Il Menone platonico e il «mito della reminiscenza»

Tutti i primissimi dialoghi platonici cominciano con una domanda diretta che impegna immediatamente nella risposta l’intera discussione dei personaggi. Si tratta di una formula un po’«grezza» dello stile platonico, che non tornerà nei successivi dialoghi, ma che compare nel Menone, presumibilmente scritto poco prima del primo viaggio di Platone a Siracusa (387). Nel nostro dialogo infatti, dopo la domanda iniziale, l’intervento di Socrate mostra come esso non appartenga ai primissimi scritti, quanto piuttosto a quelli che vengono chiamati comunemente «dialoghi socratici», e che si possono ritenere successivi alla morte di Socrate. Socrate, invece di rispondere subito, fa una digressione sugli abitanti della Tessaglia, patria di Menone. Diverso è invece il caso delle Leggi che si aprono, sì, con una domanda diretta, ma non per dar luogo a una specifica risposta che si estenda a tutto il dialogo; e tuttavia la grande opera platonica, con la su appendice, l’Epinomide, intende chiudere l’intero ciclo della produzione letteraria, e Platone lo fa iniziare appunto con una domanda che ricorda quelle dei primissimi dialoghi, e con il ritorno alla forma del «dialogo diretto».1

Nel Menone si può notare inoltre qualche richiamo che sembra riferirsi al Gorgia, quasi a suggerire la successione dei due dialoghi: Gorgia Menone; tuttavia i più forti indizi del Gorgia sollecitano a collocare quest’ultimo dialogo dopo il viaggio a Siracusa e prima dell’apertura dell’Accademia. Questa collocazione tenderebbe ad escludere dialoghi tra il Gorgia e i quattro dialoghi narrati da Socrate (Amanti, Carmide, Liside, Politeia), che si presentano come programmatici dell’insegnamento accademico,2 a meno che, mentre attendeva all’effettivo avvio della nuova Scuola, Platone non scrivesse il Menone dopo il Gorgia e dopo il primo libro della Politeia, nel quale il tema e l’impostazione del Gorgia vengono puntualmente ripresi.3

Il primo richiamo che troviamo nel nostro dialogo riguarda un esplicito riferimento ad un incontro di Socrate con il sofista di Lentini: «Ma come! — dice Menone — non ti sei incontrato con Gorgia, quando era qui?» [71c] . La risposta di Socrate è affermativa, ma questo riferimento potrebbe essere più storico che letterario, poiché sembra che egli lo avesse effettivamente incontrato nel 427. Un secondo richiamo sembra essere l’espressione di Socrate rivolta a Menone, in rapporto al fatto che Menone è «costretto ad andar via di qui prima dei misteri, come dicevi ieri» [76e] . Il «come dicevi ieri» potrebbe infatti riferirsi al Gorgia, non certo per una presenza di Menone all’interno dei dialogo, poiché non compare come personaggio né è nominato, quanto piuttosto perché Menone è discepolo di Gorgia, e dunque il suo sapere dipende da quello del sofista siciliano, come dipende la posizione di Polo e di Callicle in difesa del maestro, confutata da Socrate nel grande dialogo.

Il successivo inserimento di Ànito, inoltre, di per sé non necessario allo svolgimento delle argomentazioni, sembra dovuto alla volontà di Platone di ricordare il danno da lui arrecato ad Atene per aver sostenuto, assieme a Meleto e Licone, l’accusa contro Socrate, e non pare che vi si possa leggere un’allusione al viaggio di Platone a Siracusa presso Dionisio il Vecchio, e alla sua drammatica conclusione. Il dialogo infatti si chiude con un significativo riferimento ad Ànito:

Ma io debbo ora andarmene altrove: — dice Socrate a Menone — fa’ tu, dunque, il tentativo di persuadere il tuo ospite Anito di quello di cui tu stesso sei rimasto persuaso, sì ch’egli si acquieti. Se riuscirai a convincerlo, sarai, ad un tempo, un benefattore degli Ateniesi. [100b-c]

Questo viene detto anche se è vero che, dopo la morte di Socrate, vi furono una sua riabilitazione e una condanna di Meleto che renderebbero alquanto superfluo l’invito: «E Socrate non era più tra gli uomini; e gli Ateniesi subito se ne pentirono, e chiusero le palestre e i ginnasi. E gli altri condannarono all’esilio, Meleto a morte; e onorarono Socrate con una statua di bronzo che posero nel Pompeo, e l’autore fu Lisippo».4 Ad ogni modo, questa riabilitazione non compensa Atene della perdita di Socrate.

Ma vi è un passo che potrebbe realmente essere un intenzionale riferimento al primo viaggio di Platone a Siracusa, quando Platone fa dire a Menone:

Mi sembra, poi, che tu abbia fatto benissimo a non volerti mai mettere in mare, a non voler viaggiare fuori di qui, ché se da straniero, in straniera città, ti comportassi in questo modo subito ti arresterebbero come un ammaliatore. [80b]

Non sembra trattarsi del fatto che Socrate non sia mai uscito da Atene (salvo che per partecipare alle guerre combattute dalla sua città), come si dice in diversi dialoghi, quanto piuttosto del non essersi mai voluto mettere in mare, cosa che invece aveva fatto per l’appunto Platone, e dunque potrebbe essere una allusione al drammatico fallimento del suo viaggio a Siracusa, e al pericolo corso di essere venduto schiavo sulla piazza di Egina; tanto più che nel Gorgia si fa ancora cenno al viaggio per mare.5 Tutti questi indizi fanno pensare ad una vicinanza dei due dialoghi e alla possibilità che il Menone sia stato scritto dopo Siracusa, anteriormente o posteriormente al Gorgia.

2. La definizione di «virtù»

Alla iniziale domanda di Menone, se la virtù sia insegnabile o derivi da esercizio oppure si venga formando per natura o sorga in altro modo, Socrate risponde ironico che, come per opera di Gorgia è fiorita in Tessaglia la sapienza così invece ad Atene «c’è stata come una specie d’isterilimento della sapienza» [70c]; e sempre ironicamente aggiunge che ad Atene nessuno ha neppure «la minima idea di cosa sia virtù» [71a] .

Ma è proprio vero, Socrate, — si meraviglia Menone — che tu ignori in che consiste la virtù, e, di te, questo dobbiamo riferire nel nostro paese? SOCR. Non solo, amico mio, ma, anche, che non mi sembra d’essermi incontrato mai in persona che lo sapesse! MEN. Ma come! non ti sei incontrato con Gorgia, quando era qui? SOCR. Sì. MEN. E ti è sembrato che non lo sapesse? SOCR. Non ho molta memoria,6 Menone, per cui non saprei dirti su due piedi che cosa me ne parve. Ma, forse, Gorgia lo sa e, forse, tu sai quello ch’egli diceva della virtù. Ricordami, dunque, le sue parole, o, se preferisci, di’ cosa ne pensi tu stesso, ché, senza dubbio, hai la stessa opinione di Gorgia. MEN. Sì. SOCR. Lasciamo, dunque, Gorgia, dal momento che è assente; ma di’ tu, in nome degli dèi, Menone, cosa sia virtù! Parla, non dirmi di no; sarò felice del mio errore, se mi dimostri che voi, tu e Gorgia, sapete in che consiste la virtù, a me, che pur sostenevo di non avere mai incontrato persona, che lo sapesse. [71b-c]^[7]

Si è capovolta la situazione, e ora è Socrate che chiede a Menone cosa sia la virtù: senza questa chiarificazione, egli precisa, non si può sapere se essa sia insegnabile o meno e in ogni caso come sorga. Come l’anonimo interlocutore di Socrate nel dialogo Sul giusto, Menone non ha esitazione a rispondere:

Non ci vuol niente, Socrate! Innanzitutto se vuoi la virtù dell’uomo, è facile dire che questa è la virtù dell’uomo: essere capace di svolgere attività politica, e svolgendola fare il bene degli amici, danno ai nemici, stando attenti a non ricevere danno noi stessi. Se, invece, vuoi la virtù della donna, non è difficile, dimostrare che il suo dovere consiste nell’amministrare bene la casa, conservandone i beni e restando fedele al marito. E così altra è la virtù del fanciullo, a seconda che sia femmina o maschio, altra quella di un vecchio, a seconda che sia libero o schiavo. E altre infinite virtù ci sono, onde non v’è imbarazzo a dire in che consista la virtù. Per ciascuna attività ed età e per ciascun atto vi è una propria virtù, sì come credo vi sia un vizio, Socrate. [71e-72a]

La risposta ironica di Socrate è che cercava «una sola virtù», ma grazie a Menone ne ha trovato «uno sciame». Questo non significa che Menone abbia risposto in modo errato, ma che la su risposta è rimasta sul piano del dato di fatto e dunque dell’opinione (vedi più avanti la distinzione tra opinione e conoscenza), la quale non è sufficiente a garantire la possibilità di un insegnamento della virtù, anche se con essa si compiono ugualmente azioni virtuose e sia possibile che un altro l’apprenda.

Alla convinzione che la giustizia consista nel ‘fare del bene agli amici e del danno ai nemici’ si accenna nel dialogo Sul giusto,7 ma il problema è maggiormente trattato nel Gorgia e nella Politeia. In quest’ultimo dialogo dice Socrate a Polemarco:

È dunque da uomo giusto, ripresi, fare danno a un uomo, quale che sia? — Certo, rispose; ai malvagi e nemici si deve fare danno. — Ma se si danneggiano dei cavalli, diventano migliori o peggiori? — Peggiori. — E diventano peggiori nella virtù propria dei cani o in quella dei cavalli? — In quella dei cavalli. — E non è pure vero che, se si danneggiano dei cani, diventano peggiori nella virtù propria dei cani e non in quella dei cavalli? — Per forza. — E degli uomini, amico mio, non dovremo dire che, se sono danneggiati, diventano peggiori nella virtù che è propria degli uomini? — Senza dubbio. — E la giustizia non è virtù umana? — Sì, anche questo è innegabile. — Allora, mio caro, gli uomini che vengono danneggiati diventano per forza più ingiusti.8

Platone ad ogni modo non intende prendere in considerazione le singole virtù, ma cercare di comprendere cosa sia quel qualcosa per cui sono ritenute tutte ugualmente «virtù»; Menone invece ha fatto emergere una molteplicità di virtù distinte dalla varietà delle persone secondo le loro proprie condizioni. Egli non riesce a comprendere come quella molteplicità sottenda un unico atteggiamento, e dunque un’unica capacità. Platone in questo modo ha posto davanti al lettore una molteplicità che deve essere ricondotta alla propria unità, poiché in realtà si tratta di una molteplicità che è tale sul piano sensibile, ma essa è la stessa su quello intellegibile. Ad esempio, «sapere amministrare uno stato, una casa, […] consiste nel farlo con saggezza e giustizia»; e «dunque, tanto l’uomo quanto la donna, per essere virtuosi, hanno ambedue bisogno delle stesse cose, della giustizia e della saggezza» [73a-b].

Menone sembra ora aver compreso l’esigenza unitaria di Socrate, ed esclama: «Cosa mai altro se non l’esser capace di governare gli uomini, se in tutte le virtù vai cercando l’uno?» [73c] Ma il cammino che Platone ha iniziato per il lettore è un cammino difficile, benché (o forse tanto più) abbia ora introdotto due termini essenziali alla comprensione sia del problema della virtù sia della propria concezione: identico (la stessa virtù riguarda «tanto l’uomo quanto la donna», uno («se in tutte vai cercando l’uno»).

