Il carme magico di Zalmosside. Saggezza e sapienza nel pensiero platonico

Come spesso accade nella produzione letteraria di Platone, anche il personaggio che dà il nome al Carmide non è l’interlocutore più importante di Socrate: a lui si devono i tre primi tentativi di definire cosa sia saggezza, poi il dialogo ruota attorno alla figura di Critia. Ma il giovane e bellissimo Carmide resta il simbolo di questa ricerca, anzi il simbolo di ogni giovane ‘bello’, bello di quella bellezza che egli possiede anche nell’anima, che fa dire a Socrate che intende «spogliarne proprio l’anima e contemplarla prima della bellezza del corpo». Ciò non sorprende: Carmide infatti «ha anche amore alla sapienza».1

Questa simbologia si fa più pregnante quando ci rendiamo conto del valore dell’espediente letterario a cui Platone fa ricorso per introdurre il dialogo: il giovane si è «alzato stamane con un gran peso al capo», per cui Critia si rivolge a Socrate con questa richiesta: «Hai difficoltà a fargli credere che sai qualche rimedio pel mal di capo?»2 E Socrate risponde di non avere nessuna difficoltà. La saggezza si profila già come il ‘farmaco’ che toglie quel ‘mal di capo’ che è l’ignoranza, anzi quella ignoranza che è il ‘credere di sapere’: il maggior ‘mal di capo’ di cui si possa soffrire.

Il ‘rimedio’ della saggezza, secondo l’improvvisazione ironica di Socrate, va accompagnata però da un incantamento, da un carme magico che egli ha «imparato laggiù nell’esercito da uno dei medici traci di Zalmosside che hanno fama di rendere immortali gli uomini.»3 L’immortalità a cui allude Socrate certamente non sarà quella che promettevano i medici traci, ma piuttosto quella che, secondo Platone, il vero filosofo consegue attraverso il processo di acquisizione della saggezza, quale orientamento al Bene. Si tratta del percorso che va dalla dispersione della molteplicità del sensibile all’unità dell’anima con se stessa, in cui tutte le parti trovino organicità nell’unità dell’intero, e l’individuo possa utilizzarle correttamente. Così preciserà ad esempio Socrate nel Fedro: «Perché bisogna che l’uomo comprenda ciò che si chiama Idea, passando da una molteplicità di sensazioni ad una unità organizzata dal ragionamento.»4

Con grande finezza e ironia, Platone presenta il ‘rimedio’ della saggezza facendo fare a Socrate l’elogio di quanto «uno dei medici di Zalmosside» gli avrebbe rivelato.

Questo Trace mi diceva che i medici greci hanno ragione riguardo alle cose che mostravo ora; ma soggiungeva: «Il nostro Zalmosside, che è un dio, vuole che come non si deve cominciare a sanare gli occhi senza tener conto del capo, né il capo senza il corpo, così neppure si deve cominciare a sanare il corpo senza tener conto dell’anima, anzi questa sarebbe proprio la ragione per cui tante malattie la fan franca ai medici greci, perché essi trascurano il tutto di cui invece dovrebbero prendersi cura, quel tutto che è malato e dunque non può guarire in una parte. In realtà» soggiungeva «ogni cosa, il male o il bene, non irrompe nel corpo e in tutto l’uomo se non dall’anima, dalla quale tutto proviene, come dalla testa proviene tutto ciò che corre agli occhi; così che si deve cominciare a curare soprattutto quella, se si vuole che la testa e le altre parti del corpo stiano bene. L’anima, o beato» continuava «si cura con certi carmi magici che sono poi i discorsi belli, dai quali cresce nelle anime la saggezza. Quando questa sia cresciuta e sia là presente, allora è facile dare salute al capo e al resto del corpo». E mentre il Tracio m’insegnava i rimedi e le parole magiche, soggiungeva: «che nessuno ti convinca a curare la propria testa con questa medicina, se prima non avrà affidato la sua anima alla cura dell’incantamento. Perciò anche ora» continuava «si fa questo sbaglio fra gli uomini che taluni cercano d’essere medici dell’uno o dell’altra cosa separatamente, o della saggezza o della salute».5

