I miti platonici della storia e del destino umano

1. Il mito dei cicli cosmici

La vita dell’uomo, secondo Platone, si svolge in quella dello Stato, come questa nella storia dell’umanità, e tutte nella storia del Cosmo, con un rapporto intrinseco che esclude sia un movimento deterministico, sia un movimento casuale, per mostrare il suo volto provvidenzialistico. È nota l’ipotesi avanzata nelle Leggi che la vita umana non sia altro che quella di «un giocattolo uscito dalle mani degli dèi», una marionetta creata da Dio per proprio diletto; ma la risposta data dal protagonista è la seguente: «Ho parlato così tenendo gli occhi rivolti alla divinità e subendo questo confronto ho detto ciò che ora ho appena detto. Sia dunque il genere nostro d’uomini cosa non vile, se ti è caro pensare così, e degno di un qualche attento interesse.»1 Inoltre, sempre nelle Leggi si afferma che Dio non è un ‘artefice’ pigro: «la divinità, che è il massimo della sapienza e vuole e può prendersi cura delle cose, non pensiamo che trascuri del tutto proprio quelle cose di cui è più facile prendersi cura, perché sono piccole, e si curi invece delle grandi, come un artefice ozioso o vile che lavora con negligenza per non affaticarsi.»2

Ma questa cura della divinità non toglie la libertà all’uomo, né rende l’essere umano «un giocattolo uscito dalle mani degli dèi», anche se Platone ci mostri come la libertà sia usata dagli individui e dai popoli prevalentemente per compiere il male, ossia per negarla e perderla. La storia del Cosmo e dell’uomo si svolge sotto lo sguardo divino affinché essa si innanzi a ciò che è puro, «Perché non è lecito a cosa impura toccare cosa pura.»3 Si tratta di una visione religiosa costruita con lo sguardo fisso al Bene, che solo è capace di dare una norma di valutazione in un ambito che appare a prima vista privo di norma. Una profonda coscienza religiosa emerge dalle considerazioni platoniche sulla storia, non perché nata da una fede, quanto piuttosto perché espressione della razionalità, a cui il filosofo mai viene meno.

Se è vero che occorre arrivare ai dialoghi della piena maturità e a quelli tardi per trovare testi esplicitamente volti al problema del tempo e della storia, è anche vero che l’interesse di Platone per esso deve essere nato già dal periodo della frequentazione di Socrate. Il primo accenno lo troviamo infatti nel dialogo Sul giusto, ove Socrate dice: «Rischia dunque che la giustizia sia ciò che i nostri antenati ci hanno lasciato come saggezza, e l’ingiustizia ciò che ci hanno lasciato come ignoranza.»4 Questo non è molto, ma si integra con il mito di Minosse quale primo legislatore, ricordato nel dialogo omonimo, da considerare di poco successivo, mentre il testo decisamente più significativo, tra quelli precedenti la fondazione dell’Accademia, è il Menesseno, con la presentazione della storia ideale di Atene, di cui parleremo. Questa storia si colloca poi in un contesto più ampio, a sua volta abbracciato dalla totalità del temo, le cui scansioni essenziali, determinate nel tardo Politico, sono le seguenti:

  1. generazione del Cosmo, e guida dell’umanità da parte di Dio quale pastore degli uomini;
  2. abbandono del Cosmo da parte di Dio e degli dèi, e inizio del periodo storico;
  3. ritorno di Dio ‘al timone’ del Cosmo per salvarlo dalla distruzione a cui va incontro, e renderlo immortale.

Come si vede, si tratta di tre periodi di cui due metastorici (iniziale e finale) e uno storico posto tra essi. Dall’insieme di tutte le questioni, relative alla storia del Cosmo e dell’uomo, rinvenibili in diversi dialoghi, si può ricavare il seguente schema generale:

  1. mito dei tre cicli cosmici (Politico);
  2. mito della formazione dell’uomo (Protagora);
  3. storia della formazione degli Stati (Leggi III);
  4. storia esemplare della guerra tra Atene e Atlantide (Timeo e Crizia);
  5. storia ideale di Atene (Menesseno).

Nella nostra trattazione seguiremo questo ordine; e intanto, per maggior chiarezza, iniziamo con uno schema dei cicli cosmici per un preventivo orientamento nella non facile lettura del lungo brano del Politico:

  1. Primo periodo metastorico: il Cosmo, generato da Dio, era inizialmente retto da Dio stesso
    1. Dio era il ‘pastore’ degli uomini, mentre gli dèi presiedevano ai vari territori, e i dèmoni facevano da ‘pastori’ alle specie animali;
    2. in questa età di Crono l’uomo non generava, ma nasceva per composizione dei quattro elementi da parte di elementi diversi da essi (gli ‘elementi’ dell’anima);
    3. la terra produceva cibo in abbondanza; tutti gli animali si cibavano di erbe e non erano feroci; non vi erano né guerre né discordie; né vi erano costituzioni politiche;
    4. gli uomini si istruivano a contatto con la natura, ‘parlando’ agli stessi animali;
    5. molti erano i beni, pochi i mali.
  2. Periodo storico: il Cosmo, abbandonato da Dio, inizia un moto di rotazione inverso rispetto al precedente
    1. il Cosmo, lasciato a se stesso, inizialmente procede abbastanza ordinatamente: sono ancora maggiori i beni rispetto ai mali;
    2. gli dèi donano agli uomini gli strumenti per la sopravvivenza;
    3. gli uomini e gli animali ora generano per accoppiamento, invecchiano e muoiono;
    4. nascono le discordie e le lotte;
    5. il Cosmo si allontana sempre più dalla perfezione iniziale rischiando di dissolversi completamente.
  3. Secondo periodo metastorico: il Cosmo è salvato e reso immortale da Dio, che torna a guidarlo.

Benché la narrazione proceda in modo tutt’altro che lineare, risultano chiari i tre cicli schematizzati; e al di là del mito non è difficile scoprire la concezione di Platone relativa all’origine e al destino dell’umanità: l’umanità, generata e guidata da Dio, visse inizialmente un periodo metastorico di perfezione naturale,5 passando poi ad un periodo storico, il cui inizio è segnato da un evento naturale catastrofico. La storia dell’umanità alterna periodi di progresso a periodi di regresso improvviso per il sopraggiungere di altre minori cause naturali, con la perdita e la riacquisizione degli strumenti e dei caratteri della civilizzazione raggiunta. In fine tuttavia, vi è un prevalere netto del male sul bene, e un andare verso la distruzione del Cosmo intero. A questo punto si ha l’intervento divino che trasforma il Cosmo da mortale in immortale.

Tutto questo discorso si intreccia con quello relativo al singolo individuo: l’anima umana preesiste al corpo (è immortale per natura); nasce più volte (secondo il mito della metempsicosi); alla fine ha un destino di beatitudine eterna, se è vissuta secondo giustizia, o di sofferenza eterna, se è vissuta malvagiamente.

Sarà ora necessario leggere direttamente nel Politico il mito che troviamo nel dialogare tra l’anonimo straniero di Elea e Socrate il Giovane, per poter seguire da vicino la parola non facile di Platone.6

Stran. Nel nostro discorso inseriremo, direi, un gioco; dobbiamo far uso di una larga parte di un lungo mito e poi per quanto ancora resta, separare sempre, come già abbiamo fatto, parte da parte, e così toccare il culmine della nostra ricerca. Non bisogna far così? Socr. il G. Certo. Stran. Ma intanto presta tutta la tua attenzione al mio mito, come i bambini; non sono poi molti anni che sei fuori dell’età dei giochi. Socr. il G. Parla. Stran. Tra gli antichi racconti era compreso una volta, e lo sarà ancora, insieme a molti altri, anche quello del prodigio avvenuto a proposito della lite sorta, si dice, fra Atreo e Tieste. Tu infatti hai certo udito da qualcuno e ricordi ciò che si afferma essere allora accaduto. Socr. il G. Parli forse del segno prodigioso dell’agnello dal vello d’oro? Stran. No, per niente. Parlo invece dello scambio avvenuto fra il tramonto ed il levar del sole e delle altre stelle: anticamente, si dice, dove ora si levano, allora tramontavano e sorgevano dalla parte opposta e il dio allora, per dar testimonianza del suo favore ad Atreo, mutò il corso degli astri nella direzione attuale. Socr. il G. Sì, è vero, anche questo infatti viene raccontato. Stran. E certo da molti abbiamo d’altra parte udito parlare del regno che Crono resse. Socr. il G. Da moltissimi, anzi. Stran. E del fatto che gli antichi uomini nascevano dalla terra e non si generavano accoppiandosi l’un l’altro? Socr. il G. Anche questo è uno degli antichi racconti. Stran. Tutti questi prodigi allora nascono dalla medesima origine ed oltre a questi altri innumerevoli e più meravigliosi ancora di questi, e per il tempo lunghissimo ch’è passato alcuni si perdettero, altri invece vengono narrati gli uni indipendentemente dagli altri, senza ordine. Ma nessuno ha rivelato l’avvenimento che è all’origine di quanto ci tramandano tutti questi miti, ora noi lo dobbiamo fare; averlo fatto sarà utile per dimostrare che cos’è il re. Socr. il G. Benissimo, parla senza tralasciar nulla. [268 e-269 c]

Lo straniero di Elea ha interrotto la discussione su cosa sia l’uomo politico per inserire, come egli dice, «una larga parte di un lungo mito». Tutta la digressione sui cicli cosmici ha infatti un carattere mitico, e ciò permette a Platone di sottolineare aspetti di una concezione del Cosmo e dell’umanità che, se fosse stata presentata in forma dimostrativa, avrebbe avuto bisogno di un lunghissimo discorso. Il discorso mitico viene tuttavia svolto entro parametri razionali, così che sia resa possibile una ascesa dalla narrazione immaginifica a una comprensione scientifica.

Va notato che Platone nel Timeo presenterà il mito di Fetonte, interpretandolo come un accadimento celeste; ma nel Politico si precisa che si tratta di uno «scambio avvenuto fra il tramonto ed il levar del sole e delle altre stelle». Platone dà un’interpretazione naturalistica dei miti, ritenendoli una memoria di lontani avvenimenti, parziale e slegata nelle sue componenti «per il tempo lunghissimo ch’è passato». Nel Timeo farà dire a Crizia che Solone ad un vecchio sacerdote egizio aveva ricordando le gesta di Foroneo, Niobe, Deucalione e Pirra, tutte figure ritenute di tempi lontanissimi di cui in Grecia era rimasto soltanto il ricordo nei loro nomi: figure storiche avvolte nel mito.

Interessante è quanto Socrate dice nel Cratilo a proposito dell’etimologia di alcuni nomi, tra i quali figurano quelli della stirpe di Tantalo. Egli risale da Oreste ad Agamennone, ad Atreo, a Pelope, fino a Tantalo. In questo dialogo egli dice ad Ermocrate: «A Tántalos (Tantalo) poi chiunque penserà che il nome è stato posto giustamente e secondo natura, se son veri i casi che di lui si dicono. Erm. Quali sono questi casi? Socr. Le sventure che, ancor vivo, gli capitarono, molte e terribili delle quali, ultima, anche la rovina totale della sua patria; poi, dopo morto, nell’Ade, la talanteiéa (sospensione) della pietra sopra il capo, che ha una consonanza così singolare col suo nome.»7 Al di là della ricerca etimologica, che è una voluta forzatura che gli permette di tracciare alcune linee del suo pensiero, Platone ora allude ad una condanna della stirpe umana, colpevole di un delitto punito con la totale perdita della ‘patria’ (cioè della vita nel primo ciclo cosmico di cui vedremo), e ‘costretta’ ad assumere un corpo (la «pietra sopra il capo»), dando luogo così ad una stirpe in qualche modo maledetta. È da tener presente inoltre che Tantalo è presentato come figlio di Zeus, con il cui nome, assieme a quelli di Crono e di Urano termina la prima parte della ricerca etimologica di Socrate: da Urano, Crono, Zeus è nata la stirpe infelice di Tantalo, della quale fa parte Atreo.

Quanto allo «scambio avvenuto fra il tramonto ed il levar del sole e delle altre stelle», va ricordato che Erodoto riporta la tradizione egizia che parla di più di uno ‘scambio’ del sole: «In questo periodo di tempo, raccontavano, il sole si sviò quattro volte dall’usato suo corso: due volte sarebbe spuntato di là dove ora tramonta; e dove ora sorge, ivi due volte sarebbe tramontato: nulla in Egitto, per tutto questo tempo, ebbe a subire mutamenti: né i prodotti della terra, né quanto veniva dato dal fiume, né il decorso delle malattie o le cause di morte.»8

Lo sforzo di Platone è quello di avvicinare mito, storia, ipotesi razionali in modo da dare un quadro quanto più accettabile possibile.

Stran. Ascolta. Questo nostro tutto ora è guidato nel suo cammino e nel suo volgersi dal dio stesso, ora dal dio è lasciato andar solo, e quest’ultima cosa avviene quando i periodi di tempo fissati al suo andare ormai hanno avuto compimento ed esso ritorna ruotando indietro in opposta direzione, da solo; infatti esso è animale vivente dotato di intelligenza da chi lo ha ordinato fin da principio. Questo ritornar all’indietro gli è necessariamente connaturato per la ragione che dirò. Socr. il G. Per quale? [269 c-d]

Lo straniero, che ha annunciato di voler spiegare un mito, quello del dio che, «per dar testimonianza del suo favore ad Atreo, mutò il corso degli astri nella direzione attuale», lo fa inserendolo in un mito ancora più vasto, e la spiegazione avverrà all’interno di un quadro di valore morale, quello appunto dei ‘cicli cosmici’. Tuttavia, proprio lo schema di questi cicli ha un fondamento razionale che si connette con la descrizione della formazione del Cosmo fatta nel Timeo.9 Tutto quello che lo straniero descriverà sarà sempre inserito in questi cicli, di cui egli ha già iniziato a presentare i primi due: egli afferma infatti che il Cosmo «ora è guidato nel suo cammino e nel suo svolgersi dal dio stesso, ora dal dio è lasciato andare solo». Vi è dunque un movimento iniziale di cui è causa Dio, e un altro in cui il Cosmo è abbandonato a se stesso. Sappiamo dal Timeo che il Demiurgo compose l’Anima cosmica come formata da due cerchi uguali, tangenti in due punti: il cerchio dell’identico e quello del diverso. «E il movimento del circolo esteriore lo destinò come movimento della natura del medesimo [identico], e quello del circolo interiore come movimento della natura dell’altro [diverso] . […] Ma diè la signoria al movimento del medesimo e simile, e lo lasciò uno e indiviso, mentre divise sei volte l’interiore»:10 nell’Anima dunque deve prevalere il movimento dell’identico, che dà rzionalità e valore morale all’intero universo. Possiamo considerare questo moto come quello che il Cosmo effettua sotto la direzione di Dio, poiché l’identico è l’elemento dell’Anima che partecipa dell’intellegibile; mentre il moto in senso contrario, quello del diverso, è quello che il Cosmo compie quando è abbandonato a se stesso.

In questo modo, due risultano le possibili direzioni, come due sono i principi che l’uomo sempre segue nella sua esistenza: «Bisogna, procedendo, — dice Socrate nel Fedro — considerare che in ognuno di noi vi sono due tipi di princìpi che ci governano e ci guidano, che noi seguiamo dovunque ci menino: l’uno è un innato desiderio di piaceri, l’altro, invece, è l’opinione acquisita che aspira all’ottimo. Talvolta questi due impulsi interni sono in accordo, ma talvolta sono in lotta fra loro: e ora prevale l’uno, ora l’altro.»11 Siamo dunque in entrambi i casi davanti alla medesima alternativa: che regga e guidi il principio razionale, che comporta un’acquisizione dell’’esteriore’, o che regga e guidi il principio opposto, che è presente nell’’interiore’.

Come si diceva, non vi è tuttavia un determinismo astrale nel pensiero di Platone, perché l’essere umano mantiene, sia pure con fatica, la propria libertà di affidarsi alla ragione e contrastare le passioni: egli non è «un giocattolo uscito dalle mani degli dèi».

Stran. L’essere sempre nelle identiche condizioni, sempre allo stesso modo, l’essere identico è proprio soltanto della realtà che più d’ogni altra è divina, ma la natura del corpo non appartiene a questo ordine. Ora quello che noi abbiamo chiamato ‘cielo’ e ‘cosmo’ ha ottenuto in parte da chi lo ha fatto un grande numero di qualità divine, però partecipa anche della natura corporea; di qui gli è impossibile essere del tutto esente dal mutare, se pure, quanto più gli è possibile, si muove seguendo un unico ed identico tipo di movimento, sempre nello stesso luogo; ebbe così il moto di ritorno circolare, appunto perché fra gli spostamenti dal suo proprio e primitivo movimento è il più lieve. [269 d-e]

Le «qualità divine» di cui si compone il Cosmo sono gli elementi intellegibili (gli «elementi finiti» del Filebo),12 quali parti del Modello a cui il Demiurgo guarda per generarlo: esse si trovano in ciò «che è sempre e non ha nascimento»,13 come viene detto, poiché l’Intellegibile è l’Essere eterno, immobile: caratteri che si ritrovano negli elementi in cui si divide, come ad esempio nelle figure geometriche. Di contro, la sua «natura corporea» è data dalla condizione di una inimmaginabile caoticità che nel Timeo viene presentata con diverse espressioni, che vedremo più avanti, ma che lo straniero del Politico definirà fra poco come «mare infinito della dissomiglianza». Così, per un verso abbiamo che «L’essere sempre nelle identiche condizioni, sempre allo stesso modo, l’essere identico è proprio soltanto della realtà che più d’ogni altra è divina»; per l’altro, che ciò che non è mai nelle identiche condizioni è il Cosmo, che ha natura mutevole per il suo substrato di estremo disordine. Abbiamo visto che nel Timeo l’anima, immaginata come un doppio cerchio, è chiamata a muoversi secondo la direzione razionale, ma può farlo anche in senso inverso, ora dobbiamo anche ricordare che l’Anima cosmica è di per sé semovente, causa di tutti i tipi di movimento, secondo la definizione data da Platone: «Quale è la definizione di ciò che ha nome ‘anima’? Ce n’è un’altra, che noi abbiamo da dire, oltre a quella che è stata data or ora, ‘il moto che muove se stesso’?»14 Ma è da notare che, nel mito che stiamo considerando, il moto circolare congenito al Cosmo è «il moto di ritorno», poiché quello iniziale gli deriva da Dio: lasciato a se stesso, il Cosmo non può che regredire. Il primo è causa di bene; il secondo, di male.

Ma il volger da sé se stesso — dice lo straniero — con un moto circolare continuo, senza interruzione e mutamento, a nessuno è possibile all’infuori che a colui che presiede al movimento di tutto ciò che si muove, mentre, d’altra parte, a questi è vietato di muovere ora in un senso, ora nel senso opposto: da tutto ciò risulta che non dobbiamo affermare che il cosmo muova se stesso con moto circolare e continuo, né d’altra parte, che sia nella sua totalità fatto ruotare dal dio secondo due direzioni opposte alternativamente, né ancora che lo volgano due dèi i quali abbiano intenzioni opposte fra loro; ma invece, come abbiamo detto poco innanzi, ed è l’unica possibilità che rimane, ora è guidato da una causa da esso diversa e divina, riacquistando così vita e ricevendo immortalità rinnovata dall’artefice suo, ora invece, e cioè quando è abbandonato a se stesso, procede da solo, e in tali circostanze avviene questo suo abbandono da parte del dio, che può percorrere all’indietro un numero di rotazioni pari a molte decine di migliaia per il fatto che, il suo volume essendo enorme ed equilibratissimo, esso va appoggiandosi su di un piede piccolissimo. Socr. il G. Tutto ciò che hai detto, almeno mi pare, è molto vicino al vero. [269 e-270 b]15

Le possibilità del movimento del Cosmo prese in considerazione da Platone sono le seguenti:

  1. che il Cosmo muova perennemente se stesso di «un moto circolare continuo» (posizione che sarà di Aristotele);
  2. che sia mosso da un unico «dio secondo due opposte direzioni» (posizione di Eraclito);
  3. che sia mosso da «due dèi i quali abbiano intenzioni opposte tra loro» (posizione di Empedocle);
  4. che «ora è guidato da una causa da esso diversa e divina, […] ora invece […] procede da solo» (posizione di Platone).

Ora, un «moto circolare continuo, senza interruzione e mutamento» a nessuno è possibile all’infuori che a «colui che presiede al movimento di tutto ciò che si muove»: si tratta dell’Anima cosmica considerata in se stessa, indipendentemente dalla corporeità a cui è legata. Nel Timeo infatti così è scritto: «Dopo che secondo la mente del creatore fu compiuta tutta la creazione dell’anima, dopo questo compose dentro di essa tutta la parte corporea, e le unì insieme accoppiandole per i loro centri. L’anima, sparsa dal centro per tutto fino all’estremo cielo, avvolse questo tutt’intorno di fuori, e rivolgendosi in se stessa principiò un divino principio d’incessante e sapiente vita per tutto il tempo.»16 Si può dunque legittimamente dedurre che il «moto circolare continuo» sia appunto dell’Anima cosmica, considerata come guidata da Dio.

Quanto a Dio, al Demiurgo del Timeo, Platone gli attribuisce un ‘moto statico’, come si afferma nel Sofista.17 Che il Cosmo sia mosso da un unico «dio secondo due opposte direzioni» è assurdo, perché ciò comporterebbe una contradizione in Dio stesso; ed ugualmente assurdo sarebbe pensare a «due dèi i quali abbiano intenzioni opposte fra loro», perché, secondo Platone, gli dèi non sono mai in contrasto tra di loro, come sappiamo da più dialoghi e come vedremo. Resta che il Cosmo possa essere lasciato a se stesso; abbandono che comporta un moto inverso al primo. Si tratta di un movimento che tende all’allentamento e alla separazione dei ‘legami’ che tengono uniti gli elementi della materia, la quale per questo va verso la propria dissoluzione.18 Il primo moto, tuttavia, per quanto l’oscurità del discorso lascia intravedere, potrebbe ridursi all’atto istantaneo di generazione del Cosmo da parte di Dio, a cui seguirebbe il moto di decadenza. Se questo è vero, allora l’età di Crono, in cui Dio è pastore degli uomini, viene a corrispondere al ‘periodo’ precedente la ‘caduta’ delle anime nei corpi, secondo il mito della ‘biga alata’ descritto nel Fedro, e che ricorderemo più avanti.