L’esempio del «cerchio», proposto da Socrate, «che è «una» figura, ma non semplicemente «figura»» [73e], pone la distinzione tra la figura del cerchio e altre figure geometriche (uno rispetto ad altro), ma sottintende anche che i molti cerchi sensibili (naturali o artificiali) vanno ricondotti a quell’uno intellegibile in quanto tutti identici. Unica e identica è la virtù in tutte le sue manifestazioni, sta sostenendo Platone, distinta dalle altre capacità e dalle azioni, come unico e identico è il cerchio al di là delle sue manifestazioni sensibili.9

Il passo avanti che Platone vuole che il lettore faccia si riferisce alla nuova specie di molteplicità di virtù che Menone propone: «Ebbene, una virtù mi sembra essere il coraggio, e poi la temperanza, la sapienza, la liberalità ed infinite altre.» [74a] La nuova molteplicità ora non è data dall’elencazione delle funzioni di coloro che posseggono la virtù, ma dalla varietà stessa delle virtù. Platone ha così effettuato un implicito parallelo tra giustizia e cerchio da una parte, e dall’altra tra virtù e figura geometrica (ciascuna una e identica, che comprende tutte le altre). È chiaro infatti che un carattere della giustizia e del cerchio è quello che esse sono comprensive rispettivamente di tutte le virtù e di tutte le figure geometriche.

Dopo aver distinto questo nuovo tipo di molteplicità di virtù, Platone trattiene ancora il discorso sull’esempio delle figure, essendo Menone in difficoltà «ancora a cogliere quell’unica virtù sottesa a tutte» [74b] . La digressione si sofferma su due aspetti della realtà sensibile: il colore e la figura. Inizialmente infatti, in analogia con gli esempi precedenti, ora ci si chiede se il ‘bianco’ sia il colore o un colore, e si risponde che esso «è un colore, per il fatto che di colori ve ne sono anche altri» [74c] .10 Poco dopo, per bocca di Socrate, egli dà una definizione di ‘figura’: «figura sia per noi quella sola cui sempre si accompagna il colore» [75b]; e in questo modo i due esempi si uniscono sul piano sensibile, poiché siamo davanti ad una figura colorata (es. un ‘cerchio bianco’).

Più avanti ancora, proprio per chiarire meglio il piano sensibile, Platone fa ricorso alla teoria empedoclea dei ‘pori’ e degli ‘effluvi’, che con il loro incontro spiegherebbe il sorgere della sensazione. Tuttavia, poco prima, egli aveva indicato la possibilità di far passare il discorso dal piano sensibile a quello intellegibile, facendo obiettare a Menone che la definizione di figura, quale «cosa cui sempre si accompagna il colore», forse non vale per «uno che dicesse di non sapere cosa sia il colore» [75c], ove non si deve tanto considerare chi realmente non sappia cosa esso sia (es. un cieco), quanto piuttosto pensare (non immaginare) la ‘figura’, il cerchio in se stesso. Si tratterebbe del passaggio dalla figura colta tramite i sensi, mediante gli ‘effluvi’, all’idea di figura quale deve essere pensata in se stessa.11

Allo stesso modo, dunque, se si vuole definire in se stessa la virtù, si deve passare dall’averla riscontrata in diverse persone (uomini, donne, ecc.), e dall’averla riconosciuta differenziata in varie specie (coraggio, temperanza, ecc.), al coglierla in se stessa con atto mentale unificante. Socrate esclama infatti:

[…] smetti di far dell’uno una molteplicità, come scherzando sì dice di chi manda in pezzi un oggetto; lascia intera ed intatta la virtù, e dimmi in che consiste.» [77a] «Mi sembra, Socrate, — risponde a questo punto Menone — che la virtù, come dice il poeta, consista nel «godere le cose belle e nell’aver potere». Ecco, dunque, la mia definizione della virtù: desiderio di cose belle e capacità di procurarsele. [77b]^[13]

Se ci lasciassimo ingannare dal gioco ironico del dialogo, finiremmo col credere che la definizione di Menone non risponda affatto al pensiero di Platone, tanto più che Socrate, con la sua identità di bello e buono, mette presto in difficoltà il suo interlocutore. In realtà, se «godere delle cose belle» sarà proprio di chi sale la ‘scala della bellezza’, secondo quanto si affermerà nel Convivio, raggiungere la contemplazione della Bellezza in sé è il premio riservato a chi ha vissuto una vita veramente filosofica e virtuosa, cioè volta al raggiungimento del Bene. E sta proprio in questo «aver potere», che aumenta quanto più si sale questa ‘scala’, il «desiderio di cose belle e [la] capacità di procurarsele», così che la definizione di Menone non è affatto lontana da quella di Platone. Non solo: da quello che ci ha detto in precedenza Platone per bocca dei due interlocutori, possiamo aggiungere che la virtù non è passiva come lo sono i ‘pori’ in rapporto agli ‘effluvi’, come lo è la vista in rapporto ai colori, ma attiva nei confronti della bellezza sensibile (del colore) e della bellezza intellegibile (del cerchio), essendo capacità legata a desiderio. Nel Convivio Diotìma, esponendo parte ‘dei misteri d’amore’, mostra a Socrate la scala che conduce alla Bellezza. Essa consiste nei passaggi dai livelli inferiori a quelli superiori. Lo schema è il seguente:

  1. accostarsi alla bellezza di un corpo;
  2. passare dalla bellezza di un corpo a quella di due corpi (maschile e femminile);
  3. comprendere che unica è la bellezza di tutti i corpi;
  4. comprendere che la bellezza delle anime è superiore alla bellezza dei corpi;
  5. contemplare la bellezza nelle attività umane e nelle leggi;
  6. contemplare la bellezza nelle varie scienze;
  7. scorgere una scienza che è scienza della bellezza;
  8. avere la rivelazione improvvisa della Bellezza, di cui partecipano tutte le altre bellezze.

Chi sia stato educato fin qui nelle questioni d’amore attraverso la contemplazione graduale e giusta delle diverse bellezze, — afferma Diotìma — giunto che sia al grado supremo dell’iniziazione amorosa, all’improvviso gli si rivelerà una bellezza meravigliosa per sua natura, o Socrate, in vista della quale ci sono state tutte le fatiche di prima: bellezza eterna, che non nasce e non muore, non s’accresce né diminuisce, che non è bella per un verso e brutta per l’altro, né ora sì e ora no; né bella o brutta secondo certi rapporti; né bella qui e brutta là, né come se fosse bella per alcuni, ma brutta per altri. In più questa bellezza non gli si rivelerà con un volto né con mani, né con altro che appartenga al corpo, e neppure come concetto o scienza, né come risiedente in cosa diversa da lei, per esempio in un vivente, o in terra, o in cielo, o in altro, ma come essa è per sé, eternamente univoca, mentre tutte le altre bellezze partecipano di lei in modo tale che, pur nascendo esse o perendo, quella non s’arricchisce né scema, ma rimane intoccata.12

La definizione proposta da Menone, dunque, non è affatto errata, ma va tuttavia sottoposta a verifica, poiché è necessaria una ininterrotta coerenza interna tra ‘desiderio’, ‘capacità’, atto virtuoso, eventuale insegnabilità della virtù; per ciò Socrate chiede se «il desiderio delle cose belle è tutt’uno con il desiderio di cose buone». E aggiunge: «Ma tu dici questo pensando che vi siano alcuni che desiderano il male, altri il bene? Non ti sembra, invece, che tutti desiderino il bene? MEN. Secondo me, no! SOCR. Vi è, dunque, chi desidera il male? MEN. Sì.» [77c]

Platone ripropone anche qui il problema già trattato nel dialogo Del giusto. In esso Platone introduce il problema presentandolo sotto quello della ‘involontarietà del male’.

Ritieni forse — chiede Socrate al suo anonimo interlocutore — che gli uomini facciano volontariamente l’ingiustizia, o involontariamente? Credi cioè che commettano ingiustizia e siano ingiusti di loro volontà oppure no? — Certo, Socrate, di loro volontà: difatti sono malvagi. — Allora tu credi che gli uomini, di loro volontà, siano cattivi ed ingiusti? — Ma certo. Perché, tu non lo credi? — No, se si deve prestar qualche fede al poeta. — A quale poeta? — A quello che disse: «Nessuno è malvagio di sua volontà, e neppure beato senza volerlo».13

Nessuno desidera il proprio male; e chi lo compie, lo fa senza rendersi conto che è un male, scambiandolo per un bene. Tutti dunque vogliono il bene, ma non tutti possono raggiungerlo, non in quanto manchi il potere di volerlo, ma perché manca il potere di riconoscerlo: in quest’ultimo dunque consiste veramente il potere. Dice Socrate a Menone:

Solo che impostata così la questione, il volere si trova in tutti, per cui, sotto questo aspetto nessuno è migliore di un altro. MEN. Sembra! SOCR. È chiaro, dunque, che se uno è migliore di un altro, lo è in virtù del potere. MEN. Senza dubbio. SOCR. Secondo il tuo ragionamento, dunque, la virtù, sembra, consiste nel potere di procurarsi i beni. [78b-c]

Dunque, «il volere si trova in tutti», ed è pertanto il potere ciò che determina la differenza tra uomini migliori e uomini peggiori. Senonché, il potere di procurarsi i beni fa nascere appunto il problema di quali siano i beni; e Menone è pronto a definirli nella loro molteplicità, soprattutto quali «oro e argento, […] onori e cariche nello stato» [78c] . La esplicita risposta platonica non è data qui, ma nell’Eutidemo, anche se si ritrova in altri dialoghi. Contrapponendoli ai mali, in modo da dare uno schema completo, Platone nell’Eutidemo dà il loro quadro dialettico: beni dell’anima, beni del corpo, beni relativi al corpo; mali relativi al corpo, mali del corpo, mali dell’anima.14 Risulta evidente il criterio che l’uomo deve tener presente per raggiungere il proprio bene. È implicito inoltre nella classificazione un progressivo passaggio dalla pluralità dei beni materiali all’unità dei beni dell’anima; così come si ha un passaggio inverso dai mali materiali a quelli dell’anima, e dunque una dispersione dell’individuo nella perdita dell’unità psichica. È significativa a riguardo la descrizione del tiranno (pubblico e privato) fatta all’inizio del IX libro della Politeia, il quale vive nella vita della veglia l’incapacità di distinguere e gerarchizzare i beni e i mali che le persone non moralmente disciplinate vivono nei sogni.