Il concetto dell’intero ricorrerà spesso nei dialoghi più tardi, ma possiamo ipotizzare che esso fosse uno dei punti fermi del pensiero platonico e della sua dialettica forse fin dagli anni giovanili del filosofo. Alla fine del dialogo, dopo l’apparente fallimento della ricerca su cosa sia saggezza, Socrate si rammarica di non poter dare a Carmide l’incantesimo imparato dal medico trace, proprio perché non è riuscito a curargli l’anima con quei «carmi magici che sono poi i discorsi belli, dai quali cresce nelle anime la saggezza.»6 Ma Carmide protesta: «Tuttavia non mi hai convinto interamente e sono certo, caro Socrate, d’aver bisogno di quell’incantesimo; e per quanto sta in me niente m’impedisce che tu me lo canti per tanti giorni quanti, a tuo parere, bastino. — Bene, disse Critia, fa così, o Carmide. Questa sarà per me la prova della tua saggezza se t’offri all’incantesimo di Socrate, e non lo abbandoni mai.»7

Nella finzione letteraria, l’espediente di Socrate ha avuto successo: Carmide, che già «ha anche amore alla saggezza», se pure non è riuscito né a darne né a riceverne la definizione, non abbandonerà più Socrate, alla ricerca della conoscenza di sé, secondo il monito delfico sul quale si svolge il dialogo.

Ma intanto, constatata la debolezza delle tre definizioni proposte da Carmide,8 Critia interviene nella discussione, «con quell’aria irritata di un poeta verso l’attore che gli rovina i versi»,9 prendendo il posto del suo pupillo. L’ultima definizione proposta Carmide infatti doveva averla sentita proprio da lui, e a Socrate era apparsa come un indovinello: «Dunque, a quanto vedo, — aveva detto Socrate — egli proponeva piuttosto un indovinello, sapendo bene che è difficile capire cos’è mai questo ‘occuparsi delle proprie cose’.»10 Si tratterebbe di comprendere in che consistano realmente le «proprie cose», ricerca che già nell’Alcibiade I Platone aveva introdotto con questa domanda di Socrate a giovane interlocutore: «Ecco: cosa significa ‘prendersi cura di sé’?, perché c’è da temere che spesso ci illudiamo di prenderci cura mentre, per quanto lo si creda, non ne facciamo proprio niente. E quand’è che un uomo ci si mette? È quando uno si prende cura delle sue cose, che egli ha cura di se stesso?»11 Poco dopo, nello stesso dialogo, Socrate chiede ancora: «Di’ su, allora: con quale arte potremo prenderci cura di noi stessi?»12 Poi, più sotto aggiunge:

Potremmo forse conoscere qual è l’arte che migliora l’uomo stesso se non sapessimo chi siamo noi stessi? Alc. Impossibile. Socr. E può mai darsi che sia una bazzecola conoscere se stessi e che fosse uno sciocco chi iscrisse quelle parole nel tempio di Pito o è invece una cosa difficile e non da tutti? Alc. Talvolta, Socrate, mi è sembrato cosa da tutti, talvolta invece compito estremamente difficile. Socr. Beh! Alcibiade, può essere facile o no, ma per noi il problema si pone così: se conosceremo noi stessi, conosceremo forse la cura che dobbiamo prenderci di noi, se no, non la conosceremo mai. Alc. È così. Socr. Di’ dunque: in qual modo si potrebbe scoprire in che consiste il «se stesso»? Perché di conseguenza potremmo forse scoprire cosa siamo noi, ma rimanendo all’oscuro della prima cosa sicuramente sarà impossibile scoprire la seconda.13

Siamo davanti ad un passo essenziale per la soluzione del problema del Carmide, il quale tra poco si incentrerà proprio sul ‘conosci te stesso’: sull’Alcibiade I per ciò dovremo tornare per comprendere cosa si intenda per identico («se stesso»).14

L’intervento di Critia dà luogo intanto ad una distinzione tra ‘fare’ e ‘lavorare’ fatta sulla base della parola di Esiodo: «il fare è talvolta oggetto d’onta, quando non partecipi al bello; il lavoro non è mai basso perché egli chiamava lavoro le opere create utilmente e con bellezza».15 A questa precisazione, Socrate risponde: «O Critia, […] ho capito quasi subito da principio dove menava il tuo discorso, cioè che tu per ‘proprio’ avevi inteso il proprio bene e, per ‘occupazione’, la creazione di beni.»16