Stran. Dalle cose dette ora, cerchiamo di conoscere il fatto che dicemmo alla base di tutti i prodigi. Esso è proprio questo. Socr. il G. Quale? Stran. Il fatto che il moto del tutto ora si svolge nella direzione del suo ruotare attuale, ora nel senso opposto. Socr. il G. E come è all’origine di ciò che raccontano quei miti? Stran. Bisogna pensare che questa inversione è, fra tutti i mutamenti e gli scambi che avvengono nell’universo, il più grande e il più completo. Socr. il G. A quanto pare, almeno. Stran. Ora, bisogna rendersi conto che in tale circostanza si verificano pure i massimi mutamenti in noi che viviamo all’interno di quell’universo tutto. Socr. il G. Anche questo è verosimile. [270 b-c]

Quali sono le ragioni che hanno condotto Platone a impostare e a risolvere la questione del movimento cosmico nei termini che ci sta fornendo? Se le posizioni presocratiche (Eraclito ed Empedocle) erano inaccettabili perché irrazionali, quella dell’eternità del mondo comportava una perfezione del Cosmo che esso non ha; e d’altra parte essa spazzerebbe via semplicisticamente quei miti che per Platone non sono pure favole; in fine, ammettere un unico ciclo cosmico, che iniziato nel tempo nel tempo anche cessi, significa non riconoscere nessun fondamento razionale al Cosmo, ovvero che un ente contingente si è dato da sé l’esistenza, e da sé se la toglie; e ciò contrasta completamente con la concezione platonica e con la razionalità in genere.

Distinte due direzioni, la «direzione del suo ruotare attuale» risulta quella del Cosmo abbandonato a se stesso; mentre quella «nel senso opposto» è duplice: iniziale sotto la direzione di Dio, che genera e guida l’Universo, e finale quando Dio riprende la guida del Cosmo. Ciò comporta che non ve ne possano essere più di tre, che possiamo chiamare iniziale (metastorica: di creazione), mediana (storica: di autonomia), finale (metastorica: di stabilizzazione nell’eterno).

Il tempo, creato nell’Anima cosmica come «immagine mobile dell’eternità […] che procede secondo il numero»,19 nel terzo ciclo non si annulla, ma gli esseri che vivono nel Cosmo reso immortale, come lo stesso Cosmo, non genereranno più né più periranno, perché verranno meno ‘generazione’ e ‘corruzione’, né vi sarà assolutamente nessuna forma di male. In questo modo, si ricupera il carattere di perfezione del primo ciclo, quando Dio era pastore degli uomini.

Nel trapasso tra l’uno e l’altro dei tre periodi, Platone parla dei momenti più drammatici per il Cosmo e per tutti gli esseri viventi: nel primo trapasso abbiamo l’inversione della direzione del moto, con conseguenze quanto mai catastrofiche; nel secondo il rischio di una completa dissoluzione, che tuttavia viene evitata.

Stran. E non sappiamo forse che la natura degli animali difficilmente sopporta grandi mutamenti e in gran numero e di ogni tipo, in un medesimo tempo? Socr. il G. Come no? Stran. È quindi necessità che in tale circostanza avvengano le più grandi distruzioni degli altri animali, e così anche il genere umano sopravvive soltanto in un piccolo numero di suoi rappresentanti. Questi poi sono oggetto di molti altri nuovi e strani fatti, ma il più grave e che consegue a quel rovesciamento del tutto, quando almeno si inverte la direzione del suo moto che ora è seguita, è questo. Socr. il G. Quale? Stran. In tali circostanze avvenne sempre che subitamente dapprima si arrestò l’età che ogni animale aveva raggiunto ed ogni essere mortale cessò immediatamente di progredire verso la sua vecchiaia e l’acquisizione dei segni di questa, ma invece mutando direzione, muovendosi in direzione opposta, si faceva allora più giovane e più tenero: i capelli bianchi dei vecchi diventavano più scuri, le guance dei barbuti, facendosi lisce, riportavano ognuno nella stagione della trascorsa primavera, i corpi degli adolescenti giorno e notte si rendevan più lisci e più piccoli, e così ritornavano verso l’infanzia, ed essi nel corpo e nell’anima diventavano simili a bambini appena nati, e di qui ormai consumandosi completamente del tutto scomparivano. D’altra parte il cadavere di quelli che morivano di morte violenta in quel tempo, essendo oggetto delle medesime affezioni, rapidamente in pochi giorni scompariva annientato. [270 c-271 a]

A prima vista, sembra che Platone ora introduca una nuova inversione di moto, oltre alle tre già presentate; ma se si fa attenzione alle parole dello straniero, ci si accorge che egli sta parlando dell’inversione della direzione attuale del moto cosmico («il più grave e che consegue a quel rovesciamento del tutto, quando almeno si inverte la direzione del suo moto che ora è seguita, è questo»), di quello quindi causato dall’intervento di Dio che, «ritornando a sedere al timone [del Cosmo,] l’ordina ancora e lo raddrizza e così lo rende immortale e senza vecchiezza», come dirà tra poco. Si tratta per ciò del passaggio dal secondo al terzo ciclo; e in questo passaggio si effettua la regressione da uno stato di vecchiaia (finale) a quello infantile (iniziale). Ma questa regressione sarà presentata da Platone anche in un trapasso tra due cicli diversi da quelli ora ricordati: occorrerà per questo prenderli in considerazione assieme più avanti.

Si può però dire intanto che Platone qui stia parlando da una parte di una rigenerazione dell’anima dei giusti, dall’altra della condanna dei malvagi. Quello che a mio avviso si può supporre è che l’intervento di Dio, prima che il Cosmo si dissolva e scompaia, anzi nel momento del trapasso dall’una all’altra condizione, comporti una ‘retrocessione’ di tutti gli esseri in parallelo alla retrocessione del Cosmo alla sua condizione primordiale, in modo che l’individuo umano si presenti al giudizio divino dopo la morte, senza corpo. Questo si può desumere dal Gorgia, nel quale così si esprime Zeus: «Oggi le cose vanno male, perché non giusti sono i giudizi, e questo per il fatto che, al momento del giudizio, chi viene giudicato è vestito, poiché sono giudicati essendo ancora vivi. Molti — proseguì [Zeus] — che posseggono un’anima malvagia, sono rivestiti di bei corpi, di nobiltà, di ricchezza, e, al momento del giudizio, molti sono i testimoni che si presentano a deporre sostenendo che sono vissuti giustamente. Avviene che i giudici si lasciano impressionare da tanto apparato; non solo, ma essi stessi giudicano essendo vestiti, poiché hanno l’anima velata dagli occhi, dagli orecchi, da tutto l’insieme del corpo. Tutti questi ingombri costituiscono un ostacolo, sia i velami dei giudici sia quelli di coloro che debbono essere giudicati. Bisogna, dunque, in primo luogo — disse — far sì che gli uomini non conoscano in precedenza il giorno della loro morte, come accade oggi; anzi, si è già dato ordine a Prometeo perché tolga di mezzo questo inconveniente. In secondo luogo dovranno, dunque, esser giudicati da morti, nudi cioè, spogli da tutti questi ostacoli. E nudo, cioè morto, dovrà essere anche il giudice, sì che, direttamente esaminando, anima di fronte ad anima, sùbito dopo la morte, senza tutto quell’accompagnamento di parenti, senza tutto quell’apparato che in terra circonda la gente, giusto sia il giudizio.»20

Nel brano del Politico sembra si faccia cenno alla distinzione di giudizio tra buoni e malvagi quando si parla da una parte di coloro che ringiovaniscono, dall’altra di quelli «che morirono di una morte violenta». Nel libro decimo delle Leggi l’Ateniese inoltre si esprime con queste parole: «“Questa è la sentenza degli dèi che risiedono nell’Olimpo”, o figlio, ragazzo che ti credi abbandonato dagli dèi; chi diventa peggiore va dove sono le anime peggiori, chi diventa migliore dove sono le anime migliori e in vita e in morte, in tutte le morti successive, il simile riceverà dal simile tutto ciò che si conviene all’uno di fare all’altro e così per quanto riguarda il fare del primo. Né tu mai né nessun altro sventurato, se tale venga ad essere, potrete vantarvi di sfuggire a questa giustizia degli dèi, giustizia posta al di sopra di tutte le giustizie dai suoi ordinatori e che gli uomini devono in modo assoluto evitare. Non ti trascurerà mai, nemmeno se tu fossi così piccolo da immergerti nelle profondità della terra, nemmeno se tu diventassi così grande da volare fino al cielo. Tu agli dèi pagherai la tua pena sia che tu rimanga qui, sia che tu scenda nell’Hade, sia che sia portato in un luogo più selvaggio ancora di questi. Lo stesso discorso vale per te e per coloro dei quali fanno parte quelli che tu hai visto da piccoli divenuti grandi operando opere empie o similmente ingiuste, e li hai creduti divenuti felici da infelici che erano, e poi nei loro atti come in uno specchio hai creduto di aver visto la negligenza degli dèi verso tutte le cose, non sapendo in qual modo mai il loro contributo si armonizza al tutto.»21

Socr. il G. Ma quale era, straniero, nel periodo allora iniziatosi il nascere degli animali? In che modo si generavano gli uni dagli altri? Stran. È chiaro, Socrate, che in quel periodo, conseguentemente alle condizioni naturali di allora, il genere dei viventi non derivava dall’accoppiamento reciproco. Quel genere invece che si dice esserci stato un tempo, ed essere il genere dei figli della terra, è proprio esso quello che c’era allora e risorgeva alla vita dalla terra e il ricordo ne veniva tramandato dai nostri progenitori più antichi, i quali vivevano nel tempo immediatamente successivo alla fine del ciclo che ci precede e cioè nascevano all’inizio di questo; furono infatti essi che si fecero per noi araldi di quei racconti cui ora molti, a torto, non prestano fede. A torto; infatti, io credo, è necessario por mente a ciò che consegue a quell’inversione. Questo è infatti conseguente al ritorno dei vecchi all’età infantile, e cioè che i morti, giacenti entro la terra, ivi stesso sopra quella terra si ricompongano e tornino alla vita e seguano l’inversione del moto per cui il nascere si sviluppa in un ciclo opposto al precedente. E sorgendo allora così necessariamente come figli della terra, il nome e i discorsi che si fanno su di loro hanno origine da questi fatti, e ciò vale per quanti di loro non furono dalla divinità guidati ad altro destino. [271 a-c]

Per evitare equivoci, occorre distinguere tra questi «figli della terra» e i «veramente seminati nella terra» di cui lo straniero aveva parlato nel Sofista:22 questi ultimi sono infatti simili ai violenti e ribelli Titani, in lotta contro coloro che sono «gli amici delle forme»,23 mentre i «figli della terra» di cui ora si parla rappresentano gli uomini rinati nel periodo in cui Dio reggeva il Cosmo, cioè nel primo ciclo in cui, «il genere dei viventi non derivava dall’accoppiamento reciproco». Come è evidente, Platone però non facilita la comprensione delle caratteristiche proprie a ciascun ciclo; tuttavia è necessario tener fermo che i cicli non possono essere più di tre: 1. se in un ciclo il Cosmo ottiene una condizione di immortalità, questo ciclo è ultimo e definitivo; 2. esso deve essere posteriore al ciclo attuale, che si caratterizza come avviato al dissolvimento totale; 3. questo ciclo storico deve essere stato preceduto da quello della generazione del Cosmo.24

Quanto all’affermazione dello straniero, che «il ricordo ne veniva tramandato dai nostri progenitori più antichi», essa è il principio fondamentale di ogni concezione arcaica, la quale fa sempre riferimento alla tradizione tramandata dai progenitori, da coloro che furono presenti alla creazione del Cosmo, o che vissero «nel tempo immediatamente successivo alla fine del ciclo che ci precede». Questo principio, che corrisponde al principio di autorità se riferito alla tradizione mitica dei Greci, è stato assunto come principio dell’intelletto, ovvero oggetto fondante l’intelletto, da Platone, che ha intuito come esso corrisponda nella sua essenza al principio di ragione, e ne indica una possibile dimostrabilità.

Socr. il G. Questa è dunque certa conseguenza di quanto precede. Ma quel modo di vita che tu dici esserci stato al tempo della potenza di Crono, pensi tu che fosse nel ciclo precedente al nostro o nel nostro? È chiaro infatti che il mutamento del moto degli astri e del sole avviene sia in un caso che nell’altro dell’inversione. Stran. Tu hai seguito benissimo il discorso. Quanto poi hai chiesto intorno al tempo in cui tutti i beni spontaneamente si offrivano agli uomini non si riferisce per nulla al ciclo che c’è ora, anche ciò invece accadeva nel ciclo precedente. [271 c-d]

La domanda di Socrate il Giovane permette allo straniero di riprendere da capo la descrizione della vita del Cosmo, e di inserire il mito di Dio come pastore del genere umano.

Allora infatti, fin dal principio, il dio reggeva la rotazione stessa e la curava nella sua totalità, e, come ora avviene per alcuni luoghi, in quel tempo le parti del cosmo erano universalmente suddivise sotto la direzione di un congruo numero di divinità; ed anche gli animali erano stati distribuiti in generi ed in gruppi sotto la guida di demoni che n’erano quasi pastori divini, e ciascuno di questi era in tutto e per tutto autosufficiente nel soddisfare i bisogni di ciascun gruppo di quelli, gruppo cui esso stesso era appunto pastore, e così non ve n’era alcuno selvaggio né gli uni servivano agli altri di cibo e non v’era posto né per la guerra né per la rivolta in modo assoluto. Sarebbero innumerevoli le altre cose da dirsi volendo elencare tutte le conseguenze di un simile ordinamento dell’universo. [271 d-e]

Il Cosmo, dunque, generato da Dio secondo il Timeo, è retto inizialmente da Dio stesso, che era pastore degli uomini come i dèmoni lo erano delle specie animali, così che regnava ovunque la pace e la concordia, «né gli uni servivano agli altri di cibo e non v’era posto né per la guerra né per la rivolta in modo assoluto.» Questa concezione mitica, che ha il precedente in Esiodo, è qui retta da un’interna razionalità o, se vogliamo, da una convenienza intrinseca che è tipica della razionalizzazione platonica dei miti. Indicativa sarà in proposito l’espressione che incontreremo nella presentazione della «storia tutta vera» della guerra tra Atlantide e Atene, che verrà presentata «secondo la storia e la legge di Solone»,25 espressione che nel linguaggio platonico significa una razionalizzazione di quanto si narra («secondo […] la legge di Solone»). Anche nel Timeo e nel Crizia si tornerà a parlare della distribuzione di parti del Cosmo agli dèi, poiché per Platone il rapporto tra intero e parti del Cosmo è dato da quello tra Dio (divinità assoluta) e dèi (da lui generati: «O dèi, figli di dèi, io sono il vostro artefice e padre, e le cose generate per mezzo mio non sono dissolubili, se io nol voglio»).26

È qui da sottolineare l’assenza di guerre e di rivolte, poiché regnava una concordia naturale dovuta alla concordia che regna tra gli dèi.27 L’universo divino, per il suo intrinseco carattere di intellegibilità, è in sé armonioso; e se troviamo disarmonia nel Cosmo corporeo, essa è dovuta al fatto che Dio, dopo averlo generato, lo ha lasciato a se stesso perché facesse esperienza della propria autonomia.

Quanto poi a ciò che viene detto degli uomini, riguardo a quel loro modo di vita per cui si offriva loro spontanea la soddisfazione dei loro bisogni, eccone la ragione. La divinità stessa li guidava al pascolo e presiedeva loro, come fanno ora gli uomini, i quali, animali più vicini degli altri alla natura divina, guidano al pascolo gli altri generi di viventi di loro meno nobili. Sotto quella guida del dio non v’era bisogno né di costituzioni di stati né dell’acquisto di donne e di figli;28 tutti infatti risorgevano alla vita dalla terra, e senza conservare alcun ricordo di ciò che era stato prima; ma se tutto ciò mancava, frutta senza limite avevano dagli alberi e dalle altre numerosissime piante, non certo prodotto di opere agricole, ma spontaneamente producendoli il suolo. Senza vesti, senza letto, vivevano all’aria aperta la maggior parte del tempo loro, infatti le stagioni erano tutte ben temperate in modo che essi non ne subivano noia alcuna, ed avevano teneri giacigli fatti con l’erba che cresceva dalla terra senza limitazione. [271 e-272 a]

Lo straniero torna a dire che gli uomini «risorgevano alla vita dalla terra», e sembra confermare la credenza nella reincarnazione con le parole «senza conservare alcun ricordo di ciò che era stato prima». Ma, come abbiamo detto, si tratta di un’espressione di copertura rispetto ad una concezione diversa e complessa, che vuole l’anima nata prima del corpo in quanto causa del movimento di questo.29 Se infatti per un verso si può pensare ad una umanità primitiva, semplice, senza malizia, come la troveremo nel terzo libro delle Leggi dopo ogni cataclisma, il fatto però che qui si neghi l’«acquisto […] di figli» mostra che siamo fuori della storia, e che il primo ciclo è quello in cui Dio genera il Cosmo e le anime, le quali certamente non si generano le une dalle altre. Nulla impedisce peraltro di pensare che il primo ciclo metastorico sia composto da due ‘periodi’, entrambi positivi: il primo, della generazione metafisica delle anime; il secondo, della generazione fisica del Cosmo e del regno di Crono. In questo secondo periodo gli uomini nascono dalla terra, cioè senza generazione sessuale, ‘non ricordando’ più il periodo precedente in cui erano state generate le loro anime.

La vita dunque di cui ascolti, Socrate, è la vita degli uomini del tempo di Crono; questa invece, che si dice essere del tempo di Zeus, questa di ora, tu stesso la conosci per diretta esperienza; potresti tu ora, e vorresti, giudicare delle due quale comporta maggior felicità? SOC. IL G. Per nessuna ragione. Stran. Vuoi dunque che in qualche modo giudichi io per te? Socr. il G. Certo. Stran. Se dunque i rampolli di Crono, i quali avevano così grande disponibilità di tempo e potere di stabilire relazioni e conversazioni non solo fra uomini, ma anche con le bestie, facevano uso di tutte queste condizioni in funzione della filosofia, discorrendo appunto fra loro e con gli altri animali, e interrogando tutte le specie animate per sapere se una ve ne fosse che per una sua particolare capacità avesse mai potuto conoscere qualche cosa a tutto superiore nel procurar grande apporto al tesoro della intelligenza, sarà allora facile giudizio dire che quelli di allora incommensurabilmente eccellevano per felicità su gli uomini di ora, ma se invece riempiendosi fino alla sazietà di cibo e di bevanda parlavano fra di loro e con gli animali dicendo ciò che proprio anche ora si dice attribuendolo ai loro discorsi, anche questo caso, per dire almeno quel che ne pare a me, è molto facile a giudicarsi. Tuttavia, dico io, lasciamo perdere l’una e l’altra cosa, fino a che non compaia chi ci sappia spiegare bene se quelli d’allora avevano o no desiderio di scienza e di usare del discorso. Ciò al cui fine noi ridestammo il mito, questo noi dobbiamo dire, in modo che possiamo portare avanti e concludere la trattazione di ciò che ancora ci resta da vedere. [272 a-d]

La concezione filosofica di Platone è sempre profondamente religiosa, perché la natura umana tende essenzialmente a Dio, il Bene in sé; e ciò non solo in quanto nell’attuale età di Zeus gli uomini siano sollecitati a ricercare un ‘medico’ contro i mali, ma perché essi sono di per sé attirati dal Bene.30 Quello che dobbiamo tenere presente è che la concezione platonica vede l’anima umana come un ‘intero privo di parti’, le quali sono gli intellegibili di cui le cose sono imitazione. La conoscenza (questo colloquiare con gli animali) è per ciò un realizzarsi dell’anima proprio in quanto intero:31 con la distinzione che lo straniero avanza, si chiarisce che il ‘Dio pastore’ guidava gli uomini attraverso il colloquio che essi effettuavano con la natura («interrogando tutte le specie animate») per poter acquisire tutte quelle conoscenze che, quasi sparse nei vari esseri, formano le parti intelligibili di cui l’anima umana è l’intero.32

È da ricordare infatti che Platone, analogamente alla nutrizione del corpo, parla di una nutrizione spirituale che si ha attraverso la conoscenza.33 Tutto questo è un avvicinarsi a Dio, un unirsi a Lui, un farsi simile a Lui. Comprendiamo meglio la posizione di preminenza, rispetto alle altre, della società naturale al di sopra delle leggi che Socrate aveva tratteggiato nella Politeia: si tratta di una società che cerca di modellarsi su quella che vi era quando Dio era il pastore degli uomini, ovvero quando l’umanità era priva di malizia per la sua semplicità.

