un assolutismo parmenideo e un relativismo eracliteo — non scomparirà mai dalla riflessione filosofica, ma essa risulterà sempre più agganciata alla questione che apparirà come la questione filosofica per eccellenza: quella dell’essere e dell’apparire. L’essere sempre più perderà la sua rassomiglianza, che conservava ancora in Parmenide, con il Focolare greco — e con la Terra fissa al centro di un universo tolemaico — e l’apparire perderà la sua parentela di primo grado con il mondo del divenire e del mutamento. E in effetti nel mito platonico della caverna è in gioco una differenza tra luce solare, non umana, e luce artificiale prodotta dall’uomo, tra ombre e cose viste in piena luce, non tra l’essere stabile e il divenire instabile. Da Platone fino a Nietzsche il filosofo fugge le penombre dei penetrali domestici e pare dedito ad una specie di elioterapia concettuale — è ciò che chiamerei il paradigma tacito (esplicitato poi da Nietzsche) del filosofo abbronzato. E questo fino ad Heidegger, la cui immagine celeberrima dell’Essere come Lichtung, come radura che si apre nel mezzo dell’oscura foresta degli enti, risente ancora del pattern platonico della caverna: si tratta pur sempre del rischiararsi, del farsi luce, in un bosco fitto e quindi oscuro.
La polarità Hestia-Hermes non ha quindi mai assunto la dignità del paradigma filosofico. Eppure, a gran parte della nostra tradizione culturale risulta chiaro il compito principale e specifico del filosofo: quello di dare o scoprire un qualche fondamento alle nostre forme di vita e di sapere. Fondamento è una metafora, come il focolare greco, ma apparenta lo sforzo filosofico ad una Odissea verso una patria (e irraggiungibile?) Hestia: il filosofo metafisico, onto-teologico, sente il dovere di puntellare ciò che gli uomini agitano senza posa sulla superficie della terra. Deve dare supporto a ciò che altrimenti vagherebbe per l’aria come parole vuote o mere fantasie, come rinvio all’infinito del suolo su cui poggiare argomentazioni e teorie. Deve radicare (dove?) ciò che la ragione e la storia costruiscono, come torri, sempre più sublimia, cioè sempre più lontano dal piano della mia terra. E il suolo viene chiamato l’Essere, «già da sempre al sicuro», come diceva Aristotele. Ma questo bisogno di fondamento — dato per scontato dalle metafisiche — si è distratto dalla figura focolare del radicamento terrestre, perché da Platone in poi i filosofi hanno optato per un ossimoro temerario: al radicamento alla terra molto presto hanno preferito la derivazione o generazione celeste, anzi oltre-celeste, «iperurania».
Un momento cruciale di questa uranizzazione di Hestia si compie nelle Leggi di Platone. Il fondatore platonico della città effettua un gesto quanto mai paradigmatico: pone a centro della città non l’agorà, la piazza pubblica, come era abituale nelle città elleniche, ma l’acropolis. Nella città greca, anche in Atene, la sede di Hestia era nell’agorà, vale a dire in un luogo pubblico e profano (gli hòsia), in cui tutti i cittadini si riunivano su un piede di parità. Platone invece pone Hestia nell’acropoli, vale a dire in un luogo sacro (gli hierà), separato dalla comunità laica dei cittadini. Con l’affermarsi della filosofia, la città, centrata che era sull’umano, si ricentra sul divino. Il focolare osiaco si ieratizza. «La città platonica — osserva Vernant13 — si costituisce intorno ad un punto fisso che, per il suo carattere sacro, àncora, per così dire, il gruppo umano alla divinità; s’organizza secondo uno schema circolare che riflette l’ordine celeste». Questo nuovo ancoraggio platonico della città all’ordine celeste avrà un impatto capitale nella storia, non solo politica, dell’Occidente. Le nostre tipiche città europee, che si sviluppano attorno ad una collina dove svetta il campanile della chiesa, sono la concretizzazione plastica di questo progetto platonico.
Anche dopo Platone, difatti, città e teorie si concateneranno all’Ente Supremo in alto piuttosto che conficcarsi in quell’immanenza in basso che pure le spingeva all’inquieta ricerca di stabilità. Per Platone il fondamento sono le Idee; ma queste fondamenta sono oltre il cielo, non nell’alcova. Contrariamente all’uomo comune, che resta «terra terra», ben presto il filosofo cerca la sua patria «già da sempre al sicuro» nei cieli, non a casa sua, nell’oikos. Il focolare filosofico, e poi cristiano, viene trasferito oltre l’Olimpo, in su. L’hermetismo, che per l’aristotelismo impera solo nel mondo sub-lunare, descrive le mutazioni terrestri e la volubilità umana. E proprio perché la metafisica intende riportare ogni deriva sub-lunare al Focolare celeste del fondamento, per contrappasso essa contribuirà all’hermetizzazione metafisica del mondo: postosi al riparo nella centralità hestiaca che non muta, il filosofo vedrà nel mondo degli enti attorno a sé sempre più e solo il turbine eracliteo delle mutazioni. Descartes lo enuncerà a chiare lettere nella sua fisica: il mondo esteso sono tourbillons, vortici.
Il pensiero antico cercherà di interpretare la tensione focolare-angelo attraverso quella che possiamo chiamare la grande metafora erotica. Eros appare cioè la condizione e principio dell’hermetismo cosmico. Nella Grecia antica Hermes era una divinità itifallica, che custodiva i trivi di Atene: il suo pene eretto significava il desiderio sessuale sempre pronto ad agganciare l’altro, a ri-produrre prole; il pene eretto significa l’eccitazione sessuale come causa efficiente del ripetersi della vita.
Cominciò Parmenide col dire che Eros crea l’universo mescolando la luce e la notte. Questa metafora resta più che mai esplicita nel Simposio o nel Fedro platonici: la filosofia è una sorta di desiderio erotico nel senso che essa porta, direi hermeticamente, l’uomo verso il mondo delle Idee, che è la sua vera Casa, anche se all’aperto. Il dialogo socratico-platonico è lo scambio erotico-hermetico che porta fuori l’uomo dalla caverna, vale a dire fuori dal focolare gretto e illusorio. Il mondo mondano — vale a dire delle cose che divengono — è mosso e smosso da questa attrazione per ciò che chiamerei la sua Casa Iperbolica, vale a dire le Idee. Ma occorre considerare il testo platonico più da vicino.
4. Hestia l’esclusa (il Fedro di Platone)
Nel Fedro, Platone fa raccontare a Socrate il famoso mito delle anime, che all’inizio — prima della loro «caduta» nei corpi — hanno potuto contemplare le Idee nell’Oltre-cielo (hyperuranios). Per accedere a questa contemplazione di ciò che è oltre i cieli, le anime devono però raggiungere la sommità del cielo sensibile; e vi giungono ordinate dai dodici dèi olimpici. Dodici? Da qualche parte i conti non tornano. «Zeus, spingendo l’alato cocchio, si avanza per primo, ordinando e prendendo cura di tutto. Lo segue un esercito di déi e di demoni, ordinato in undici parti, perché Hestia rimane nella casa degli déi, sola (gàr Estìa en theôn oîko mòne)».14 Hestia, difatti, non si muove mai, né ha séguito di anime.
È strano che finora nessun commentatore — a quanto ne sappia — si sia posto la domanda pur ovvia: ma allora Hestia non gode della visione ultraceleste? Costei, pur essendo una dea maggiore, sarebbe priva di ciò che per ogni anima, anche divina, è essenziale, cioè la visione diretta delle Ap-parenze? Persino l’ultima delle anime — quella del tiranno — ha dovuto almeno per un istante vedere le Ap-parenze, altrimenti non sarebbe nemmeno un’anima umana, ma sonno sotterraneo.
Difficile pensare che in uno scrittore del rigore di Platone certi particolari siano lasciati all’ispirazione disordinata. Abbiamo imparato a sospettare che certi dettagli nei testi possono essere, spesso, più fondamentali dei discorsi filati e argomentati. Del resto attraverso il mito — cioè attraverso cose che il filosofo sa semplicemente perché gli sono state rivelate15 — e quindi anche attraverso i dettagli in cui si dipana, Platone riesce a dire qualcosa che l’argomentazione razionale non dice, perché non lo può dire. Occorre quindi ricostruire la struttura concettuale essenziale del Fedro per poter capire questo «paradosso di Hestia», e chiederò il lettore di seguirmi in questa ricostruzione.
Nel Fedro Socrate giunge a raccontare il mito delle anime che vanno a contemplare le idee perché, sfidato dal bel giovane Fedro, deve improvvisare un discorso su Eros, il desiderio amoroso — un discorso molto seduttivo, dato che finisce col convincere Fedro, e il lettore.16 Ma per dire l’essenza del desiderio, Platone deve descrivere prima di tutto l’anima che desidera.
L’anima (psyché) platonica non ha solo quel carattere intimo, puramente mentale, che oggi attribuiamo per lo più all’anima. Per Platone è anima tutto ciò che si muove da sé (autò kinoùn), che non è cioè mosso da altro; avendo essa in sé la fonte e il principio (pegé kaì archè) del movimento, non può cessare di muoversi, e si muove quindi — cioè vive — eternamente (aeikíneton); inversamente, tutto ciò che è sémovente è psyche. L’uomo greco, non ancora intristito da dualismi cartesiani, concepisce l’animato in termini di kìnesis, di movimento: è psyche tutto ciò che si muove da sé. Il concetto di «anima», direbbe un logico moderno, ha la stessa estensione semantica del (è equivalente al) concetto di «automotrice». Anche il movimento naturale — ad esempio l’oscillare delle foglie al vento — trova origine e principio in un’anima, non umana, certo, ma divina. Insomma l’universo sensibile è animato: alla fonte di ogni moto e divenire c’è dell’anima sémovente. Nei termini che saranno di Aristotele: ogni anima è causa efficiente del moto. Un hermetismo fondamentale caratterizza ogni psyche, ogni sémovente, di cui il divenire sensibile è l’effetto.
La tripartizione della psyche come biga ha impressionato per secoli, e oggi — affascinati dalla tripartizione freudiana, in qualche modo affine — più che mai. Ogni anima sémovente per Platone è costituita da un auriga e due cavalli. Ma dovrebbe impressionarci anche il fatto che l’anima nel suo insieme sia rappresentata come uno strumento di locomozione. Secoli di psicologia cristiana ci hanno fatto perdere la co-essenzialità platonica (e forse in generale greca) tra psyche e kinesis, tra anima e motilità hermetica.