Per mettere alla prova il discorso di Menone, e rendere esplicitamente coerente la sua definizione, Platone fa dire a Socrate: «Ma a quel ‘procurarsi’, vuoi, forse, aggiungere, Menone, ‘giustamente’e ‘santamente’, o non te ne importa nulla, e se uno procura tali cose ingiustamente, tu chiamerai la sua ugualmente virtù? MEN. No certo, Socrate.» [78d] Il ‘giustamente-ingiustamente’ sta ad indicare sia la riduzione delle virtù all’unità, sia la distinzione tra beni e mali, la scelta dei primi e il rifiuto dei secondi, anche se quel ‘giustamente-ingiustamente’ viene accettato senza nessun chiarimento razionale, ma piuttosto nella corrente accezione morale. Socrate infatti non ci presenta la distinzione tra beni e mali, quanto piuttosto quella tra procurarsi i beni o rinunciarvi nelle due possibilità offerte da una sottintesa accettazione di un ordine morale. «Ma rinunciare all’oro e all’argento, quando il procurarsene, per sé e per un altro, sarebbe ingiusto, questa stessa rinuncia non sarebbe virtù?» [78e]

In questo modo, come Socrate ha frastornato Menone, così Platone ha frastornato il lettore, mentre il problema è relativamente semplice:

  1. tutti per natura desiderano i beni; nessuno desidera i mali;
  2. i beni sono quelli dell’anima, del corpo e quelli materiali; i mali sono i loro contrari;
  3. scegliere giustamente significa scegliere i beni; scegliere ingiustamente significa sceglie i mali;
  4. chi sceglie i mali, li sceglie credendoli beni.

Il punto importante è dunque quest’ultimo: com’è possibile che ci si inganni sui beni?15 Perché gli uomini, pur volendo sempre i beni, a volte non li scelgono? Come abbiamo visto, non si tratta di volere, ma di potere, o meglio di ‘mancanza di potere’, e cioè ‘mancanza di conoscenza’. Affiora il problema costantemente tenuto presente da Platone dell’ignoranza in cui vivono gli uomini, i quali scambiano i piaceri e le passioni immediatamente per beni, e «come bestie, tengono sempre lo sguardo in giù, curve verso il suolo e le loro mense, e pascolano rimpinzandosi e montando; per la smodata cupidigia di questi piaceri si prendono a calci e a cornate, e s’ammazzano a vicenda con corna e zoccoli ferrei. La causa è l’insaziabilità, perché non riempiono di cose reali la parte loro che è e che serba».16

3. L’azione torpedica di Socrate

Perché — dice Socrate — mentre ti avevo pregato di non spezzettare e frantumare la virtù, pur dandoti esempi di come avresti dovuto rispondere, non ti sei curato affatto della mia richiesta e mi dici: virtù è capacità di procurarsi i beni con giustizia, aggiungendo poi che questa è una particella della virtù. [79a]

Poco dopo, Menone si arrende alle argomentazioni di Socrate, ed esce in questa considerazione:

Socrate, anche prima d’incontrarmi con te, sapevo per sentito dire che tu non fai altro che mettere in dubbio te e gli altri; ora poi, come mi sembra, mi affascini, mi dài beveraggi, m’incanti, tanto da non avere più alcuna via di uscita. E, se mi è lecito scherzare, mi somigli davvero, nella figura e nel resto, alla piatta torpedine di mare: perché anche questa, se qualcuno le si avvicini e la tocchi, sùbito lo fa intorpidire. Ora mi sembra che tu abbia avuto su di me lo stesso effetto, poiché sono veramente intorpidito nell’anima e nella bocca, e non so più cosa risponderti. [79e-80b]

Com’è noto, infatti, l’ironia di Socrate ha come effetto l’azione torpedica ricordata da Menone, così che il suo interlocutore finisce nell’incapacità di tentare nuove vie per dare risposta alla questione dibattuta. Com’è altresì noto, il fine di questa azione ha un valore maieutico, poiché l’intento di Socrate è quello di far partorire la conoscenza nell’anima di colui con cui discute. Nel Teeteto egli dice di essere figlio di una robusta levatrice, Fenarete, e di aver ricevuto da lei quest’arte in senso spirituale, ma egli stesso è incapace di partorire la verità.17 Questa sua incapacità di giungere alla verità è legata al suo ‘sapere di non sapere’: di non sapere, ma di ricercare assieme agli altri, non avendo mai nulla da insegnare di proprio; e per questo egli dice di trovarsi nelle stesse condizioni del suo interlocutore.

Se tutto questo poteva essere in parte vero per il Socrate storico, non lo è affatto per il Socrate creato da Platone, dietro il quale Platone si nasconde.

Quanto a me, se la torpedine fa intorpidire gli altri perché torpida essa stessa, io allora le somiglio; se no, no, perché non è che io sia certo e faccia dubitare gli altri, ma io più di chiunque altro dubbioso, fo sì che anche gli altri siano dubbiosi. E così, tornando alla virtù, io non so che cosa essa sia; tu, forse, lo sapevi prima di toccare me: ora, invece, sei divenuto simile a uno che non sa. [80c]

Questa dichiarazione mostra l’arte maieutica di Platone, che nasconde costantemente il proprio pensiero mentre lo espone, inducendo il lettore ad uno sforzo di comprensione personale della verità che egli gli pone davanti. È il passaggio dal ‘credere di sapere’, con la connessa presunzione evidenziata in diversi dialoghi, al ‘sapere di non sapere’, di cui Socrate sembra a volte vantarsi, per passare al ‘sapere di sapere’ proprio della conoscenza.

Questo tuttavia io posso dire di tutti quelli che hanno scritto e scriveranno dicendo di conoscere ciò di cui io mi occupo per averlo sentito esporre o da me o da altri o per averlo scoperto essi stessi, che non capiscon nulla, a mio giudizio, di queste cose. Su di esse non c’è, né vi sarà, alcun mio scritto. Perché non è, questa mia, una scienza come le altre: essa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma s’accende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di se medesima. Questo tuttavia io so, che, se ne scrivessi o ne parlassi io stesso, queste cose le direi così come nessun altro saprebbe, e so anche che se fossero scritte male, molto me ne affliggerei. Se invece credessi che si dovessero scrivere e render note ai più in modo adeguato e si potessero comunicare, che cosa avrei potuto fare di più bello nella mia vita, che scriver queste cose utilissime per gli uomini, traendo alla luce per tutti la natura?18

Il «fuoco che balza» è la verità, la quale ha il suo luogo d’origine nella stessa anima umana, e cioè nell’intelletto, che, per il suo carattere dialettico, possiamo chiamare identico, secondo la dichiarazione fatta nel Timeo.19 E dobbiamo ricordare che, a proposito delle virtù, Socrate sta cercando la loro unità: ciò che vi è di ‘identico’in esse. In possesso dell’idea di identico, Platone può affrontare le varie opinioni comuni, le argomentazioni dei sofisti, dei retori, degli eristi, senza perdere il filo del corretto ragionamento, paralizzando l’interlocutore come la «piatta torpedine di mare», e portandolo fino «alla vergogna di sé». Così infatti si esprime Platone nel Sofista per bocca di Socrate: «Pensano infatti, caro figlio, gli autori di questa purificazione, analogamente a quanto i medici del corpo hanno creduto di dover ritenere e cioè che un corpo non può godere del cibo offertogli prima che qualcuno non ne elimini gli impedimenti interni; proprio la stessa cosa quei purificatori sono giunti a pensare anche per l’anima, che essa cioè non avrà utilità dalle cognizioni fornitele prima che qualcuno esercitando la confutazione riduca alla vergogna di sé il confutato, togliendo di mezzo le opinioni che sbarrano la via alle cognizioni e lo faccia risultare totalmente purificato e tale da ritener di sapere soltanto ciò che sa e niente più».20

Non è possibile d’altronde che qualcosa sfugga all’arte dialettica, come afferma Socrate nel Filebo:

Ma non v’è in verità strada migliore, né vi sarà mai, di quella ch’io sempre amo e spesse volte sfuggendomi nel passato mi lasciò solo in mezzo alle difficoltà. PROT. Quale è questa? Non ha che da esser detta. SOCR. Non è proprio difficile dire quale è, difficilissimo è invece farne uso; tutte le scoperte relative alle arti che in ogni tempo furono raggiunte sono venute alla luce per merito suo.21

Mediante l’arte dialettica, ogni discorso viene filtrato dagli elementi primi della dialettica stessa: ‘identico’e ‘diverso’, ‘intero’e ‘parti’, dai quali deriva la serie degli altri opposti, quasi a formare una griglia, alla prova della quale Platone sottopone ogni opinione e ogni ragionamento. Dice Platone nel Parmenide:

Ogni cosa, io direi, è così in relazione ad ogni cosa: o è identica o è diversa; e se non è né l’uno né l’altro, rispetto a qualche cosa, sarà una parte di ciò con cui sta in una siffatta relazione, oppure in rapporto a questa starà come il tutto rispetto a una sua parte.22

Questi ‘elementi dialettici’ sono i caratteri propri dell’intelletto, il quale, essendo identico, si pone in rapporto con il diverso, ed essendo intero, si pone in rapporto con la parte. Nasce in questo modo un gioco di rapporti, di nessi, che dà luogo alla conoscenza. Non si tratta di un gioco eristico, né un gioco di compiacimento, ma un «gioco serio»,23 perché ha come primo scopo l’eliminazione della presunzione di chi parla senza verità, e come scopo finale la generazione della verità nell’intelletto-identico dell’interlocutore. Egli deve cioè sottoporsi ‘passivamente’ad una pars destruens, demolitrice del proprio ‘credere di sapere’, per passare poi ‘attivamente’alla pars costruens della conoscenza. A costui è necessario mostrare che egli possiede un «organo rovinato e accecato dalle occupazioni», poiché «l’occhio dell’anima [è] realmente sepolto in una specie di barbarica melma»,24 che egli deve disseppellire e riparare. Questa «barbarica melma», questa mescolanza di sostanze allotrie che copre l’intelletto è il corpo che imprigiona e soffoca l’anima con le sue passioni, e dal quale la conoscenza emerge quasi fosse una ‘reminiscenza’.

4. Il ‘mito della reminiscenza’

La ricerca condotta fin qui da Socrate e Menone risulta apparentemente inconcludente, e per di più con la considerazione negativa di Menone nei confronti del dialogare socratico, che, invece di semplificare e chiarire i problemi, li confonde e li paralizza. Ma, in parallelo all’accusa di ammaliatore e di paralizzatore dei discorsi rivolta a Socrate, Platone avanza ora addirittura una specie di ‘catalessi’eristica espressa da Menone con queste parole:

Ma in quale modo, Socrate, andrai cercando quello che assolutamente ignori? E quale delle cose che ignori farai oggetto di ricerca? E se per un caso l’imbrocchi, come farai ad accorgerti che è proprio quella che cercavi, se non la conoscevi? SOCR. Capisco quel che vuoi dire, Menone! Vedi un po’ che bell’argomento eristico proponi! l’argomento secondo cui non è possibile all’uomo cercare né quello che sa né quello che non sa: quel che sa perché conoscendolo non ha bisogno di cercarlo; quel che non sa perché neppure sa cosa cerca. [80d-e]^[27]

Il principio eristico, che ha le sue radici nelle tre negazioni di Gorgia, vorrebbe porre una scissura insuperabile tra ciò che si sa e ciò che non si sa, contro l’esperienza comune dell’accrescersi della conoscenza in ogni individuo fin dalla sua nascita, e in particolare l’accrescersi del sapere scientifico, come sapere ‘concatenato’. Più avanti, Platone affermerà che la conoscenza si determina attraverso nessi proprio tra ciò che si sa e ciò che non si sa.25 Senonché, proprio per giustificare un inizio alla conoscenza umana, è necessario sostenere un a priori gnoseologico (la reminiscenza) che risulterà in realtà un a priori ontologico. Per la prima volta, infatti, Platone introduce nel Menone il ‘mito della reminiscenza’, ripreso in altri dialoghi, e soprattutto nel Fedro. Che Platone parli di memoria come della facoltà in cui si troverebbe tutta la conoscenza dell’uomo ancor prima che l’individuo nasca, e giustifichi inoltre tale asserzione ricorrendo alla metempsicosi sostenuta dalla tradizione pitagorica e misterica, non deve impressionare, poiché si tratta di miti dietro i quali egli spesso nasconde il proprio pensiero, come cercheremo di vedere.