Come fu compiuto, infatti, il periodo di tutti questi avvenimenti, e già era l’ora della necessaria inversione, quando ormai anche tutto il genere dei figli della terra era scomparso, poiché ciascun’anima aveva pagato tutto il suo tributo di nascite e di rinascite, e per tante volte, quante ne aveva avute in sorte, ciascuna era ricaduta sulla terra come seme, proprio allora il pilota dell’universo tutto, quasi abbandonando la barra dei timoni, si ritirò nel suo posto d’osservazione, e allora furono il destino ed una innata tendenza a volgere il cosmo nel corso del suo nuovo ciclo. [272 d-e]

Torniamo innanzitutto a ripetere che la metempsicosi di cui parla Platone è per lui un mito; e infatti il «tributo di nascite e rinascite» riguarderà il primo ciclo e non l’attuale: che senso ha infatti che le anime debbano pagare questo tributo se la vita che conducono sotto Dio pastore è perfetta? Il passaggio dal primo al secondo ciclo (al ciclo storico) è dato dall’abbandono del Cosmo da parte di Dio: il Cosmo diventa autonomo perché la generazione è compiuta, ed esso e gli esseri che lo abitano devono emanciparsi dalla tutela divina, devono sperimentare in qualche modo la libertà che deve caratterizzarli, affinché non siano dei ‘giocattoli degli dèi’.

Avvalendosi dell’impostazione mitica che ha voluto dare al proprio discorso, Platone evita di dare ragione del perché dell’abbandono del mondo da parte di Dio; piuttosto ricorda «il destino ed una innata tendenza a volgere il cosmo nel corso del suo nuovo ciclo.» Se questo destino all’interno del suo pensiero non è affatto facile da chiarire per la scarsità degli elementi che possiamo reperire nei suoi scritti, in migliori condizioni ci troviamo per l’«innata tendenza» alla propria distruzione che il Cosmo possiede. Ma di ciò, tra poco.

Tutti gli dèi allora, i quali nei singoli luoghi governavano in accordo con quella più grande divinità, resisi conto di ciò che già accadeva, abbandonarono anch’essi la sezione del cosmo affidata alla loro responsabilità. E il cosmo invertendo il suo cammino, scontrandosi nelle sue parti, sotto la spinta di due impulsi opposti, l’uno terminale, l’altro iniziale, provocò in se stesso un grande scuotimento e di qui determinò ancora un’altra strage di animali d’ogni specie. Dopo di che, passato il tempo necessario, cessato ormai per esso il tumulto e lo sconvolgimento, e conseguita da parte sua la calma da quegli scuotimenti, esso continuò ad andare conformemente alla sua propria carriera consueta, esso stesso interessandosi ed avendo potere su ciò che ad esso inerisce e su di sé, ricordando, nei limiti delle sue possibilità, l’insegnamento del suo artefice e padre. [272 e-273 b]

Si sottintende che il Cosmo è un essere vivente: «dio sensibile», secondo l’espressione usata nel Timeo;34 e dicendo «esso stesso interessandosi», si allude appunto a questa concezione. Con tale trapasso traumatico si entra nel secondo ciclo temporale: quello storico, in cui ci troviamo, e che tende alla dissoluzione totale. Imitando Dio, anche gli dèi abbandonano le loro sedi, lasciando in balia di se stessi le parti e gli animali del Cosmo, il quale tuttavia ‘ricorda’, «nei limiti delle sue possibilità, l’insegnamento del suo artefice e padre», vale a dire mantiene la struttura intellegibile, anche se questa non è più tenuta ferma dal volere di Dio, ma vada via via allentandosi.

In principio ciò dunque compiva in modo più perfetto, alla fine del ciclo con minore approssimazione, e la causa ne è la parte corporea della sua struttura e composizione, la condizione connaturata ad esso dalla sua natura antica d’un tempo, poiché era affetto da un grande disordine prima di giungere all’ordine attuale. E infatti tutto ciò che ha di bene lo ha ricevuto dal suo organizzatore, ma dalla sua primitiva condizione, quante sono le difficoltà ed imperfezioni che si verificano nell’universo, tutte da quella ad esso derivano ed in tutti gli animali esso le ingenera. [273 b-c]

Tutto il Fedone è un tentativo di dimostrare l’immortalità dell’anima, ed una prova particolare viene avanzata anche nel libro decimo della Politeia;35 nel Timeo tuttavia viene chiaramente affermato, in modo definitivo, che l’anima è immortale non per sua propria natura, ma per solo volere divino.36 A maggior ragione questo vale per il Cosmo che è l’insieme dei corpi: abbandonato a se stesso, il Cosmo tende a perdere sempre più i legami razionali (i «chiodi invisibili») che tengono unite le sue parti, fino a mostrare il proprio fondo irrazionale a partire dal quale Dio ha iniziato la propria opera demiurgica. Questa «sua primitiva condizione» è descritta nel Timeo come «quanto di visibile che non stava quieto, ma si agitava sregolatamente e disordinatamente», ovvero come «la natura dell’altro [diverso] che ricusava di mescolarsi»,37 e nello stesso Politico «mare infinito della dissomiglianza», come vedremo tra breve.

E così quando si trovava ad allevare in sé gli animali con l’aiuto del suo pilota, erano piccola cosa i mali, ma grandissimi i beni che esso produceva, quando invece è separato da lui, ogni volta che ciò accade, nel tempo immediatamente successivo all’abbandono tutto conduce benissimo, però col passare dei giorni, sopravvenendo in esso l’oblio, sempre di più si rafforza anche il potere dell’antica affezione sua del disordine, e allo scadere del tempo questo è di nuovo in pieno fiore e poca cosa sono i beni molti invece i mali ch’esso mesce entro il suo seno e giunge così presso al pericolo di distruggere se stesso e ciò che in esso è compreso. [273 c-d]

Questo percorso temporale, a partire dall’abbandono del Cosmo da parte di Dio, è la parabola propriamente storica, che da Platone è giudicata come volta all’auto-distruzione, ad impedire la quale è diretto l’intervento successivo di Dio. La sufficiente misura di essere fa sì che le cose siano buone: «piccola cosa i mali, ma grandissimi i beni». Poiché però il bene ‘unisce e contiene ciò che unisce’, come abbiamo visto nel Fedone, l’abbandono del Cosmo da parte di Dio, cioè da parte del Bene in sé, determina che il Cosmo stesso debba da solo fare uso del bene che possiede, cercando di mantenersi ‘unito’ il più possibile. Allontanatosi Dio, l’autonomia di beni del Cosmo non è più in grado di preservarlo da una lenta disgregazione, da un lento regredire verso il non essere, per il sopraggiungere in esso di ‘oblio’, dato dal venir meno di elementi intellegibili: diminuendo nel Cosmo ciò che è di ordine intelligibile ne viene meno la struttura; e sembra quasi che esso perda memoria di sé e del suo rapporto con il suo Fattore.38

È chiara la valenza morale di tutto il mito narrato dallo straniero, che, non dobbiamo dimenticare, sta parlando in funzione della definizione dell’uomo politico, cioè dell’uomo capace di governo su di sé, e che per ciò verrà detto ‘uomo regale’, di contro al quale sta la figura del tiranno delineata nella Politeia.39 In scala minore, analoga è la decadenza della potenza regale di Atlantide; come è analoga la ‘caduta’ in se stesso dell’uomo malvagio nell’al di là, descritta nel Gorgia.40 Cosmo, Atlantide, malvagio, allentato l’abbraccio del Bene, non sono capaci di autogoverno, e vanno verso la perdita della proprio unità e dunque del proprio essere.

È proprio per questa ragione che il dio che già una volta l’ha ordinato, vedendolo in difficoltà estreme, preoccupandosi che sconvolto dalla tempesta, sotto il suo infuriare non si dissolva e si inabissi nel mare infinito della dissomiglianza, ritornando a sedere al timone di quello e volgendo a nuovo corso ciò che nel tempo precedente, in cui l’universo era abbandonato a se stesso, si ammalò e si dissolse, l’ordina ancora e lo raddrizza e così lo rende immortale e senza vecchiaia. [273 d-e]

L’intervento di Dio capovolge la precedente concezione pessimistica in quella ottimistica di una salvezza del Cosmo e dell’umanità. Non si tratta però di una salvezza storica e temporale del Cosmo, poiché Dio «lo rende immortale e senza vecchiaia». È questo dunque un rinnovamento radicale, un mondo diverso, una condizione simile a quella descritta da Socrate nel Fedone, alla quale abbiamo accennato.41 Non più il prevalere del movimento circolare del diverso, ma quello dell’identico; non più l’allentamento degli elementi intellegibili, ma il loro definitivo fissarsi. Analogo è negli uomini il passaggio da un sapere disorganico basato sull’opinione al sapere scientifico della conoscenza in quello stesso ambito, come ad esempio la matematica. Che il Cosmo diventi «immortale e senza vecchiaia» significa che quel delirio di Dioniso, attualmente ritenuto di scarso valore perché, terminata la presenza del dio nell’individuo, questi non subisce miglioramento, ora invece diviene essenziale alla sua beatitudine, poiché l’invasamento non avrà più fine.42

Con ciò dunque siamo giunti a dire la fine del mito; per quanto riguarda invece la definizione del re basta che noi riprendiamo il discorso movendo da quanto precede. Quando il cosmo infatti invertì il suo cammino e prese la via che va nel senso della generazione attuale, anche allora venne a fermarsi ancora una volta il progredire dell’età degli animali sì che agli animali d’allora forniva condizioni di vita nuove ed opposte in cambio di quelle precedenti. Gli animali infatti che poco mancava fossero del tutto scomparsi divenendo sempre più piccoli, tornavano a crescere, e i corpi invece da poco sorti dalla terra canuti morendo tornavano a sommergersi nel seno della terra. Anche tutte le altre cose mutavano ad imitazione e per adeguamento a quanto subiva il tutto ed anche, necessariamente, si conformava al tutto l’imitazione nella gravidanza, nella generazione e nell’allevamento dei figli. Non era infatti più possibile allora che l’animale fosse generato nella terra per un processo di composizione ad opera di elementi diversi da esso, ma invece, come era stato comandato all’universo d’essere signore del suo cammino, così pure era stato disposto, con il simile indirizzo, che anche le stesse sue parti, analogamente, per quanto era possibile, da se stesse producessero generassero allevassero. [273 e-274 a]

Certamente le espressioni «anche allora […] ancora una volta» sembrano fare riferimento a ciò che ‘in precedenza’ è avvenuto; ma nel caso specifico a me pare che si debba intendere che lo straniero fa riferimento a quanto ha già detto, non a quanto è già avvenuto. Se è così che si deve leggere, allora questo progredire dalla vecchiaia alla giovinezza avviene nel momento di trapasso dalla generazione delle anime alla nascita nei corpi. Questo ci riporta al mito della ‘biga alata’, nel quale è detto che le anime seguono gli dèi nel loro volo per il cielo, fino a raggiungere la Pianura della Verità: «La vera ragione per cui le anime si affannano tanto per scoprire dove sia la Pianura della Verità è che lì in quel prato si trova il pascolo congeniale alla parte migliore dell’anima e che di questo si nutre la natura dell’ala, onde l’anima può alzarsi.»43 L’essere ‘canuto’ rappresenta per ciò l’aver raggiunto la contemplazione della Pianura della Verità, alla quale poi fa seguito la ‘caduta’ in un corpo, ringiovanendo fini quasi a sparire, e cioè a svuotarsi di tutte quelle parti di cui l’anima si era saziata, tanto da non ricordare più nulla.

Fuori del mito, Platone ci ha descritto la formazione dell’anima umana da parte di Dio, composta di identico (identico dell’intero Intellegibile divino, e dunque anche esso intero) e di diverso, uniti nel misto. Si tratta di un intero vuoto di parti per la perdita di ‘memoria’ della Verità nel momento di unirsi al corpo. Dicendo «come era stato comandato all’universo d’essere signore del suo cammino», Platone presenta l’allontanamento di Dio come una prova di responsabilità dell’universo, una condizione di scelta tra bene e male; e analogamente l’uomo diviene ‘signore’ della generazione della specie attraverso l’accoppiamento. Egli ci ha dunque descritto tre diverse modalità della nascita umana, che nell’ordine cronologico dei cicli descritti sono i seguenti:

  1. Dio genera le anime (fuori del tempo) e le guida nel periodo metastorico: primo ciclo;
  2. gli uomini nascono mediante procreazione: secondo ciclo;
  3. gli uomini rinascono in un altro mondo, reso «immortale e senza vecchiaia»: terzo ciclo.

La «larga parte di un lungo mito», assieme a quello della formazione del Cosmo esposto nel Timeo, ha permesso a Platone di presentare una concezione che, prendendo le mosse dalle cinque età di Esiodo, dà plausibilità ad un discorso legato a miti antichissimi, tra loro ormai senza più connessione.44 Egli fa tutta una serie di considerazioni sulla storia, tratte dal mito, che vorrebbe non andassero perse; e vi ritorna con la storia di Atlantide, narrata nel Timeo e nel Crizia, e con quella della fondazione della civiltà cittadina, di cui parla nel terzo libro delle Leggi.

Nel Politico intanto abbiamo visto il quadro generale della storia del Cosmo: il Cosmo, opera di Dio, da Lui inizialmente retto con l’aiuto di dèi e demoni, vive attualmente un periodo che va verso l’autodistruzione, ma esso è destinato a un’immortalità. È la parabola che caratterizza ogni uomo, per il lento venir meno dei legami che tengono insieme l’essere organico; ma la sua realizzazione ultima, al di là della storia, si attua al riparo della corruzione, almeno per colui che non soggiace alla condanna di una dissoluzione senza fine («quelli che morivano di morte violenta»).

A questo punto si può proporre uno schema di tutta questa parte, integrata con elementi presenti in altri dialoghi, che dà un quadro generale della concezione platonica.

Schema dei cicli cosmici:

  • I ciclo
    1. generazione dell’Anima cosmica come misto di identico e di diverso, e sua unione ai quattro elementi fisici (fuoco, aria, acqua, terra) da parte del Demiurgo; suo girare nella direzione dell’identico;45
    2. generazione delle anime umane da parte del Demiurgo, e loro unione ai corpi da parte degli dèi;46
    3. volo delle anime, sotto forma di ‘biga alata’, al seguito degli dèi, e loro ‘pascolo’ nella Pianura della Verità: mito dell’età di Crono e di Dio pastore;47
    4. caduta delle anime nei corpi (ivi):48 mito del ringiovanimento e della perdita della memoria (mito della conoscenza come reminiscenza).
  • II ciclo
    1. nascita degli uomini come ‘figli della terra’, i corpi ‘organizzati da elementi diversi’, cioè da quelli dell’anima: identico, diverso, misto;
    2. età di Zeus;
    3. il Cosmo procede verso il «mare infinito della dissomiglianza».
  • III ciclo
    1. mito del ringiovanimento: le anime si spogliano del corpo per il giudizio nell’Ade;49
    2. il Cosmo è reso immortale e privo di vecchiaia: punizione eterna dei malvagi (Gorg. 492 e-493 c; Resp. X 615 d-616 a); beatitudine eterna dei giusti (Phaed. 113 d-114 c; Symp. 204 a ss; Phaedr. 265 b).

È da dire in aggiunta che il mito esiodeo di Urano, Crono e Zeus, in Platone viene utilizzato per alludere ad una Divinità assoluta della quale le tre divinità greche risultano ‘componenti’. A questa conclusione ci spingono alcuni passi platonici.

  1. Sofista: «Stran. E allora per Zeus? Ci faremo persuadere così facilmente che in realtà il moto, la vita, l’anima, l’intelligenza non ineriscono a ciò che assolutamente è, ch’esso né vive né pensa, ma invece venerabile e santo, senza intelletto, se ne sta fermo, immoto?»;50
  2. Filebo: «Socr. Se dunque noi non possiamo cogliere ed esaurire il bene in una sola nota caratteristica, comprendendolo sotto tre di queste, bellezza, proporzione e verità, affermiamo che a tutto ciò come a una sola unità possiamo con massima correttezza attribuire la causa di ciò che avviene nella mescolanza e che quest’ultima per virtù di tale unità, che noi conosciamo come bene, risulta quella che è.»;51
  3. Parmenide: l’Uno in sé, l’Uno che è, l’Uno che deriva dalla loro unione o che dà la loro unione;52
  4. Lettera II: «Le cose stanno così. Tutto sta intorno al re del tutto, e tutto è per esso, e tutte le cose belle sono da esso; le cose seconde stanno intorno al secondo; le terze intorno al terzo. Or dunque l’anima umana tende a conoscere com’esse sono e guarda alle cose che le sono affini, ma di queste nessuna è bastevole. Per quanto riguarda il re e le cose che ho dette, nulla c’è di simile. Allora l’anima si domanda: “Di che specie sono? ”. E questa è la domanda, o figlio di Dionisio e di Doride, ch’è causa di tutti i mali; o piuttosto la doglia che si genera nell’anima per rispondervi, e dalla quale essa deve essere liberata, se vuole giungere realmente alla verità.»;53
  5. Lettera VI: «Questa lettera leggetela tutti e tre insieme, se lo potete: se no, a due alla volta; e fatelo il più spesso possibile, considerandola quasi come il testo di un patto e di una legge inviolabile, com’è giusto: giuratelo con una serietà priva di rigidezza, e con quella giocosità che suole accompagnarsi con la serietà: giuratelo in nome del dio ch’è guida di tutte le cose presenti e future, e del padre signore della guida e della causa, che noi tutti conosceremo, se saremo davvero filosofi, per quanto è dato ad uomini beati.»;54
  6. Terne ricorrenti i molti dialoghi: bellezza, verità, bene.

La precisazione di tale concezione, e cioè di un Dio ‘trino’, ci permette di comprendere la composizione ternaria dell’Anima del cosmo e delle anime umane, nonché quella, ugualmente ternaria, dei corpi. questo consente inoltre di comprendere come Dio pastore non sia una Dio che guidi il Cosmo e l’uomo dall’esterno, ma dal loro interno, e come egli non sia «un artefice ozioso o vile che lavora con negligenza per non affaticarsi».

Quanto poi al fine cui si è mosso tutto il nostro discorso, ora noi già ci siamo. Per gli altri viventi infatti sarebbe lungo e molteplice dire di dove muovendo e sulla base di quali cause specifiche ciascuna specie ha invertito il corso e il modo della sua vita, ma sugli uomini invece il discorso è più breve ed è poi ciò che di più ora conviene al nostro assunto. E infatti, privati della sorveglianza del demone che li teneva come un pastore, mentre gli altri molti animali (quelli dei quali la natura era aspra) si inselvatichirono, gli uomini, rimasti deboli e senza custode, venivano fatti a brani da quelli ed erano nei primi tempi ancora privi di mezzi e di arte: essendo venuta a mancare loro l’alimentazione che si offriva spontanea, non sapevano come procurarsela per il fatto che prima non v’erano stati per nulla costretti dal bisogno. Per tutto ciò erano in difficoltà gravissime ed è di qui che ci sono stati donati i doni, come si dice nelle antiche leggende, da parte degli dèi, insieme al necessario insegnamento ed educazione ad usarli; il fuoco venne da Prometeo, le arti invece da Efesto e dalla sua compagna d’arte, da altri ancora i semi e le piante. E tutto che è stato d’aiuto nell’organizzare la vita umana da questi doni è disceso, poiché come or ora si disse, la sorveglianza diretta degli dèi abbandonò gli uomini e bisognava che essi stessi da sé dirigessero se stessi e badassero a sé, così come fa l’intero universo, imitando il quale, e seguendolo, noi sempre viviamo e veniamo al mondo, ora così, allora in quell’altro modo. [274 a-d]

L’accenno al mito dei doni degli dèi agli uomini primitivi ci permette di legarci alla narrazione di un altro mito che troviamo nel Protagora: il mito della formazione dell’uomo.

2. Il mito della formazione dell’uomo

Protagora, nel dialogo che porta il suo nome, inizia in questi termini il mito sulla formazione dell’uomo:

Tempo vi fu in cui esistevano gli dèi, ma non le stirpi mortali. Poi che giunse anche per le stirpi mortali il momento fatale della loro nascita, gli dèi ne fanno il calco in seno alla terra mescolando terra e fuoco e tutti quegli elementi che si compongono di terra e di fuoco. [274 a-e]

Come si vede, anche qui Platone parla della formazione del primo uomo come di un essere costituito di terra e degli altri tre elementi. Cita «terra e fuoco» perché sono gli elementi estremi: in modo analogo si esprime nel Timeo parlando del Cosmo, che il Demiurgo volle fosse tangibile e visibile; ma poiché terra e fuoco non si mescolano tra di loro, ne creò uno mediano, ma doppio: acqua e aria.55

Ma nell’atto in cui stavano per trarre alla luce quelle stirpi, ordinarono a Prometeo e a Epimeteo di distribuire a ciascuno facoltà naturali in modo conveniente. Epimeteo chiede a Prometeo che spetti a lui la cura della distribuzione: «E quando avrò compiuto la mia distribuzione — dice — tu controllerai. E così, avendolo persuaso, si pone a distribuire. Ora, nel compiere la sua distribuzione, ad alcuni assegnava forza senza velocità, mentre forniva di velocità i più deboli; alcuni armava, mentre per altri che rendeva per natura inermi, escogitava qualche altro mezzo di salvezza. A quegli esseri che rinchiudeva in un piccolo corpo, assegnava ali per fuggire o sotterranea dimora; quelli che, invece, dotava di grande dimensione, proprio con questo li salvaguardava. E così distribuiva tutto il resto, sì che tutto fosse in equilibrio. Ed escogitò tale principio preoccupandosi che una qualche stirpe non dovesse estinguersi. Dopo che li ebbe provvisti di mezzi per sfuggire le reciproche distruzioni, escogitò anche agevoli modi per proteggerli dalle intemperie delle stagioni di Zeus: li avvolse, così, di folti peli e di dure pelli, che bastavano a difendere dal freddo, ma che sono anche capaci di proteggere dal caldo e tali inoltre da essere adatti quali naturale e propria coperta a ciascuno, quando avessero bisogno di dormire. E sotto i piedi ad alcuni dette zoccoli, ad altri unghie e pelli dure prive di sangue; ad alcuni procurava un tipo di alimento, ad altri un altro tipo; ad alcuni erba della terra, ad altri frutti degli alberi, ad altri ancora radici; ad alcuni poi dette come cibo la carne di altri animali, ma a questi concesse scarsa prolificità, mentre a quelli che n’erano preda abbondante prolificità, sì che la specie loro si conservasse. Solo che Epimeteo, al quale mancava compiuta sapienza, aveva consumato, senza accorgersene, tutte le facoltà naturali in favore degli esseri privi di ragione: gli rimaneva ancora da dotare il genere umano e non sapeva davvero cosa fare per trarsi di imbarazzo. Proprio mentre si trovava in tale imbarazzo sopraggiunse Prometeo a controllare la distribuzione: vede che tutti gli altri esseri viventi armoniosamente posseggono di tutto, e che invece l’uomo è nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi: era oramai imminente il giorno fatale, giorno in cui anche l’uomo doveva uscire dalla terra alla luce. [320 d-321 c]

È messa in evidenza, con una certa comicità, la diversità di natura tra animali e uomini: Epimeteo, che ha ben distribuito le caratteristiche delle singole specie animali per la sopravvivenza armonica di tutte, non è all’altezza della natura specifica dell’uomo, che rimane «nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi». Il significato stesso del suo nome mostra il salto di qualità tra animale e uomo: egli è ‘colui che impara solo dopo’, mentre Prometeo, ‘preveggente’, raffigura la capacità dell’uomo di antivedere. In termini platonici, questo significa il possesso di un apriori intelligibile che lo rende capace di conoscenza. Del resto, i due figli di Giapeto sembrano rappresentare le due realtà che compongono l’uomo: il corpo organico (e le due anime inferiori: l’anima concupiscibile e l’anima irascibile, comuni anche agli animali superiori) e l’anima razionale. Come si vede, la descrizione della nascita dell’uomo si lega al brano del Politico che abbiamo letto; ma mentre lì si parla del primo ciclo cosmico, quello di Crono, nel quale tutti gli esseri viventi vivevano in perfetta armonia sotto la guida dei dèmoni, qui essi sono presentati già preordinati ad avere qualità che li salvino da una reciproca aggressione che li distrugga completamente. In questo modo, come gli uomini ricevono dagli dèi le arti e le tecniche di sopravvivenza, ugualmente gli animali ricevono per provvidenza divina caratteristiche che ne preservino le specie da possibili estinzioni.