Quantunque anche questa, come le altre precisazioni, sarà travolta dall’ironia confutatoria di Socrate, in realtà essa fa parte della definizione di saggezza che si va costruendo, e che per ora appare priva del carattere conoscitivo. Socrate infatti fa notare che possono essere prodotte cose buone anche casualmente, senza che chi le produca sia saggio. Critia cerca allora di eliminare la frattura tra produrre cose buone e l’essere saggio, avanzando un’altra definizione: «[…] quasi quasi io, per conto mio, sostengo che la saggezza è conoscere se stessi e sono d’accordo con chi ha consacrato questa iscrizione sul tempio di Delfi. […] Naturalmente da profeta che è, [il dio] lo dice in modo piuttosto enigmatico, perché ‘conosci te stesso’ e ‘sii saggio’ sono la medesima cosa come l’iscrizione esprime ed io credo».17

È nota l’importanza che Platone attribuisce all’invito delfico: la definizione di Critia è dunque valida, ma va messa alla prova, perché in realtà più che una definizione è appunto un invito.

Sul cammino della ricerca della conoscenza di sé si apre però per Platone un bivio con sentieri, qui non distinti, che conducono alla stessa meta che è quella del ‘produrre cose buone’, ma che comportano itinerari diversi: il sentiero dell’opinione, che conduce alla saggezza, e quello della conoscenza, che conduce alla sapienza. Saggezza e sapienza non sono diverse quanto agli effetti, ma lo sono quanto alla loro struttura intrinseca e alla capacità di insegnare: nel Menone infatti, Socrate, dopo aver sostenuto che «tutto quello che l’anima intraprende e compie sotto la guida dell’intelligenza si conclude felicemente», afferma che «l’opinione vera, […] relativamente alla rettitudine dell’azione, non dirige meno bene dell’intelligenza.»18 E più avanti precisa a Menone:

Anche le opinioni vere, finché restano sono cose belle, capaci di realizzare tutto il bene possibile; solo che non acconsentono a rimanere per lungo tempo, e fuggono via dall’anima umana, per cui non hanno un gran significato, a meno che non s’incatenino con un ragionamento fondato sulla causalità. Ma proprio in questo, compagno Menone, consiste l’anamnesi, quella reminiscenza su cui sopra ci siamo accordati. Se collegate, esse dapprima divengono scienza e, quindi, cognizioni stabili. Ecco perché la scienza vale più della retta opinione: la differenza tra scienza e retta opinione sta, appunto, nel collegamento.19

Proprio questo ‘collegamento’ delle parti conosciute in un intero organico costituisce la struttura della conoscenza, e fa sì che sia possibile un vero insegnamento, perché a chi apprende può seguire passo passo chi insegna, attraverso i nessi delle varie parti.20

Ora, nel Carmide Platone percorre la strada della sapienza (conoscenza) pur cercando la definizione di saggezza (retta opinione), determinando un’ambiguità di fondo, che è espressa dalle parole di Socrate: «Se dunque la saggezza è una conoscenza, evidentemente dovrebbe essere una certa scienza attorno a qualche cosa, o no?»21 Ma — chiede a Critia — «la saggezza di cosa è scienza? Si trova che il suo oggetto sia distinto dalla saggezza stessa?»22 Risulta che conoscere se stessi sia una ‘riflessione’ su se stessi tale che, se si configura come scienza, essa «è scienza di se stessa e delle altre scienze», e quindi «anche scienza dell’ignoranza visto che è scienza delle scienze.»23 La conclusione che Socrate trae è per ciò che «il saggio, lui solo conoscerà se stesso e sarà capace di esaminare cosa si trovi a sapere e cosa no; e sarà capace di esaminare negli altri, allo stesso modo, cosa ciascuno sappia e creda di sapere, se veramente sappia e cosa creda di sapere senza invece sapere.»24

Contro gli ulteriori tentativi di precisazione fatti da Critia, egli solleva diverse obbiezioni nell’intento di mettere alla prova l’interlocutore che certamente possiede una retta opinione, ma non conoscenza; e lo fa attraverso diversi esempi, alcuni dei quali sono indicativi della stessa soluzione del problema. Socrate comincia con il chiedergli se è possibile che esista «una vista che non veda quel che pur vedono le altre viste, ma che sia vista solo di se stessa, delle altre viste e delle non-viste. […] In una parola, considera tutti i sensi e vedi se ce n’è uno che sia senso dei sensi e di se stesso, ma che, pur essendo senso, non percepisca niente di ciò che però percepiscono gli altri sensi?»25