[…] ho sentito dire da uomini e donne assai addottrinati nelle cose divine… MEN. Cosa dicevano? SOCR. Cose vere, mi sembra, e belle. MEN. Quali? e chi sono coloro che le dissero? SOCR. Sacerdoti e sacerdotesse, quelli a cui stava a cuore saper rendere ragione del proprio ministero. E quelle stesse cose dice anche Pindaro e molti altri poeti, i poeti divini. E questo dicono — ma vedi se ti sembra che dicano il vero -; dicono, dunque, che l’anima umana è immortale, e che ora essa ha un suo compimento — il che si dice morire -, ora rinasce, ma che mai essa va distrutta; ecco perché, dicono, bisogna trascorrere la vita il più santamente possibile. [81a-b]

Il punto di partenza, come si diceva, è dato dall’accettazione della tesi della metempsicosi dell’anima, a sua volta fondata sulla sua immortalità; ma di questa immortalità Platone qui non dice nulla, mentre nella Politeia e nel Fedone cerca di darne la dimostrazione. L’ultima parola a riguardo è però quella pronunciata nel Timeo, quando il Demiurgo, rivolto agli dèi, suoi figli, dichiara:

O dèi, figli di dèi, io sono il vostro artefice e padre, e le cose generate per mezzo mio non sono dissolubili, se io nol voglio. Tutto che è legato è dissolubile, ma il voler dissolvere quello che è ben congiunto e che sta bene è da malvagio. E però neppur voi, poiché siete stati generati, siete immortali, né interamente indissolubili, ma non sarete disciolti, né vi coglierà la sorte del morire, perché la mia volontà è per voi legame anche maggiore e più forte di quelli, da cui foste legati nascendo.26

Analogamente all’esistenza degli dèi è pensata quella delle anime umane, anche esse ‘legate’ dal Demiurgo, in quanto composte da identico, diverso e misto. La semplice dichiarazione di immortalità non risolve tuttavia il problema dell’anima, se non in termini mitici, mentre quello che conta è mostrare quali sono le condizioni ontologiche della sua immortalità, in cui si concretizza il volere del Demiurgo. Ciò significa indagarne la struttura, cosa che Platone effettua nel Timeo e nel Parmenide, dai quali dialoghi emerge non più un ‘mito della reminiscenza’, ma una vera e propria teoria ontologica dell’anima e della conoscenza. Ma proseguiamo intanto nella lettura del Menone.

Dice ancora Socrate:

L’anima, dunque, poiché immortale e più volte rinata, avendo veduto il mondo di qua e quello dell’Ade, in una parola tutte quante le cose, non c’è nulla che non abbia appreso. Non v’è, dunque, da stupirsi se può fare riemergere alla mente ciò che prima conosceva della virtù e di tutto il resto. Poiché, d’altra parte, la natura tutta è imparentata con se stessa e l’anima ha tutto appreso, nulla impedisce che l’anima, ricordando (ricordo che gli uomini chiamano apprendimento) una sola cosa, trovi da sé tutte le altre, quando uno sia coraggioso e infaticabile nella ricerca. Sì, cercare ed apprendere sono, nel loro complesso, reminiscenza [anamnesi]! Non dobbiamo dunque affidarci al ragionamento eristico: ci renderebbe pigri ed esso suona dolce solo alle orecchie della gente senza vigore; il nostro, invece, rende operosi e tutti dediti alla ricerca; convinto d’essere nel vero, desidero cercare con te cosa sia virtù. [81c-e]

Le parole di Socrate che innanzitutto ci interessano sono quelle relative alla natura, la quale è tutta «imparentata con se stessa»: essa cioè costituisce un tutto organico, un intero costituito di parti, delle quali si dice che l’anima ‘ricordandone’anche una sola «trovi da sé tutte le altre, quando uno sia coraggioso e infaticabile nella ricerca.» L’anima infatti, dice Socrate, «avendo veduto il mondo di qua e quello dell’Ade, in una parola tutte quante le cose, non c’è nulla che non abbia appreso.» L’anima per ciò, quando nasce l’individuo, possiede già l’intero conoscere; e l’apprendere appare un semplice ‘ricordare’. All’intero che è «il mondo di qua» corrisponde l’intero della memoria umana. Non solo, poiché all’intero «mondo di qua» corrisponde «quello dell’Ade», l’anima si presenta come uno ‘schermo’ tra il mondo sensibile e quello intellegibile, posta tra la molteplicità sensibile e l’unità intellegibile.27

La facoltà umana, che qui viene presentata nella sua funzione di reminiscenza, in realtà è l’intelletto, in cui si determina l’idea di qualcosa, e in cui la ragione ne scopre i nessi con altre idee, poiché l’intelletto stesso è un’idea. Nel Teeteto infatti Socrate propone che l’anima sia un’idea, a cui fanno capo le facoltà sensibili:

E di fatti strano sarebbe, o figlio, se un numero indefinito di sensi avessero lor sede in noi come dentro a cavalli di legno, ma non si ricongiungessero tutti insieme in un’unica idea, sia essa anima o come altrimenti si debba chiamare, «con la quale», «mediante questi sensi», a guisa di organi, noi abbiamo la sensazione di tutto ciò che è sensibile.28

Peraltro, non potrà essere tutta l’anima ad essere una idea, ma soltanto l’identico-intelletto, e si tratterà dell’idea che comprende in sé tutte le idee possibili come sue parti, determinate da nessi.

Ma conviene chiarire che diverso, misto ed identico non sono altro che le facoltà di cui Platone parla nella Politeia, secondo questa sequenza: diverso = immaginazione, misto = credenza e ragione discorsiva, identico = intelletto, i cui rispettivi oggetti sono: immagini sensibili, realtà corporee, scienze ipotetiche, principio. Il processo conoscitivo inizia dalle immagini colte dall’immaginazione, le quali sono credute reali dalla credenza; vengono poi sottoposte all’organizzazione conoscitiva della ragione, la quale è in grado di riconoscere che esse, ormai ‘divenute’idee, non sono altro che il principio, oggetto dell’intelletto. È l’intelletto che, «avendo veduto il mondo di qua e quello dell’Ade, in una parola tutte quante le cose, non c’è nulla che non abbia appreso»: questo perché è l’identico dell’intero Intellegibile, come Platone afferma nel Timeo quando descrive la formazione dell’anima. Così si esprime:

Egli invero formò l’anima anteriore e più antica del corpo per generazione e per virtù, in quanto che essa doveva governare il corpo, e questo obbedirle, e la formò di tali elementi e in tal guisa. Dell’essenza indivisibile e che è sempre nello stesso modo e di quella divisibile che si genera nei corpi, di tutte e due forma, mescolandole insieme, una terza specie di essenza intermedia, che partecipa della natura del medesimo e di quella dell’altro, e così la stabilì nel mezzo di quella indivisibile e di quella divisibile per i corpi.29

L’identico è dunque costituito dell’«essenza indivisibile» che è l’Intellegibile in sé, «che è sempre allo stesso modo», intero, senza possibilità di divisione e di modificazione. Di questa intera «essenza indivisibile» partecipa l’anima, secondo la ‘partecipazione per l’intero’, non secondo la ‘partecipazione per la parte’, la quale è invece relativa alle cose sensibili. Nel Parmenide infatti si afferma che sono soltanto due le possibili forme di partecipazione: per l’intero intellegibile e per la parte; e due sono le realtà che ne derivano: quelle che vengono chiamate «pensieri pensanti» e «pensieri non pensati»: cioè le anime e i corpi.30 Tutto questo viene sostenuto da Platone con quel tipo di esposizione che formalmente nega quello che intende presentare.

Quanto al diverso, che deriva dall’essenza «divisibile che si genera nei corpi», diciamo per semplificare che è della stessa natura di «quell’infinito che trascorre secondo il «più» e il «meno» attraverso il corpo e l’anima» di cui si parla nel Filebo.31 Ciò, dunque, che ha carattere finito (l’identico) e ciò che ha carattere infinti (il diverso) sono uniti dal Demiurgo nel misto, «che partecipa della natura del medesimo e di quella dell’altro». In questo modo, Platone fissa con termini strettamente dialettici i caratteri e le facoltà dell’anima: essa possiede un intero (identico dell’intero Intellegibile), di per se stesso ‘indivisibile’, ma ‘diviso’ tuttavia dal diverso, non all’infinito come virtualmente potrebbe essere, ma secondo parti determinate che costituiscono oggetto di credenza o di conoscenza.

Riassumiamo così:

  1. l’anima umana è costituita di identico, diverso e misto;
  2. l’identico (ossia l’intelletto) è identico dell’intero Intellegibile;
  3. l’intelletto è un’idea intera in cui si determinano delle parti per il suo rapporto con il diverso;
  4. in questo rapporto tra intero e parti consiste il suo essere un «pensiero pensante».

Ma intanto Menone chiede:

Sì, Socrate, ma in che senso dici che non apprendiamo e che quello che denominiamo apprendere è reminiscenza? Puoi insegnarmi che sia davvero così? SOCR. L’ho detto, Menone, poco fa che sei capace di tutto! Certo, mi chiedi ora s’io ti possa insegnare, proprio a me che sostengo non esistere insegnamento, ma reminiscenza, per vedermi cadere subito in contraddizione con me stesso. [81e-82a]^[35]

Perché Menone si convinca che tutta la conoscenza è nell’anima prima che l’individuo nasca, Platone fa fare a Socrate l’esperimento di trarre dall’ignoranza in geometria di uno schiavo, «solo in virtù di domande» [83d], il rapporto che intercorre tra i lati di due quadrati aventi l’uno la superficie doppia dell’altro [82b-85b] . Dopo questa dimostrazione di geometria, che qui tralasciamo, Socrate conclude così:

E se non le ha acquisite nella presente vita, non è già di per sé evidente che le possedeva, e che le apprese in un altro tempo? MEN. Evidente! SOCR. E non è forse questo il tempo in cui non era ancora uomo? MEN. Sì. SOCR. Se, dunque, nel suo tempo umano e nel tempo in cui non era uomo, saranno in lui opinioni vere, che ridestate dalle interrogazioni divengono scienze, non dovrà l’anima sua averle apprese da sempre? poiché, evidentemente, egli «è» per tutto il tempo, sia quando è uomo sia quando non lo è. MEN. Evidente. SOCR. Se, dunque, sempre è nella nostra anima la verità degli enti [tw%n o\éntwn], immortale deve essere l’anima, per cui, coraggiosamente, non si deve porre mano a ricercare e a ridestare nella memoria ciò che ora ti càpita di non sapere, e che, invece, è un dimenticare? [85e-86b]

Come abbiamo visto, nel Timeo Platone afferma che l’anima nasce prima del corpo, ribadendo che «Dopo che secondo la mente del creatore fu compiuta tutta la creazione dell’anima, dopo questo compose dentro di essa tutta la parte corporea, e le unì insieme accoppiandole per i loro centri».32 Viene a dire in definitiva che l’anima è completa prima della sua unione con il corpo, salvo che, essendo il corpo strumento dell’anima, senza tale strumento essa non può ricevere quelle immagini sensibili che dall’immaginazione (diverso) passano alla credenza e alla ragione (misto) per giungere all’intelletto (identico).