In questo brano, come poi sinteticamente anche nel Timeo, l’unione delle anime ai corpi, e dunque la determinazione della funzionalità organica di essi, è affidata da Dio (Demiurgo) agli dèi o a dèmoni, i quali proprio per ciò sono detti ‘pastori’ nel Politico: essi devono essere considerati i generatori della varietà delle specie animali, originariamente in armonia e in pace tra loro, e anzi, secondo il mito del Politico, capaci di ‘dialogo’ con gli uomini per indicare la via della saggezza e della religiosità.

Prometeo allora, trovandosi appunto in grande imbarazzo per la salvezza dell’uomo, ruba a Efesto e ad Atena il sapere tecnico [e\éntecnoz sofiéa], insieme con il fuoco — ché senza il fuoco sarebbe stato impossibile acquistarlo o servirsene — e così ne fece dono all’uomo. L’uomo, dunque, ebbe in tal modo la scienza della vita, ma non aveva ancora la scienza politica: essa si trovava presso Zeus; né più era concesso a Prometeo di andare nell’acropoli, ov’è la dimora di Zeus (e davvero temibili erano, per di più, le guardie di Zeus); riesce, invece, a penetrare di nascosto nella comune dimora di Atena e di Efesto dove essi lavoravano insieme, e, rubata l’arte del fuoco di Efesto e l’altra propria di Atena, le dona all’uomo, che con quelle si procurò le agiatezze della vita. Solo che, come si narra, più tardi Prometeo dovette, a causa di Epimeteo, pagare la pena del furto. [321 c-322 a]

La prima e immediata differenza tra animali e uomini è indicata dalla capacità o meno di usare delle tecniche a partire dal fuoco: nessuna specie animale infatti fa uso del fuoco, che anzi teme, anche se alcune non mancano di specifiche abilità tecniche. Come nel Timeo e nel Crizia, anche nel Protagora Atena ed Efesto vengono accomunati; e quello che qui è detto del genere umano nel suo sorgere, nei due dialoghi è detto degli Ateniesi, e cioè che essi ricevettero dalle due divinità le tecniche e il sapere, quasi a dire che gli Ateniesi sono gli uomini più vicini a quelli generati inizialmente dagli dèi. Gli uomini, pur non avendo ricevuto la «scienza politica» che li avrebbe resi capaci di convivenza pacifica e immuni da conflitti, ottenuta «l’arte del fuoco di Efesto e l’altra propria di Atena», sono ora predisposti ad acquisirla. L’arte di Atena, infatti, considerata dai Greci quella della tessitura, rappresenta qui più propriamente la dialettica, come ci suggerisce ad esempio la definizione di dialettica fatta nel Cratilo: arte del tessere, del tagliare, del trapanare.56 Se per ciò l’uomo non aveva ottenuto la ‘scienza di Zeus’, aveva ricevuto però quella della figlia, nata dalla sua testa ad opera di Efesto. Questo, come abbiamo già ricordato, fuori del mito rimanda alla teoria della partecipazione per la quale l’anima umana partecipa dell’intero Intelligibile divino, senza peraltro possederne le parti, che deve ricercare attraverso l’esperienza con la propria ragione.57

Come dunque l’uomo fu partecipe di sorte divina, innanzi tutto per la sua parentela con la divinità, unico tra gli esseri viventi, credette negli dèi, e si mise ad erigere altari e sacre statue; poi, usando l’arte, articolò ben presto la voce in parole e inventò case, vesti, calzari, giacigli e il nutrimento che ci dà la terra. Così provveduti, da principio gli uomini vivevano sparsi, ché non v’erano città. E perciò erano distrutti dalle fiere, perché in tutto e per tutto erano più deboli di quelle, e la loro perizia pratica, pur essendo di adeguato aiuto a procurare il nutrimento, era assolutamente insufficiente nella lotta contro le fiere; non possedevano ancora l’arte politica, di cui quella bellica è parte. Cercarono, dunque, di radunarsi e di salvarsi fondando città: ma ogni qualvolta si radunavano, si recavano offesa tra di loro, proprio perché mancanti dell’arte politica, onde nuovamente si disperdevano e morivano. [322 a-c]

In possesso del fuoco, «l’uomo fu partecipe di sorte divina»; e Socrate nel Filebo ricorda il fuoco di Prometeo sempre in termini mitici, ma più espliciti: «Un dono degli dèi agli uomini, così almeno mi pare, da un punto del cielo divino un giorno sulla terra fu gettato, per mezzo di un Prometeo, insieme ad un fuoco d’una chiarezza abbagliante».58 Si tratta della luce dell’intelletto, cioè della partecipazione dell’anima all’intero Intellegibile divino. Questo fuoco è ciò che permette all’uomo, «per la sua parentela con la divinità, unico tra gli esseri viventi», e quindi di credere «negli dèi».

Poiché però egli deve compiere un percorso storico di autonomia dal divino per raggiungere il divino stesso nel terzo ciclo, gli è stato fatto un ‘dono’: quello di Atena, cioè quello della dialettica, della ragione discorsiva, mediante il quale poter cogliere il «fuoco d’una chiarezza abbagliante» che è nell’intelletto, e che costituisce l’intelletto stesso, immerso però fin dalla nascita dell’individuo in una «barbarica melma», secondo le parole di Socrate nella Politeia: «Ebbene, dissi io, il metodo dialettico è il solo a procedere per questa via, eliminando le ipotesi, verso il principio stesso, per confermare le proprie conclusioni; e pian piano trae e guida in alto l’occhio dell’anima, realmente sepolto in una specie di barbarica melma».59 La scienza politica e l’arte politica, implicite nel principio, sono qualcosa che l’uomo deve conquistare con uno sforzo dialettico che Platone presenta nella Politeia come ‘scienza del Bene’. È questa scienza, e l’arte che ne consegue, che permette ai reggitori dello Stato di governare secondo norme razionali, e per ciò divine.

Qui intanto, nel mito del Protagora, l’uomo inizia il movimento di distinzione dagli animali dando luogo a quell’insieme di aspetti che costituiscono la civiltà: una seconda natura che lui stesso genera in se stesso; e Platone accenna a tre cose che l’umanità seppe fare grazie al dono divino di Prometeo:

  1. «credette negli dèi, e si mise ad erigere altari e sacre statue»;
  2. «poi, usando l’arte, articolò ben presto la voce in parole»;
  3. «e inventò case, vesti, calzari, giacigli e il nutrimento che ci dà la terra».

L’ordine può essere quello di valore o quello cronologico; ma a guardare bene, essi rappresentano un unico momento: essendo l’uomo un essere ‘divino’ per il possesso innato dell’Intelligibile divino di cui partecipa, nel momento in cui fa esperienza di qualcosa di sensibile, genera in sé un’idea che sta all’origine della parola. Il linguaggio esteriore (fonetico) infatti si struttura su quello interiore (pensiero), il quale è anteriore all’altro;60 e nello stesso tempo che genera il pensiero, l’uomo sente in sé qualcosa del divino. Distinto dagli animali e dagli Immortali, ma anche parente degli uni e degli altri a causa del furto di Prometeo da una parte, delle due anime inferiori dall’altra, l’uomo si pone al di sopra dei primi e al di sotto dei secondi, con la possibilità di innalzarsi a questi o di abbassarsi a quelli.

Allora Zeus, temendo per la nostra specie, minacciata di andar tutta distrutta, inviò Ermes perché portasse agli uomini il pudore e la giustizia affinché servissero da ordinamento della città e da vincoli costituenti unità di amicizia. Chiede Ermes a Zeus in qual modo debba dare agli uomini il pudore e la giustizia: «Debbo distribuire giustizia e pudore come sono state distribuite le arti? Le arti furono distribuite così: uno solo che possegga l’arte medica basta per molti profani e lo stesso vale per le altre professioni. Anche giustizia e pudore debbo istituirli negli uomini nel medesimo modo, o debbo distribuirli a tutti?». «A tutti, rispose Zeus, e che tutti ne abbiano parte: le città non potrebbero esistere se solo pochi possedessero pudore e giustizia, come avviene per le altre arti. Istituisci, dunque, a nome mio una legge per la quale sia messo a morte come peste della città chi non sappia avere in sé pudore e giustizia.» [322 c-d]

Come si vede, al mito di Prometeo ed Epimeteo Platone pone un’appendice con questo mito di Zeus e di Ermes. Il «sapere tecnico», basato in buona parte sul fuoco, diversifica le arti, così che «uno solo che possegga l’arte medica basta per molti profani e lo stesso vale per le altre professioni», ma per una convivenza civile, questa specializzazione non è sufficiente: è necessario che «pudore e giustizia» siano posseduti da ciascun cittadino. Ciò tuttavia non esclude la necessità, mostrata nella Politeia e nel Politico, che, oltre a quel «pudore e giustizia» in ciascuno, vi sia un ‘sapere politico’, un «sapere tecnico» di ciò che è il bene di una comunità. Questo ‘sapere politico’, che fa sì che un individuo sia ‘uomo regale’, può essere di uno, di pochi, di molti, indifferentemente: quello che importa è che chi governa possegga determinate ‘arti’ e la conoscenza del Bene. A questa «scienza politica», di uno o di pochi o di molti, devono far riscontro tuttavia «pudore e giustizia» di tutti gli uomini uniti a formare una comunità, affinché trovino in se stessi un riscontro a quanto essa prescrive, e le leggi non appaiano una imposizione estrinseca.

In termini un po’ diversi, ciò significa che l’anima razionale deve trovare riscontro nell’anima concupiscibile (per il pudore) e nell’anima irascibile (per la giustizia), poiché la ragione ha capacità esplicative, ma non impositive.

3. L’origine dello Stato nel terzo libro delle Leggi

Un altro brano ci pare di dover inserire nel quadro di questa visione mitica e storica di Platone, ed è una parte del terzo libro delle Leggi, l’ultima opera platonica unitamente all’Epinomide che ne costituisce un’appendice. Sostiene le argomentazioni di questo grande scritto politico un vecchio Ateniese, ormai scoperta raffigurazione di Platone, in lunghissima conversazione con due coetanei: Clinia, cretese, e Megillo, spartano. La loro conversazione, nella finzione letteraria, si effettua durante il cammino dei tre personaggi verso l’antro di Zeus, metafora degli estremi giorni della vita del nostro filosofo. Il tema è quello della fondazione di una colonia; e nel terzo dei dodici libri del dialogo, l’Ateniese pone la domanda politica per noi cruciale: «Ma quale dobbiamo dire essere stata l’origine delle costituzioni dello stato?» La trattazione questa volta non ha carattere mitico, ma si presenta come analisi razionale di materiale storico tramandato da tradizioni provenienti da lontanissimi tempi.

Aten. […] Ma quale dobbiamo dire essere stata l’origine delle costituzioni dello stato? Non è forse di qui che potrebbe scorgersi nel modo più facile e certo? Clin. Di dove? Aten. Mettendoci ad osservare di là donde bisogna ogni volta guardare la evoluzione degli stati nel loro vario muoversi verso il bene o verso il male. Clin. Vuoi dire di dove? Aten. Io credo dalla lunghezza dei tempi e dall’infinito e dalle trasformazioni in essi avvenute. Clin. Come dici? Aten. Ecco, da quando esistono stati e uomini che siano cittadini ritieni di poter tu pensare quanto tempo è passato? Clin. Non è affatto facile. Aten. Ma che sarebbe un tempo immenso, inconcepibile, questo si può pensalo? Clin. Questo sì, certamente. [676 a-b]

Nel Protagora è stato presentato l’aspetto mitico-morale della formazione del consorzio politico dell’uomo, ora abbiamo invece l’aspetto storico di quella stessa formazione. Nelle Leggi l’«origine delle costituzioni dello stato», dice Platone, è da ricercare a partire «dalla lunghezza dei tempi e dall’infinito e dalle trasformazioni in essi avvenute». Se ben si osserva, si tratta di una condizione (la «lunghezza dei tempi»), di una causa (l’infinito) e di ‘cause seconde’ (le «trasformazioni in essi avvenute»). Questo ‘infinito’ sembra essere di ordine ontologico, e cioè «quell’infinito che trascorre secondo il ‘più’ e il ‘meno’ attraverso il corpo e l’anima», di cui si parla nel Filebo.61 Non avrebbe senso infatti che l’Ateniese riferisse l’infinito alla «lunghezza dei tempi», anche se subito precisa che il tempo trascorso deve essere «immenso, inconcepibile». In realtà, vedremo che nel Timeo e nel Crizia Platone parla della guerra tra Atene e Atlantide come avvenuta 9. 000 anni prima di Solone, che è certamente un periodo immenso per un greco; qui però sembra si alluda ad un periodo ben più lungo, non tuttavia infinito. L’infinito di cui parla l’Ateniese deve ritenersi per ciò non la lunghezza temporale, ma la struttura dinamica che sta alla base del corpo e dell’anima, e che ‘scorre’ attraverso essi, rendendo «volubile» l’uomo e incostanti le società,62 come del resto un «mare infinito della dissomiglianza» è la realtà iniziale del Cosmo prima di ricevere quelle finite forme intellegibili per le quali è appunto Cosmo. Cosmo (insieme ordinato dei corpi dell’universo) e anima (del mondo e umana) hanno infatti per Platone la medesima struttura triadica, un elemento della quale è sempre un misto degli altri due. Così, mentre l’anima è formata di identico, diverso e misto (il quale è detto «essenza dell’anima»),63 il Cosmo è costituito, secondo il Filebo, di un certo numero di elementi finiti (elementi intellegibili), di un elemento infinito («mare infinito della dissomiglianza»), uniti a formare i quattro elementi empedoclei, da cui derivano gli altri corpi.64

Se è possibile mostrare che identico, diverso e misto derivano all’anima dalla ‘struttura’ triadica di Dio, e che gli elementi finiti e l’elemento infinito derivano al Cosmo dalla struttura triadica dell’Anima del mondo,65 dobbiamo ora supporre che, mentre l’elemento infinito derivi ai corpi dal diverso dell’Anima cosmica, l’infinito di cui si parla nelle Leggi, e che determina i cambiamenti delle forme politiche, provenga dal diverso dell’anima umana. Le costituzioni infatti, benché siano esse a contenere gli individui, sono tuttavia una produzione umana, non un momento di una dialettica idealistica. La varietà degli Stati nasce dall’instabilità della natura umana che si incontra con «quell’infinito che trascorre secondo il ‘più’e il ‘meno’ attraverso il corpo e l’anima», ma anche dall’anima alle azioni e alle istituzioni che genera.

Aten. Non sono stati mille sopra mille gli stati nati in tutto questo tempo e non affatto inferiori di numero, ma nella stessa proporzione invece, gli stati distrutti? Non ebbero più volte in ogni luogo tutte le specie di costituzioni e ora da piccoli grandi ora da grandi non sono divenuti piccoli, cattivi da buoni, buoni da cattivi che erano? Clin. È necessario. Aten. Se possiamo, cerchiamo di capire la causa di questo divenire: forse ci potrebbe mostrare la prima origine delle costituzioni e il loro cammino. Clin. Sì, dici bene, e bisogna che ci protendiamo, tu a mostrarci ciò che pensi di loro, noi a seguirti. [676 b-c]

Nella Politeia Socrate, dopo aver descritto lo Stato ideale, ricordando che non si trattava di uno Stato storicamente realizzabile, aveva delineato la parabola di una sua degenerazione altrettanto ideale, attraverso la quale esso passa ad essere timocratico, oligarchico, democratico e tirannico. Questa parabola esprime, in qualche modo, quella del Politico che abbiamo riportato, quando il Cosmo era detto passare dalla guida di Dio suo pastore al rischio di terminare nel «mare infinito della dissomiglianza». Nello stesso dialogo abbiamo un quadro sintetico degli Stati rispetto alla legge.66 Ora però l’Ateniese riassume genericamente le trasformazioni possibili, distinguendole nell’ordine della quantità (grandi-piccole) e della qualità (buone-cattive).

Aten. Vi pare che le leggende antiche racchiudano una certa verità? Clin. Quali? Aten. Ci sono state molte stragi di uomini nelle inondazioni nelle malattie in molti altri avvenimenti, allora il genere umano rimane un gruppo esiguo di individui. Clin. Di tutto questo nessuno affatto avrà da dubitare. [677 a]

Torna ad essere espresso il ricordo di cataclismi di varia natura, che Platone aveva già avanzato nel Politico, nel Timeo, nel Crizia, dei quali ultimi due dialoghi parleremo nel prossimo paragrafo.

Aten. Pensiamo allora ad una di queste distruzioni, fra le molte, e che sia quella avvenuta per una inondazione. Clin. E che cosa dobbiamo pensare su questa? Aten. Pensiamo che gli uomini che sono scampati alla strage in tale occasione saranno stati quasi certamente pastori della montagna, salvi sulle cime, piccole scintille del genere umano. Clin. È chiaro. Aten. Di necessità tali uomini saranno inesperti di ogni altra arte così come di quei mezzi che gli uomini inventano nelle città gli uni contro gli altri per il guadagno e per l’ambizione e così pure inesperti di ogni altra meditata malefatta reciproca. Clin. Può darsi. Aten. Dobbiamo affermare che le città costruite sul piano e sul mare vengono completamente distrutte in tale occasione? Clin. Lo dobbiamo. Aten. Non diremo anche che in tali circostanze vanno perduti tutti gli strumenti e tutto è vanificato, se qualcosa v’era di attinente all’arte, con cura diligente trovato, cioè attinente alla politica o a qualche altra forma di sapienza? Perché, amico, se queste cose così come ora sono disposte fossero rimaste intatte per tutti i tempi, come qualche cosa di nuovo si sarebbe potuta mai ritrovare, qualsiasi essa sia? [677 a-d]

L’Ateniese propone come esempio «fra queste distruzioni» un’inondazione, un diluvio, probabilmente perché la memoria del diluvio era tra le più note e radicate nella tradizione.67 Quasi fossero stati purificati dalle acque, i superstiti ridiventano semplici ed ingenui come bambini, «inesperti di ogni altra arte così come di quei mezzi che gli uomini inventano nelle città gli uni contro gli altri per il guadagno e per l’ambizione e così pure inesperti di ogni altra meditata malefatta reciproca». Fuori del mito dei doni di Prometeo, ora si parla della perdita di tutti gli strumenti che il «sapere tecnico» aveva saputo realizzare, e l’umanità torna ad essere quasi quale era stata all’origine della propria storia: conserva in parte la memoria del passato, ma è incapace di ricrearlo.

Clin. Questo è come dire che innumerevoli volte in un numero enorme di anni passati sfuggirono agli uomini di allora, e sono mille o duemila anni che hanno avuto origine e sono apparse alcune a Dedalo, altre ad Orfeo ed altre a Palamede, la musica a Marsia e ad Olimpo, ciò che riguarda la lira ad Anfione, e molte altre cose ad altri, cose che noi potremmo dire di ieri e d’altro ieri. Aten. Bene, Clinia, è bene l’aver dimenticato l’amico che non è che di ieri. Clin. Vuoi dire Epimenide? Aten. Sì, Epimenide; per voi infatti egli di molto superò tutti, amico, con la sua invenzione; ciò che Esiodo anticamente prediceva con la parola egli nell’opera realizzò, come voi dite. Clin. Noi lo diciamo, è vero. Aten. Dunque questa affermiamo essere allora la condizione degli uomini, dopo che avvenne la catastrofe: una sconfinata paurosa solitudine, la terra immensa e abbandonata, periti quasi tutti gli animali e poche mandrie di bovini e se mai qualche gruppo di capre rimase non più che miseri resti erano anche questi ai pastori per vivere in quell’età che è all’origine di questa. Clin. Certamente. [677 d-678 a]

Platone considera tutta la civiltà greca come cresciuta a partire da quella catastrofe che è l’ultimo dei diluvi abbattutisi sulla terra, perché parla di «quella età che è all’origine di questa.» Con poche espressioni, egli dà un quadro impressionante e terrificante, immaginando, «dopo che avvenne la catastrofe», «una sconfinata solitudine» e una «terra immensa e abbandonata», in cui pochi uomini vagano ancora oppressi dal terrore. I superstiti, ridotti drasticamente di numero, generano figli nei quali il ricordo si perde; ed essi vengono a trovarsi in una condizione di indigenza quasi totale, smarriti e intimiditi davanti a una natura che, per la scomparsa di tutti gli strumenti e di tutte le tecniche, non offre più la dovizia di beni che in precedenza offriva.