Dopo questi esempi, egli ne avanza altri, ancora più paradossali: un desiderio che sia «desiderio di se stesso e degli altri desideri», una analoga volontà, e così un amore, un timore, un’opinione che abbiano la stessa caratteristica; e ancora, una grandezza maggiore delle altre grandezze, e un doppio, una pesantezza, e ciò che è più vecchio di sé e anche più giovane. Giunto a questo punto domanda:

Così essendo, ciò che eserciti su sé la sua stessa proprietà, non dovrebbe avere proprio quella essenza stessa su cui si esercita la sua proprietà? Dico cioè, per esempio, l’udito: l’udito di null’altro è udito se non del suono? — Sì. — Dunque se l’udito udirà se stesso udirà il suono di cui sarà provvisto perché altrimenti non udirebbe. — Per forza. — Anche la vista, certamente, mio ottimo amico, se vedrà se stessa deve avere qualche colore, perché la vista non ha mai percepito l’incolore.26

Fatta questa precisazione, che mostra la difficoltà di sostenere che la saggezza sia ‘scienza di sé e delle altre scienze’, Socrate conclude:

[…] un moto che muova se stesso e un calore che bruci se stesso e via analogamente, ad alcuni sembreranno incredibili ad altri forse no. Ci vorrebbe un uomo proprio grande per distinguere con precisione sotto tutti i punti di vista se nessuna delle cose esistenti ha tal natura da esercitare su se stessa la sua proprietà stessa o lo può solo su oggetto esterno, oppure se alcune cose sì la esercitano, ed altre invece no; e poi posto che esista qualcuna di queste cose che rivolgono la proprietà su se stesse bisognerebbe vedere se fra queste cose v’è anche quella scienza che noi chiamiamo saggezza.27

Socrate ha posto dunque a Critia delle difficoltà senza distinguere quali in realtà siano superabili e quali no. Noi tuttavia sappiamo che l’anima è definita da Platone un ‘moto che muove se stesso’,28 e che nel Parmenide si afferma che dell’uno che è si deve dire che «e viene ad essere più vecchio e più giovane rispetto a sé ed agli altri e non è e non viene ad essere né più vecchio né più giovane rispetto a sé ed agli altri.»29 Si deve dunque cercare di comprendere se la saggezza, o meglio la sapienza, sia una specie di vista che vede se stessa, una specie di udito che ode se stesso: se esista una facoltà dell’anima che sia oggetto di se stessa, che sia ‘riflessiva’, trasparente a se stessa.

Due passi platonici, tra gli altri, ci possono essere immediatamente di aiuto: quello del Teeteto, in cui si ipotizza che l’anima sia un’idea, nella quale si formano le varie idee,30 e quello del Parmenide, in cui si fa una distinzione tra ‘pensieri pensanti’ e ‘pensieri non pensati’, allusiva delle anime e dei corpi.31 Ne viene già qui che il ‘conosci te stesso’ è l’invito al raggiungimento della saggezza (sapienza) come atto riflessivo dell’anima su se stessa (’moto che muove se stesso’), capace di cogliere cosa essa sia (e cosa non sia), in modo che essa possa ‘produrre cose proprie’, cioè ‘produrre’ se stessa.

Socrate tuttavia continua a contrastare la posizione del suo interlocutore, sostenendo che «l’essere saggio e la saggezza non equivarrebbero a sapere ciò che si sa e ciò che non si sa, ma […] solo a sapere che si sa e che non si sa»,32 e sottolinea poco dopo l’inutilità di tale conoscenza:

Allora Critia, […] quale vantaggio avremmo da una saggezza di tal fatta? Perché da una parte, se il saggio, secondo l’ipotesi fatta in principio, potesse sapere quel che sa e quel che non sa, cioè queste cose sapere che le sa e queste sapere che non le sa, e fosse anche in grado di verificare la stessa cosa in altri che si trovassero nella stessa condizione, la saggezza ci sarebbe di grandissima utilità, perché non solo noi stessi, possedendo la saggezza, vivremmo una vita senza errori, ma anche tutti gli altri che sono governati da noi. Giacché non solo noi stessi non metteremmo mano a intraprese che non conosciamo, ma, mettendoci a caccia di chi sa, ci affideremmo a lui, né permetteremmo agli altri che noi dirigiamo di far null’altro se non ciò che essi menerebbero a buon fine, cioè ciò di cui possederebbero la scienza. In questo modo, sotto la guida della saggezza, ogni cosa sarebbe davvero bene amministrata, ogni città ben governata, e così ogni altra cosa che fosse sotto l’impero di saggezza.33