Importante è poi la dichiarazione che Socrate aggiunge:

Forse su altri punti del discorso non mi sentirei d’esser tanto sicuro, ma per questo, che, cioè, pensando sia quasi un dovere cercare ciò che non si sa, diverremmo migliori, più forti, meno pigri, che se ritenessimo impossibile trovare e non dover cercare quello che non sappiamo, per questo, se ne fossi capace, combatterei con forza, con la parola e con i fatti. [86b-c]

Questa dichiarazione deve mettere in guardia il lettore dal prendere alla lettera quanto ha detto sulla metempsicosi e sull’anamnesi, poiché, se «sempre è nelle nostra anima la verità degli enti», questo non significa che noi apprendiamo ‘ricordandola’ dopo averla appresa nelle tante rinascite, ma soltanto che con la nascita dell’anima, essa nell’identico la possiede implicitamente per intero.

Oltre a questo, tali elementi esprimono non meno la qualità che l’essenza di ciascuna cosa, per causa della inadeguatezza dei discorsi; perciò nessuno, che abbia senno, oserà affidare a questa inadeguatezza dei discorsi quello ch’egli ha pensato, e appunto ai discorsi immobili, come avviene quando sono scritti.33

Si abbandona dunque la ricerca dell’essenza della virtù per indagarne una sua qualità: l’insegnabilità, se realmente è possibile.

5. È insegnabile la virtù?

Si ritorna dunque alla domanda iniziale del dialogo, abbandonando la ricerca della definizione di virtù. Platone tuttavia non desiste interamente dal piano intellegibile a cui vuole condurre il lettore, e fa dire a Socrate:

Poiché non sappiamo ancora né cosa essa sia né le sue qualità, esaminiamo per via ipotetica se sia o no insegnabile, così ragionando: se la virtù ha una sua certa qualità tra quelle proprie dell’anima, sarà insegnabile o no? E in primo luogo, se ha qualità diversa dalla scienza sarà o no insegnabile, ossia, come or ora dicevamo, oggetto di ricordo (per noi è indifferente usare l’uno o l’altro termine). Ma è insegnabile? E allora, non è a tutti chiaro che all’uomo non altro si può insegnare se non la scienza? MEN. Mi sembra. SOCR. Ma se la virtù è una scienza, evidentemente si può insegnare. MEN. Certo! SOCR. Bene, di questo punto ci siamo liberati presto: se è scienza è insegnabile; se non è scienza, no.

Dobbiamo dunque esaminare se la virtù sia una scienza, mentre si riafferma che essa è un bene («l’ipotesi che sia, appunto, un bene non resta ben ferma?» [87d]). Siamo giunti in realtà ad un bivio: bene e intellegibile si identificano, o vi è una differenza, e non tutto ciò che è bene è anche intellegibile, anche se tutto ciò che è intellegibile è anche bene? La precedente definizione di virtù ci orienta nella risposta: se la virtù è «desiderio di cose belle e capacità di procurarsele», è da vedere in che rapporto stanno desiderio e capacità con bene, bello e intellegibile.34 È necessario innanzitutto ricordare che per Platone l’oggetto naturale del desiderio è il piacere, ovvero il bello nella sua manifestazione sensibile e inferiore. Nel Fedro egli scrive che l’uomo è soggetto sempre a due principi:

l’uno è un innato desiderio di piaceri, l’altro, invece, è l’opinione acquisita che aspira all’ottimo. Talvolta questi due impulsi interni sono in accordo, ma talvolta sono in lotta fra loro: e ora prevale l’uno, ora l’altro.35

Platone dedicherà il Filebo alla negazione che il piacere sia da preferirsi all’uso dell’intelligenza: solo con l’equilibrio di ‘piaceri puri’e di intelligenza ci si può avvicinare al Bene, il quale viene descritto attraverso tre termini: misura, bellezza, mente.

Ma intanto nel Menone, Socrate mostra che i beni del corpo (salute, forza, bellezza) e quelli relativi al corpo (ricchezza) sono certamente utili, e tuttavia «queste stesse cose affermiamo che talvolta sono nocive» [88a] . E aggiunge:

Non è forse vero che sono utili quando siano correttamente usate, dannose quando siano usate scorrettamente? MEN. Senza dubbio. SOCR. Passiamo ora ad esaminare quel che è proprio dell’anima: c’è qualcosa che chiami temperanza, giustizia, coraggio, facilità d’apprendere, memoria, generosità e altro di simile? MEN. Sì. SOCR. Ma vedi un po’, se di queste qualità quelle che non ti sembrano essere scienza, ma altro, a volte siano nocive altre volte utili: il coraggio, ad esempio, quando non sia coraggio intelligente, ma una specie di audacia; chi agisce arditamente ma senza intelletto, non è forse danneggiato, mentre chi è ardito con intelletto non ne ricava giovamento? MEN. Sì. [88a-b]

Infatti, dice Socrate,

tutto quello che l’anima intraprende e compie sotto la guida dell’intelligenza si conclude felicemente; nella maniera esattamente opposta tutto quello che fa senza intelligenza. MEN. Sembra di sì. SOCR. E allora, se la virtù è qualità propria dell’anima, e sua proprietà è d’essere utile, essa è intelligenza, poiché tutte le qualità dell’anima non sono in sé né utili né nocive, ma tali divengono se accompagnate dall’intelligenza e dalla stoltezza. Secondo il nostro attuale ragionamento, dunque, poiché la virtù è utile deve in qualche modo essere intelligenza. MEN. Mi sembra. [88c-d]

La conclusione attuale è per ciò la seguente:

In generale si può dunque affermare che nell’uomo tutto dipende dall’anima e che le qualità della stessa anima dipendono dall’intelligenza, se debbono essere buone. Secondo tale ragionamento veramente utile è, dunque, l’intelligenza. Ma non diciamo noi che la virtù è utile? MEN. Senza dubbio. SOCR. Noi dunque sosteniamo che la virtù, in tutto o in parte, è intelligenza? MEN. Molto bene mi sembra condotto il tuo ragionamento, Socrate. [88e-89a]

Tenendo ferma la definizione di Menone, appare sufficientemente chiaro che la virtù deve comprendere l’intelligenza, nel senso che la capacità di procurarsi «cose belle» è una capacità che si avvale dell’intelligenza, la quale mostra quali siano i beni in contrapposizione ai mali, e dunque quali cose e quali azioni siano utili e quali dannose. L’intelligenza ha per ciò una funzione strumentale rispetto al bene, e non è in se stessa un fine. Questo non significa una sua svalutazione, poiché si presenta sempre come la massima capacità che l’uomo possiede per elevarsi al Bene, e cio compie tramite la verità. Con la definizione di virtù proposta da Menone, integrata dal riferimento all’intelligenza, torniamo dunque alla traide di bellezza, verità e bene.

Nel Menone frattanto segue un intermezzo tra Socrate e Ànito sulla verifica se le persone più virtuose del passato abbiano saputo educare alla virtù i propri figli, poiché questa sarebbe la prova evidente dell’insegnabilità della virtù. Socrate invita Ànito, che è venuto a sedersi presso di loro, a prendere parte alla ricerca di coloro che possono essere considerati ‘maestri di virtù’.

A mo’ d’esempio — gli chiede Socrate — esamina in questa maniera: se volessimo che il nostro Menone divenisse un buon medico, da quali maestri lo manderemmo? Dai medici, direi, no? […] Se vogliamo che uno divenga suonatore di flauto, stolto sarebbe non mandarlo da chi s’impegna d’insegnare tale arte per cui esige una paga, ma disturbare altri, andando alla ricerca di persone che non pretendono affatto d’essere maestri e che non hanno alcun discepolo nella disciplina che da quelle persone vorremmo imparasse chi mandiamo da loro; non ti sembra cosa assai illogica? ANIT. Sì, per Zeus, ed anche ignoranza mi sembra! [90c-e]

Dopo questi esempi, la prima categoria di persone che Socrate indica come possibili ‘maestri di virtù’, i quali pubblicamente insegnano «fissando ed esigendo una certa mercede» [91b], è quella dei sofisti. La risposta di Ànito è una immediata indignazione:

[Per Ercole, Socrate, sta attento a come parli! Nessuno dei miei congiunti, dei miei familiari, dei miei amici, nessun cittadino, nessuno straniero sia colto da questa follia, dalla follia di andare a farsi corrompere da simili persone: corruzione e rovina esse sono per chi le frequenta! [91b-c]

Platone, che ha introdotto la figura di Ànito non certo senza uno scopo, lo mostra nell’equivoco in cui è caduto quando, appoggiando l’accusa di Meleto e Licone, ha sostenuto l’accusa di ‘corruzione dei giovani’ proprio nei confronti di Socrate.

Con duplice ironia, cioè nei confronti di Ànito e dei sofisti, Platone fa che Socrate finga di meravigliarsi dell’indignazione dell’interlocutore:

Cosa dici, Anito? Solo questa gente, dunque, fra tanti che dichiarano di saper essere utili sarebbero talmente diversi dagli altri, che non solamente non sarebbero di alcuna utilità a ciò che viene loro affidato, ma ne sarebbero, anzi, la rovina? E per simile servizio apertamente pretenderebbero d’essere pagati? Personalmente no, non posso crederti! Io so che il solo Protagora per questo suo sapere ha guadagnato più denari di Fidia, autore di tanti capolavori, e dieci altri scultori messi insieme. Quale mai strana cosa vai dicendo! Chi raccomoda calzari e vecchi vestiti, se li restituisse in peggiore stato di quello che li ha ricevuti, non passerebbero trenta giorni che già la gente lo saprebbe, e, così facendo, ben presto morrebbe di fame. Protagora, invece, avrebbe saputo nascondere a tutta la Grecia che rovinava coloro che lo frequentavano, che li restituiva peggiori di quel ch’essi fossero prima di andar da lui, e tutto questo per più di quaranta anni! poiché credo che egli sia morto sui settant’anni circa, dopo avere per quaranta esercitato la propria arte. E per tutto questo tempo, fino ad oggi, mai la sua fama è venuta meno. Né Protagora è il solo; moltissimi altri hanno fatto come lui, alcuni prima, altri dopo, ancora in vita. Dobbiamo forse dire, sulla traccia delle tue parole, che tali uomini consapevolmente ingannano e rovinano i giovani, o neppure essi se ne rendono conto? E dobbiamo credere davvero che tanto pazzi siano questi uomini, di cui v’è chi dice che siano tra i più sapienti? [91c-92a]

Socrate, che da Ànito fu accusato di corruzione dei giovani, finge di meravigliarsi del fatto che sofisti come Protagora non solo non avessero mai insegnato la virtù, ma piuttosto corrotto le persone che si erano rivolte a lui per ascoltarlo, pagando per di più lautamente. Che sapere è dunque quello sofistico, che si presenta come conoscenza, ma come una conoscenza che non dà luogo ad insegnamento? La rinuncia alla definizione di cosa sia la virtù per cercare di determinarne una qualità (l’insegnabilità) conduce a questo risultato: coloro che sono chiamati ‘maestri di virtù’, e che tali si dichiarano, risultano incapaci di insegnarla, mentre un qualsiasi calzolaio è in grado di trasmettere la propria arte a chi la voglia imparare.