Aten. Ma dello stato, della costituzione, della legislazione, di quello su cui noi ora stiamo tenendo il discorso, crediamo noi, per così dire, che rimanga del tutto il ricordo? Clin. Nemmeno il ricordo, in nessun modo. Aten. Allora da quelle sole cose rimaste così sono derivate a noi tutte queste cose come sono ora; gli stati, le costituzioni, le arti, le leggi, e molta cattiveria, e molta virtù? Clin. Come dici? Aten. Crediamo forse, amico straordinario, che quelli di allora, inesperti dei molti vantaggi della vita cittadina e dei molti svantaggi, siano potuti venir ad essere perfetti nella virtù o cadere nel più profondo dei vizi? Clin. Sì, dici bene, capiamo ciò che dici. [678 a-b]

Persi i mezzi nati dalla «sapienza tecnica», e tale sapienza quasi spenta nelle coscienze senza possibilità di immediato risveglio, gli uomini, ormai «inesperti dei molti vantaggi della vita cittadina e dei molti svantaggi», restano lontani sia dalla malvagità sia dalla virtù nelle loro forme estreme. Quasi purificata dall’acqua, l’umanità si presenta nella sua propria natura: né buona né malvagia, ma capace di divenire buona o malvagia a seconda dell’uso della ragione, dell’arte di Atena e della scienza politica, come era stato detto nel Politico. Essa si trova in una condizione di innocenza data dalla semplicità di vita condotta, cioè dalla mancanza di quei contrasti che tra poco l’Ateniese enumererà.

Aten. E così col passare del tempo, e mentre la nostra stirpe si moltiplicava, tutto di allora si è venuto evolvendo verso tutto ciò che è di ora? Clin. Esattissimo. Aten. Non d’improvviso, come è verosimile, ma a poco a poco, in un tempo lunghissimo. Clin. Conviene proprio che ciò sia accaduto così. Aten. E io credo che dominasse in tutti una paura di recente origine a discendere dai luoghi alti al piano. Clin. Ma certamente. Aten. E non si vedevano allora l’un l’altro con piacere, tanto pochi erano in quel tempo quando i mezzi di trasporto, con cui potessero allora fra loro viaggiare per terra o per mare, si può dire che si fossero quasi tutti perduti insieme a tutte le arti? Io credo che non fosse proprio possibile che essi si mescolassero fra loro: erano spariti il ferro, il rame e tutti i metalli sommersi confusamente dall’alluvione sì che doveva esserci una insormontabile difficoltà di estrarli e purificarli, e il taglio degli alberi doveva essere insufficiente. Anche se nelle montagne fosse rimasto qua o là qualche utensile, in breve tempo era venuto meno, consumato, ed altri non ne potevano nascere, prima che agli uomini fosse di nuovo tornata l’arte dei minatori. Clin. E come infatti? [678 b-d]

Un lento progresso caratterizza la preistoria di questa nuova umanità che va con fatica ripopolando i territori desolati dal diluvio, pian piano scendendo dai monti sui quali si era salvata. Scomparsi i metalli e le arti di estrarli e lavorarli, quella degli uomini era diventata la vita elementare dei pastori, legati ai pochi animali addomesticabili e alla raccolta di frutti spontanei. Ora è l’uomo che fa da pastore alle greggi e alle mandrie, e impara l’arte di Dio ‘pastore’, prendendosi cura degli animali addomesticabili.68 In altri termini, l’umanità sopravvissuta torna ad un rapporto con la natura che non è di artificioso e disordinato sfruttamento, ma di rispetto per essa, dalla quale torna ad imparare le regole. Questo è il suo rapporto di intero con le parti del Cosmo, fino a che l’irrequietezza umana (il suo infinito interiore) non lo spinge verso la riconquista di forme più progredite di convivenza, ma di minor rispetto della natura.

Aten. Dopo quante generazioni pensiamo che questa sia ritornata ad essere così presso gli uomini? Clin. Moltissime, è chiaro. Aten. Così anche le arti che hanno bisogno del ferro e del rame e di tutte queste cose, per altrettanto tempo e anche di più furono assenti in tale circostanza? Clin. Certamente. Aten. E allora la rivolta e la guerra in molti luoghi erano scomparse a quel tempo. Clin. Come? Aten. Prima di tutto fra di loro si amavano, si volevano bene perché erano pochi e soli e poi non dovevano combattersi per mangiare. Non c’era scarsità di pascoli, se non per qualcuno forse in principio, e dai pascoli allora traevano la base del loro alimento. Non erano mai poveri infatti di latte e di carni e anche quando cacciavano avevano modo di procurarsi un cibo che non era vile né poco. Ed avevano abbondanza di vestiti e di coperte e di case e di vasi da mettere sul fuoco e da tenere per altro uso. Le arti fittili e tessili non hanno per nulla bisogno di ferro, e un dio le diede, le une e le altre, perché procurassero agli uomini tutte le cose dette poco fa e il genere umano non fosse privo di un germe di sviluppo, quando avesse a cadere in questa difficoltà. [678 d-679 b]

«Le arti fittili e tessili […] un dio le diede»: Socrate nel Cratilo, come abbiamo ricordato, parlando dell’arte dialettica, la paragona a tre arti, i cui strumenti sono la spola, il coltello e il trapano. In modo particolare, tagliare e tessere (dividere e unire) sono movimenti dialettici, mediante i quali con il linguaggio si trapana la realtà intellegibile e si ‘scevera l’essenza delle cose’.69 La dialettica inizia dalle tecniche semplici di Efesto per salire alla sapienza di Atena, e da questa alla conoscenza di Zeus. Tutto questo si andava sviluppando mentre si scoprivano e si perfezionavano le varie arti.

Perciò proprio non erano poveri e non divenivano discordi sotto la spinta della povertà; e nemmeno ricchi divennero mai perché erano senza oro e senza argento; così vivevano allora. Nella società dove non sia presente ricchezza né povertà necessariamente i costumi, direi, saranno nobilissimi: infatti non sorge violenza né ingiustizia, rivalità ed invidie non possono nascere. Erano buoni in grazia di questa vita e di quella che si dice ‘semplicità’; ciò che sentivano definire bello o brutto ritenevano esser detto con verità, senza limitazione, e vi si conformavano, essendo appunto uomini semplici. E infatti sospettare la bugia nessuno sapeva per opera di attenta sapienza come ora, ma tenevano per vero ciò che si tramandava degli dèi e degli uomini e ne vivevano in conformità; è per ciò che erano in tutto così come noi adesso li abbiamo descritti. Clin. Anche a me paiono esser così queste cose ed anche a lui. [679 b-d]

Lontani dall’indigenza e dalla ricchezza, questi uomini, ridiventati primitivi, vengono a trovarsi in una condizione di semplicità che li rende incapaci di falsità e di malvagità: in tale condizione, anzi, «i costumi […] saranno nobilissimi». Ricordiamo che nel Fedro Platone polemizza nei confronti dei sapienti del suo tempo, la cui ‘sapienza’ deriva dalla scrittura, e non dalla diretta discussione orale: «con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti», come dice Socrate. E ironizzando precisa che «Alla gente di quei giorni, che non era sapiente come voi giovani, bastava nella loro ingenuità udire ciò che diceva ‘la quercia e la pietra’, purché dicesse il vero.»70 Questo ‘dire il vero’, questo ‘fare il vero’ non solo rifugge dall’inganno e dalla falsità, ma pure da tutto ciò che si presenta come ostacolo o deviazione al rapporto diretto tra persone. Tuttavia, Socrate, prima di intraprendere nella Politeia la descrizione della città ideale per la comprensione dialettica della giustizia, afferma che sarà necessario prendere in considerazione una città ‘gonfia di lusso’: «A quanto sembra, non vogliamo soltanto sapere come nasce uno stato, ma uno stato gonfio di lusso. Forse però non è male, perché così vedremo probabilmente come nascono negli stati giustizia e ingiustizia.»71

Ma qui, in questa semplicità c’è una genuinità che rende quegli uomini immediatamente plasmabili come bambini; e del resto, la ricerca del necessario per vivere e l’utilizzo di strumenti nell’attività artigianale imprimevano nella loro anima un senso del bene, del giusto e del bello che li rendeva contenti del loro stato, quasi si trattasse di insegnamenti di Dio pastore.

Aten. Dobbiamo dire quindi che sono state molte le generazioni vissute in questo modo, e così che gli uomini erano meno progrediti di quelli venuti prima della inondazione e di quelli che vivono ora e più ignoranti di tutte le altre arti future, anche di quelle di guerra, quante sono le arti della guerra per terra e della guerra per mare che si praticano adesso e le arti delle lotte interne solo al proprio stato che si chiamano ‘processo’ e ‘rivolta’ e macchinano con le parole e le opere tutti i mezzi perché i cittadini fra di loro si procurino male ed ingiustizia? Dobbiamo dire che c’erano uomini allora di costumi più semplici e più coraggiosi ed anche più saggi e in tutto più giusti? La causa di questo stato di cose l’abbiamo già esposta. Clin. Hai ragione. [679 d-e]

L’Ateniese distingue «le arti della guerra» (tra gli Stati) da «le arti delle lotte» (nello Stato); e queste ultime, distinte in processi e rivolte: i primi, di singoli cittadini; le seconde, di gruppi. Già nella Politeia Platone sosteneva che uno Stato è lontano dal proprio bene quando in sé genera un gran numero di medici e giudici; di contro, i superstiti del diluvio, posti in una condizione più semplice di quella degli uomini precedenti e successivi, perché meno progrediti e più ignoranti, sono immuni dalle discordie e dalle guerre: sono essenzialmente pacifici e capaci di saggezza, anche se privi di sapienza. Molte sono le cose che non conoscono più, ma neppure ‘credono di sapere’ le cose che ignorano: le loro conoscenze non uscivano dall’orizzonte della necessità che la vita imponeva, e che si accettava virilmente e senza artificio.

Aten. Tutto questo sia da noi enunciato e quanto seguirà si intenda da noi detto al fine di comprendere quale bisogno quegli uomini avevano delle leggi e quale era il loro legislatore. Clin. Hai detto bene. Aten. Perché non è forse vero che quelli non potevano avere bisogno di legislatori né in quei tempi la legislazione soleva essere realizzata? Infatti non hanno neppure in alcun modo la scrittura quelli nati in questa parte del periodo di tempo necessario all’evoluzione, vivono seguendo i costumi e le leggi che si dicono tramandate dagli avi. Clin. È verosimile. [679 e-680 a]

La semplicità della loro vita portava quegli uomini a non sentire necessità né di leggi né di scrittura, perché tutto si faceva all’interno di una tradizione ricevuta oralmente o appresa per imitazione. Non solo manca la scrittura e non se ne sente la necessità, ma è una salda convinzione interiore, tramandata in famiglia e nella tribù, l’unica legge che seguono e che leggono dentro se stessi. Questa legge, nella quale ogni individuo è nato e cresciuto, è un intero in cui egli si trova, ma che si manifesta nella sua interiorità, e che per ciò troverebbe snaturata se gli si presentasse sotto forma di precetti scritti, parcellizzati fuori di lui. Pure, anche così espressa, afferma Platone, siamo davanti ad una costituzione politica.

Aten. Ma questa è già una forma di costituzione politica. Clin. Quale? Aten. Mi pare che tutti chiamino la costituzione in vigore a quel tempo “patriarcato”, e c’è anche ora in molti luoghi, sia presso i Greci che i barbari. E Omero dice anche che in qualche modo c’era nel governo dei Ciclopi. Omero dice:

Essi non hanno assemblee che danno consiglio non hanno leggi, essi abitano le cime dei monti più alti nelle caverne scavate, ciascuno dà legge ai figli e alle donne, fra di loro si ignorano. [680 a-c]

La forma patriarcale di convivenza è di per sé naturale, perché nasce a partire dai genitori e si estende alle generazioni immediatamente successive in legami di parentela che sono diversificati e subordinati per natura. Essa non comporta una specifica distinzione di funzioni e competenze, quanto piuttosto una intercambiabilità funzionale delle persone che determina un mondo autarchico, equidistante dalla povertà e dalla ricchezza. Tutti possiedono «giustizia e pudore», così come voleva Zeus nel mito del Protagora, tutti sentono, per la loro «semplicità», la voce del demone socratico, la quale non si manifesta quando si opera ciò che è giusto, perché non incita a qualcosa, ma si ode soltanto per dissuadere dal male.72 Si tratta di quella condizione di perfetta convivenza, o almeno vicina ad essa, che abbiamo già ricordato come il migliore degli Stati al di sopra della legge, anche se ora Platone fa riferimento ai Ciclopi di cui parla Omero.

Clin. È bello, sembra, per voi, questo vostro poeta e vi è gradito. Noi infatti abbiamo letto anche altri passi suoi molto belli, ma non numerosi. Noi Cretesi non ci dedichiamo molto alla poesia straniera. MEG. Noi invece lo leggiamo Omero e par superiore a tutti gli altri epici, benché egli sempre descriva piuttosto una vita ionica, non quella della Laconia. Ed ora pare che per te sia una buona testimonianza al tuo discorso riportando col mito ai tempi selvaggi la vita primitiva di quelli. Aten. Sì, Omero mi è testimone. Prendiamolo quindi come una fonte che ci indica che queste forme di costituzione sono in realtà esistenti, in qualche epoca. Clin. Va bene. [680 c-d]

A differenza di altri popoli, quello greco non fu mai legato ad un libro sacro o a degli scritti assunti come testi sacri, normativi in modo più o meno vincolante della vita della comunità e del singolo individuo. Omero ed Esiodo, se pure si presentavano come ispirati dalle Muse, da Mnemosine, dalle Grazie e da Apollo, ed erano chiamati «esseri divini» non solo da Platone, non possedevano una parola specificatamente religiosa. I loro canti si inserivano nella tradizione, e di essa perpetuavano il senso paideico, pur ad un livello di sviluppo culturale già prossimo alle legislazioni scritte.

Aten. E non si formano esse allora da questi uomini dispersi dalla difficile condizione conseguente alle distruzioni in famiglie e stirpi, nelle quali il comando è dei più vecchi in quanto l’hanno ricevuto dal padre e dalla madre, seguendo i quali come uccelli formeranno essi uno sciame e vivranno sotto la legge degli avi, governati con il governo più giusto fra tutti i governi regali? Clin. Certamente. Aten. Poi si radunano in comunità più numerose e formano organismi politici più grandi; si rivolgono dapprima alle campagne poste ai piedi dei monti e stendono recinti a guisa di siepe come mura a difesa dalle fiere, e compiono allora una sola casa grande e comune. Clin. È verosimile che ciò avvenga così. [680d-681 a]

Da una prima fase di nomadismo, in cui tutti seguono i vecchi genitori «come uccelli», gli uomini passano ad essere sedentari o semi-sedentari: nascono i primi villaggi, «recinti […] a difesa dalle fiere», perché il maggior pericolo ora è quello degli animali feroci. Non molto tempo dopo, sorgeranno invece agglomerati maggiori con mura più o meno ciclopiche a difesa della nuova e più grande minaccia: quella dei propri simili. La natura che dona i suoi frutti e la natura che minaccia danni sono le due facce dialettiche di una realtà che, pur accogliendo gli uomini, sta fuori di loro; e bene e male si possono cogliere senza alterare l’equilibrio interiore dell’individuo, di cui ancora non si sospetta il valore. Ma nel contrasto tra tribù e tribù, tra individuo e individuo, l’equilibrio tende a rompersi, e bene e male perdono il loro carattere oggettivo per assumerne uno relativo, vario ed instabile.

Aten. E questo non lo credi verosimile? Clin. Che cosa? Aten. Che queste organizzazioni più grandi crescono per l’aggregarsi delle prime e più piccole, e ciascuna delle minori è presente, per ciascuna singola stirpe avendo come suo capo il più vecchio e certi suoi costumi particolari a lei sola per il fatto che sono vissute separate l’una dalle altre; essendo stati diversi fra di loro i capostipiti e gli educatori, diversi devono essere stati anche i rapporti loro consueti con gli dèi e con gli uomini, più prudenti quelli degli ascendenti più prudenti, più virili quelli degli ascendenti più virili. A questo modo ciascuno forma secondo le sue concezioni i suoi figli e i figli dei figli e così come stiamo dicendo vengono nella comunità più grande avendo norme particolari. Clin. Come no? Aten. E a ciascuno necessariamente vanno bene le proprie norme, e dopo quelle degli altri. Clin. Certamente è così. [681 a-c]

Molto bella e verosimile è la descrizione che Platone fa dei nuovi aggregati umani, tanto più che essi dovevano cementarsi con un più ampio raggio di matrimoni: nascevano da una parte l’identità di un popolo, e dall’altra la distinzione in gentes. In modo analogo, in Attica si era avuta l’unificazione dei demi attorno ad Atene. Possiamo dire che ora sorga la possibilità di una coscienza della varietà delle opinioni, e sulla scia di questa nuova coscienza sorgano la retorica e l’oratoria; e successivamente la sofistica e l’eristica.

Aten. E pare che mentre noi siamo, per così dire, risaliti all’origine della legislazione, non ce ne siamo accorti. Clin. È vero. Aten. Si rende quindi necessario che tutti questi uomini convenuti insieme scelgano alcuni di loro per tutti, i quali, esaminate le norme proprie d’ognuno, mostrino in comune e chiaramente ai capi ed ai condottieri di quei popoli, come si farebbe coi re, quelle che per loro sono le più adatte e le diano loro da vagliare. Essi verranno chiamati “legislatori”. Saranno da loro poi stabiliti i magistrati e costituita una aristocrazia o anche una monarchia, traendola dai capi del patriarcato, e governeranno così in questa fase di sviluppo della costituzione. Clin. È per una ordinata conseguenza che potrebbe avvenire proprio così. [681 c-d]

Nasce un confronto di usanze che tende al superamento dei particolarismi di ciascun gruppo, e alla ricerca di ciò che è il bene comune: la scienza politica. Sorge anche la necessità dell’affidamento del potere dei capifamiglia ad un gruppo ristretto di persone (aristocrazia) o ad un singolo individuo (monarchia). Si configura più chiaramente quello che chiamiamo Stato: un insieme più o meno numeroso di famiglie, in cui, in questa prima fase, l’individuo non si è ancora reso autonomo, e tutti soggiacciono a leggi concordate e fissate da pochi.

Aten. Ora diciamo che viene ad essere poi terza forma di costituzione quella in cui tutti gli aspetti che contraddistinguono le costituzioni, ed insieme gli stati, e le loro affezioni, sono coesistenti. Clin. Quale è questa? Aten. Quella che dopo la seconda anche Omero ha indicato dicendo appunto che la terza viene ad essere così:

Fondò Dardania — dice così — poiché non ancora la sacra Ilio era stata edificata sulla pianura, città d’uomini mortali, essi ancora abitavano le falde dell’Ida ricco di sorgenti. [681 d-e]

Discesi dai monti, i raggruppamenti di famiglie iniziano la costruzione di città in cui da ora in poi vivranno. Si è compiuto in questo modo il percorso dei sopravvissuti al diluvio da una condizione di dispersione e nomadismo a questo nuovo radicamento in luoghi delimitati e circondati da mura. Le nuove entità territoriali si presentano come centri di forza economico-militare in competizione e contrasto con analoghi centri. Siamo ormai prossimi al sorgere delle leggi scritte per regolare la vita sociale degli uomini, perché ora il pericolo per la comunità viene tanto dall’esterno quanto dall’interno: da «le arti della guerra» e da «le arti delle lotte». Si è compiuta la parabola essenziale dell’umanità, la quale, come il Cosmo abbandonato da Dio, inizialmente svolge la propria vita più vicina all’unità del divino, per allontanarsene però sempre più. In questa condizione di ‘autonomia’ entra in un ciclo dialettico in cui bene e male, vero e falso, bello e brutto, si contrappongono anche violentemente; e dalla loro contrapposizione, non più esterna, ma interna alla società e all’individuo, nasce non solo la legislazione, ma ormai la filosofia, e in essa la dialettica del bene, che Platone ha distinto sia dalla legge, sia dalla coscienza fondata sull’opinione comune, sia dal distillato di una sapienza personale.

Dice queste parole e quelle che ha dette dei Ciclopi come le direbbe un dio, com’è la natura delle cose. E infatti anche i poeti essendo un genere di uomini divino e cantando i loro inni ispirati dal dio, essi ogni volta riescono a raggiungere ed afferrare coll’aiuto di qualcuna delle Grazie e delle Muse molte cose che avvengono in realtà. Clin. Certamente. Aten. Andiamo avanti ancora un po’ con questo racconto che ora ci si è fatto innanzi, forse ci potrebbe indicare qualche cosa di ciò che noi cerchiamo. Non dobbiamo far così? Clin. Ma certo. Aten. Ilio fu appunto fondata, noi dicevamo, quando gli abitanti discesero dai monti in una grande e bella pianura, sopra un’altura non molto elevata cui scendevano dall’alto molti fiumi sorgenti dall’Ida. Clin. Dicono così. Aten. Non dobbiamo credere che ciò sia avvenuto in un tempo molto lontano dalla inondazione? Clin. E come non molto lontano? Aten. E verosimilmente li prese allora una sciagurata dimenticanza della rovina di cui ora parliamo, quando così costruirono la città e la posero sotto molti fiumi scorrenti dall’alto, fidandosi di colli non certo elevati. Clin. È chiaro che dovevano veramente essere lontani di un tempo molto lungo da quell’avvenimento. Aten. E io credo che allora già molti altri stati venivano fondati, perché gli uomini continuarono ad aumentare. [682 a-c]

Siamo così giunti ad un ripopolamento delle terre, che prevede dunque il sorgere di molte città sui colli e nelle pianure, potenti e rivali tra loro, tendenti ad espandere il territorio limitrofo, e a sopraffarsi a vicenda: il male torna a generarsi nelle comunità umane; quel male che dà luogo al gigantesco ed esemplare conflitto tra la potenza di Atlantide e gli Ateniesi.