È da notare che Socrate sostiene che, se la saggezza fosse ‘scienza di sé e delle altre scienza e di ignoranza’, «possedendo la saggezza vivremmo una vita senza errori»: ma questo è proprio della sapienza, anche se non della saggezza, la quale manca di quel ‘collegamento’ tra idee di cui parlava il Menone.34

Frastornato da nuove obbiezioni, Critia finisce per affermare che la scienza che rende felice l’uomo è «Quella attraverso la quale egli conosca il bene e il male.»35 Socrate tuttavia obbietta: «Ma, a quanto sembra, questa scienza, il cui compito è la nostra utilità, non è la saggezza. Infatti, questa scienza non è la scienza delle scienze e dell’ignoranza, ma è scienza del bene e del male: se dunque quest’ultima ci è utile, la saggezza sarà qualcosa d’altro per noi.»36 Posta da Socrate la distinzione tra saggezza e la ‘scienza del bene e del male’, la saggezza torna per ciò ad apparire inutile. Ma a Critia sfugge il gioco dialettico di Socrate fondato sulla distinzione che la conoscenza è bene, l’ignoranza è male. La conoscenza è un bene perché il suo oggetto è un bene; mentre l’ignoranza è un male in quanto priva di oggetto: oggetto a cui si volgono il desiderio, la volontà, l’amore, di ciascuno dei quali Socrate aveva domandato se fosse riflessivo, se avesse «tal natura da esercitare su se stessa la sua proprietà stessa», e che in realtà neppure esisterebbero se mancassero di oggetto.

Occorre però precisare cosa Platone intenda quando Socrate afferma che la saggezza (sapienza) è ‘scienza di se stessa, delle altre scienze e dell’ignoranza’. Noi sappiamo, per esempio dalla Politeia, che chi possiede una scienza è in grado di riconoscere un altro che la possegga ugualmente, come anche chi ne sia privo; mentre chi non la possiede non è in grado di distinguere chi la conosce e chi l’ignora come lui. In termini generali, chi è in grado di riconosce il proprio simile e il proprio dissimile, chi non sa non riconosce né l’uno né l’altro, e così, il primo non cercherà di ‘soverchiare’ il suo simile, ma il suo dissimile, mentre il secondo cercherà di ‘soverchiare’ entrambi.37 La sapienza dunque è anche ‘scienza di ignoranza’, come qualsiasi altra scienza, perché ha la capacità di «sapere che si sa e che non si sa», chi sa e chi non sa, oltre che a sapere quello che si sa e quello che non si sa.

È da vedere inoltre se può essere ‘scienza delle altre scienze’. Ora, nella Politeia troviamo che per Platone le scienze si possono ridurre ad astronomia, geometria, aritmetica e armonia, le quali vengono definite ‘scienze ipotetiche’ perché ciascuna mancante del proprio fondamento.38 Di esse si dice che costituiscono il ‘preludio’ della dialettica, ma non così come vengono studiate, bensì spoglie dei loro contenuti sensibili; e la dialettica, poiché giunge a cogliere il principio da cui dipende l’intellegibilità sia della conoscenza sia della realtà sensibile, si presenta appunto come il loro fondamento.39

Si tratta di un processo che conduce l’intelletto all’unità del principio ‘attraverso molti interi’ quali sono le scienze: alla dialettica spetta dunque di essere ‘scienza delle altre scienze’. Non solo: essa è anche ‘scienza del bene e del male’, perché gli elementi di cui si avvale nel suo processo sono gli opposti, come intero e parte, identico e diverso, bello e brutto, ecc. Essa infine è ‘scienza di se stessa’, perché, risalendo al principio, costringe l’intelletto a riflettersi su se stesso, e a cogliere quell’identico che esso è.40 Torniamo in questo modo alla ricerca intrapresa da Socrate nell’Alcibiade I, quando diceva: «Di’ dunque: in qual modo si potrebbe scoprire in che consiste il «se stesso»? Perché di conseguenza potremmo forse scoprire cosa siamo noi, ma rimanendo all’oscuro della prima cosa sicuramente sarà impossibile scoprire la seconda»: occorre comprendere per ciò cosa sia l’identico («se stesso»). A riguardo, noi sappiamo dal Timeo che l’anima è costituita da un misto di identico e diverso, e che l’identico partecipa della «essenza indivisibile che è sempre nello stesso modo», cioè dell’Intellegibile divino:41 esso è l’intelletto, e l’intelletto è quell’intero intellegibile che l’anima possiede per la ‘partecipazione per l’intero’ all’Intellegibile divino.42