Alla pagina riportata va affiancata quella sugli uomini più virtuosi che abbia avuto Atene nel passato: Temistocle, Aristide, Pericle, Tucidide, alcuni dei quali sono ricordati in altri dialoghi. Gli esempi del Menone rimandano tuttavia più espressamente a quelli che troviamo in Lachete, Teage e Sulla virtù. Nel Lachete compaiono come personaggi i figli di Aristide e Tucidide (Lisimaco e Melesia) e i nipoti (Aristide e Tucidide), che vengono ancora nominati nel Teage: «Aristide, figlio di Lisimaco e nipote di Aristide […] Tucidide figlio di Melesio e nipote di Tucidide».36 Nel dialogo Sulla virtù di essi si chiede:

Di ognuno di costoro possiamo dire chi sia stato il maestro? — Non possiamo: non si fa alcun nome in proposito. — Si fa d’altronde il nome di qualcuno dei loro discepoli, straniero, o concittadino, libero o schiavo, il quale a causa dei suoi rapporti con costoro sia divenuto bravo e buono? — Neppur di questo si fa menzione. — Forse, allora, per invidia rifiutarono di rendere gli altri uomini partecipi della loro virtù? — Forse. — E lo fecero per non avere dei rivali, secondo il costume dei cuochi, dei medici, degli architetti? Infatti non è vantaggioso per loro avere molti concorrenti, cioè convivere con molti che abbiano la loro stessa competenza. Ma, allora, non è forse così anche per gli uomini buoni? Non è svantaggioso per loro il dover vivere tra persone simili a loro? — Può darsi. — Ma gli uomini buoni non sono anche giusti? — Sì. — E c’è qualcuno a cui riesca vantaggioso il vivere non fra i buoni, ma fra i malvagi? — Non so rispondere. — E neppure a questo sai rispondere, se cioè sia funzione dei buoni il nuocere e funzione dei malvagi il giovare, o se accada il contrario? — Il contrario. — I buoni dunque giovano, e i cattivi danneggiano? — Sì. — E c’è mai qualcuno che preferisca ricevere un danno piuttosto che un vantaggio? — No di certo. — Nessuno dunque preferisce vivere tra i malvagi piuttosto che tra gli onesti. — È così. — Nessun uomo buono, dunque, può aver invidia per un suo simile, e quindi rifiutarsi di rendere gli altri buoni e simili a sé.37

Queste pagine si integrano: i sofisti, coscientemente o incoscientemente, «ingannano e rovinano i giovani»; ma le persone giuste, che non possono non volere il bene degli altri, in quanto nessuno «preferisce vivere tra malvagi piuttosto che tra onesti», neppure esse sono in grado di insegnare la virtù.

Terminato l’intermezzo con Ànito, il dialogo tra Socrate e Menone riprende con la domanda se tuttavia i sofisti, non ostante la pagina ironica che abbiamo letto, possano essere considerati ‘maestri di virtù’ poiché alcuni ritengono di esserlo, anche se altri no (Gorgia, ad esempio, crede «che si debbano formare dei buoni parlatori» soltanto [95c]). Ma anche questa volta si finisce per negarlo; e Socrate conclude che

allora, se né i sofisti né chi sia per bene sono maestri di simile cosa, evidentemente non ve ne sono altri. MEN. Non mi sembra. SOCR. E se non vi sono maestri, neppure vi sono scolari? MEN. Mi pare che tu abbia ragione. SOCR. Ma noi ci siamo trovati d’accordo nel sostenere che ciò di cui non vi sono né maestri né scolari, non è insegnabile? […] La virtù non è, dunque, insegnabile? MEN. Evidentemente no, se abbiamo esaminato come si deve. [96b-c]

La virtù, dunque, quale «desiderio di cose belle e capacità di procurarsele», non si identifica con l’intelligenza, benché sia stato affermato che nulla riesce bene senza l’intelligenza.

6. Le statue di Dedalo

Socrate a questo punto compie un cambiamento di prospettiva del discorso sull’insegnabilità della virtù, poiché afferma che «ci è sfuggito che non solo se fatte sotto il governo della scienza le umane azioni riescono bene, ma anche se compiute sotto altra direzione. Ecco perché non riusciamo a sapere in quale modo si formino i virtuosi» [96e] . Viene introdotta cioè la distinzione tra conoscenza e opinione, che è uno dei cardini di tutta la sua concezione filosofica platonica. La distinzione è presente esplicitamente o implicitamente in molti dialoghi, ma nel Timeo se ne parla come di una distinzione essenziale al discorso filosofico in se stesso.

Così dunque — scrive Platone — esprimo il mio parere: se l’intelligenza e la vera opinione son due generi diversi, esistono assolutamente di per sé queste specie non percepibili da noi col senso, ma solo intelligibili: se poi, come sembra ad alcuni, la vera opinione non differisce per niente dall’intelligenza, si devono invece ritenere come fermissime tutte le cose che percepiamo per mezzo del corpo. Ma si deve dire che quelli son due generi diversi, perché nati separatamente e aventi natura dissimile. Infatti l’un d’essi nasce mediante l’insegnamento, l’altro dalla persuasione: e l’uno è sempre con vera ragione, l’altro irrazionale; e l’uno immobile alla persuasione, e l’altro persuadibile; e dell’uno si deve dire che partecipa ogni uomo, dell’intelligenza gli dèi e piccol numero d’uomini.38

La distinzione tra opinione e conoscenza è l’espressione dunque di quella tra realtà sensibile e realtà intellegibile, tra «il mondo di qua e quello dell’Ade». L’opinione deriva dalle sensazioni mediante l’immaginazione, mentre la conoscenza deriva alla ragione dall’identico dell’intelletto. L’immaginazione dà alla credenza il materiale sensibile dell’opinione; l’intelletto dà alla ragione la forma intellegibile della conoscenza.39

Nel Teeteto si fa inoltre la distinzione tra opinione vera e opinione falsa; ed è chiaro che interessa la prima, come nel nostro dialogo Socrate sottolinea:

L’opinione vera, dunque, relativamente alla rettitudine dell’azione, non dirige meno bene dell’intelligenza. Questo avevamo tralasciato nella nostra precedente indagine sulla qualità della virtù, affermando che solo l’intelligenza guida il retto operare, mentre v’era da tener presente anche l’opinione vera. [97b-c]

Menone rimane tuttavia stupito del fatto che si attribuisca maggior valore alla scienza che all’opinione vera, se entrambe sono ugualmente valide «alla rettitudine dell’azione».

Sai la ragione del tuo stupore? — dice Socrate — vuoi che te lo dica? MEN. Dimmi! SOCR. Perché non hai mai fatto attenzione alle statue di Dedalo; ma, forse, da voi non ce ne sono. MEN. Per quale ragione dici questo? SOCR. Perché anche le statue di Dedalo, se non vengono legate, fuggono e se ne vanno, mentre, se legate, restano fisse. MEN. E cioè? SOCR. Possedere una statua di Dedalo, priva di legami, è avere un’opera che non costa niente, sì come possedere uno schiavo che scappi: in realtà non resta nulla in mano. Possederla, invece, legata è avere cosa di gran valore, ché molto belle sono tali opere. [97d-e]

Ecco dunque la diversità tra conoscenza e opinione vera: l’essere o non essere le parti di un intero legate mediante nessi all’interno del pensiero.

Anche le opinioni vere, finché restano sono cose belle, capaci di realizzare tutto il bene possibile; solo che non acconsentono a rimanere per lungo tempo, e fuggono via dall’anima umana, per cui non hanno un gran significato, a meno che non s’incatenino con un ragionamento fondato sulla causalità. Ma proprio in questo, compagno Menone, consiste l’anamnesi, quella reminiscenza su cui sopra ci siamo accordati. Se collegate, esse dapprima divengono scienza e, quindi, cognizioni stabili. Ecco perché la scienza vale più della retta opinione: la differenza tra scienza e retta opinione sta, appunto, nel collegamento. [97e-98a]

Abbiamo già accennato a questo collegamento tra le idee, ma occorre precisare che nel Teeteto si attribuisce un tale collegamento anche all’opinione retta: il discorso deve per ciò essere condotto oltre questo risultato. Nel Teeteto, ricercando cosa sia conoscenza, si nega che essa sia sensazione o semplicemente opinione, o anche opinione vera, e alla fine si nega che sia opinione vera anche se ‘unita a ragione’. ‘Ragione’, dice Socrate, può voler dire una di queste tre cose:

  1. «La prima sarebbe questa: manifestare il proprio pensiero, mediante la voce, con verbi e nomi, effigiando nelle parole che fluiscono dalle labbra, come in acqua o specchio, l’immagine dell’opinione. […] Però codesto, cioè significar con parole che opinione ha uno di una data cosa, chiunque, più o meno prontamente, se non è muto e sordo di natura, è capace di farlo. E, in questo senso, tutti coloro che hanno una giusta opinione, è evidente che tutti quanti l’avranno accompagnata da ragione; e quindi non ci sarà mai giusta opinione scompagnata da conoscenza»;40
  2. La seconda si ha quando una persona, «interrogata sopra una data cosa, è capace di rispondere a chi la interroga rendendo conto della cosa per mezzo degli elementi che la compongono. TEET. Per esempio, che cosa vuoi dire, Socrate? SOCR. Per esempio, questo, che anche Esiodo, parlando del carro, dice «i cento pezzi del carro». I quali io non saprei enumerare, e, credo, neanche tu; ma comunque saremmo contenti, a chi ci domandasse che cosa è carro, di poter rispondere ruote, asse, cielo, cerchi, timone. […] mentre invece non è possibile che dica cosa veruna a norme di conoscenza chi prima non sia penetrato a fondo di ciascuna cosa, insieme con vera opinione, attraverso gli elementi che la compongono»;41
  3. «TEET. […] Il primo era come chi dicesse un’immagine del pensiero nella voce; il secondo, che abbiamo esaminato dianzi, era un giungere fino all’intiero percorrendo tutta la serie degli elementi; e ora il terzo quale è? SOCR. Quello che diranno i più: poter indicare un segno onde la cosa di cui si domanda differisce da tutte le altre. TEET. Per esempio, quale ragione, e di che cosa, mi puoi dire? SOCR. Per esempio, se ti piace, del sole: credo basti, per avere il tuo assenso, dire del sole che è il più risplendente di tutti i corpi celesti che girano intorno alla terra. […] E così colui che, già avendo di una qualunque delle cose che esistono retta opinione, ne colga inoltre quel segno onde si distingue dalle altre, egli verrà ad avere di codesta cosa anche la conoscenza, mentre prima non ne aveva che l’opinione».42

Ma neppure questo caso di ‘opinione vera unita a ragione’ può essere accettato, perché indicare di una cosa «quel segno onde si distingue dalle altre» è possibile anche rimanendo sul piano dell’opinione, come del resto ha mostrato l’esempio del sole.