4. La «storia molto meravigliosa» dell’Atlantide

La «storia molto meravigliosa, ma tutta vera», che Crizia inizia a narrare a Socrate nel Timeo, egli l’ha udita dal nonno di cui porta il nome, il quale l’aveva appresa dall’amico e parente Solone, e questi da un vecchio sacerdote egizio della città di Sais. Nel secondo dialogo, il Crizia, precisa inoltre che egli stesso possiede i manoscritti che prima «erano presso il nonno»: «Solone, meditando di servirsi di quella narrazione per il suo carme, volle conoscere il significato dei nomi e trovò che quegli Egiziani, che primi scrissero questa storia, li avevano tradotti nella loro lingua: ed egli a sua volta, preso il significato dei singoli nomi, li riferì traducendoli nella nostra lingua. Questi manoscritti erano presso il nonno e ora sono in casa mia, e quand’ero fanciullo li studiai diligentemente.»73 «Questi manoscritti» sembrano essere più fogli di appunti di nomi e degli avvenimenti, quasi un glossario egizio-greco, che il testo di una narrazione distesa: la narrazione sembra piuttosto essere avvenuta oralmente: dal vecchio sacerdote egizio a Solone, da Solone a Crizia il vecchio, e da questi al nipote omonimo, come ora da Crizia il giovane a Socrate.

L’importanza della narrazione è sottolineata dai riferimenti alla dea Atena e alle festività religiose in suo onore. Dice infatti il vecchio sacerdote egizio a Solone: «parlerò per te e per la vostra città, e specialmente per onore della dea ch’ebbe in sorte la città vostra e questa».74 Inoltre, Crizia il giovane, ancora fanciullo, udì per la prima volta parlare di questa storia dal nonno «il giorno cureotide delle Apaturie,»75 cioè il terzo ed ultimo giorno della festa dedicata a Zeus Fratrio e ad Atena Fratria. In fine, Crizia compie la sua narrazione non solo per mostrare gratitudine a Socrate per la presentazione della città ideale fatta nella Politeia, ma anche per «celebrare in modo giusto e verace quasi in un inno la dea nella festa solenne».76 Non c’è dubbio che in tutti e tre i casi la dea di cui si parla sia Atena, dea della sapienza.

Quando Crizia parla della divisione che gli dèi fecero dei «vari luoghi di tutta la terra secondo la sorte»,77 egli afferma che Atena ed Efesto ricevettero la regione dove sarebbe sorta Atene, dicendo questo tanto nel Timeo quanto nel Crizia, anche se nei due dialoghi le sue parole non sono proprio le stesse: nel primo dei due afferma infatti semplicemente che Atena ebbe in sorte Atene, «ricevendo il vostro seme [degli Ateniesi] da Gea e da Efesto»;78 mentre nel secondo chiarisce come «Efesto ed Atena, avendo natura comune, figli com’erano dello stesso padre, ed eguali tendenze per l’amore della sapienza e delle arti, ricevettero ambedue, come unica sorte, questa regione [ateniese], perché propria e adatta alla virtù e all’intelligenza.»79

Crizia parla di quattro divinità, che possiamo considerare coppie dialettiche: Zeus-Gea, Atena-Efesto; così che l’ordine di valore che ne deriva risulta il seguente:

  1. Zeus: re degli dèi, ordinatore del Cosmo, da cui sono nati Efesto ed Atena;
  2. Atena: dea «studiosa della guerra e insieme della scienza»;80
  3. Efesto: dio delle arti meccaniche;
  4. Gea: dea-terra che generò ad Efesto gli Ateniesi.

Il mito è sufficientemente scoperto, anche se in questi due dialoghi, come del resto in altri, Platone tende a nascondere più che a mostrare la propria concezione metafisico-gnoseologica, o, se vogliamo, a riporla nell’involucro del mito: l’uomo, pur composto di corpo (Gea), è capace di ingegnarsi (Efesto) per educarsi intellettualmente (Atena), ed elevare la propria anima fino a Dio (Zeus). Gli Ateniesi rappresentano quindi quegli uomini che riuscirono a compiere questo percorso di ascesa, e a rispondere a questa vocazione divina; così come gli Atlantidi rappresenteranno «la degenerazione di una stirpe già buona».81

In Platone il mito non è mai gratuito, né di semplice abbellimento poetico, ma adombra sempre una realtà specifica di ordine intelligibile o sensibile o storico. Dovremo per ciò considerare l’intelaiatura mitica del racconto atlantideo come adombrante qualcosa di ideale e di reale insieme; del resto, il mito della lotta tra Atena e Poseidone certamente non è un’invenzione platonica.

Iniziamo con il Timeo.

Criz. Ascolta dunque, o Socrate, una storia molto meravigliosa, ma tutta vera, come raccontò una volta Solone, il più savio dei Sette. Egli era parente e amicissimo di Dropide, nostro bisnonno, come anch’egli dice in molti luoghi dei carmi. Raccontò dunque a Crizia, nostro nonno, come questo vecchio soleva ricordare a noi, che grandi e meravigliose furono le antiche gesta di questa città, oscurate dal tempo e dalla morte degli uomini, ma una la più grande di tutte: e ora ricordandola noi potremmo convenientemente mostrarti la nostra gratitudine e anche celebrare in modo giusto e verace quasi con un inno la dea nella festa solenne. Socr. Tu dici bene. Ma qual è questa gesta, che Crizia narrava non come una favola, ma come realmente compiuta una volta da questa città, secondo che l’aveva udita da Solone? Criz. Io dirò un’antica storia, come l’ho udita da un uomo non giovine. Perché Crizia era allora, com’egli diceva, già presso a novant’anni, e io circa decenne. Noi festeggiavamo il giorno cureotide delle Apaturie: e quello che ogni volta in quella festa si suol fare dai fanciulli, anche allora fu fatto, e i nostri padri ci proposero dei premi di declamazione poetica. Furono dunque recitati molti carmi di molti poeti, e molti di noi fanciulli cantammo carmi di Solone, perché erano nuovi a quel tempo. Ora uno della nostra tribù, sia che allora così pensasse, sia anche per compiacere a Crizia, disse che Solone gli sembrava essere stato non solo il più sapiente nelle altre cose, ma anche nella poesia il più nobile di tutti i poeti. Allora il vecchio, perché lo ricordo bene, molto si rallegrò e sorridendo disse: «Ma se egli, o Aminandro, non si fosse occupato superficialmente della poesia, ma seriamente, come altri, e avesse compiuta quella storia, che qui aveva portata dall’Egitto, e non fosse stato costretto a trascurarla per le sedizioni e gli altri mali, che trovò qui nel suo ritorno, né Esiodo né Omero né alcun altro poeta sarebbe stato, come io penso, più glorioso di lui». «E qual era» quello domandò «questa storia, o Crizia?». «La storia» rispose Crizia «dell’impresa più grande e più degna di tutte d’essere celebrata, che questa città operò, è vero, ma la fama non giunse fino a noi per il tempo e per la morte di quelli che la compirono». E quello: «Narra da principio che mai riferì Solone e come e da chi l’ebbe appreso come vero». [20 d-21 d]

La storia che Crizia sta per raccontare non è una storia qualsiasi: si tratta «dell’impresa più grande e più degna di tutte d’essere celebrata»; persino più grande della guerra di Troia e più vera della Teogonia, perché «né Esiodo né Omero né alcun altro poeta sarebbe stato […] più glorioso» di Solone, se solo avesse potuto narrarla.

«V’è in Egitto» disse Crizia «nel Delta, al cui vertice si divide il corso del Nilo, una provincia detta Saitica, e la più gran città di questa provincia è Sais, dove nacque anche il re Amasi. Secondo gli abitanti, l’origine della città si deve a una dea, che nella lingua egiziana è chiamata Neith, e nella greca, com’essi affermano, Atena: ed essi sono molto amici degli Ateniesi e dicono d’essere in qualche modo della loro stessa stirpe. Ora Solone diceva che, giunto colà, vi fu ricevuto con grandi onori, e che, avendo interrogato sui fatti antichi i sacerdoti più dotti della materia, trovò che né egli né alcun altro Greco sapeva, per così dire, niente di tali cose. E una volta, volendo provocarli a parlare di fatti antichi, prese a dire degli avvenimenti che qui si credono i più antichi, e favoleggiò di Foroneo, ch’è detto il primo uomo, e di Niobe e, dopo il diluvio, di Deucalione e di Pirra, com’erano sopravvissuti, e passò in rassegna i loro discendenti, e ricordando i tempi tentò di calcolare la data degli avvenimenti di cui parlava. [21 e-22 b]

Nel tentativo di fissare un punto cronologico estremo, qual’è quello dell’origine del genere umano, Solone e i sacerdoti egizi quasi gareggiano tra loro; e Solone «favoleggiò di Foroneo, ch’è detto il primo uomo, e di Niobe e, dopo il diluvio, di Deucalione e di Pirra, com’erano sopravvissuti». Tornano dunque i cataclismi naturali, quali punti di riferimento cronologico della storia umana, ma questi punti di riferimento non sono adeguati ad una misurazione del tempo quale era concepita dalla troppo giovane cultura greca. Con questa narrazione di origine egizia ci avviciniamo alla «lunghezza dei tempi» del Politico e delle Leggi, con una improvvisa dilatazione cronologica che va oltre la stessa storia conosciuta in Egitto.82

Ma uno di que’ sacerdoti, ch’era molto vecchio, disse: — O Solone, Solone, voi Greci siete sempre fanciulli, e un Greco vecchio non esiste! — E avendo udito, Solone gli chiese: — E come? Che è questo che dici? — Voi, riprese quello, siete tutti giovani d’anima, perché in essa non avete nessuna vecchia opinione d’antica tradizione, nessun insegnamento canuto per l’età. E il motivo è questo. Molti e per molti modi sono stati e saranno gli sterminii degli uomini: i più grandi per il fuoco e per l’acqua, altri minori per moltissime altre cagioni. Perché quello che anche presso di voi si racconta, che una volta Fetonte, figlio del Sole, avendo aggiogato il carro del padre, per non essere capace di condurlo per la via del padre, bruciò tutto sulla terra ed egli stesso perì fulminato, questo ha l’apparenza d’una favola, ma la verità è la deviazione dei corpi, che si muovono intorno alla terra e nel cielo, e la distruzione per molto fuoco e a lunghi intervalli di tempo di tutto quello che è sulla terra. Allora dunque gli abitanti delle montagne e dei luoghi alti e aridi muoiono più di quelli che dimorano presso i fiumi e il mare. E il Nilo, com’è nostro salvatore nelle altre cose, così dilagando ci salva da questa calamità. Quando invece gli dèi, purificando la terra con l’acque, l’inondano, i bifolchi e i pastori che abitano i monti, si salvano, ma gli abitanti delle vostre città sono trasportati dai fiumi nel mare. Ora in questa regione né allora né mai l’acqua scorre dalle alture sui campi, ma al contrario suole scaturire dalla terra. Così dunque per queste cagioni si dice che qui si son serbate le più antiche memorie, ma in verità in tutti i luoghi, dove né il freddo immoderato né il caldo l’impedisce, sempre v’è quando più e quando meno la stirpe umana. E quante cose sono avvenute o presso di voi o qui o anche in altro luogo, le quali sappiamo per fama, se qualcuna ve ne sia bella o grande o altrimenti insigne, sono state scritte tutte fin dall’età antica qui nei templi e così conservate. Ma presso di voi o degli altri popoli non appena ogni volta si stabilisce l’uso delle lettere e di tutto quello ch’è necessario alle città, di nuovo nel solito intervallo d’anni come un morbo irrompe impetuoso il diluvio celeste e lascia di voi solo gl’ignari di lettere e di muse, sicché ritornate da capo come giovini, non sapendo niente di quanto sia avvenuto qui o presso di voi nei tempi antichi. Pertanto codeste vostre genealogie, che tu, o Solone, ora esponevi, poco differiscono dalle favole dei fanciulli, perché anzitutto ricordate un solo diluvio della terra, mentre prima ne avvennero molti, e di poi non sapete che nella vostra terra visse la più bella e più buona generazione d’uomini, dai quali tu e tutta la città, che ora è vostra, siete discesi, essendone rimasto piccol seme: ma voi ignorate questo, perché i superstiti per molte generazioni morirono muti di lettere. Difatti un tempo, o Solone, prima del grandissimo scempio delle acque, questa repubblica degli Ateniesi era ottima in guerra e in tutto, e specialmente governata da buone leggi, e ad essa si attribuiscono bellissime gesta e le istituzioni più belle di quante noi abbiamo conosciute per fama sotto il cielo. — [22 b-23 d]

Il vecchio sacerdote che si rivolge a Solone mostra la distanza culturale tra Egizi e Greci, perché presso i primi «si sono serbate le più antiche memorie» e «sono state scritte tutte fin dall’età antica» nei loro templi, mentre per i secondi questo non è stato possibile per i grandi cataclismi che li hanno privati periodicamente dei mezzi di trasmissione della tradizione, così che ogni volta sono tornati «da capo come giovini, non sapendo niente di quanto sia avvenuto […] nei tempi antichi.»

Il sacerdote, prima accenna agli «sterminii degli uomini: i più grandi per il fuoco e per l’acqua, altri minori per moltissime altre cagioni», poi aggiunge che «nel solito intervallo di anni come morbo irrompe impetuoso il diluvio celeste»; quindi, finendo il preambolo, parla «del grandissimo scempio delle acque». Questo «grandissimo scempio delle acque» non sembra rientrare nei diluvi ricordati, ma riferirsi piuttosto a quanto dirà più sotto, e cioè all’inabissamento dell’Atlantide e di parte dell’Attica.

Tre risulteranno, dal racconto di Crizia, le condizioni delle popolazioni e delle loro culture di cui ha intrapreso la descrizione:

  1. quelle dell’Atlantide, sprofondata nell’Oceano, senza lasciare traccia di sé;
  2. quelle della Grecia, che fu soggetta sia al «molto fuoco» del sole sia al diluvio;
  3. quelle dell’Egitto, che non ha subito e non subisce mai cataclismi di nessun genere.

Quella della Grecia si presenta quindi come una condizione intermedia tra le due estreme: l’una, che si mantiene quasi inalterata nel tempo, l’altra, scomparsa completamente. Possiamo dire che il contrasto, posto in risalto dalle parole del vecchio sacerdote tra le culture greca ed egizia, sia di valore ambivalente, perché, se da una parte gli Egizi hanno serbato «le più antiche memorie», mentre presso i Greci questo non è avvenuto, dall’altra questi, costretti a ‘ringiovanire’, si sono rinnovati, e non hanno fissato una volta per tutte la loro cultura e la struttura sociale, aprendosi in tal modo ad una storia dinamica.

Per quanto riguarda questa «storia molto meravigliosa», va sottolineato quello che Crizia affermerà: «Io, dopo di lui [Timeo], quasi ricevendo da lui gli uomini generati dalla sua parola e in parte da te [Socrate] egregiamente educati, li condurrò secondo la storia e la legge di Solone dinanzi al nostro tribunale».83 Ciò vuol dire che quello che dirà sarà detto non solo ritenendola una storia «tutta vera», ma anche riferendola secondo «la legge di Solone»; e questo significa che la narrazione di Crizia riguarderà sì «una storia molto meravigliosa», ma non tratterà una vicenda qualsiasi e in qualche modo accidentale, bensì qualcosa che esprime una legge razionale («la legge di Solone»), filtrata e finalizzata secondo il pensiero platonico.

A mio avviso per ciò, non si tratterà tanto di mettere in dubbio la veridicità di quanto Platone ha iniziato a narrare, quanto piuttosto di comprendere il valore paradigmatico che egli intende attribuire alla storia. La «storia molto meravigliosa, ma tutta vera» non sarà un’invenzione platonica come volle Aristotele, ma sarà una storia filtrata da Platone («la legge di Solone»), perché non appaia semplicemente la narrazione di una vicenda, pur straordinaria, ma si collochi in un quadro ideale, e dunque di valore normativo.

Pertanto Solone disse che molto si meravigliò all’udire queste cose, e che con molto fervore pregò i sacerdoti di raccontargli con esattezza e per ordine tutta la storia dei suoi antichi cittadini. E il sacerdote a lui: — Non ho alcuna difficoltà, o Solone, ma parlerò e per te e per la vostra città, e specialmente in onore della dea, ch’ebbe in sorte la città vostra e questa, e le allevò ed istruì, la vostra mille anni prima, ricevendo il vostro seme da Gea e da Efesto, e questa dopo. E di questo nostro ordinamento nelle sacre scritture è scritto il numero di ottomila anni. Dunque dei tuoi cittadini vissuti novemila anni fa ti dirò in breve le leggi e la più bella gesta da loro compiute: un’altra volta poi accuratamente le esporremo tutte per ordine a nostro agio con l’aiuto delle stesse scritture. […] E la dea, che aveva allora assegnata a voi per i primi tutta questa costituzione e disposizione, vi stabilì in questa sede, dopo aver scelto il luogo dove siete nati, vedendo che la felice temperanza delle sue stagioni produrrebbe uomini sapientissimi. Dunque la dea, come studiosa della guerra e insieme della scienza, scelse e dapprima popolò quel luogo che doveva produrre gli uomini più simili ad essa. E in verità vivevate con siffatte leggi e ancor meglio governati, superando tutti gli uomini in ogni virtù, come si conveniva a figli e alunni degli dèi. [23 d-24d]

Secondo quanto viene narrato, la città di Sais venne fondata mille anni dopo quella di Atene, e Atene novemila anni prima del viaggio di Solone in Egitto. Di Solone sappiamo che visse dal 640 al 559 circa: il «grandissimo scempio delle acque» avvenne quindi all’incirca verso il 9. 600 a. C.

Si può affermare che Platone conoscesse la «storia molto meravigliosa» al tempo della Politeia; e infatti la concordanza tra la città ideale e l’ordinamento di Sais e di Atene arcaica, che era risultata quasi incredibile a Crizia, ben difficilmente può considerarsi una pura coincidenza tra speculazione filosofica e tradizione remota: piuttosto è da supporre che Platone, nel delineare lo Stato ideale, tenesse presente quello che sarebbe diventato il racconto di Crizia.

Ma benché siano molte e grandi le opere compiute dalla città vostra, che noi ammiriamo qui scritte, una però supera tutte per grandezza e virtù. Perché dicono le scritture come la vostra città distrusse un grande esercito, che insolentemente invadeva ad un tempo tutta l’Europa e l’Asia, movendo di fuor dell’Oceano Atlantico. Questo mare era allora navigabile, e aveva un’isola innanzi a quella bocca, che si chiama, come voi dite, colonne d’Ercole. L’isola era più grande della Libia e dell’Asia riunite, e i navigatori allora potevano passare da quella alle altre isole, e dalle isole a tutto il continente opposto, che costeggiava quel vero mare. Perché tutto questo mare, che sta di qua dalla bocca che ho detto, sembra un porto d’angusto ingresso, ma l’altro potresti rettamente chiamarlo un vero mare, e la terra, che per intero l’abbraccia, un vero continente. Ora in quest’isola Atlantide v’era una grande e mirabile potenza regale, che possedeva l’intera isola e molt’altre isole e parti del continente. Inoltre di qua dallo stretto dominavano le regioni della Libia fino all’Egitto e dell’Europa fino alla Tirrenia. E tutta questa potenza raccoltasi insieme tentò una volta con un solo impeto di sottomettere la vostra regione e la nostra e quante ne giacciono di qua dalla bocca. Allora dunque, o Solone, la potenza della vostra città apparve cospicua per virtù e per vigore a tutte le genti: perché avanzando tutti nella magnanimità e in tutte le arti belliche, parte conducendo l’armi dei Greci, parte costretta a combattere sola per la defezione degli altri, affrontati gli estremi pericoli e vinti gli assalitori, stabilì trofei, e campò dal servaggio i popoli non ancora asserviti, e liberò generosamente tutti gli altri, quanti abitiamo di qua dalle colonne d’Ercole. Ma nel tempo successivo, accaduti grandi terremoti e inondazioni, nello spazio di un giorno e di una notte tremenda, tutti i vostri guerrieri sprofondarono insieme dentro la terra, e similmente scomparve l’isola Atlantide assorbita dal mare; perciò ancora quel mare è impraticabile ed inesplorabile, essendo d’impedimento i grandi bassifondi di fango, che formò l’isola nell’inabissarsi. [24 d-25 d]

L’importanza di questo brano è evidente, ed esso si può schematizzare come segue:

  1. viene localizzata l’isola di Atlantide: essa si trova appena oltre le Colonne d’Ercole;
  2. se ne indica la grandezza: «più grande della Libia e dell’Asia riunite»;
  3. si riferisce che vi erano altre isole nell’Oceano oltre ad Atlantide;
  4. si indica l’immensità di «quel vero mare»;
  5. si afferma che al di là dell’Atlantico vi è una «terra che per l’intero l’abbraccia, un vero continente»;
  6. si sostiene che «in quest’isola Atlantide v’era una grande e mirabile potenza regale»;
  7. se ne indica la supremazia su «molt’altre isole e parti del continente» oltreoceanico;
  8. si afferma che queste popolazioni di Atlantide «di qua dallo stretto dominavano le regioni della Libia fino all’Egitto e dell’Europa fino alla Tirrenia»;
  9. si afferma che questa potenza «insolentemente invase ad un tempo tutta l’Europa e l’Asia», tentando «una volta con un solo impeto di sottomettere [… le regioni di Grecia e di Egitto] e quante ne giacciono di qua dalla bocca»;
  10. si sostiene che tutti gli ateniesi «sprofondarono insieme dentro la terra, e similmente scomparve l’isola Atlantide assorbita dal mare».