Ma che cosa spinge le anime-bighe a muoversi? Ovvero, in termini aristotelici: le anime come cause efficienti hanno a loro volta cause finali? «Cadono» esse, come gli atomi di Democrito, lungo qualche clinamen? Indubbiamente, risponde Platone, le anime spesso cadono, anzi, ogni anima umana è un’anima caduta — perché ha dimenticato le Idee. Ma questo clinamen è solo una delle loro direzioni possibili: le anime possono anche salire. E che cosa fa cadere o salire le anime, il cui movimento genera il moto dell’universo stesso? La risposta è: Eros. Grazie al desiderio amoroso, le anime «mettono le ali»,17 tendono a ciò che non si muove e non muta, alle Idee. Ma Eros è ambiguo perché esso può portare anche alla caduta — come accade appunto all’anima del tiranno, la più «bassa» di tutte, ai limiti della bestialità.
Sarebbe ora di liberarsi delle connotazioni di cui termini come «anima», «idea», «imitazione», ecc., sono intrisi, ormai, per noi; occorrerebbe riaccostarsi, quanto più è possibile, alla freschezza originale della produzione di questi concetti, quando Platone li «lanciò» nella cultura della sua epoca. Così, ad esempio, si preferisce tradurre l’eidos platonico con «forma». Heidegger propose la traduzione Aussehen,18 in tedesco aspetto, o anche, letteralmente, e-videnza (ciò che si vede fuori, che appare davanti a noi come evidente) — scelta significativa, dato che oggi consideriamo l’«aspetto» un tratto del nostro rapporto più al sensibile che all’intelligibile. In effetti, Platone gioca sulla quasi-sinonimia tra eidos da una parte (essenza, idea) ed eidolon, immagine, copia (da cui «idolo»). Peccato che non disponiamo in italiano di un termine come «parenza» per tradurre eidos e opporlo all’apparenza sensibile, eidolon. Useremo allora il termine Ap-parenza per far risaltare la rassomiglianza-opposizione dell’eidos con le apparenze sensibili. Dice Platone: le evidenze sensibili (eidola) sono in realtà apparenze, e le Ap-parenze intelligibili (ideai) sono l’evidenza vera.
Quindi, le anime possono salire e non cadere perché sono filosofiche ed erotiche, cioè attratte dalle Ap-parenze, e in particolare dall’Ap-parenza di Bellezza. La kinesis rivela che l’universo tutto è uno spazio amoroso, che ogni ente19 tende ad un telos nella misura in cui quel telos, situato fuori di sé, lo seduce e lo attrae. Questo telos è prima di tutto la Bellezza, e poi tutte le altre Ap-parenze.
Il concetto di telos è centrale nella forma di vita greca: esso è il fine ma anche la fine, è lo scopo ma anche il compimento, la perfezione — la morte. L’universo si muove, cioè vive, perché aspira alla sua morte, al suo telos. Il problema è quale morte. Perché in Platone tutto è doppio. Come precisa nel Fedro, la dialettica è per un verso synopsis — l’arte del riunire le cose (apparentemente) dissimili in una sola idea — ma anche dihairesis — poter dividere l’idea (apparentemente) identica in cose dissimili. Come eidos, Ap-parenza, si distingue a malapena da eidolon, parvenza; come il philosophos si distingue a malapena dal sophistes (e difatti Socrate, vero filosofo, fu condannato come sofista); come il vero erotikos, dedito al desiderio, si distingue a malapena dal tyrannos, schiavo del desiderio; analogamente c’è telos (morte) e telos (vita eterna). Solo la competenza consumata del vero filosofo è in grado di discriminare questi opposti che si assomigliano come gemelli, e che il profano confonde.
In effetti, una seduzione cosmica imprime alle cose la loro motilità, per il rimpianto (potho) che le anime hanno di ciò che è immobile e non muta. Con Platone si apre una tradizione di pensiero ancora oggi rigogliosa: una visione nostalgica della natura e della storia — per i moderni, a seconda delle opzioni, sarà ritorno alla natura, ritorno al comunismo, ritorno all’Essere, ritorno alla diade madre-bambino, ecc. L’universo naturale e storico è mosso dal desiderio doloroso il cui telos è tornare alla casa perduta, all’hyperouranios, all’Oltre-cielo, sede delle Ap-parenze vere. A questa casa-focolare le anime automotrici tornano, oppure si allontanano da essa. Solo che all’epoca — questo è il problema! — non c’era alcun effetto Doppler che ci dicesse con sicurezza chi torna a casa, e chi vi si allontana irreparabilmente. Del resto, anche ciò che si allontana torna a casa, alla terra — ma questa casa-terra è morte, oblio.
In effetti, la gerarchia delle anime umane — che consta di nove livelli per Platone — vede al primo livello i philosophoi (amanti della sapienza), i philokaloi (gli amanti della bellezza), i mousikoi (gli ispirati dalle Muse), e gli erotikoi (dediti al desiderio amoroso); all’ultimo livello, lo abbiamo detto, i tiranni. Questa gerarchia descrive i livelli di una memoria o, correlativamente, di un oblio: l’anima si muove più verso l’alto (occupando quindi i livelli superiori della gerarchia) nella misura in cui meglio o più a lungo nella vita passata ha contemplato le Ap-parenze, e di questa contemplazione più ha rimpianto.
Abbiamo già detto come le anime arrivino a contemplare le Ap-parenze, guidate dagli undici déi, Hestia esclusa. Intanto, importa notare il fatto che gli déi non contemplino le Ap-parenze nel loro focolare, custodito da Hestia, ma debbano allontanarsene, spostarsi lungo il cielo (diéxodoi entòs ouranoù) per andare ad un banchetto. La visione delle Ap-parenze non è perenne, ininterrotta, come ci si potrebbe aspettare in una visione millenarista20 come quella platonica, ma accade in una specie di scampagnata filosofica, in cui undici déi guidano una frotta di anime verso il dorso — la sommità — del cielo, solo punto dove è possibile vedere ciò che è fuori dell’universo sensibile.
Ma i cori delle anime sémoventi non smettono di muoversi anche quando contemplano le Ap-parenze: siccome la volta celeste gira, essi mirano le Ap-parenze una alla volta. Come le ruote dei luna park, gradite alle coppiette, girano con moto circolare uniforme e compiono una rivoluzione. La theoria di ciò che non muta è come un girotondo panoramico. Persino le sémoventi divine restano pur sempre ancorate all’universo sensibile, che non cessa di ruotare. Occorre anzi, come abbiamo visto, che le sémoventi divine si allontanino dal focolare, cioè dall’immobilità dell’oikos: solo girando nell’ottavo cielo si guarda estaticamente ciò che non muta (ma non vi si accede!). L’orbitare hermetico dell’universo è filosoficamente esaltato perché l’anima automotrice si nutra dell’ousia fissa, esorbitante.
E poi — altro punto notevole — dopo il banchetto gli déi tornano a casa, dove — supponiamo — Hestia è rimasta ad attenderli. Qui «l’auriga, messi alla mangiatoia i cavalli, getta loro ambrosia, e, dopo questa, dà anche loro da bere». I cavalli sono parte dell’anima-biga. Le sémoventi umane si distinguono da quelle divine perché i due cavalli non sono egualmente obbedienti all’auriga, ma uno, il cavallo nero con gli occhi grigi, fa le bizze, è preso dal clinamen, tende a scendere verso le apparenze sensibili e non verso le Ap-parenze intellegibili. Ma le Ap-parenze sono cibo che nutre l’ala, vale a dire ciò che permette appunto ai cavalli di salire «nel dorso del cielo». Infatti, «l’alimento adatto alla parte migliore dell’anima proviene dal prato che è lì, e la natura dell’ala, grazie a cui l’anima è leggera, si nutre (tréphetai) proprio di questo».21 All’inverso, le anime che non riescono ad essere iniziate alla contemplazione dell’ente, «si allontanano [dal banchetto in cui si contemplano le Ap-parenze] e, allontanatesi, si cibano (trophé) di opinione».22 C’è quindi del buon cibo e del cattivo cibo per le anime. Il buon cibo (eidos o idea) è una dieta che rende le anime leggere, le fa volare — ed Eros consiste in questa erezione spirituale — perché deriva da una visione della verità. Il cattivo cibo (eidola) sono le opinioni degli uomini che non sanno, e queste danno peso, trascinano vieppiù verso quell’esilio che è la terra. Ma la terra, per i greci, era Hestia dell’universo…
Il rapporto con la verità quindi non è solo pura contemplazione, ma qualcosa che nutre il nostro eros. Il cibo del buon focolare ci rende ascendenti. Vedere ed alimentarsi restano profondamente connessi agli inizi della metafisica occidentale: il contatto, anche se solo festivo, con la verità è la migliore paideia, cioè il modo migliore per nutrire e far crescere l’anima. Il nostro rapporto col vero, con le Ap-parenze, ci fa desiderare di ripeterlo. L’hermetismo erotico mira all’Hestia del godimento dell’immobile.