Tuttavia, se le possibilità di intendere cosa sia ‘opinione unita a ragione’ sono state singolarmente confutate, ciò non significa che esse possano, e anzi, debbano, essere considerate tutte tre unite. In questo caso, la conoscenza si potrà definire (1) un esprimere il proprio pensiero relativamente ad (2) un intero, ogni parte del quale sia colto (3) nel proprio ‘segno distintivo’. In questo modo, avremo ambiti di conoscenza unitaria, quali sono quelli dell’aritmetica, della geometria, dell’astronomia, dell’armonia: vere forme di scienza, anche se soltanto scienze ipotetiche, cioè mancanti di principio, se quell’esprimere ‘il proprio pensiero’ non è saldato all’oggetto dell’intelletto. Non siamo giunti per ciò neanche ora al termine del discorso, perché le scienze non sono che il ‘preludio alla dialettica’, cioè alla Verità in se stessa, come Platone sostiene nella Politeia.43 È necessario che l’arte dialettica passi da questo ‘preludio’ al principio, in modo che, dopo aver conosciuto le cose di questo mondo, si possa ‘riconoscere’ quelle dell’Ade, dell’Invisibile, dell’Intellegibile.

La distinzione tra opinione e conoscenza risulta dunque essenziale alla soluzione del problema, ma nello stesso tempo, se non viene fondato ontologicamente, determina quella ambiguità che consente a Platone l’uso dell’ironia e dell’azione torpedica di Socrate. Se le scienze sono insegnabili per la connessione intrinseca ad un ambito conoscitivo (aritmetica, geometria, ecc.), esse non costituiscono il vertice a cui può giungere la ragione, poiché non sono altro che ‘gradini’ per un ulteriore ascesa, come viene detto nella Politeia.44 Sarà il legame della ragione con il principio dell’intelletto ciò che permetterà ad un individuo di essere «un politico capace di formare altri politici», come dirà Socrate tra poco, poiché la stessa intelligenza «nasce mediante l’insegnamento».

E allora, — dice Socrate — poiché gli uomini non sono buoni e conseguentemente utili agli stati solo a causa della scienza, ma anche in virtù della retta opinione, né scienza né vera opinione esistono nell’uomo per natura; ti sembra, forse, invece, che l’una e l’altra ci siano per natura? MEN. No! SOCR. Poiché dunque non sono per natura, neppure i buoni sono tali per natura. [98c-d]

Viene in questo modo esclusa una delle possibilità del sorgere della virtù ipotizzate dalla domanda di Menone all’inizio del dialogo. Se non è «per natura», resta che nasca per insegnamento (tramite la conoscenza) o quale «frutto di esercizio» ovvero «in altro modo» quale «frutto di divina sorte» [100b].

È da notare intanto che l’affermazione che la scienza non esiste per natura nell’uomo sembra contraddire quella che la conoscenza sia reminiscenza e sia stata acquisita dall’anima nelle sue varie reincarnazioni. In realtà, se la retta opinione è un’acquisizione e non un possesso naturale dell’uomo, il fondamento della possibilità del passaggio da opinione a conoscenza è un a priori dato dalle due eminenti facoltà dell’anima: intelletto e ragione dianoetica. Di esse ci parla Platone nel Filebo:

Un dono degli dèi agli uomini, così almeno mi pare, da un punto del cielo divino un giorno sulla terra fu gettato, per mezzo di un Prometeo, insieme ad un fuoco d’una chiarezza abbagliante e gli antichi (che erano più valenti di noi e vivevano più vicino agli dèi) ce l’hanno tramandata questa rivelazione e cioè che risultando dall’unità e dalla molteplicità le cose che sono, le cose che sempre sono state dette e saranno dette ‘cose che sono’, esse portano in sé connaturato finito ed infinito.45

Il «dono divino», dal seguito del discorso di Socrate, risulta essere l’arte dialettica, la ragione discorsiva nella sua funzione più elevata; mentre il «fuoco d’una chiarezza abbagliante» non può essere che il principio, oggetto intellegibile dell’intelletto o idea del Bene.46

È la ragione dialettica a determinare il collegamento tra le scienze ipotetiche, ‘preludio’ della dialettica, e il principio dell’intelletto. L’intelletto, ripetiamolo, essendo l’identico dell’intero Intellegibile, è quell’idea dell’essere nella quale la ragione opera divisioni e unioni attraverso i nessi che scopre e determina. Si tratta di quella doppia azione della ragione che Platone presenta nelle figure del tagliare del coltello e del tessere della spola, al fine di penetrare con il trapano l’essenza delle cose.

O via, — dice Socrate nel Cratilo — ciò che bisogna tagliare, con qualche cosa, diciamo, bisogna tagliarlo? ERM. Sì. SOCR. E ciò che bisogna tessere, con qualche cosa bisogna tesserlo? e ciò che bisogna perforare, con qualche cosa bisogna perforarlo? ERM. Ma certo. […] SOCR. Il nome dunque è come uno strumento didascalico e sceverativo dell’essenza, come la spola del tessuto.47

La conoscenza risulta innata nell’anima umana non in quanto dispiegamento attuale del pensiero, ma perché implicita nell’intelletto, mentre l’opinione si forma per esperienza a partire dalle immagini sensibili. La virtù per ciò è, sì, insegnabile, ma attraverso un così lungo e difficile percorso dialettico che non è possibile attuare nella normalità delle discussioni. Tuttavia, i due doni degli dèi, come dice Platone, sono dati perché gli uomini si educhino a vicenda. Infatti, è vero

che la virtù non è per natura né è oggetto d’insegnamento, ma che in coloro nei quali fiorisce virtù essa proviene per divina sorte; senza intelletto, a meno che non si trovi un politico capace di formare altri politici. Se un tale uomo esistesse si potrebbe dire di lui che sarebbe, tra i vivi, quello che Omero dice fu Tiresia tra i morti, quando afferma che egli solo nell’Ade ha intelligenza, mentre gli altri come vane ombre svolazzano. Tale uomo, rispetto alla virtù, sarebbe, appunto, come un essere reale tra ombre. [99e-100a]

Da notare l’ultima frase che contrappone essere a ombre: tra colui che tra tutti gli uomini è il solo che «nell’Ade ha intelligenza», e coloro che hanno una conoscenza soltanto di questo mondo, visto già come la ‘caverna’ della Politeia.

Ma allora, poiché «un tale uomo» è raro, ed è ancora più raro che egli riesca a rendere virtuosi altri uomini tramite l’arte dialettica, «la virtù, in chi fiorisce, è frutto di una divina sorte; solo che non potremo saperlo con certezza se, prima di sapere in che modo si formi la virtù nell’uomo, non ci studieremo di conoscere in che consista la virtù per sé.» [100b]^[52]

Se le loro azioni non erano, dunque, dovute alla scienza, non resta se non che le abbiano compiute per opinione retta. Mediante essa i politici governano gli stati, in nulla diversi, per ciò che riguarda la scienza, dagli indovini e dai vati; anche indovini e vati pronunciano molte verità, solo che nulla sanno di quello che dicono. MEN. Rischia che sia proprio così. SOCR. E allora, Menone, non è forse giusto chiamare divini tali uomini, che, pur non avendo intelletto, con successo riescono in molte e grandi cose mediante l’azione e la parola? MEN. Certamente. SOCR. E con ragione chiameremo divini quei tali che or ora dicevamo indovini e vati, come tutti i poeti; e non meno di questi dichiareremo divini anche i politici, poiché ispirati e posseduti dalla divinità allorché riescono a dire e a fare grandi cose, senza nulla sapere di quello che affermano. [99b-d]

Se dunque i politici governano bene uno Stato, lo fanno sulla base non di conoscenza, ma di retta opinione, la quale, come abbiamo cercato di mostrare, non è ancorata al principio dell’intelletto che la renderebbe inamovibile, ma può essere modificata e stravolta e fuggire come le ‘statue di Dedalo’. Nella Politeia Platone ha cercato di descrivere uno Stato ideale derivato dal principio, al quale ha contrapposto una ideale degenerazione di Stati, dalla costituzione timocratica a quella oligarchica a quella democratica, fino al formarsi dello Stato tirannico, nel quale la scelta del male prevale su quella del bene, e la popolazione vive schiava in balia del capriccio del tiranno. Viene cioè espressa quella ‘fuga’ dell’opinione politica non ancorata al principio, cioè a Dio che fonda l’intelletto: «Il dio è per noi la massima misura di tutte le cose, molto di più di quanto lo può essere un uomo, come invece dicono ora».48

Questa ‘misura’ divina, che viene normalmente all’uomo tramite le opinioni diffuse, può essere colta dalla ragione dialettica nell’intelletto attraverso una ‘reminiscenza’ che non è ricordo, ma atto di totale conversione dell’intelletto stesso su di sé, con la scoperta di essere l’occhio capace di conoscere «tutto ciò che vi è di divino, intelletto e pensiero», e dunque di rispecchiarsi in Dio. Dice Socrate nell’Alcibiade:

Rifletti anche tu. Se l’iscrizione [delfica] consigliasse l’occhio, come consiglia l’uomo, dicendo: «guarda te stesso», in che modo e cosa penseremmo che voglia consigliare? Non forse a guardare verso qualcosa guardando la quale l’occhio fosse in grado di vedere se stesso? ALC. Certo. SOCR. Ecco: indaghiamo quale oggetto v’è che a guardarlo possiamo vedere lui e noi stessi. ALC. È chiaro, Socrate, gli specchi e oggetti simili. SOCR. Esatto. Non c’è forse anche nell’occhio con il quale vediamo qualcosa dello stesso genere? ALC. Certo. SOCR. Hai osservato poi che a guardare qualcuno negli occhi si scorge il volto nell’occhio di chi sta di faccia, come in uno specchio, che noi chiamiamo pupilla, perché è quasi un’immagine di colui che la guarda? ALC. È vero. SOCR. Dunque se un occhio guarda un altro occhio e fissa la parte migliore dell’occhio con la quale anche vede, vedrà se stesso. ALC. Evidentemente. SOCR. Ma se l’occhio guarda un’altra parte del corpo umano o degli oggetti, ad eccezione di quella che ha simile natura, non vedrà se stesso. ALC. È vero. SOCR. Se allora un occhio vuol vedere se stesso, bisogna che fissi un occhio, e quella parte di questo in cui si trova la sua virtù visiva; e non è questa la vista? ALC. Sì. SOCR. Ora, caro Alcibiade, anche l’anima, se vuole conoscere se stessa, dovrà fissare un’anima, e soprattutto quel tratto di questa in cui si trova la virtù dell’anima, la sapienza, e fissare altro a cui questa parte sia simile? ALC. Credo di sì, Socrate. SOCR. Possiamo noi indicare nell’anima una parte più divina di quella ove risiedono la conoscenza e il pensiero? ALC. Non possiamo. SOCR. Questa parte dell’anima è simile al divino, e, se la si fissa, si impara a conoscere tutto ciò che vi è di divino, intelletto e pensiero, si ha la possibilità di conoscere se stessi nel modo migliore.49


  1. Tutte le citazioni del Menone e degli altri dialoghi platonici sono tratte da Platone, Opere complete, Laterza 1971. Occorre tener presente la varietà delle formule introduttive dei dialoghi platonici come elemento non secondario ai fini di un tentativo di ricostruzione cronologica degli stessi. V. Rocco Li Volsi, Sulla cronologia dei dialoghi platonici, in Giornale di Metafisica, Nuova Serie XXII, 2 (2001). ↩︎

  2. In particolare, i primi tre sembrano scritti in funzione di invito rivolto ai giovani a far parte della Scuola aperta da Platone nello stesso 387. ↩︎