Ecco che hai udito, o Socrate, in poche parole il racconto del vecchio Crizia, come l’aveva udito da Solone. Ora, quando tu parlavi ieri della repubblica e degli uomini che hai descritti, io, ricordandomi di quel che ora ho detto, mi meravigliavo, osservando per qual sorte miracolosa per lo più ti fossi incontrato esattamente con le parole di Solone. Però non volli parlare sùbito, non ricordandomene abbastanza per il tempo trascorso; e stimai che convenisse parlare dopo averle tutte ripensate bene dentro di me. […] E i cittadini e la città che tu ieri ci hai descritta come una favola, noi la trasferiremo nella realtà e la porremo qui, come se fosse questa, e i cittadini, che tu hai concepiti nella mente, noi diremo che son quei veri nostri antenati, di cui parlava il sacerdote. In tutto concorderanno, né diremo noi un’assurdità affermando ch’essi sono gli stessi di quel tempo. [25 d-26 d]

Crizia esprime a Socrate la meraviglia provata il giorno prima nel sentire la descrizione della città ideale e dei suoi abitanti, accenna cioè alla grande somiglianza che intercorre tra i cittadini dello Stato, che è espressione della speculazione razionale, e gli Ateniesi, che più di novemila anni prima avevano saputo reagire alla tracotante invasione della potenza di Atlantide e sconfiggerla.

Platone, tramite Crizia, sembra inoltre voler dire che la storia di Atene e Atlantide, sebbene «tutta vera», viene presentata con la cautela necessaria a trattare argomenti storici immersi nel mito. Gli stessi aspetti umani riportati dalla tradizione potrebbero sollevare dubbi, come avverrà per la descrizione della straordinaria lunghezza del canale che circonda la pianura di Atlantide, che troviamo nel Crizia.

E ora prendiamo in considerazione questo dialogo.

Prima di tutto ricordiamo che in complesso sono novemila anni che si dà per avvenuta la guerra tra quelli che abitavano fuor delle colonne d’Ercole e quelli di dentro: e ora bisogna raccontarla. Gli uni, si dice, erano capeggiati da questa città, che compié tutta la guerra: gli altri dai re dell’isola Atlantide che, come dicemmo, era allora maggiore della Libia e dell’Asia, mentre ora, sommersa dai terremoti, è fango impraticabile, che impedisce alle nostre navi d’avanzarsi per quel mare. La più parte delle nazioni barbare e i popoli di quel tempo appariranno successivamente, come si presenterà l’occasione, nel séguito del mio discorso. Ma degli Ateniesi d’allora e degli avversari, con cui guerreggiarono, è necessario esporre da principio la potenza rispettiva e le forme di governo. E di essi bisogna dare ai nostri la precedenza della narrazione. Gli dèi una volta si divisero i vari luoghi di tutta la terra secondo la sorte, non per contesa: perché non sarebbe ragionevole dire che gli dèi ignorassero quel che spettava a ciascuno di essi, né che sapendolo volessero procurarsi con le contese quel che piuttosto spettava ad altri. Ottenuto così con le sorti della giustizia quant’era loro gradito, popolavano le terre, e dopo averle popolate nutrivano noi, lor possesso e prole, come i pastori il bestiame: però non costringevano i corpi con la forza dei pastori, che traggono al pascolo il bestiame con le percosse, ma com’è l’uomo un animale docilissimo, dirigendo quasi dalla poppa di una nave, secondo la loro volontà, e adoperando come un timone la persuasione per muovere gli animi, reggevano così tutto il genere mortale. Dunque gli dèi, ottenuto in sorte chi un luogo, chi un altro, li governavano: ma Efesto ed Atena, avendo natura comune, figli com’erano dello stesso padre, ed eguali tendenze per l’amore della sapienza e delle arti, riceverono ambedue, come unica sorte, questa regione, perché propria e adatta alla virtù e all’intelligenza e fatti buoni gli uomini indigeni ne rivolsero gli animi all’ordine politico. I nomi di costoro si son conservati, ma le opere per la morte dei loro eredi e la lunghezza dei tempi scomparvero. Perché come si è detto prima, rimaneva sempre superstite la razza montana e illetterata, che aveva udito solo i nomi dei principi della terra e ben poco delle loro opere. E ponevano volentieri questi nomi ai loro figli, ma, ignorando le virtù e le leggi degli antenati, tranne poche tradizioni oscure, e rimanendo essi e i figli per molte generazioni nell’indigenza delle cose necessarie, volgevano l’attenzione a quello di cui mancavano, solo di questo parlavano, ed erano incuriosi dei fatti precedenti e antichi. Invero la mitologia e la ricerca delle antichità entrano nella città insieme con l’ozio, quando vedono che si è già provveduto alle necessita della vita: prima no. Così si son salvati i nomi degli antichi senza le opere. E dico questo per congettura, perché Solone diceva che i sacerdoti raccontavano dell’antica guerra, citando la più parte delle gesta di Cecrope, di Eretteo, di Erittonio, di Erissittono e degli altri, e quante anche se ne ricordano di ciascun eroe anche prima di Teseo: e così pure delle donne. E anche la figura e la statua della dea, essendo allora comuni le occupazioni di guerra alle donne e agli uomini, così, secondo quel costume, la rappresentavano armata: il che mostra che, associandosi insieme femmine e maschi, possono tutti esercitare in comune la virtù conveniente a ciascun sesso. [108 e-110 c]

Crizia, iniziando la narrazione promessa, torna a dare le coordinate spazio-temporali che già aveva anticipato: «in complesso sono novemila anni che si dà per avvenuta la guerra tra quelli che abitavano fuori delle colonne d’Ercole e quelli di dentro»; e l’«isola Atlantide che, come dicemmo, era allora maggiore della Libia e dell’Asia». Torna poi a precisare che l’«isola Atlantide […] ora, sommersa dai terremoti, è fango impraticabile, che impedisce alle navi d’avanzarsi per quel mare.» Questo vorrebbe dire che ai tempi di Crizia, e dunque anche in quelli di Platone, al di là dello Stretto di Gibilterra la navigazione era impedita per i fondali a livello dell’acqua, o almeno così si credeva.

Poco dopo, Crizia riprende il mito della divisione della terra da parte degli dèi, e della loro funzione di pastori. Egli precisa che gli dèi «non costringevano i corpi con la forza dei pastori, che traggono al pascolo il bestiame con le percosse, ma […] adoperando come un timone la persuasione per muovere gli animi, reggevano così tutto il genere mortale.» È da ricordare ancora una volta come sia costante nelle popolazioni arcaiche la certezza dell’origine divina delle loro tradizioni, dalle quali non ci si deve scostare, pena l’allontanamento dal bene stesso, dal sacro. Gli Atlantidi, al contrario, perdettero sempre più la loro vicinanza a Dio, incorrendo nella punizione di Zeus. Essi cioè smarrirono la coscienza di sé, la voce interiore della saggezza, finendo per dare ascolto alla voce esteriore della potenza.

Dopo aver descritto la regione dell’Attica, l’antica floridezza del territorio successivamente impoverito da alluvioni, Crizia inizia il vero e proprio racconto di Solone: «Quella lunga narrazione cominciava allora press’a poco così.» [113 b] Egli narra della nascita di cinque coppie di gemelli, nati dall’unione di Poseidone con una giovane nativa dell’Isola; della costituzione di dieci regni, il principale dei quali retto dal primogenito: Atlante; dell’immensa ricchezza di Atlantide e la potenza militare straordinaria; delle leggi, delle usanze, delle costruzioni, ecc. Egli pone poi il problema della trasmissione di termini dalla lingua atlantidea a quella greca: avverte infatti che presenterà «nomi greci di uomini barbari» per di più tradotti dall’egizio, come del resto i «primi [Egizi,] che scrissero questa storia, li avevano tradotti nella loro lingua.» Salvo che per pochissimi casi, dunque, una duplice traduzione ci allontana da un linguaggio che ignoriamo completamente.

La ricchezza e la potenza dei dieci regni, che vengono descritte, si devono supporre come veramente immense, dato l’accordo e la cooperazione reciproca dei regni, e i rapporti coloniali sia con l’Europa e l’Africa sia con il continente al di là dell’Atlantico. Se la città di Atlantide era un emporio di straordinaria grandezza, tale che il suo porto era talmente attivo che navi e mercanti «che venivano da ogni parte del mondo [… e] sollevavano giorno e notte clamore e tumulto vario e strepito per il loro gran numero»,84 come Crizia afferma, dobbiamo ipotizzare città di mare, arsenali navali e commercio intenso anche negli altri nove regni. Platone parla per ciò di una «ricchezza quanta non ne fu mai per l’innanzi in alcuna dominazione di re né mai facilmente sarà nell’avvenire.»85 Questa ricchezza inimmaginabile si deve pensare dunque come effetto di due cause concomitanti: l’immensità dei territori di cui è stata fornita in qualche modo una descrizione, e l’organizzazione straordinaria, quale ci appare dal racconto.

Il regno di Atlante, principale regno dell’isola, secondo il racconto di Crizia va diviso in due distinti territori: da una parte la città, cinta da «un muro circolare»86 che la separava nettamente dal territorio circostante, e dall’altra la grande pianura, delimitata da un immenso canale rettangolare, circondata da territorio montuoso facente parte del regno. La città a sua volta viene descritta come composta di corone circolari di terra e di acqua: la grande corona circolare della terraferma delimitata dal muro, i due anelli adibiti a caserme militari, l’isola centrale, sede del tempio, della reggia e della guardia del corpo del sovrano.

L’isola centrale, del diametro di quasi mille metri, è il cuore del regno di Atlante, ma anche di tutti i dieci regni dell’isola: essa possiede quella preminenza che è religiosa e politica insieme. Quanto alla terra ferma circondata dal muro esterno, essa costituiva il «grande porto» per mercati di ogni genere, e la residenza di mercanti e artigiani, con un fervore di vita che sollevava «giorno e notte clamore e tumulto vario e strepito per il loro gran numero.» [117 e]

Possiamo affermare, «secondo la storia e la legge di Solone», che la metropoli risponda alla tripartizione platonica dell’anima umana, come Timeo aveva messo in evidenza nella parte finale del suo discorso sul Cosmo e sull’uomo, e come aveva fatto Socrate nella Politeia: l’isola centrale, i due anelli di terra e quella recintata dal muro hanno una precisa rispondenza alle anime razionale, irascibile e concupiscibile; mentre il resto del territorio sembra corrispondere al corpo umano. Nell’acropoli infatti si trovava il tempio dedicato a Poseidone; e Platone non dimentica di notare che aveva «qualcosa di barbarico nell’aspetto».87

Mentre la metropoli era costituita di cerchi concentrici, alterni di terra e acqua, la pianura rettangolare era divisa da canali che la solcavano da nord a sud, e che davano luogo a trenta isole interne di enorme lunghezza.

La potenza militare del solo regno di Atlante, poiché di quella degli altri nove Crizia non dice nulla, è enorme, e mette in risalto la differenza che vi era tra il numero incredibile delle armate dell’isola di Poseidone, accresciuto dell’apporto delle regioni europee e africane vassalle e delle terre oltreoceaniche, e quello dei Greci, anzi degli Ateniesi, che, per la defezione delle popolazioni elleniche, dovettero combattere da soli.

Quasi incredibile è già il numero dei sessantamila comandanti delle altrettante divisioni territoriali, a ciascuno dei quali faceva capo un gruppo di combattenti a cavallo e a piedi in numero di 21. Ad essi, come a guerrieri scelti, si aggiungeva «il numero dei montanari e di quelli della restante regione […] infinito»,88 sempre del regno principale; e poi i diecimila carri da guerra e le mille e duecento navi con i loro 240. 000 marinai; a cui vanno aggiunti gli eserciti e le flotte degli altri nove regni. Tale potenza, come sappiamo, occupava e «possedeva l’intera isola e molt’altre isole e parti del continente» al di là dell’Oceano. Con un simile apparato bellico, penetrata in Europa fino alla Tirrenia, e in Africa fino all’Egitto, «tutta questa potenza raccoltasi insieme tentò una volta con un solo impeto di sottomettere» le restanti terre bagnate dal Mediterraneo.

Tanta e tale era allora in que’ luoghi questa potenza, che il dio, secondo la tradizione, raccolse e diresse contro il nostro paese per il seguente motivo. Durante molte generazioni, finché bastò ad essi la natura divina, quegli uomini furono obbedienti alle leggi e animati amichevolmente verso il nume della loro schiatta. Perché nutrivano sentimenti sinceri e in tutto grandi, usavano moderazione e saviezza in tutti i casi occorrenti e nei loro rapporti: però disprezzando tutto, fuorché la virtù, consideravano poco le cose presenti e sopportavano pazientemente come un fardello la mole dell’oro e degli altri possessi. E non già si lasciavano inebriare dal lusso, né, perduto il dominio di sé per la ricchezza, andavano in rovina, ma nella loro saviezza acutamente osservavano che tutte queste cose s’accrescono per l’amicizia comune con la virtù, mentre, se si ricercano con troppo zelo e ardore, esse periscono e così pure la virtù. Finché dunque ragionarono così e conservarono la natura divina, s’accrebbe ad essi tutto quello che prima abbiamo enumerato. Ma quando l’essenza divina, mescolatasi spesso con molta natura mortale, in essi fu estinta, e la natura mortale prevalse, allora, non potendo sopportare la prosperità presente, degenerarono, e a quelli che sapevano vedere apparvero turpi per aver perduto le più belle delle cose più preziose; ma quelli, che non sapevano vedere la vera vita rispetto alla felicità, allora specialmente li giudicarono bellissimi e beati mentr’eran pieni d’ingiusta albagia e prepotenza. Ma Giove, il dio degli dèi, che governa secondo le leggi, avendo compreso, come quello che sa vedere queste cose, la degenerazione d’una stirpe già buona, pensò di punirli, affinché castigati divenissero migliori; e convocò tutti gli dèi nella loro più augusta sede, ch’è nel centro di tutto l’universo e vede tutto quello che ha sortito di nascere; e convocatili disse: … [120 d-121 c]89

Platone qui scrive una delle sue più belle pagine di valore morale: la virtù è la più alta espressione di affinità con Dio, ed essa si attua nel disprezzo delle cose materiali, e nella sopportazione paziente della ricchezza, considerata «come un fardello». La virtù, che consente agli uomini di conservare «la natura divina», permette poi l’accrescersi delle stesse ricchezze, intese quale strumento per l’uomo, perché resta sempre valido quello che Socrate aveva detto nel Liside, e cioè che «il bene è affine a ogni cosa e il male estraneo a tutto»;90 e ancora, nel Fedone, che il bene unisce e contiene ciò che unisce,91 mentre il male divide.

Torna quella concezione dell’età di Crono, o se vogliamo della buona natura umana agli inizi dei tempi, descritta da Platone nel Politico, prima che «il pilota dell’universo tutto, quasi abbandonando la barra dei timoni», si ritirasse «nel suo posto d’osservazione», imitato dagli dèi, e il Cosmo fosse lasciato a se stesso. Questa condizione di abbandono del Cosmo da parte di Dio, durata «molte generazioni», permise inizialmente agli abitanti dell’isola di Poseidone l’accrescimento della virtù e di un’alta forma di civiltà «finché bastò ad essi la natura divina»; successivamente tuttavia, «quando l’essenza divina, mescolatasi spesso con molta natura mortale, in essi fu estinta, e la natura mortale prevalse», non riuscì più a dominare il peso dei beni materiali, ma ne fu dominata.92

Non solo si capovolge il rapporto tra spirituale e materiale, ma di necessità si offusca la capacità di giudizio, e «quelli, che non sapevano vedere la vera vita rispetto alla felicità, allora specialmente li giudicarono bellissimi e beati»; ma «a quelli che sapevano vedere apparvero turpi per aver perduto le più belle delle cose più preziose».

In analogia con le punizioni di ordine naturale descritte e in altri dialoghi, Platone introduce una punizione divina: «Ma Giove, il dio degli dèi, che governa secondo le leggi, avendo compreso, come quello che sa vedere queste cose, la degenerazione d’una stirpe già buona, pensò di punirli, affinché castigati divenissero migliori».

Non c’è dubbio che la punizione che Zeus intende infliggere, anche se per noi non confortata da nessuna precisazione per la mancanza del seguito del dialogo, debba considerarsi la sconfitta della potenza atlantidea ad opera degli Ateniesi, «affinché castigati divenissero migliori»; tuttavia noi sappiamo che un cataclisma immane, coinvolgente le popolazioni vinte e vincitrici, cadde improvviso, e «nello spazio di un giorno e di una notte tremenda», gli Ateniesi vincitori «sprofondarono insieme dentro terra, e similmente scomparve l’isola Atlantide assorbita dal mare».

Solenne, in questo dialogo tanto simile ad arcaica statua acefala di uomo per l’ingiuria del tempo, è la rappresentazione della maestà di Zeus nella «più augusta sede, ch’è nel centro di tutto l’universo e vede tutto quello che ha sortito di nascere», ove ha convocato gli dèi; «e convocatili disse: …» L’alta parola giudicatrice del Nume, che Platone certamente avrebbe espresso in maniera adeguata alla circostanza, non è giunta a noi; eppure questa mancanza, anzi proprio questo suo rimanere sospesa anche sopra di noi, si tinge di tutta l’epicità della tremenda guerra atlantidea, e della catastrofe che investì sull’intera civiltà novemila anni prima di Solone.93

5. La storia ideale di Atene

Tutta la filosofia di Platone è finalizzata alla politica, anche se la sua voce non si levò mai in Atene per un contributo diretto. Egli stesso in una lettera giustifica questa sua mancata partecipazione attiva: «Se poi qualcuno, udendo queste mie parole: ‘Platone — dirà — pare si vanti di sapere ciò che giova alla democrazia; eppure, per quanto potesse parlare al popolo e consigliarlo per il meglio, non ha mai fatto sentire la sua voce in pubblico’, rispondigli che Platone è nato troppo tardi nella sua patria, e v’ha trovato un popolo ormai troppo vecchio, e abituato dagli uomini politici passati a fare cose troppo disformi dai consigli ch’egli potrebbe dargli».94 E relativamente agli inviti rivoltigli per una sua collaborazione alla fondazione di una colonia, il suo atteggiamento è analogo.95

Vero politico era stato Socrate: egli aveva vissuto giorno per giorno il bene politico, e per esso aveva accettato l’ingiusta condanna a morte, poiché riteneva giusto subire piuttosto che commettere ingiustizia. Questo atteggiamento aveva vissuto e insegnato, poiché non è bene infrangere le leggi per interesse proprio: si deve persuadere a cambiarle, qualora esse siano ingiuste, ma non violarle. La stessa posizione era stata assunta dal discepolo; e per entrambi valeva la considerazione che è più importante la formazione completa di un individuo che la formulazione astratta di leggi conformi a giustizia. In Platone, questa priorità era tanto più urgente in quanto la Scuola di Isocrate finalizzava il proprio sforzo alla formazione politica di persone la cui paideia non aveva basi filosofiche, ma retoriche, per quanto elevato fosse l’ideale del suo scolarca. Nell’Eutidemo Platone, con comprensione per questo ideale pur sempre elevato, porrà la Scuola del suo rivale in posizione inferiore a quella dell’Accademia con una giustificazione dialettica.96

La corsa dei giovani alla vita politica doveva essere abbastanza frequente in Atene: ne abbiamo un’eco anche nei dialoghi platonici. Significativo è a riguardo il caso del giovane Alcibiade quale ci viene presentato nel primo dei due dialoghi che portano il suo nome: in esso, Socrate mostra al futuro statista che il suo grande desiderio di entrare nella vita politica non è sorretto da una conoscenza adeguata.

Con l’Alcibiade I sembra avere un legame ideale il Menesseno: Socrate ora, rivolto a Menesseno, suppone che questi intenda darsi «all’impresa di governare noi più anziani».97 La risposta che ottiene («Se tu, Socrate, permetti e consigli di tendere alle magistrature, lo farò ben volentieri: se no, no.») fa comprendere che ci si pone tuttavia al di là dell’intenzione dell’altro dialogo, perché non si tratta ora del problema di un giovane che vuole dedicarsi alla politica, quanto piuttosto di un interesse di Menesseno per «il discorso sui morti in guerra»,98 e dunque di uno solo degli aspetti particolari del problema politico: la retorica epidittica dell’epitaffio. «Sì, Menesseno, — dice Socrate — va a finire che per più rispetti bello è morire in guerra. Bella e magnifica sepoltura tocca anche a chi povero conclude la sua vita».99

La difesa del proprio Stato, fino al sacrificio della vita, è un bene, poiché essa si colloca all’interno di quel movimento verso il Bene al quale l’individuo è chiamato, e che passa attraverso la convivenza sociale e politica. Se «bello è morire in guerra» per la propria Patria, lo è ancor più se la Patria stessa è stata capace di dare l’esempio con la propria storia ai cittadini, invitandoli ad imitarla, e mostrando a ciascuno quale debba essere il suo percorso paideico. Per la commemorazione dei caduti in sua difesa, questo dovrebbe sentire un vero cittadino.