Eppure, occorre staccarsi da un’altra Hestia, da un’altra immobilità, da un’altra morte. Non solo, ma le sémoventi devono tornare a casa, staccarsi dall’Oltre-cielo. È come se dopo la ri-velazione delle Ap-parenze occorresse fare un passo indietro, velare di nuovo l’Essere. Occorre che persino gli dei si stacchino dal disvelamento, che tornino nelle tenebre domestiche — c’è come un rinculo della verità. La rivelazione è festa, il velarsi di nuovo è ritorno alla casareccia quotidianità del sensibile. Perché è solo velando l’Essere che la rivelazione può ripetersi — e questo ripetersi risulta essenziale. Il mondo sensibile, la storia, sono il velarsi di nuovo dell’Essere, che però in questo ri-velarsi di nuovo promette di svelarsi. In questa oscillazione, allora, la sensualità, il passare all’atto — nel caso specifico, denudare Fedro e farci all’amore anziché discutere con lui del desiderio — sono un velarsi di nuovo; occorre perciò rinunciare a possedere l’oggetto desiderato perché questa distanza iperbolizzi il desiderio, tirando l’anima verso l’alto. Tutto si svolge come se questa rinuncia a «consumare» non si limitasse ai bei ragazzi, ma fosse opportuna anche nel nostro rapporto con le Ap-parenze: occorre separarsi da Esse, in qualche modo rinunciarvi, ritornare nella casa pesante ed oscura, perché si possa tornare a vedere, a godere. Resta una distanza (direi: di sicurezza) tra le sémoventi e il focolare delle Ap-parenze — così come è bene che rimanga distanza tra il desiderante e il desiderato in terra, che non ci sia tra loro «la sacra comunione delle cosce».23 L’anima deve avere rispetto per il suo telos — non perdersi in esso — per restare mobile, cioè vivente.24
Abbiamo visto che il movimento dell’anima-biga, avendo un telos, è erotico: essa muove l’universo delle apparenze perché è pazzamente sedotta dalle Ap-parenze, e in particolare dall’Ap-parenza della Bellezza. L’Ap-parenza della Bellezza ha una particolarità — filosoficamente inquietante — che essa ap-pare anche nel sensibile. È vero che ammiriamo nel sensibile le cose belle — e in particolare i bei ragazzi — ma nella bellezza delle cose apparentemente belle l’Ap-parenza della Bellezza appare, splende. Da qui tutta l’ambiguità del platonico mondo delle apparenze sensibili: da una parte esse sono eidola, immagini, imitazioni, simulazioni — oggi diremmo: segni — ma proprio in quanto simulazioni e segni rivelano l’eidos, l’Ap-parenza. Anche se la cosa vera risulta indipendente dal mondo dei segni (delle apparenze sensibili) per Platone, essa ha bisogno in fondo dei segni per manifestarsi a noi: i segni fanno splendere la cosa ai nostri occhi. Il mondo delle apparenze sensibili è il mondo hermetico della motilità, perché ogni segno è metaphorein, cioè, letteralmente, trasporto: trasporto-significazione verso il Focolare della verità stessa, oppure verso la casa dell’esilio dove ci si dimentica che i segni sono solo segni. Il mondo hermetico dei segni sensibili è quindi come scisso da una divisione, che solo all’occhio esercitato del vero filosofo non sfugge: le sémoventi (le anime) fanno precipitare il mondo come mondo di segni, ma ogni segno ci porta sempre, per una sorta di divisione interna, verso l’alto e verso il basso, verso la verità e verso la mera verosimiglianza, verso il significato e verso il significante; perché ogni segno manifesta sempre ciò che significa, ma così facendo ci rammenta che ciò che significa è caduto nella opacità obliosa del segno.
5. Ritorno nella caverna di Platone
Ci si è talvolta chiesti perché Platone, nel Fedro, porti Socrate fuori dalle mura cittadine — cosa per lui più unica che rara)25 — inseguendo Fedro, o meglio, inseguendo il discorso di Lisia su Eros che il giovane Fedro tiene sotto la sua veste, stretto in pugno. Sedotto da un discorso seduttivo sulla seduzione, Socrate finirà sulla riva del torrente Ilisso, in una zona agreste abitata da ninfe e da Pan, e per giunta in un mezzogiorno estivo, quando più opprimente — e pericoloso — si fa il caldo che dissecca e la seduzione erotica a cui è arduo sfuggire. Nel Fedro quindi si affronta il versante selvaggio, extra-urbano, insomma panico dell’Eros, in quanto esso ci porta (come Hermes) fuori dalla città, lontani dall’Acropoli e dal Focolare. A differenza dell’Eros hieratico che occupa lo spazio del Simposio, il Fedro si confronta con la dimensione hosiaca dell’Eros e della religione.26 L’Eros e la filosofia portano l’essere umano fuori di sé — come dirà esplicitamente Socrate — fuori cioè di quel focolare confortevole che oggi chiameremmo il nostro «Io»: c’è qualcosa di selvaggio, di trasgressivo, non solo nella seduzione erotica, ma anche nell’ascesi filosofica. In effetti, Fedro e Socrate si allontanano dalla città-casa per questa sorta di picnic filosofico proprio come — ci racconterà Socrate stesso — le anime divine e il loro seguito dovranno abbandonare la loro Hestia celeste per poter godere della visione e del nutrimento delle Ap-parenze. Questo è un punto essenziale, reiterato nella struttura stessa del Dialogo: che l’accesso al reale, alla verità, non è un’estasi ininterrotta, ma una vacanza dal sensibile, una fuga temporanea dalla propria casa, alla quale occorre pur ritornare. Difatti, il Fedro può concludersi solo quando, incoraggiati dalla prima frescura pomeridiana, sopravvissuti alla pazzia panica del «mezzogiorno di fuoco», Fedro e Socrate decidono di tornarsene a casa; essi retrocedono così come le sémoventi divine rincasano dopo il godimento del reale nutriente nell’Oltre-cielo. Persino le sémoventi divine hanno bisogno di fare dieta di verità: contemplare in permanenza il reale sarebbe una hybris, bisogna che ci si conceda la gioia della verità con una certa oculatezza, con sophrosyne.
Non diversamente accade nell’altro celebre mito platonico dell’accesso alla verità come e-videnza o Ap-parenza: l’uscita dalla caverna delle ombre, raccontato nella Repubblica. L’uscita dal buio delle apparenze è uno shock per il soggetto, che rischia di essere accecato dalla luce meridiana della verità; il suo occhio si deve abituare a tanta chiarezza. Non solo, ma è essenziale che chi ha visto la vera luce poi torni nella caverna, a rivelare a chi non ha visto che la verità è altrove. Di solito si interpreta questo ritorno del filosofo nella caverna in chiave di altruismo politico: siccome il filosofo è anche buono, rinuncerebbe alla gioia permanente della visione del vero per diventare il divulgatore della verità tra i suoi cattivi (nel senso di captivi) concittadini. In verità, nemmeno il filosofo può reggere a lungo la luce della verità, c’è un tempo del ritiro, un temperamento dello splendore meridiano con la penombra delle apparenze. Persino le anime divine tornano a casa, staccandosi dalla Casa: perché se non ci fosse questo regresso, non ci potrebbe essere progresso, cioè Eros. La verità deve pur cadere nel segno, perché il segno ci sollevi verso la verità. Quindi, già con Platone il filosofo è cronicamente irrequieto, non trova mai veramente la sua patria di elezione. Oscilla, dialetticamente, tra due ritorni.
Così, in modo non esplicito, il platonismo, che pur ufficialmente svaluta il mondo delle apparenze e dei segni a tutto vantaggio del mondo delle Ap-parenze, di fatto istituisce la necessità improrogabile del sensibile — quindi, del divenire hermetico — anche se come luogo struggente della nostalgia. Il mondo hermetico, sensibile, del movimento animato si svolge quindi tra due immobilità, tra due focolari allo stesso tempo opposti e convergenti: da una parte la nostra povera casa terrestre, quella verso cui cadiamo perché dimentichiamo le Ap-parenze (ma a cui pur si deve tornare), dall’altra l’Oltre-cielo, unico luogo che non si muova. La dea Hestia — che non si sposta verso l’Oltre-cielo, forse perché non ne ha bisogno — emblematizza qui l’ambiguità del platonismo, che è poi l’ambiguità di gran parte della filosofia: in quanto da una parte Essa è celeste, appare già nutrita di verità, dall’altra è (come la terra, immobile al centro dell’universo che rotea) estrema assenza, culmine dell’oblio, luogo da abbandonare. La dea che rimane a casa sola pare condensare i due focolari opposti, nella cui (problematica) differenza si inscrive tutto il movimento desiderante del mondo.
Insomma, già in Platone la verità è in fondo inscindibile dal movimento che porta ad essa, dalla varia locomozione dei segni che, manifestandola, la fanno splendere. Già in Platone, possiamo dire in termini moderni, «la verità è il metodo», e cioè, andare verso casa è quasi più importante della casa stessa. Quindi, nella sua immoblità — che la emargina o la esalta — Hestia partecipa dell’ambiguità irriducibile del mondo hermetico dei segni (e quindi del cammino stesso della filosofia): mondo che manifesta ad un tempo la seduzione della verità ma anche quella dell’anti-verità, della parvenza. Come il mondo hermetico dei segni e delle apparenze sensibili, anche il mondo hestiaco del reale che non cangia è attraversato dalla divisione filosofica. Ente doppio, il Focolare raccoglie il massimo dell’oblio terrestre ma anche il massimo dell’evidenza celeste. Il movimento della filosofia e del desiderio amoroso è quindi un intervallo tra focolare e Focolare, tra hestia buia che occorre abbandonare ed Hestia luminosa a cui destinarsi.
6. Motore aristotelico, Casa Celeste cristiana
Anche in Aristotele la metafora erotica è pervasiva, benché già meno crudamente esplicita che in Platone: il mondo del mutamento e del divenire è fatto di enti che tornano a casa — i solidi tendono alla casa-terra, i liquidi alla casa-mare, fiamme e vapori alla casa-cielo. Ma la Casa delle case, l’Hestia finale di ogni divenire, è la divinità, il Motore Immobile. Anche in Aristotele, la mobilità sub-lunare è frutto di un’attrazione simile a quella erotica: quella che la causa finale, il telos, il Motore Immobile, esercita sul Primo Motore. Possiamo quindi dire che la causa finale aristotelica è Hestia come meta amata, e divinità immobile; mentre la causa efficiente, che diventerà sempre più «scientifica» nell’universo meccanicista newtoniano, è Hermes come tensione amante e promiscua. Anzi Aristotele darà a questo hermetismo essenziale del mondo la formulazione metafisica più compiuta in tutta la filosofia pre-moderna: a fondamento c’è energeia, il passare all’atto. Hermes, divinità itifallica, era un dio che più di ogni altro — anche nelle azioni riprovevoli — «passava all’atto».
Quindi, sia in Platone che in Aristotele il mondo hermetico del divenire è descritto attraverso il suo nostalgico amore per il Focolare: Hermes ama Hestia.
La civiltà cristiana, invece, descriverà il movimento hermetico del mondo non come tensione erotica verso Dio, perché qui l’amante è Dio stesso. Agape succede ad Eros.27 È per esuberanza erotica che Dio crea l’universo, e anche quella creatura recalcitrante all’amore che è l’uomo. Questo amore è gratuito, è pura Grazia: amore senza oggetto che crea l’oggetto. Al primato della metafora erotica si sostituisce il paradigma creazionista, anzi paternalista: è per amore che Dio crea il mondo. Possiamo anche dire: nel cristianesimo Hestia ama Hermes.
Ma questo amore debordante di Dio, di cui il mondo è il rampollo, non è l’amore per qualcosa che preesista alla creazione: è amore per la creatura stessa. Il dio cristiano non fa l’amore con la vergine Maria: ama Suo figlio, non una donna. Il Creatore cristiano ama le sue creature, non l’Altra. Così col cristianesimo viene a crearsi un ulteriore serio squilibrio a vantaggio di Hermes: se Dio è il Focolare originario del mondo, esso deriva e si risolve nel mondo hermetico delle sue creature che nascono, mutano, muoiono. Dio stesso, facendosi uomo in Cristo, si hermetizza.