L’invito delfico è l’invito a far uscire l’intelletto («l’occhio dell’anima») da quella «barbarica melma» in cui si trova immerso,43 affinché si specchi in se stesso. Di questo «occhio dell’anima» aveva parlato Socrate nell’Alcibiade I in questi termini:

Hai osservato poi che a guardare qualcuno negli occhi si scorge il volto nell’occhio di chi sta di faccia, come in uno specchio, che noi chiamiamo pupilla, perché è quasi un’immagine di colui che la guarda? . Alc. È vero. Socr. Dunque se un occhio guarda un altro occhio e fissa la parte migliore dell’occhio con la quale anche vede, vedrà se stesso. Alc. Evidentemente. Socr. Ma se l’occhio guarda un’altra parte del corpo umano o degli oggetti, ad eccezione di quella che ha simile natura, non vedrà se stesso. Alc. È vero. Socr. Se allora un occhio vuol vedere se stesso, bisogna che fissi un occhio, e quella parte di questo in cui si trova la sua virtù visiva; e non è questa la vista? Alc. Sì. Socr. Ora, caro Alcibiade, anche l’anima, se vuole conoscere se stessa, dovrà fissare un’anima, e soprattutto quel tratto di questa in cui si trova la virtù dell’anima, la sapienza, e fissare altro a cui questa parte sia simile? Alc. Credo di sì, Socrate. Socr. Possiamo noi indicare nell’anima una parte più divina di quella ove risiedono la conoscenza e il pensiero? Alc. Non possiamo. Socr. Questa parte dell’anima è simile al divino, e, se la si fissa, si impara a conoscere tutto ciò che vi è di divino, intelletto e pensiero, si ha la possibilità di conoscere se stessi nel modo migliore. Alc. Evidentemente. […] Socr. Ma non ci siamo trovati d’accordo che il conoscere se stessi sia saggezza? Alc. Certo. Socr. Quindi senza conoscere noi stessi e senza essere saggi non saremmo in grado di sapere ciò che è male e ciò che è bene per noi.44

Platone dunque aveva già dato risposta al problema che nel Carmide sembra senza soluzione; ma quest’ultimo dialogo aggiunge anche altre cose, come le tre iniziali definizioni di saggezza proposte da Carmide: la saggezza consiste infatti nell’’occuparsi delle cose proprie’, perché nulla è più ‘proprio’ a ciascuno del proprio intelletto. Inoltre, la saggezza è un certo ‘pudore’, poiché essa, oltre ad essere una cosa ‘buona’ (utile), come abbiamo visto, è anche ‘bella’: è cioè legata alla Bellezza in sé, pur non essendo legata direttamente alla Verità in sé, come la sapienza, e legata com’è alla Bellezza, ha ‘pudore’ a compiere cose ‘brutte’. Essa comporta infine il ‘fare le cose con calma’, poiché, se non è stabile come la sapienza, è però ancorata ad una opinione vera.

Se alla fine del dialogo, Socrate si dichiara inetto alla discussione, noi abbiamo già udito in che modo il bellissimo Carmide protesta: «Tuttavia non mi hai convinto interamente e sono certo, caro Socrate, d’aver bisogno di quell’incantesimo; e per quanto sta in me niente m’impedisce che tu me lo canti per tanti giorni quanti, a tuo parere, bastino.»