L’epitaffio che Socrate riferisce a Menesseno, e che dice di aver udito da Aspasia, delinea una storia di Atene lontana dalla realtà degli avvenimenti: una storia non come Atene ebbe, ma come avrebbe dovuto avere per quell’egemonia culturale che essa deteneva su tutta l’area politica greca. L’epitaffio è però soprattutto una grande metafora della lotta che l’anima deve combattere per diventare perfetta: troviamo la parabola della ideale formazione individuale nascosta nell’ideale vicenda storica di Atene.

Di questa storia vanno sottolineati i tre momenti che, proprio nelle forzature storiche,100 mostrano il cimento e la vittoria delle tre anime dell’uomo, o meglio dell’anima razionale per imporsi su quella concupiscibile, su quella irascibile e su se stessa, perché ciò che vale per il singolo individuo vale per l’intera polis.

Lo schema è il seguente:

  1. vittoria dei Greci sui Persiani («la guerra contro i barbari»):101 barbari che rappresentano l’anima concupiscibile (vittoria della temperanza);
  2. vittoria degli Ateniesi sugli altri Greci («tutti i Greci si misero in marcia contro di noi»):102 Greci che rappresentano l’anima irascibile (vittoria della fortezza). Ai Greci si uniscono poi anche i barbari (l’anima irascibile e l’anima concupiscibile contro l’anima razionale);
  3. vittoria nella guerra civile degli Ateniesi («siamo noi, invece, che abbiamo vinto noi stessi, e da noi stessi sopraffatti»):103 Ateniesi che rappresentano l’anima razionale (vittoria della sapienza).

Questo rapporto di somiglianza tra individuo e Stato è esplicitamente espresso nella Politeia, in cui Platone dà un quadro ideale della diversità delle costituzioni politiche e della loro decadenza, sulla base delle diversità degli individui e della loro degenerazione, del loro allontanarsi dalla giustizia.104

Se due sono le forme generali di giustizia, quella verso gli dèi e quella verso gli uomini, quest’ultima va distinta in giustizia politica e giustizia privata. Ma la giustizia politica, come sta nel mezzo tra le altre due, così non è possibile che non sia fondata sull’una e l’altra, quale sintesi di entrambe.

Lo Stato non è un dato di fatto naturale in cui l’uomo si trovi originariamente, piuttosto è l’espressione della volontà degli individui diretta alla convivenza organizzata, ma d’altra parte l’uomo è per natura un essere socievole, e dunque non può non vivere in uno Stato. I Sofisti sostenevano il principio naturale dell’utile del più forte, perché per natura è giusto che il forte prevalga: per questo, secondo loro le leggi delle città sono nate contro natura, per convenzione, dai più deboli, che hanno costretto i forti a sottostare ad un complesso di regole arbitrarie che li snatura. Ma Socrate aveva risposto che i più deboli, uniti, diventano i più forti, e dunque per natura e per convenzione è più giusto che essi governino.

Non è tuttavia il numero ciò che giustifica e legittima uno Stato, quanto piuttosto l’affinità al divino di chi governa, cioè il possesso dell’arte politica; e più vero politico è colui che possiede la conoscenza del Bene, come si afferma nella Politeia. In una società storica nella quale bene e male non solo si mescolano, ma non si distinguono più, occorrerebbe, dice l’Ateniese nelle Leggi, la diretta azione di Dio o l’avvento di un uomo particolare: «Ma c’è una cosa invece che ha molta importanza e cui è difficile persuadere, una cosa che potrebbe soprattutto essere un’opera della divinità, se mai fosse possibile che venissero da parte sua le dovute prescrizioni, mentre ora per questa cosa invece può darsi ci sia bisogno di un uomo audace il quale onorando soprattutto la libertà di parola dica ciò che gli appare miglior partito per lo stato e i cittadini, ordini e stabilisca ciò che è conveniente per le anime corrotte e conseguente a tutta la nostra costituzione, enunciando cose opposte alle più grandi passioni, senza aver l’aiuto di nessuno, da solo seguendo solo il suo discorso.»105

Questo «suo discorso» è ancora una volta quello della città ideale, nella quale la razionalità rende armoniche le parti di cui è costituita, volgendole ciascuna al proprio fine.


  1. Leg. VII 803 c; 804 b. Tutte le citazioni sono tratte da Platone, Opere complete, Laterza, 1971. ↩︎

  2. Leg. X 902 e-903 a. ↩︎

  3. Phaed. 67 a. ↩︎

  4. De just. 375 c. Per un quadro cronologico dei dialoghi, v. Rocco Li Volsi, Sulla cronologia dei dialoghi platonici, in Giornale di Metafisica, Nuova Serie XXII (2001), 2. ↩︎

  5. Non è chiaro tuttavia se Platone pensi ad un reale periodo edenico, ad una età dell’oro, o non piuttosto non supponga una umanità primordiale, semplice e ingenua, ma per ciò stesso senza malizia e senza discordie, come descrive gli uomini sopravvissuti alle grandi catastrofi naturali nel terzo libro delle Leggi↩︎

  6. Lo straniero di Elea è presentato da Platone come discepolo di Parmenide e di Zenone: egli è il protagonista tanto del nostro dialogo quanto del Sofista. Nel Sofista egli discute con il giovane Teeteto, nel Politico con un giovane di nome Socrate. I due giovani rappresentano le due ‘metà’ di Socrate (filosofia e politica) in quanto il primo gli assomiglia nel volto, il secondo porta il suo stesso nome. ↩︎

  7. Crat. 396 d. ↩︎

  8. Erodoto, Le storie, II 142, p. 238, Mondadori,1963. Mi sembra di grande interesse, soprattutto in rapporto al discorso che dovremo fare sull’Atlantide, la tradizione mesoamericana che ricorda analoghe ‘inversioni’ del sole. V. Gli annali di Cuauhtitlan e il Manoscritto 1558↩︎

  9. Per la generazione del Cosmo, v. Rocco Li Volsi, Il sentiero della verità e dell’Essere, “Giornale di Metafisica”, Nuova Serie, XXII 2000 n. 3; XXIII 2001 n. 1; e inoltre Rocco Li Volsi, La concezione platonica dell’intero e della materia, in “Sapienza” 2005. ↩︎

  10. Tim. 36 c. ↩︎

  11. Phaedr. 237 d. ↩︎

  12. Phil. 16 c ss. ↩︎

  13. Tim. 27 d. ↩︎

  14. Leg. X 895 e. V. inoltre l’identica definizione data nel Fedro↩︎

  15. È da notare che qui si parla di due movimenti: 1. quello del Cosmo «quando è abbandonato a se stesso»; 2. quello che il Cosmo segue quando «è guidato da una causa da esso diversa e divina, riconquistando così vita e ricevendo immortalità rinnovata dall’artefice suo». Si parla dunque del «moto di ritorno», dopo quello iniziale, e di un terzo, che rende ‘immortale’ il Cosmo, cioè lo stabilizza in quest’ultimo movimento. Resta tuttavia un grave problema, poiché Platone nelle Leggi, riguardo al bene e al male, parla di due anime: «Non poniamone certo meno di due, quella che opera il bene e quella che può operare il male», Leg. X 896 e. ↩︎

  16. Tim. 36 d-e. ↩︎

  17. Soph. 256 b. V. Li Volsi, Il sentiero della verità e dell’Essere, e soprattutto Li Volsi, Il Sofista di Platone, “Giornale di Metafisica”, Nuova Serie, XXIV (2002), 1-2. Nel Sofista esplicitamente si afferma: «E allora per Zeus? Ci faremo persuadere così facilmente che in realtà il moto, la vita, l’anima, l’intelligenza non ineriscono a ciò che assolutamente è, ch’esso né vive né pensa, ma invece venerabile e santo, senza intelletto, se ne sta fermo, immoto?» Soph. 248 e. ↩︎

  18. Nel Timeo Platone parla di «chiodi invisibili per la loro piccolezza» mediante i quali particelle di fuoco, aria, acqua e terra si legano assieme per formare singoli corpi. Tim. 43 a. Questi «chiodi invisibili» devono essere pensati come l’azione del Bene nell’ambito ‘atomico’, in quanto il Bene, ‘lega’ elementi opposti; e ciò non è altro che la volontà stessa di Dio, secondo le parole del Demiurgo rivolte agli dèi nel Timeo: «O dèi, figli di dèi, io sono il vostro artefice e padre, e le cose generate per mezzo mio non sono dissolubili, se io nol voglio.Tutto ciò che è legato è dissolubile, ma il voler dissolvere quello che è ben congiunto e che sta bene è da malvagio. E però neppur voi, poiché siete stati generati, siete immortali, né interamente indissolubili, ma non sarete disciolti, né vi coglierà la sorte di morire, perché la mia volontà è per voi legame anche maggiore e più forte di quelli, da cui foste legati nascendo.» Tim. 41 a-b. È dunque la volontà divina che tiene uniti gli elementi del Cosmo; volontà che, per così dire, è ora ‘rimessa’, secondo il mito, al Cosmo stesso, secondo il mito, reso autonomo dall’azione diretta di Dio. ↩︎

  19. Tim. 37 d. ↩︎

  20. Gorg. 523 c-e. ↩︎

  21. Leg. X 904 e-905 c. Per la condizione di felicità dell’uomo giusto nell’aldilà, v. nel Convivio l’intero discorso di Diotìma. ↩︎

  22. Soph. 247 c. ↩︎

  23. Soph. 247 a. ↩︎

  24. Non si tratta di momenti dialettici di tipo hegeliano, quanto piuttosto di quelli teorizzati da Gioberti: metessico iniziale, mimetico, metessico finale. ↩︎

  25. Tim. 27 b. ↩︎

  26. Si tratta dello stesso rapporto che nel Parmenide viene presentato sotto le figure del ‘Padrone in sé’ e dello ‘Schiavo in sé’, rispetto al ‘padrone umano’ e allo ‘schiavo umano’. Parm. 133 d-e. ↩︎

  27. V. Eutifrone, ma anche Timeo↩︎

  28. È da tenere presente questa descrizione per comprendere quella costituzione che Socrate, descritta con poche parole nella Politeia, ritiene la più perfetta, superiore a quella ideale su cui si soffermerà a lungo. ↩︎

  29. Non possiamo qui approfondire il mito di Dio pastore degli uomini per la complessità dialettica che esso comporta: è evidente infatti che la funzione di guida di Dio nei confronti dell’umanità primitiva si attuava specificatamente nel rapporto tra il «dio ch’è guida di tutte le cose presenti e future» (Epist. 323 d), cioè il Bene, e il misto dell’anima (Tim. 35 a), in modo tale da realizzare una perfetta armonia dell’anima in se stessa, in rapporto al proprio corpo e alle cose relative al corpo (i beni materiali). In questa condizione di perfetta armonia, in cui tutto è retto e guidato dal Bene, diciamo soltanto che non sorge neppure il concetto di giustizia (e il suo contrario), e l’esistenza è un’esistenza adialettica. ↩︎

  30. Dice Socrate nel Liside: «[…] badiamo che non ci traggano in inganno tutte quelle cose che diciamo essere amiche a causa di questo primo amico; esse sono sue immagini, mentre è lui soltanto, il primo, che in realtà è amico. […] Per tutte quelle cose che ci sono amiche in modo relativo, evidentemente noi usiamo un termine improprio: in realtà mi sembra che sia vero amico ciò a cui fanno capo tutte le cosiddette cose amiche. […] Dunque, ciò che è il vero amico, lo è in senso assoluto. Questo dunque è stato chiarito, che il primo amico è amico in assoluto. Ma questo amico si identifica col bene?» Lys. 219 d-220 b. Di questo Primo Amico, che si identifica con il Bene, ricordiamo che Platone parla nel Fedone in questi termini: «ciò che è il bene, che è ciò che lega ogni cosa al suo fine, non pensano affatto né che veramente colleghi cosa veruna né che la contenga.» Phaed. 99 c. ↩︎

  31. V. Li Volsi, Il sentiero della verità e dell’Essere↩︎

  32. V. la teoria della partecipazione per l’intero e per la parte di cui parla il Parmenide, 131 a. Tale teoria non va interpretata nei termini di una partecipazione per una particolare intera idea da parte di qualcosa o per una parte di tale idea, ma come due partecipazioni distinte: per l’intero Intellegibile partecipano le anime, per una sua parte partecipano i corpi. ↩︎

  33. Resp. IX 585 a-586 e. ↩︎

  34. Tim. 92 c. ↩︎

  35. Resp. X 608 d ss. ↩︎

  36. Abbia già riportato il passo: «O dèi, figli di dèi, io sono il vostro artefice e padre, e le cose generate per mezzo mio non sono dissolubili, se io nol voglio.» Tim. 41 a-b. Questo viene detto degli dèi, e dunque deve intendersi anche delle anime, che sono costituite di identico e diverso uniti nel misto dal Demiurgo. ↩︎

  37. Tim. 30 a; 35a-b. ↩︎

  38. Che per l’uomo la memoria non sia altro che l’intelletto, si ricava soprattutto dal fatto che Platone presenta la conoscenza come reminiscenza, e cioè come un riaffiorare di elementi intellegibili nell’intelletto. L’oblio di cui parla il passo del Politico è per ciò da intendersi come incapacità dell’Anima cosmica di mantenere la supremazia del proprio intelletto sull’«antica affezione […] del disordine». V. Rocco Li Volsi, La concezione platonica dell’intero e della materia. ↩︎

  39. Resp. IX. Il tiranno, uomo pubblico o privato, viene ‘disgregato’ dalle passioni: egli perde l’unità psichica per andare verso una frantumazione interiore che lo rende eteroclite a se stesso. ↩︎

  40. Gorg. 492 e-493 c. ↩︎

  41. Phaed. 108 e ss. ↩︎

  42. V. la teoria dei deliri nel Fedro 265 a ss. ↩︎

  43. Phaedr. 248 b-c. ↩︎

  44. V. anche i miti assiri e babilonesi, che mostrano punti di tangenza con quelli greci. ↩︎

  45. Tim. 35 a; 36 d-e; 36 c, 37 a-c. ↩︎

  46. Tim. 41 c-d. ↩︎

  47. Phaedr. 246 a ss. Ciò non toglie che Platone possa aver pensato ad una età dell’oro agli inizi della generazione umana. ↩︎

  48. Phaedr. Ivi. ↩︎

  49. Cfr. Gorg. 523 c ss; Phaed. 113 d-114 c. ↩︎

  50. 248 e-249 a. ↩︎

  51. 64 e-65 a. ↩︎

  52. Le ipotesi sull’’uno che è’. V. Rocco Li Volsi, Commentario al Parmenide di Platone, Treviso, 1997. ↩︎

  53. 312 e-313 a. A dire il vero, questo passo si può leggere in due modi diversi: 1. o si parla di tre ‘re’, e in questo caso il «re del tutto» è l’Uno assoluto, il secondo è l’Uno che è, il terzo è l’Uno che unisce; 2. oppure si tratta di Dio, dell’Anima del cosmo e dell’anima umana. A me tuttavia sembra più plausibile la prima ipotesi: infatti al «re del tutto» sono attribuite soltanto le «cose belle», se la frase non è generica, e non gli aspetti dell’intellegibilità e del bene. ↩︎

  54. 323 c-d. Qui si parla 1. di un «padre signore della guida e della causa»: cioè dell’Uno assoluto; 2. di una «causa»: cioè dell’Uno che è, dell’ssere, poiché per Platone l’Essere è la causa degli esseri; 3. di una «guida»: cioè dell’Uno che unisce, del Bene. ↩︎

  55. Tim. 31 b-32 b. ↩︎

  56. Crat. 387 d-e. ↩︎

  57. In analogia con il passaggio dal primo al secondo ciclo nel mito del Politico, in cui il Cosmo passa da una condizione metastorica a quella storica, nel Protagora abbiamo la condanna di Prometeo, con la quale si ha la cessazione dell’azione divina a favore degli uomini. Molto significativi sono naturalmente gli episodi relativi a Prometeo narrati da Esiodo, sia nella Teogonia sia nelle Opere e i giorni↩︎

  58. Phil. 16 c. ↩︎

  59. Resp. VII 533 c-d. ↩︎

  60. Crat. 432 b-e; Soph. 260 a ss. ↩︎

  61. Phil. 52 c. ↩︎

  62. «[…] l’uomo è un animale non cattivo, ma volubile», afferma Platone nella Lettera XIII, 360 d. ↩︎

  63. Tim. 35 a. ↩︎

  64. «Socr. Non abbiamo affermato in qualche modo che il dio ha rivelato la presenza del finito e dell’infinito nelle cose che sono? Prot. Certo. Socr. Poniamo dunque questi come due generi e come terzo una certa unità mista che risulta dai primi due.» Phil. 23 c. ↩︎

  65. V. i due saggi citati alla nota 6. ↩︎

  66. Il quadro che si ricava dalla Politeia è il seguente: Stato patriarcale, Stato ideale, Stato timocratico, Stato oligarchico, Stato democratico, Stato tirannico. Il quadro che troviamo nel Politico ha un carattere dialettico, ed è il seguente: 1. Stato al di sopra delle legge; 2: Stati sottomessi alla legge (di uno: monarchia; di pochi: aristocrazia; di tutti: democrazia); 3. Stati fuori della legge (di tutti: demagogia; di pochi: oligarchia; di uno: tirannide). Queste ultime sei forme di governo rispondono alle seguenti coppie di opposti dialettici: identico, simile, uguale // disuguale, dissimile, diverso, in cui, come sempre, gli estremi sono l’identico e il diverso. ↩︎

  67. Com’è noto, la tradizione greca ricordava in particolare tre diluvi, denominati da nome degli uomini sopravvissuti: di Ogige, di Deucalione, di Dardano. ↩︎

  68. Nella Politeia Socrate così dice a Trasimaco: «Tu credi che, in quanto pastore, egli ingrassi le pecore non per procurare loro il meglio, ma per farsi una buona mangiata, come un qualsiasi commensale che s’accinge a pranzare, o per vendere, come un uomo d’affari, ma non come un pastore. Invece la pastorizia non si cura d’altro se non di procacciare il meglio al suo oggetto specifico, dato che per ciò che concerne le sue peculiari qualità onde è resa perfetta, ne è dotata sufficientemente finché nulla le manca per essere pastorizia.» Resp. I 345 c. ↩︎

  69. «Il nome dunque è come uno strumento didascalico e sceverativo dell’essenza». Crat. 388 b. ↩︎

  70. Phaedr. 275 b. ↩︎

  71. Resp. II 372 e. ↩︎

  72. Theag. 128 d. ↩︎

  73. Criti. 113 a-b. ↩︎

  74. Tim. 23 d. ↩︎

  75. Tim. 21 b. ↩︎

  76. Tim. 21 a. La narrazione di Socrate nella Politeia avviene durante la festa delle Bendiadi. È da ricordare che nel Parmenide l’arrivo dell’Eleate e del suo discepolo è collocato durante le Grandi Panatenee. ↩︎

  77. Criti. 109 a. ↩︎

  78. Tim. 23 e. ↩︎

  79. Criti. 109 c. ↩︎

  80. Tim. 24 d. ↩︎

  81. Criti. 121 b. ↩︎

  82. Cfr. Erodoto, Storie, II 141; 145. ↩︎

  83. Tim. 27 b. ↩︎

  84. Criti. 117 e. ↩︎

  85. Criti. 114 d. ↩︎

  86. Criti. 117 d. ↩︎

  87. Criti. 116 d. ↩︎

  88. Criti. 119 a. ↩︎

  89. Il centro dell’universo è il punto metafisico da cui si sprigiona l’energia che si proietta nelle sei direzioni fino all’estremo confine del Cosmo. Tim. 43 b. ↩︎

  90. Lys. 222 c. ↩︎

  91. Phaed. 99 c. ↩︎

  92. Platone classifica nell’Eutidemo i beni e i mali dell’uomo, distinguendoli, con progressione decrescente di valore, in beni dell’anima, del corpo, delle cose relative al corpo, e in mali delle cose relative al corpo, del corpo, dell’anima. Euthyd. 278 e ss. ↩︎

  93. Per sostenere scientificamente la veridicità della «storia tutta vera» di Atlantide occorrerebbe fare un accurato raffronto tra la cultura al di qua e quella al di là delle ‘Colonne d’Ercole’, ed evidenziare gli eventuali elementi concordanti ed affini, dalle leggende e dalle credenze agli aspetti linguistici e artistici. In realtà, le concordanze sono di numerosissime, a partire dall’isola di Aztlan da cui sarebbero fuggiti gli Aztechi a causa dell’improvviso sommergersi dell’isola. ↩︎

  94. Epist. V 322 a-b. ↩︎

  95. Platone, invitato a fondare una colonia o a darne una costituzione, si rifiutò poiché, come egli dice: “se venissi io, e non riuscissi a compiere quello per cui mi chiami, sarebbe una cosa disdicevole. Né io ho grande speranza di poter riuscire: a dirtene il perché, dovrei scriverti un’altra e lunga lettera, spiegandoti ogni cosa punto per punto. Inoltre la mia età non mi permette di mettermi in viaggio e di affrontare i rischi che si corrono per terra e per mare”. Epist. XI 358 e. ↩︎

  96. Euthyd. 305 b ss. ↩︎

  97. Meness. 234 a. ↩︎

  98. Meness. 234 b. ↩︎

  99. Meness. 234 c. ↩︎

  100. In analogia, si vedano le disinvolte forzature etimologiche del Cratilo↩︎

  101. Meness. 242 a. ↩︎

  102. Meness. 242 c. ↩︎

  103. Meness. 243 d. ↩︎

  104. Nella Politeia Platone fa un esplicito parallelo tra le tre anime e le tre classi sociali della città ideale: anima razionale = governanti; anima irascibile = guerrieri; anima concupiscibile = produttori. La città ideale è pertanto l’espressione dell’uomo ‘regale’, nel quale l’anima razionale guida e armonizza le altre due. Identico è il parallelo con la storia di quella città che dovrebbe presentarsi come la polis ideale. ↩︎

  105. Leg. 835 c. ↩︎