Ma se il cristianesimo rappresenta una svolta hermetizzante rispetto al pensiero greco classico, resta che filosofi greci e cristiani, insieme, hanno lanciato una sfida al mondo pagano attraverso il loro ossimoro iperbolico: ciò che diventa importante assicurare non è il rapporto di radicamento nella terra, ma il radicamento nel cielo. L’Edda, l’antico poema dei Vichinghi, parla della «Casa degli uccelli», metafora del cielo.28 Nella cultura ellenico-cristiana la città umana va radicata non nella Terra, ma nella «casa degli uccelli».
Quindi il Focolare e l’Angelo non scompaiono, ma vengono gerarchicamente sottomessi a Dio-Padre. Così, nella tradizione cristiana Hestia sopravviverà nella forma dei culti mariani, e Hermes nell’angelologia — ambedue in una sorta di teologia minore, subalterna alla Grande Teologia del Dio-Padre e Creatore. Quindi il focolare greco al centro della polis verrà sostituito dalle due abitazioni focali di ogni città occidentale: il Tempio e il Palazzo. Il Tempio è ancor sempre casa di Dio-Padre, ma concretamente vi sta un prete a cui è riservato uno scambio più diretto con Dio-Padre, arché — cioè: origine e comando — della città vivente degli uomini. Il Palazzo è pur sempre casa del principe, ma casa-vetta da cui il Potere discende verso la comunità. A loro volta Tempio e Palazzo, abitati da intermediari tra cielo e terra, si enucleano in una figura più radicale e comprensiva: il naòs greco, il Tabernacolo della tradizione giudaica. Il Tabernacolo è lo spazio inaccessibile, vuoto, sacro, in cui «risiede» o «discende» Dio-Padre: esso prende il posto del focolare secolare, in quanto non è luogo di avvitamento alla terra, ma anzi di discesa del celeste sulla terra, luogo di «radicamento» ossimorico della terra nel Cielo. È la kenosis cristiana, vale a dire quell’«abbassamento» per cui Dio si fa uomo, per cui il Cielo «scende» sulla terra, dandole ordine e senso.
Ora, il processo della modernità, dal Rinascimento in poi, di ciò che si è convenuto chiamare secolarizzazione, può essere descritto, nel modo più generale ed essenziale, come distruzione del Tabernacolo. E quindi, correlativamente, del Palazzo del sovrano e del Tempio come luoghi privilegiati sottratti all’hermetismo, in quanto colà il Cielo compie la sua kenosis verso la terra.29
Infatti, col Rinascimento e nel 600 si produrrà una nuova svolta, connessa alla «scoperta» dell’infinito. Il mondo antico e medievale diffidava dell’infinito, apeiron, come di qualcosa di incompiuto, come di un essere in potenza e non già in atto, come di qualcosa di informe e non giunto a maturazione. La perfezione antica era teléias, finita, sferica, conclusa. Con Bruno e poi con l’universo infinito newtoniano,30 l’uomo si situa baldanzosamento nell’infinito, nuova figura esaltante di una ulteriore hermetizzazione del pensiero e della vita. Esplosa la focolarità circolare del cosmo finito e rotondo degli Antichi, prevale la tensione infinitamente ricorsiva dei Moderni. E così, riferendosi all’idealismo implicito in qualsiasi filosofia, Hegel potrà dire «l’idealismo della filosofia consiste solo in questo: nel non riconoscere il finito come un vero essere».31
Abbiamo però anche, nello stesso movimento, alla stessa epoca, un nuovo bisogno di fondare, radicare, centripetare: nella condizione soggettiva della certezza. La certezza è un nuovo fondamento focolaristico cercato questa volta nell’intimità privata dell’Io, e in due versanti: o la si cerca nel cogito cartesiano, oppure nella percezione soggettiva, come nella tradizione empirista. Soggetto cogitante o soggetto percipiente che sia, comunque è nella soggettività che i Moderni cercano ormai il focus della certezza. Ma non tenterò nemmeno di tracciare a grandi linee il retaggio della dialettica greca tra focolare ed angelo nel pensiero moderno. Qui mi limiterò ad analizzare alcuni testi di due autori scelti in quanto essi si situano, in qualche modo, a due estremità: Cartesio e Nietzsche.
7. La stufa di Cartesio
Nel 1619 Descartes, a 23 anni, fu bloccato ad Ulm, in Germania, mentre tornava da Francoforte e cercava di raggiungere l’esercito nel quale era arruolato. Ad Ulm stava «in un quartiere dove, in mancanza di qualunque conversazione che mi distraesse, e per fortuna anche di preoccupazioni o passioni che mi turbassero, me ne stavo tutto il giorno da solo, chiuso in una stufa (poêle), e là avevo tutto il tempo di restare immerso nei miei pensieri.»32 Questa poêle era probabilmente un camino allargato a dimensioni di piccola stanza, come se ne trovano ancora nella vecchia Bretagna. Quindi Descartes, tornato presente-a-se-stesso dopo le vicissitudini e i transiti della guerra, getta le basi di quel che chiama, appunto, méthode. È vero che nella stufa tedesca in pieno inverno si trattava solo di unire le sue conoscenze di analisi geometrica e di algebra per trovare un modo più semplice di scrivere le proposizioni geometriche e algebriche; non si trattava ancora della «scoperta» del cogito ergo sum, e di tutta l’articolazione filosofica del Metodo, che verranno dopo. Eppure l’accento messo da Descartes su questo arresto forzato, come momento di svolta nella sua Bildung intellettuale, come inizio della sua vocazione propriamente filosofica, non può non farci riflettere.
Del resto spesso Cartesio cita delle situazioni di interruzione del tempo mondano, per così dire, in quanto condizioni e sfondo del dubbio meditativo e della messa in questione di tutte le «certezze» che oggi chiameremmo etniche. Così nell’ouverture delle Meditationes: «Dunque oggi, …, una volta che mi sono liberato lo spirito da qualsiasi tipo di passione, una volta che mi sono procacciato un riposo garantito in una pacifica solitudine, mi applicherò con serietà e con libertà a distruggere generalmente tutte le mie antiche opinioni.»33 Il ritorno riflessivo a sé, il ritiro misantropico e spassionato, sono evocati come condizione affinché la Meditazione abbia tempo e luogo: si tratta di rientrare in una sorta di poêle, anche se in questo caso spirituale e non fisica. Si tratta di realizzare una sospensione estatica del flusso del tempo e degli affetti: riposo, indifferenza alle passioni, pace, solitudine, tranquillità economica.
D’altro canto, questa «scena primaria», questa Urszene, dell’origine del razionalismo moderno, ha una particolarità insistente: essa non si svolge in patria, ma all’estero. La poêle stava ad Ulm, in un paese straniero, dove Descartes non conosceva nessuno. Ma anche poi Cartesio, per elaborare il suo pensiero, se ne andrà in Olanda, terra straniera. Descartes si descrive come uno che ha sempre viaggiato, senza posa, quasi un vagabondo, almeno fino al 1628, finché insomma non si stabilì in Olanda. In questo paese, scrive, «ho potuto vivere così solitario e ritirato come nei deserti più remoti»;34 l’Olanda è la sua nuova e definitiva «stufa», dove egli può ritirarsi lontano da tutti i paesi in cui aveva delle conoscenze. L’Olanda difatti non è un paese come gli altri: essa viene rappresentata quasi come un extra-territorio, una specie di vuoto nello spazio e nel tempo (oggi penseremmo piuttosto alla neutrale Svizzera). L’Olanda appare «la bandiera panamense» dei filosofi; perché gli Olandesi sono «seri e liberi», come seria e libera è la ricerca metodica del filosofo. Nederland assicura la pace in un mondo impegnato in mille dispute politiche e dilaniato da guerre religiose, ostello di un «popolo molto attivo e più preso dalla cura dei propri affari che non curioso di quelli altrui».35 In questo deserto metaforico, in cui non ci si occupa di lui, egli elegge la «patria del cogito»: i Paesi Bassi lasciano il filosofo deserto con se stesso, sottratto alla pluralità delle estensioni pur stando da qualche parte.
In effetti, la parentesi della stufa e il ritiro nel «deserto» olandese interrompono processi inversi, radicalmente hermetici. Facendo in Discours de la Méthode il punto sulla propria formazione intellettuale, Descartes ci aveva descritto prima di tutto ciò che potremmo chiamare le sue escursioni culturali. Con nascosta ma voluta ironia, ci aveva fatto la lista di tutte le scienze e discipline a cui era stato iniziato al Collegio gesuita di La Flèche: le lingue, le favole, le gestae della storia, i buoni libri nel loro insieme, l’eloquenza, la poesia, la matematica, gli scritti morali, la teologia, la filosofia, la medicina, la giurisprudenza — e financo le sciences curieuses, vale a dire quasi segrete, le scienze occulte e divinatorie. E alla lista di tutte queste scienze più o meno prestigiose aveva aggiunto anche dei commenti che ne denunciavano i limiti. Averle frequentate è stato come viaggiare, non nello spazio fisico ma nel tempo (grazie alla lettura degli Antichi), e nello spazio del sapere, delle Lettres, come si diceva a La Flèche. Ma quel che aveva deluso, e persino disgustato, il giovane Descartes in tutti questi sapere era stato proprio il loro carattere plurale. Disgustosa molteplicità nel senso che ogni sapere si sistemava accanto all’altro, senza una gerarchia che li unifichi, ma anche nel senso che al loro interno prolificavano molteplici opinioni, spesso tra loro contraddittorie. Anche in filosofia, dove «da molti secoli in qua […] niente ancora vi si trova su cui non si discuta, e che non si revochi quindi in dubbio.»36 Il dubbio, l’incertezza, la diffidenza, lo scetticismo nei confronti di tutti quei saperi, e persino degli enunciati più perentori (come l’esistenza di Dio o i princìpi della morale corrente), non derivavano secondo Cartesio dal modo in cui questi saperi gli venivano trasmessi, e nemmeno da un loro vizio interno, ma proprio dalla loro pluralità, dal disordine costituito dalla loro anarchica e troppo tollerante coesistenza.
Perciò, «abbandonai del tutto lo studio delle lettere» e «impiegai il resto della mia giovinezza a viaggiare, a vedere coi miei occhi le corti e gli eserciti, a frequentare persone diverse per temperamento e condizione, a raccogliere esperienze diverse, a mettere alla prova me stesso nelle occasioni che la sorte mi proponeva.»37 Dalla pluralità dei libri e dei saperi, egli passa ad un’altra escursione nel regno — che chiamiamo hermetico — delle diversità: la differenza è che qui il viaggio avviene nel «gran libro del mondo». Dopo La Flèche, il giovane matematico continua a viaggiare, ma nelle estensioni geografiche; si sposta tra la pluralità dei popoli, dei costumi, dei sovrani, e delle credenze degli uomini. Un’escursione motivata — ci assicura Descartes — sempre dal bisogno struggente di certezze.