  1. Charm. 154 d-155 a. Tutte le citazioni platoniche sono tratte da Platone, Opere complete, Laterza 1971. ↩︎

  2. Charm. 155 b. ↩︎

  3. Charm. 156 d. ↩︎

  4. Phaedr. 249 b. ↩︎

  5. Charm. 156 d-157 b. ↩︎

  6. Charm. 157 a. ↩︎

  7. Charm. 176 a-b. ↩︎

  8. Saggezza come una certa calma; saggezza come pudore; saggezza come occuparsi delle cose proprie. Charm. 159 b-161b. ↩︎

  9. Charm. 162 d. ↩︎

  10. Charm. 162 b. ↩︎

  11. Alc. I 127 e-128 a. ↩︎

  12. Alc. I 128 d. ↩︎

  13. Alc. I 128 e-129 b. ↩︎

  14. Nell’Alcibiade I Socrate cerca di dimostrare che l’uomo è anima, e non corpo o corpo e anima uniti. Alla fine, dopo un’importante distinzione di anima e corpo, conclude: «Anche se questa prova non è proprio rigorosa, ma solo sufficiente, ci basta. Perché verremo a una conoscenza rigorosa quando avremo scoperto ciò che adesso abbiamo lasciato da parte data la lunga ricerca che comportava. Alc. Che cos’è? Socr. È ciò che si diceva poco fa, che per prima cosa si deve cercare cos’è il se stesso, mentre in luogo del se stesso abbiamo esaminato che cosa è in sé ogni singolo individuo.» Alc. I 130 c-d. ↩︎

  15. Charm. 163 b. ↩︎

  16. Charm. 163 d. ↩︎

  17. Charm. 164 d-e.. ↩︎

  18. Men. 88 c; 97 c. ↩︎

  19. Men. 97 e-98 a. ↩︎

  20. Sui nessi, v. Theaet. 201 d-202 b. ↩︎

  21. Charm. 165 c. ↩︎

  22. Charm. 166 b. ↩︎

  23. Charm. 166 e. ↩︎

  24. Charm. 167 a. ↩︎

  25. Charm. 167 c-d. ↩︎

  26. Charm. 168 c-d. ↩︎

  27. Charm. 168 e-169 a. ↩︎

  28. Phaedr. 245 c; Leg. X 896 a. ↩︎

  29. Parm. 155 c; v. però da 151 e. ↩︎

  30. «E di fatti strano sarebbe, o figlio, se un numero indefinito di sensi avessero lor sede in noi come dentro a cavalli di legno, ma non si ricongiungessero tutti insieme in un’unica idea, sia essa anima o come altrimenti si debba chiamare, «con la quale», «mediante questi sensi», a guisa di organi, noi abbiamo la sensazione di tutto ciò che è sensibile.» Theaet. 184 d. ↩︎

  31. Parm. 132 c. ↩︎

  32. Charm. 170 d. Ricordiamo il ‘sapere di non sapere’ di Socrate: si tratta di una coscienza, fondata sulla retta opinione, che riconosce il proprio limite conoscitivo in rapporto alla certezza nei confronti della ragione come facoltà in grado di determinare un sapere scientifico. Le possibilità che Platone evidenzia nei vari dialoghi sono le seguenti: credere di sapere senza sapere; non sapere di sapere; sapere di non sapere; sapere tramite retta opinione; sapere di sapere tramite scienza. ↩︎

  33. Charm. 171 d-e. ↩︎

  34. Il ‘collegamento’ riconosciuto da Platone è quello che dà luogo a conoscenza a due livelli diversi: delle scienze e della dialettica. ↩︎

  35. Charm. 174 b. ↩︎

  36. Charm. 174 d. ↩︎

  37. Resp. I 349 b ss. ↩︎

  38. Resp. VII 531 a-b. ↩︎

  39. Nelle Definizioni il principio è definito «causa prima dell’essere». Def. 416 a. ↩︎

  40. Soph. 253 d. Nelle Definizioni l’intelligenza è definita «principio della scienza». Def. 414 a. ↩︎

  41. Tim. 34 c. ↩︎

  42. Parm. 131 a-e. In questo passo del Parmenide si ipotizza la possibilità di due forma di partecipazione delle cose all’idea: per l’intero e per la parte. Qui si deve scorgere la soluzione della diversità tra l’anima, che partecipa dell’intero, e il corporeo, che partecipa della parte dell’Intellegibile. Questa diversità in stretta connessione fa sì che un’anima (intelletto) sia un intero, e un corpo (qualità sensibili) sia una parte. Ricordiamo quanto abbiamo già letto nel Fedro: «Perché bisogna che l’uomo comprenda ciò che si chiama Idea, passando da una molteplicità di sensazioni ad una unità organizzata dal ragionamento.» Si tratta di parti che si ‘producono’ nell’intero attraverso le sensazioni. ↩︎

  43. Resp. VII 533 d. ↩︎

  44. Alc. I 133 a-c. ↩︎