Ma anche questo viaggio nelle estensioni delle culture e delle esperienze si mostrerà ad un certo punto deludente. Dopo la parentesi della stufa di Ulm, Descartes ripara in Olanda, come abbiamo visto. Nella stufa come in Olanda si verifica insomma una inversione della progressione hermetica nelle diversità dei libri, dei saperi, dei poteri, e delle credenze: il soggetto ritorna a sé, al focolare del suo Cogito, fondamento della Méthode. Certo, il Metodo serve a progredire, a fare dell’uomo «il signore e padrone della Natura»:38 ma questa progressione implica una regressione ad un nucleo intimo. Perché solo regredendo al focolare della presenza nucleare a sé il soggetto può trovare un minimo comune multiplo di tutti gli uomini, aldilà delle loro molteplici e parziali «certezze» (che sono solo opinioni, proprio perché sono molteplici certezze): nel focolare-stufa, nel limbo olandese, il soggetto può ritrovare l’Uomo universale. Nell’intensità regressiva del cogito la certezza — vale a dire l’universalità del sapere — emerge non aldilà ma aldiqua della molteplicità delle credenze e delle estensioni. Ma d’altro canto questo focolare intimo viene descritto come lontano dalla patria: esso non è un ritorno alle origini, all’Heimat, è come una nicchia che il filosofo trova nella sua separazione hermetica dal focolare originario. Lo stesso dubbio iperbolico del resto è un viaggio, questa volta mentale, agli estremi limiti della ragione, dove il soggetto rischia di perdere anche se stesso: ma solo allontanandosi, andando fino in fondo al dubbio hermetico, il soggetto troverà il suo focolare di certezza. Quindi, l’hermetismo è la condizione del ritiro nel focolare, e ne è allo stesso tempo il prodotto e il risultato (perché solo regredendo all’«io penso» il soggetto potrà poi progredire nel dominio della natura).
In effetti, in questi luoghi sottratti alla molteplicità disseminativa degli spazi avviene la scoperta del cogito ergo sum: il mio pensare hic et nunc testimonia del mio esistere hic et nunc se non altro come cogitans. A partire dalla certezza del qui-ed-ora, la Méthode non fa altro che prolungarla hermeticamente a ciò che appare lontano dal luogo bruciante di questa certezza dove tutto si accentra. La Méthode in effetti non ci fa correre i rischi «où la précipitation et la prévention étaient le plus à craindre».39 L’errore insomma ha una doppia origine — precipitazione e prevenzione. Praejudicium auctoritatis et precipitantiae, dirà, poco dopo Descartes, Christian Thomasius.40 Da Descartes in poi, una lunga tradizione fa derivare l’errore — sia di interpretazione che di ragionamento — da due tipi di dis-giudizi, per chiamarli così: da un pre-giudizio propriamente detto (partiti presi, attese inveterate, luoghi comuni culturalmente ereditati, idées reçuees, tutto ciò che fa autorità sulla Ragione), e da una specie di post-giudizio, che è la precipitazione. Contro l’irruzione del pre- e del post-, il Metodo cartesiano ristabilisce l’autorità del giudizio presente, di un’evidenza immediata che non si lascia corrompere dal passato o dal futuro, non dalla memoria e nemmeno dal desiderio.
Gli errori quindi, per Descartes, anche nel calcolo più automatico e sine ingenio, nascono dalla precipitazione, cioè dalla prevalenza del futuro hermetizzante sul presente hestiaco ed estatico: è ciò che le filosofie non cartesiane, più moderne, tematizzeranno come funzione curvante della volontà di potenza, del desiderio, della vitalità, del bisogno, dell’utilità pragmatica. Tutte queste funzioni privilegiano la direzione futuristica: freccia diretta verso il futuro, la pre-cipit-azione distorce la certezza universalizzante del presente attraverso le proiezioni prospettiche della soggettività. Ma gli errori nascono anche dalla pre-venzione, dal prevalere del passato sul presente: è ciò che le filosofie più moderne tematizzeranno come funzione ineliminabile del pre-giudizio, dell’anticipazione, delle abitudini esegetiche forniteci dalla Tradizione a cui apparteniamo.
Rispetto alle tensioni hermetiche della memoria e del desiderio, il cogito garantisce l’eternizzazione del presente e della presenza. Ma questo focolare di certezza produce Metodo, vale a dire l’orientarsi nei flussi mondani delle estensioni: il Metodo cronicizza il presente certo dell’io-penso. Il Metodo aggancia il divenire estensionale non alla terra, come nell’antica Grecia, ma al presente fonda-mentale dell’io-penso. Per questa ragione Descartes può scrivere che «j’avais éprouvé de si extremes contentements depuis que j’avais commencé a me servir de cette méthode que je ne croyais pas qu’on en put recevoir de plus doux, ni de plus innocents en cette vie.»41
L’ideale di chiarezza e distinzione a Descartes procaccia «douceur et innocence», dolcezza e innocenza. Sono i sentimenti connessi a ciò che poi Husserl chiamerà epoché, atto cartesiano quanti altri mai. L’epoché, la messa tra parentesi delle opinioni mondane, è la fonte di un contentement squisitamente filosofico: il piacere di trovare forza non nella moltiplicazione dei saperi e nella proliferazione dei poteri, insomma, non nell’incremento delle estensioni, ma al contrario nella loro «messa tra parentesi», nella rinuncia a saperne di più, nel sapere di non sapere, nel mettere da parte ciò che si sa, nell’abbandonare le ricchezze estese delle scienze a tutto vantaggio di una intensità, quella che Descartes trova nella stufa e nel suo ritiro olandese.
Tutti conoscono l’aneddoto di Talete che, guardando il cielo, finì nel fosso e venne deriso dalla donnetta. Con Descartes il filosofo, prima di guardare il cielo stellato, si va a cercare il suo fosso, per sistemarcisi dentro. Non vi cade più dentro, lo sceglie. In questa scelta del fosso, per così dire, consiste la grande e tranquilla forza della Méthode, la sua dolcezza. Lo sguardo umano può lanciarsi fino ai limiti estremi delle estensioni, fino agli ultimi cieli, solo se rinuncia inizialmente a quella passione hermetica. E l’innocenza consiste nel fatto che la filosofia metodica non sposa alcuna certezza mondana, non legittima all’inizio alcuna credenza — all’inizio del suo percorso estensionale il filosofo non è partigiano. In effetti, alla base del dubbio cartesiano non c’è l’incertezza degli uomini, ma la follia delle loro svariate e plurime certezze. Il percorso regressivo cartesiano va dalle certezze fasulle alla Certezza vera: è un passaggio dai focolari etnocentrici in cui egli si imbatte nei suoi viaggi per libri e paesi, al Focolare universale e unico che fa appello al senso comune e alla ragione, vale a dire a qualcosa che chiunque ha. La padronanza e signoria della natura non potranno avvenire espandendosi nelle estensioni spaziali e temporali, ma attraverso una paradossale riduzione ascetica alla povertà e all’indigenza del cogito.
8. La roccia di Nietzsche
Come Descartes, anche Nietzsche tiene a dirci quando e dove egli ha maturato i suoi pensieri più importanti. In Ecce homo, ci dice come nacque l’idea centrale di Zarathustra:
La concezione fondamentale di [questa] opera, il pensiero dell’eterno ritorno, la suprema formula dell’affermazione che possa mai essere raggiunta —, è dell’agosto 1881; è annotata su di un foglio, in fondo al quale è scritto: «6000 piedi al di là dell’uomo e del tempo». Camminavo in quel giorno lungo il lago di Silvaplana attraverso i boschi; presso una possente roccia che si levava in figura di piramide, vicino a Surlei, mi arrestai. Ed ecco giunse a me quel pensiero —. Se torno indietro di un paio di mesi da quel giorno, trovo come segno premonitore un cambiamento improvviso, profondo, decisivo del mio gusto, soprattutto in fatto di musica […] E certamente un suo presupposto fu la rinascita nell’arte dell’ascoltare.42
L’ambientazione di questa Urszene del pensiero nietzscheano è non a caso naturalista, non-umana: boschi, montagne, un lago, una roccia. Chi è solito dare un’interpretazione antropologica, «esistenziale» del pensiero di Nietzsche, e in particolare dell’eterno ritorno, dovrebbe meditare proprio su questo scenario così poco umano: «6000 piedi al di là dell’uomo e del tempo». L’ambientazione è «parmenidea», se pensiamo che il poema di Parmenide, vale a dire uno dei primissimi prodotti della
filosofia occidentale, comincia proprio con un’ascensione verso il cielo, «lontano dal sentiero degli uomini». Come Parmenide, in questo paesaggio alpestre Nietzsche si sente nella posizione di un dio olimpico, abissalmente lontano dalle cose della Città e dal tempo storico. Siamo migliaia di piedi lontani dai due dèi che amano vivere in compagnia degli uomini, Hestia ed Hermes. Eppure Nietzsche cammina, vaga, in un atteggiamento hermetico. E in questa situazione atemporale e misantropa egli incontra una piramide di roccia, qualcosa che persiste nel tempo, massa opaca e impenetrabile. Questa massa arresta il suo camminare, e lo getta di fronte ad un pensiero esso stesso roccioso, persistente, duro: quello dell’eterno ritorno. Possiamo ben dire che Nietzsche non trova qui affatto un Focolare umano, caldo e rassicurante: ciò che trova di stabile, di perenne, di immobile, non è la fiamma inventata e accesa dagli uomini ma la durezza gelida ed estranea di una roccia. La roccia, non il focolare, arresta il divenire, ancorandolo alla terra.
9. Nietzsche e l’ombra senza casa
Queste note possono stupire, perché si è convinti che Nietzsche occupi più che mai la polarità hermetica del pensiero filosofico moderno. Egli tesse l’elogio del «fanciullo eracliteo», che crea e distrugge senza posa, compreso se stesso. Anche se il dio che il filosofo si sceglie non è Hermes ma Dioniso. «La filosofia di Dioniso: una concezione che vede nel creare e nel trasformare l’uomo e le cose il più alto godimento dell’esistenza».43 Questo creare e distruggere perpetuo implica una dialettica vertiginosa. «Il dolore è anche un piacere, la maledi zione è anche una benedizione, la notte è anche un sole — andatevene o imparerete che un saggio è anche un pazzo.»^[44] Ogni cosa non ha bisogno di muoversi o di trasformarsi per diventare (anzi essere) altra: l’alterità hermetica è nel cuore di ogni cosa, rendendola visceralmente altra rispetto a se stessa.
Nell’eracliteismo dionisiaco nietzscheano l’innesto sulla terra — la ricerca filosofica del fondamento — viene meno. Anche se Nietzsche stesso si propone come ringhiera per seguire questo implacabile fiume eracliteo: «Io sono una ringhiera accanto al fiume: si afferri a me chi può afferrarsi! Ma io non sono la vostra gruccia!»44
Se Dioniso è la divinità del divenire, il mare ne è la figura eccellente: «Il Super-uomo è il mare».45 Il mare si perde all’orizzonte; associa un’immagine di sterminata e sovrana libertà ad una di insicurezza e di incertezza. Il mare è immobile, ma allo stesso tempo contiene una sovrabbondanza di movimenti e di forme, «un mare rigurgitante di pesci e di granchi di tutti i colori…»46 Attraverso questa allegoria del mare colmo di vite molteplici cogliamo del resto l’aspetto più enigmatico, perché più contraddittorio, del pensiero di Nietzsche: il mare è il luogo del divenire, ma, come l’Eterno Ritorno, esso stesso è immutabile e stabile. Precarietà mutante e stabilità maestosa appaiono in Nietzsche congiunte: ma non come le congiungevano i Greci, attraverso due divinità in promiscuità continua con gli umani; al contrario, Nietzsche le congiunge attraverso le figure cosmiche ed extra-urbane del mare, del sole, della roccia, del tramonto, delle bestie, del fiume.
In questo vagare senza meta, persino una parte di Zarathustra non è contenta — e precisamente la sua ombra. L’ombra del Super-uomo è diventata l’ombra di se stessa perché «sempre in cammino, ma senza meta, e anche senza casa».47 L’ombra, certo, assomiglia in tutto e per tutto a Zarathustra: ha «disimparato a credere alle parole e ai valori e ai grandi nomi», anch’ella sa che «niente è vero, tutto è permesso». Ma a differenza del Nostro, essa grida «“Dov’è la mia casa?” Questo domando e cerco e ho cercato, e questo non ho trovato. «Essa cerca un porto, che non sia un antinomico «porto nel mare». In effetti, l’ombra di Nietzsche rievoca le ombre della caverna platonica: se in Platone la prigionia e l’immobilità ci legano alle ombre, qui in Nietzsche le ombre sono tali perché anelano alla prigionia e all’immobilità. E difatti alle proteste dell’ombra Zarathustra reagisce evocando la beatitudine dei prigionieri, i quali in gattabuia «dormono tranquilli, si godono la loro nuova sicurezza». E, con un gesto squisitamente platonico, Zarathustra le dice «Tu, povera vagabonda, errabonda, […] vuoi avere stasera una sosta e una dimora? Allora va’ su alla mia caverna! «La tradizione occidentale non si smentisce! La casa delle ombre è la caverna: perché la ricerca metafisica della Casa ci rende ombre di noi stessi. In una chiave hermetica, il mondo delle illusioni è il mondo di chi cerca ancora la sicurezza e il riposo del fondamento.
In Nietzsche comunque vien meno il ruolo privilegiato e strutturante dell’ousia (etimologia di Hestia secondo Platone), della presenza e del presente come fondamento del divenire, di ciò che ancorerebbe il divenire all’Essere. Da Agostino in poi, i filosofi sono stati inclini a pensare che il presente è il luogo dell’essere, mentre passato e futuro sono non-essere. A questa estasi del presente Nietzsche sostituisce l’eccellenza di un suo fratello gemello: l’attimo (Augenblick). L’attimo non è il presente, ma direi la sua ombra, come lo era William Wilson nel racconto omonimo di E.A. Poe. L’attimo è passaggio, una estensione che si può rimpicciolire quanto si vuole, il luogo ambiguo, in-consistente dove l’essere si annoda asintoticamente con il non-essere, e dove passato e futuro si intrecciano. L’attimo non ricaccia nel non essere della memoria (il passato) e dell’attesa (il futuro) — memoria e desiderio per Descartes, abbiamo visto, erano i peggiori pericoli — ma è dove passato e futuro «si precipitano». È rovescio dell’eternità — vale a dire di un essere senza tempo — perché è un pieno non-essere nel tempo. Per questo l’attimo appare a Nietzsche solare:48 il sole per Nietzsche è ciò che tramonta, ciò che emanando si disperde e si dissemina nel mondo, luce del divenire e non centralità del fondamento. L’individuo cerca di raggiungere una posizione unica rispetto a tutte le cose; ma, così facendo,
scopre di essere egli stesso qualcosa di mutevole e di avere un gusto alterno, con la sua raffinatezza giunge a scoprire il mistero che non è un individuo, che nell’attimo più inafferrabile egli è qualcosa di diverso da ciò che è in quello seguente, e che le sue condizioni di esistenza sono quelle di un numero enorme di individui: l’attimo infinitamente piccolo è la realtà e verità superiore, un’immagine subitanea dal flusso eterno.49
Per usare le parole che abbiamo già incontrato in Descartes, l’attimo dà all’uomo dolcezza e innocenza. Ma qui non si tratta della dolcezza e innocenza del Metodo, che offre alle derive hermetiche dell’uomo il tinello sicuro del cogito: si tratta dell’innocenza dionisiaca che rifiuta compassione e responsabilità, che accetta il puro dispendio della volontà di potenza.
Ma proprio nella fenomenologia dell’attimo è evidente come il pensiero di Nietzsche non sia solo inno alla Volontà di Potenza come matrice del divenire: è anche il pensiero dell’Eterno Ritorno dell’Eguale. Alla celebrazione del mutamento «marino», si associa una dottrina dispiegata dell’eternità, faccia volta all’in giù della medaglia. Come allora dare torto ad Heidegger quando vede in Nietzsche il tentativo immane di conciliare due filosofie apparentemente incompatibili, quella dell’eterno divenire e quella del ritorno, di accordare insomma Parmenide ed Eraclito sulle corde dello strumento filosofico?50 (Ma non ha tentato ogni filosofia occidentale, sempre, proprio questo? Non è ciò che tentò anche il grande predecessore di Nietzsche, Hegel? Vale a dire la grazia di un accordo tra Parmenide ed Eraclito?) «Imprimere al divenire il carattere dell’essere — Nietzsche scrive — è questa la suprema volontà di potenza».51
«Nietzsche riunisce insieme, — afferma Heidegger52 — nei suoi pensieri più essenziali sull’eterno ritorno, le due determinazioni fondamentali dell’ente proprie dell’inizio della filosofia occidentale: l’ente in quanto divenire e l’ente in quanto stabilità». «L’eterno ritorno è la stabilizzazione più stabile di ciò che è senza stabilità».53 Nella nostra terminologia: Nietzsche è il tentativo più vertiginoso di accordare il Focolare e l’Angelo.
In effetti, a Nietzsche non basta affatto proclamare, come Gorgia, «Nulla è», egli deve mostrare che «Il Nulla è il vero Essere». Questa conciliazione non è poi così azzardata come appare: dire che tutto diviene implica che qualcosa pur è, ed è appunto il divenire. Dire che nulla è eterno, e che tutto muta, sfocia nella conclusione «il mutamento è eterno». Ma mi pare che Nietzsche dia a questa argomentazione dal sapore sofistico i caratteri di un rovesciamento più unheimlich: non basta dire che il sempiterno divenire, come il mare, è stabilmente divenire, egli deve anche dire che tutto ciò che diviene ritorna, vale a dire che ha i caratteri del vecchio Essere. Non gli basta dire che sempre è mezzanotte: occorre dare a questa notte fonda i caratteri del mezzogiorno.
Se Nietzsche vuole celebrare al massimo l’essenzialità del divenire, perché si incontra-scontra con la roccia dell’Eterno Ritorno? Perché non parla giusto di transeunte, di caduco, di contingenza radicale? È che in Nietzsche tutto ciò che accade ha una iscrizione eterna, per cui il contingente si risolve in necessario. A Nietzsche non basta dire (come, per esempio, dirà Wittgenstein nel Tractatus), «tutto nel mondo è accidente» (dato che per Wittgenstein solo la logica è necessaria, essendo essa mera tautologia).54 Egli deve attribuire provocatoriamente all’accidentale le spoglie della necessità. Nietzsche sente il bisogno di divinizzare gli accidenti, anche i più marginali. Una volta che Dio è stato ucciso, Nietzsche non intende vivere in una secolarizzazione da «ultimo uomo», ma da Oltre-uomo vuole divinizzare il transeunte e l’uomo che ha cessato di essere «troppo umano». Non gli basta dire «tutto muta», deve anche concludere «la mutazione è Tutto». Al contrario dello spirito «laico» e «secolare», egli non vuole affatto eliminare i demoni una volta che sono stati eliminati Dio e l’acqua santa: divinizza i demoni. In questo modo la dottrina dell’eterno ritorno significa che «l’accidente è necessario», non perché l’accidente rimandi ad una necessità più profonda, ma perché esso stesso assume i caratteri che nelle filosofie precedenti avevano le cose necessarie.
10. Il Curvo di Peer Gynt
Si è molto discusso fino a che punto interpretare l’eterno ritorno come una visione ciclica del tempo. Oggi l’esegetica nietzscheana tende ad escludere questa interpretazione ciclica. Come dice G. Deleuze, «L’eterno ritorno non fa tornare “lo stesso”, è vero invece che il tornare costituisce il solo Stesso di ciò che diviene»;55 «ritornare è l’essere di ciò che diviene».56
La visione ciclica del tempo, come è noto, è molto comune tra le culture primitive o arcaiche, e la si ritrova ancora tra i Greci. Le società arcaiche non vedono, come noi «progressisti» ed hermetici, il tempo come una linea irreversibile che va sempre avanti e mai torna indietro, ma come una circolarità ciclica sul modello dell’alternarsi delle stagioni, del giorno e della notte, del mestruo femminile, ecc. Ora, Nietzsche considera nichilistica questa visione circolare del tempo. A chi dice «Tutto se ne va, tutto ritorna; eternamente gira la ruota dell’essere… «, Zarathustra replica «O voi, buffoni e organetti».57 C’è quindi ritorno e ritorno: c’è il ritorno «da buffoni e organetti» che si riduce al serpente, all’Ouroboros, che si morde la coda; e c’è — nei nostri termini — un ritorno hermetico, in cui lo «stesso» di una cosa si presenta come ritorno. Come in Platone, abbiamo visto, tutto viene dialetticamente sdoppiato — per cui c’è la casa-terra immobile della morte, e la Casa-iperuranio immobile della vita eterna — anche in Nietzsche il circolo si sdoppia.
Questa dualità tra una circolarità buona e una circolarità cattiva è stata espressa in modo drammatico, anche se fuori da preoccupazioni nietzscheane, da Ibsen nel Peer Gynt. E anche dalla musica che Edward Grieg compose per la sua messa in scena, musica così opportunamente sospesa tra nostalgia popolaresca e una specie di prospezione futuristica. Peer Gynt, cacciatore in una regione agreste della Norvegia, intraprende una serie di migrazioni interminabili. Ma il tragitto di Peer non è solo spaziale, è una peregrinazione tra diverse forme di vita — e tra diversi generi letterari. Dal picaresco meraviglioso della sua Heimat — le nozze contadine, il vecchio di Dovre, il Gran Curvo, i troll — egli passa agli spazi unheimliche, tecnologici e mercantili, della società moderna. Da uomo moderno, girerà il mondo: sarà turista, mercante, negriero, speculatore, imprenditore. Alla fine però Peer tornerà alla sua terra, e là deve fare i conti, prima della morte, con l’insensatezza del suo percorso. Rischia di essere fuso assieme a dei bottoni in una fonderia. Ma in extremis salverà il senso della sua vita grazie alla sua antica fidanzata, Solvejg, che come Penelope lo aveva aspettato fedelmente nel corso degli anni. Vecchio, Peer china la testa sul seno di Solvejg, e aspetta tranquillo la morte.
I vagabondaggi di Peer illustrano il passaggio dell’uomo europeo dall’incanto favoloso della forma di vita del contadino-allevatore-cacciatore, al disincanto cosmopolitico dell’avventura moderna. Ma il tragitto hermetico ha senso solo perché il Focolare non viene meno: Solvejg rappresenta la casa come centro perenne e immobile che dà ai viaggi di Peer la direzione di un circolo, e l’agente alla fine torna al punto di partenza.
Comunque, ad un certo punto della sua odissea Peer incontra una creatura invisibile e quasi ineffabile che perde e uccide i viandanti imponendo al loro andare la forma perversa e tortuosa del girare in tondo. È il Gran Curvo, il Böigt di antiche leggende popolari vichinghe. È vano cercare di affrontare di petto il Curvo, di ferirlo con una spada, come cerca di fare Peer, perché Egli non ha corpo. Egli è una forma «viziosa» del cammino, non un’ostruzione materiale del percorso.58
Peer: Non ho fatto un passo avanti. Da qualunque parte mi giri, è sempre la stessa cosa. È qui, è là! è intorno a me da ogni parte! Mi illudo di uscire da questo cerchio, e ci sono dentro sempre più! Dì il tuo nome! Fatti vedere!! Chi sei?
La Voce: Il Curvo.
… .
Peer: Coraggio, colpisci!
La Voce: Il Curvo non colpisce.
Peer: Combatti! Voglio che tu combatta.
La Voce: Il Gran Curvo trionfa senza combattere.
… .
Peer: Coraggio! Un po’ di violenza!
La Voce: Il Gran Curvo trionfa con la dolcezza.59
Alla fine, quando Peer sta per soccombere, il Gran Curvo si rende conto che Peer usufruisce di una forza a lui stesso ignota, la presenza di una donna lontana — evidentemente Solvejg.
In questa allegoria costruita con fiabe antiche, il Curvo è la perdita di senso del cammino, la compulsione hermetica dell’uomo moderno soggetto alla Volontà di Potenza, cioè al volere di più, alla volontà di volontà. E Solvejg, focolare fisso al centro delle migrazioni curve, alla fine del dramma salverà Peer dalla perdita di ogni senso: in questo senso essa rappresenta la morte, ovvero la buona fine — telos per i Greci — che dà una finalità al percorso. Ma è significativo che il Curvo sia appunto tale, che ciò che minaccia mortalmente Peer non sia la progressione infinita ma la curvatura. Se Solvejg, la morte fedele, dà una fine ai percorsi curvi di Peer, il Curvo dà loro una curvatura nefasta: il Böigt illustra la faccia tremenda di Hestia, come circolo vizioso, trappola, di un hermetismo senza centro. Quando l’uomo hermetico perde la sua Hestia segreta, finisce stritolato in una sorta di Eterno Ritorno micidiale, emblematizzato dal Curvo. In questo modo il Focolare, simbolizzato dalla fidanzata fedele, salva l’uomo da una Hestia maledetta, che lo costringe ad una ripetizione distruttiva. Rtroviamo, in qualche modo, quell’ambiguità di Hestia — come centro erotico che redime e come centro di una ripetitività circolare mortifera — che avevamo già rilevato nel Fedro di Platone.
11. Il circolo focolare-angelo
Ma allora, il mito cosmico dell’eterno ritorno frena l’hermetismo di fondo del pensiero di Nietzsche, o ne è la conseguenza estrema? In realtà, Nietzsche si trova confrontato al paradosso di ogni hermetismo: che, portato fino in fondo, sfocia nel (o si rivela come) Focolare. Basti pensare al dramma del mondo moderno, che ha accelerato e intensificato lo scambio come nessuna altra civiltà prima di ora, col rischio appunto di annullarlo. E difatti, lo scambio implica differenze: ognuno dà agli altri ciò che gli altri non hanno; lo scambio è alimentato da sperequazioni di potenziale, da diseguaglianze, dislivelli, scarti. Ma proprio questa apoteosi dello scambio universale minaccia di ridurre, come mai prima era accaduto, l’intero pianeta al villaggio omogeneo e angusto di MacLuhan, insomma di fare di esso un unico focolare indifferenziato. Quando ogni casa esce dal suo isolamento e scambia (beni, monete, parole, idee, partner sessuali), tradisce la propria centripeticità, ma alla fine può raggiungere l’acme di un’Hestia planetaria capace di livellare il mondo in un’unica chiusura febbrile ma indifferenziata. L’agitazione hermetica in un sistema chiuso continuamente tende a sfociare nell’entropia hestiaca di un universo sprangato nella propria circolarità. Hestia è il destino di Hermes, la sua direzione fatale.
Eppure incontrare Hestia alla fine del percorso hermetico non è la stessa cosa che incontrarla all’inizio, o comunque prima della fine. L’Hestia a cui giunge Hermes non è la stessa da cui egli parte — ogni intuizione dialettica, del resto, si basa proprio su questo scarto. Come già in Aristotele, la prima causa efficiente e l’ultima causa finale non coincidono — e in questo scarto consiste tutta l’avventura erotica del cosmo così inquieto. È una questione di tempi, di scansioni, di occasioni. Nel rapporto circolare tra Hestia ed Hermes, è una faccenda di tempestività. È ciò che a suo modo Nietzsche intuisce, e che rende la sua scrittura così ostica ad ogni sistematizzazione: in effetti, l’importante in Nietzsche non è che cosa egli dica, ma quando la dice. A qual punto del tragitto egli indugia accanto al focolare, oppure passa oltre. L’eterno ritorno è così il focolare insospettabile in cui si risolve l’hermetica volontà di potenza. Ma è vero anche il contrario: che il divenire eracliteo ha una scaturigine, un focolaio da cui esso emana, un sole su cui Nietzsche insiste, iperbole del Focolare. Il circolo tra Focolare ed Angelo non è mai chiuso: esso si ripete, eternamente.
Nel suo saggio Vernant prosegue in modo anche più profondo l’analisi del rapporto tra i due dèi polari, visto dal punto di vista di Hestia. Il «focolare miceneo» che Hestia rappresenta, proprio perché fissa l’altare della casa alla terra, mette in relazione l’oikos familiare con il mondo infero;60 fino al punto che una certa tradizione — ripresa anche da Euripide61 — identifica Hestia con Kore o Persefone, la figlia di Demetra che trascorre metà del suo tempo con Hades nell’inferno, e l’altra metà del tempo tra gli uomini. Abbiamo visto come anche nel Fedro Hestia sia in fondo una divinità doppia che oscilla senza posa tra la vita e la morte: il suo aspettare le anime a casa metaforizza il ritorno insito in ogni allontanarsi da casa. Condensa arché e telos, il principio e la fine, rivelando nella complicità di ciò che si oppone la necessità hermetica del trasferirsi e del divenire.
Kore ed Hestia quindi, come mediazione e passaggio tra mondo terrestre dei viventi e mondo sotterraneo dei morti, svolgono lo stesso ruolo di Hermes, custode del passaggio tra vita e morte. D’altro canto, il focolare rotondo è connesso alla lanterna della casa, aperta in alto, da cui esce il fumo: simbolicamente, è il punto della casa in cui le cose umane salgono al cielo; quindi, Hestia stabilisce il contatto tra terra e cielo, proprio come il Messaggero mercuriale. «Per i membri dell’oikos — scrive Vernant62 — il focolare, centro della casa, segna anche la via degli scambi con gli dèi inferi e con gli dèi superi, l’asse che fa comunicare tra di loro tutte le parti dell’universo, da un’estremità all’altra.»
Prova ne sia che Platone, nel Cratilo, per l’etimologia di Hestia63 escogita due interpretazioni possibili. Una, abbiamo visto, è ousìa, l’essenza fissa; l’altra invece è osìa, vale a dire il movimento incessante, in quanto principio di tutte le cose è l’impulsione al movimento, che alcuni chiamano appunto osìa da tò othoûn, muoversi. E abbiamo visto come questa ambiguità si articoli anche nel Fedro.
Hestia: principio di permanenza; Hestia: principio dell’impulso e del movimento —, in questa interpretazione doppia e contraddittoria del nome della divinità del Focolare, si riconosceranno gli stessi termini della relazione che allo stesso tempo oppone ed unisce in una coppia di contrari legati da inseparabile «amicizia» la dea che immobilizza l’estensione attorno ad un centro fisso, e il dio che la rende indefinitamente mobile in tutte le sue parti.64
Hermes ed Hestia ci appaiono quindi solo ad un primo sguardo distinti, anzi in opposizione. Non è nemmeno corretto dire che essi sono come il Yin e il Yang nell’unità del Tao, o come i due poli in un sistema di tensione elettrica. Seguendo il filo — o meglio, i giri e rigiri — della dialettica del loro «amichevole» rapporto, scopriamo una (possibile) identità essenziale tra il Focolare e l’Angelo, identità come rovescio e verità della loro contraddittoria differenza. Non si tratta della solita solidarietà degli opposti, e nemmeno degli estremi che si toccano: è un reciproco rovesciamento. Hestia appare la vera essenza segreta dell’hermetismo, così come Hermes porta alla luce la verità stessa di Hestia. In altre parole, andando fino in fondo ad Hestia, troviamo l’incessante divenire hermetico; ma andando fino in fondo ad Hermes, troviamo come sua «essenza» l’immobilità permanente del Focolare. E questo scivolare degli opposti l’uno nell’altro è ciò a cui molte grandi filosofie, da Platone a Nietzsche, si sono trovati confrontati.
Andrei persino oltre — come Hermes. Forse, ogni grande filosofia — ogni filosofia che non si riduca a cieca militanza sotto qualche bandiera metafisica — si assume questo còmpito audace: istillarci il sospetto che, ad un certo momento, il Focolare e l’Angelo siano la stessa cosa, e che il dramma storico del mondo si basi su un’opposizione che, in fondo, cela una segreta coincidenza. Tutto sta nel come e nel quando la filosofia mostra a se stessa e al mondo questa insospettata identità.
Versione ampliata di «Hestia-Hermes: la filosofia tra Focolare e Angelo», Aut Aut, 258, Nov. -Dic. 1993, pp. 29-49. Vedi anche: «Hermes/Hestia: The Hearth and the Angel as a Philosophical Paradigm», Telos. A Quarterly Journal of Critical Thought, 96, Summer 1993, pp. 101-118.
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Cfr. Mario Vegetti, «Akropolis/Hestia. Sul senso di una metafora aristotelica», in Aut aut, n. 220-21, 1987, pp. ↩︎
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I, 11-12. ↩︎
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J.-P. Vernant, «Hestia-Hermes. Sull’espressione religiosa dello spazio e del movimento presso i Greci», in Mito e pensiero presso i Greci, pp. 147-200, Torino, Einaudi 1978, p. 149. ↩︎
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XXIV. 334-5. ↩︎
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Ibid., p. 150. ↩︎
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Cfr. Plutarco, Sulla loquacità, 502f. ↩︎
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Platone, Cratilo, 401 c-e. ↩︎
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Lo si può intendere, con Nietzsche, come riconoscimento della amorale Volontà di Potenza che ci muove. Oppure, con Freud, come accettazione della propria libido e dei propri impulsi fino ad allora rimossi. Oppure, via Heidegger, come autenticità dell’essere progettante che si accetta come essere-per-la-morte; e con l’esistenzialismo, in genere, come disvelamento angoscioso della propria libertà incondizionata. Anche in molto marxismo, l’autenticità è il ritorno all’originario valore d’uso contro un mondo dominato dalla alienazione del valore di scambio. ↩︎
-
M. Untersteiner, Parmenide. Testimonianze e frammenti, 1958; cfr. in particolare Proemio del Perì Physeos, e Frammento 8. ↩︎
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Eraclito, fr. 16. ↩︎
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Eraclito, fr. 4. ↩︎
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Platone, Repubblica, VII, 514 a-517 a, 7. ↩︎
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«Spazio e organizzazione politica nella Grecia antica», in Mito e pensiero presso i greci, cit., p. 268. Su queso punto, vedi soprattutto P. Levèque e P. Vidal-Naquet, Clisthène l’Athénien in «Annales Littéraires de l’Université de Besançon», Paris, Les Belles Lettres, 1964. ↩︎
-
Fedro, 246d-2477a. ↩︎
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Difatti Socrate racconta tutto questo mito sul destino delle anime e sulla contemplazione nell’Oltre-cielo non certo come invenzione propria, ma di Stesicoro d’Eufemo, poeta lirico morto un secolo e mezzo prima. Come dire che tutto questo racconto metafisico è una composizione lirica. Ogni volta che Socrate, in Platone, racconta un mito-chiave, premette sempre che esso proviene da qualche altro. Difatti Socrate, il filosofo, non sa nulla, sa solo di non sapere. Il mito invece articola un sapere, è quindi cosa di poeti o di profeti, di ispirati, non di filosofi. ↩︎
-
Il Fedro ha per sottotitolo Della bellezza, ma forse il sottotitolo più adeguato sarebbe Della seduzione, o Della bellezza seducente. Perché il dialogo rotea attorno alla seduzione, secondo diversi aspetti: la seduzione rettorica che i discorsi scritti od orali esercitano su lettori e ascoltatori, la seduzione pederastica, la seduzione cosmica delle Idee sulle anime umane e divine. Il tutto mosso dalla seduzione che Fedro, amatore dei discorsi sul desiderio, esercita su Socrate. ↩︎
-
Eros, scrive Platone, è pt-eros, ala. ↩︎
-
In «La dottrina platonica della verità», Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 159-192. ↩︎
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Cioè ogni sémovente. Per Platone la materia è ciò che viene mosso da altro — così il corpo, quando non viene più mosso dall’anima sémovente, resta fermo, muore. La materia è morta per Platone perché è mossa, o muove solo indirettamente. La materia non ha eros, perché non ha telos. ↩︎
-
Millenarista in senso letterale, dato che il processo di reincarnazione delle anime — il Samsara platonico — dura diecimila anni. Ma ai filosofi (che sono anche philokaloi, mousikoi ed erotikoi) si fa uno sconto: si reincarneranno per soli altri tremila anni. ↩︎
-
Fedro, 248b. ↩︎
-
Ibid. ↩︎
-
Eschilo, Mirmidoni, fr. 136, in TrGF, vol. 3, ed. S. Radt. ↩︎
-
Già in Platone si annuncia una segreta paura del compimento, che porterà alla conversione immanentista della nostra cultura: è bene che la nostalgia resti tale, che l’uomo resti nel desiderio e nel dolore, perché ciò gli permette, ancora, di salire. ↩︎
-
Si pone questa questione anche Jacques Derrida, «La pharmacie de Platon», in La Dissémination. ↩︎
-
La religiosità greca aveva due aspetti; hieros è la religione urbana, civile, ordinata da leggi, hosios è la religione agreste, selvaggia, quella dionisiaca praticata dalle Menadi invasate, o conessa al culto di Pan e delle Ninfe. ↩︎
-
Sul rapporto e sulla differenza tra Eros e Agape, cfr. A. Nygren, Eros e Agapé, Bologna 1980. ↩︎
-
A proposito di questa metafora, e in genere sulle metafore «domestiche», cfr. S. Benvenuto, «“La vera casa”. Senso della metafora e critica della Deutung freudiana», Aut aut, gennaio-aprile 1982, nn. 187-88, pp. 103-122. ↩︎
-
Sul tema del Cristianesimo come kenosis, cioè come abbassamento — o indebolimento — della divinità, cfr. Gianni Vattimo, Oltre l’interpretazione, Laterza, Bari 1994, cap. IV, «Religione». ↩︎
-
Cfr. a questo proposito: Alexandre Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito, tr. it., Milano 1984. ↩︎
-
W. Hegel, Werke (in zwanzig Bänden), Frankfurt a. M. 1969, V. p. 172. ↩︎
-
R. Descartes, Discours de la Méthode, Œuvres, VI; tr. it. Cartesio, Opere, 1, Bari 1986, p. 298. ↩︎
-
Descartes, Méditations métaphysiques, 1ère Méditation, Œuvres,. ↩︎
-
Descartes, Discours de la Méthode, III; tr. it., cit., p. 311. ↩︎
-
Ibid. . ↩︎
-
Ibid., I; p. 296. ↩︎
-
Ibid., I; p. 297. ↩︎
-
Ibid., VI; p. 331. ↩︎
-
Ibid., II; p. 305. ↩︎
-
C. Thomasius, Lectiones de praejudiciis (1689-90) e in Einleitung der Vernunftlehre, cap. XIII, par. 39-40. Cfr. H.-G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Tübingen 1965, p. 256n. ↩︎
-
Descartes, Discours de la Méthode, cit., p. ↩︎
-
Ecce Homo; tr. it. Milano 1970, p. 344. ↩︎
-
Frammenti postumi 1884-1885, fr. 34. 176. ↩︎
-
Così parlò Zarathustra, «Del delinquente pallido». Tr. it., Milano 1985, p. 57. ↩︎
-
Ibid., Proemio, par. 3; tr. it. cit., p. 29. ↩︎
-
Ibid., «Il sacificio del miele»; tr. it. p. 268. ↩︎
-
Ibid., «L’ombra»; tr. it. p. 303. ↩︎
-
La gaia scienza; tr. it. Milano 1965, p. 197, par. 337. ↩︎
-
Frammenti Postumi 81-82, p. 363, fr. 11. 248. ↩︎
-
M. Heidegger, Nietzsche, Pfulligen, 1961, I, p. 465, 468, e t. II, p. 288. ↩︎
-
Frammenti Postumi 85-87, p. 297, fr. 7-54. ↩︎
-
Heidegger, Nietzsche, cit. I, 468. ↩︎
-
Ibid., II, p. 286. ↩︎
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L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, tr. it., Torino 1964: «L’esplorazione della logica significa l’esplorazione d’ogni conformità a una legge. E fuori della logica tutto è accidente» (6.3); «Se un valore che ha valore v’è, deve essere fuori d’ogni accadere ed essere-così. Infatti ogni accadere ed essere-così è accidentale» (6.41). ↩︎
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G. Deleuze, Differenza e ripetizione, tr. it., Bologna 1971. ↩︎
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G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, tr. it., Firenze 1978, p. 82. ↩︎
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Così parlò Zarathustra, «Del convalescente»; tr. it. p. 245. ↩︎
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Nella mitologia nordica, i Troll — personificazioni mostruose del lato notturno, malefico della Natura — hanno la caratteristica di non andare mai dritti, ma sempre in linea curva. Talvolta ci mettono centinaia di anni per tornare al punto di partenza. Questo perché, pur essendo molto forti, longevi e ricchi, sono stupidi. L’uomo, che va in linea retta, può metterli nel sacco con la furbizia e l’intelligenza. L’incontro con il Boigt può significare qui una formidabile «tentazione della stupidità»: divenuto ricco e forte come un Troll, Peer rischia di perdere ogni intelligenza. ↩︎
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Henrik Ibsen, Peer Gynt (1867). ↩︎
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J.-P. Vernant, op. cit., p. ↩︎
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Fetonte, fr. 781, 55 Nauck. ↩︎
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Vernant, cit., p. 198. ↩︎
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Cratilo, 401 c-e. ↩︎
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Vernant, cit., p. 200. ↩︎