  3. È noto che il primo libro della Politeia «fu trovato con frequentissime correzioni e mutamenti». Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Laterza 1975, II, V 37. Questo fa pensare ad un adattamento operato da Platone per far sì che il Trasimaco, come viene chiamato, da dialogo originariamente ‘diretto’ divenisse ‘narrato’. ↩︎

  4. Diog. Laert., Vite dei filosofi, II, V 37-43. ↩︎

  5. «Ma se tale scienza ti sembra cosa da poco, te ne citerò una di maggior valore, l’arte della navigazione, che non solo salva le anime, ma anche i corpi e gli averi dai pericoli estremi, proprio come la retorica: eppure essa è un’arte umile e semplice, né altèra se ne va e pomposa come se facesse chi sa mai quale grande cosa. Anzi, pur non facendo meno di quello che fa l’oratoria forense, quando ci ha salvati, trasportandoci da Egina a qui, se non erro ci prende due oboli, e se dall’Egitto o dal Ponto, per un sì grande servizio, dopo aver salvato, come dicevo, te, i figliuoli, gli averi, la moglie, quando ti sbarca nel porto, non ti chiede al massimo che due dracme; e chi possiede tale arte, chi tanto ha saputo fare, sceso a terra, passeggia lungo il mare vicino alla sua nave, in modesto atteggiamento.» Gorg. 511 c-e. Il brano va preso in considerazione per il fatto che l’esempio relativo alla navigazione è legato al viaggio ad Egina, isola nella quale Platone rischiò di essere venduto schiavo. Vi è poi nello stesso dialogo un altro riferimento ad Egina; ma per esso v. il citato saggio Sulla cronologia dei dialoghi platonici↩︎

  6. Va notata l’ironia delle parole di Socrate, il quale più avanti affermerà che la conoscenza è ricordo (anamnesi), e qui dunque gioca a confondere una reale memoria psicologica con una presunta memoria gnoseologica. ↩︎

  7. De just. 374 c-d. ↩︎

  8. Resp. I 335 b-c. La dialettica mostra, anche senza la definizione di «virtù», cosa si debba pensare di essa in vista dell’azione. Come vedremo, siamo sul piano delle qualità, non dell’essenza della virtù. ↩︎

  9. Molti anni più tardi rispetto al Menone, nella Lettera VII Platone proporrà ancora l’esempio del cerchio, scrivendo questa importantissima pagina: «Ciascuna delle cose che sono ha tre elementi attraverso i quali si perviene a conoscerla; quarto è la conoscenza; come quinto si deve porre l’oggetto conoscibile e veramente reale. Questi sono gli elementi: primo è il nome, secondo la definizione, terzo l’immagine, quarto la conoscenza. Se vuoi capire quello che dico, prendi un esempio, pensando che il ragionamento che vale per un caso, vale per tutti. Cerchio è una cosa che ha un nome, appunto questo nome che abbiamo ora pronunciato. Il secondo elemento è la sua definizione, formata di nomi e di verbi: quella figura che ha tutti i punti estremi ugualmente distanti dal centro, questa è la definizione di ciò che ha nome rotondo, circolare, cerchio. Terzo è ciò che si disegna e si cancella, che si costruisce al tornio e che perisce; nulla di tutto questo subisce il cerchio in sé, al quale si riferiscono tutte queste cose, perché esso è altro da esse. Quarto è la conoscenza, l’intuizione e la retta opinione intorno a queste cose: esse si devono considerare come un solo grado, ché non risiedono né nelle voci né nelle figure corporee, ma nelle anime, onde è evidente che la conoscenza è altra cosa dalla natura del cerchio e dai tre elementi di cui ho già parlato. La intuizione è, di esse, la più vicina al quinto per parentela e somiglianza: le altre ne distano di più. Lo stesso vale per la figura diritta e per la figura rotonda, per i colori, per il buono per il bello per il giusto, per ogni corpo costruito o naturale, per il fuoco per l’acqua e per tutte le altre cose simili a queste, per ogni animale, per i costumi delle anime, per ogni cosa che si faccia o si subisca. Perché non è possibile avere compiuta conoscenza, per ciascuno di questi oggetti, del quinto, quando non si siano in qualche modo afferrati gli altri quattro. Oltre a questo, tali elementi esprimono non meno la qualità che l’essenza di ciascuna cosa, per causa della inadeguatezza dei discorsi; perciò nessuno, che abbia senno, oserà affidare a questa inadeguatezza dei discorsi quello ch’egli ha pensato, e appunto ai discorsi immobili, come avviene quando sono scritti. Bisogna però che io spieghi di nuovo quello che ho detto. Ciascun cerchio, di quelli che nella pratica si disegnano o anche si costruiscono col tornio, è pieno del contrario del quinto, perché ogni suo punto tocca la linea retta, mentre il cerchio vero e proprio non ha in sé né poco né molto della natura contraria. Quanto ai loro nomi, diciamo che nessuno ha un briciolo di stabilità, perché nulla impedisce che quelle cose che ora son dette rotonde si chiamino rette, e che le cose rette si chiamino rotonde; e i nomi, per coloro che li mutassero chiamando le cose col nome contrario, avrebbero lo stesso valore. Lo stesso si deve dire della definizione, composta com’è di nomi e di verbi: nessuna stabilità essa ha, che sia sufficientemente e sicuramente stabile. Un discorso che non finisce mai si dovrebbe poi fare per ciascuno dei quattro, a mostrare come sono oscuri; ma l’argomento principale è quello al quale ho accennato poco fa, e cioè che, essendoci due princìpi, la realtà e la qualità, mentre l’anima cerca di conoscere il primo, ciascuno degli elementi le pone innanzi, nelle parole e nei fatti, il principio non ricercato; in tal modo ciascun elemento, quello che si dice o che si mostra ce lo presenta sempre facilmente confutabile dalle sensazioni, e riempie ogni uomo di una, per così dire, completa dubbiezza e oscurità. E dunque, là dove per una cattiva educazione non siamo neppure abituati a ricercare il vero e ci accontentiamo delle immagini che ci si offrono, non ci rendiamo ridicoli gli uni di fronte agli altri, gli interrogati di fronte agli interroganti, capaci di disperdere e confutare i quattro; ma quando vogliamo costringere uno a rispondere e a rivelare il quinto, uno che sia esperto nell’arte di confutare può, quando lo voglia, avere la vittoria, e far apparire alla gran parte dei presenti che chi espone un pensiero o con discorsi o per iscritto o in discussioni, non sa alcunché di quello che dice o scrive; e questo avviene appunto perché quelli che ascoltano ignorano talvolta che non è l’anima di chi scrive o parla che viene confutata, ma la imperfetta natura di ciascuno dei quattro. Solo trascorrendo continuamente tra tutti questi, salendo e discendendo per ciascuno di essi, si può, quando si ha buona natura, generare a gran fatica la conoscenza di ciò che a sua volta ha buona natura.» Epist. VII 342 a-343 e. Questa pagina deve essere tenuta presente come la ‘carta costituzionale’ della filosofia platonica. ↩︎

  10. Nel Teeteto, volendo presentare la teoria della sensazione fondata sulla tesi eracliteea che tutto è moto, Platone propone lo stesso esempio del ‘bianco’. Poiché il colore è dato dall’incontro del moto attivo dell’oggetto sensibile e del moto passivo del soggetto senziente, il ‘bianco’ non si trova né nell’oggetto né nel soggetto, ma è «qualcosa che si è generato tra mezzo e che è particolare a ciascuno [occhio e oggetto]». Theaet. 154 a. V. tutto il problema da 153 d-157 b. ↩︎

  11. Socrate avanza anche un’altra definizione di figura: «Tenendo presente ogni figura, dico che figura è il limite con cui si determina un solido; in una parola direi che figura è «limite di solido»». [76a] ↩︎

  12. Symp. 210 e-211 b. ↩︎

  13. De just. 373 e-374 a. ↩︎

  14. Euthyd. 279 a-b. È da dire che la classificazione dei beni e dei mali risponde a quella che si produce dialetticamente all’interno degli opposti identico e diverso: identico - simile - uguale // disuguale - dissimile - diverso. Ricordiamo, anticipando un discorso che faremo tra breve, che i due elementi di cui è composta l’anima sono appunto identico e diverso, uniti e tenuti assieme dal misto. In questo modo, abbiamo una analogia tra unità della psiche, determinata da un orientamento dell’anima verso l’identico, e unità delle virtù in una, che le comprende tutte e non ne permette la disunione e la dispersione. ↩︎

  15. V. l’avidità di guadagno nell’Ipparco↩︎

  16. Resp. IX 586 a-b. ↩︎

  17. Teaet. 149 a ss. ↩︎

  18. Epist. VII 341b-c ↩︎

  19. Ricordiamo che l’anima per Platone è costituita da identico e diverso, uniti nel misto che li comprende. Tim. 35 a. Già nell’Alcibiade I Socrate aveva affermato che, per conoscere ‘noi stessi’, dobbiamo «scoprire in che consiste il «se stesso»». Alc. I 129 b. ↩︎

  20. Soph. 230 c-d. ↩︎

  21. Phil. 16 b-c. ↩︎

  22. Parm. 146 b. ↩︎

  23. Parm. 137 b. ↩︎

  24. Resp. VII 527 e; 533 d. ↩︎

  25. Cfr. anche Theaet. 201 e-202 c. ↩︎

  26. Tim. 41a-b. ↩︎

  27. Per questo problema, che richiama quello dell’Anima del mondo, v. Rocco Li Volsi, La concezione platonica dell’intero e della materia, in Sapienza 2005. ↩︎

  28. Theaet. 184 d. ↩︎

  29. Tim. 34c-35a. ↩︎

  30. Parm. 131 a; 132 c. ↩︎

  31. Phil. 52 c. ↩︎

  32. Tim. 36 d-e. ↩︎

  33. Epist. VII, 342e-343a. Anche questa precisazione ci deve far comprendere che Platone, quando scrive, non intende stendere un trattato su un dato argomento, ma suscitarne l’interesse, e nello stesso tempo darne gli elementi per la sua comprensione. ↩︎

  34. È nota la ricorrenza dei tre termini negli scritti platonici, che con qualche variante e qualche sostituzione di sequenza sono bellezza, verità (essere, giustizia), bene. Nel nostro contesto non sono esplicitamente elencati, ma sono ugualmente presenti. ↩︎

  35. Phaedr. 237 d. ↩︎

  36. Lach. 179a. Theag. 130a. ↩︎

  37. De virt. 376 c-377a. V. sopra la pagina della Politeia sul danneggiare i nemici. ↩︎

  38. Tim. 51 d-e. ↩︎

  39. Possiamo parlare di ‘forma’ in quanto nel Parmenide Platone discute degli intellegibili come di ‘forme separate’. ↩︎

  40. Theaet. 206 c-e. ↩︎

  41. Theaet. 206 e-207 b. La semplice elencazione delle parti di un intero («i cento pezzi del carro») non è sufficiente alla definizione di una determinata cosa, perché essa non ne rivela l’essenza. ↩︎

  42. Theaet. 208 c-e. ↩︎

  43. Resp. VII 531 d. ↩︎

  44. Resp. VI 511 b. ↩︎

  45. Phil. 16 c. ↩︎

  46. V. immagine del sole e la sua similitudine con il Bene nel libro VI della Politeia↩︎

  47. Crat. 387 d-388 c. ↩︎

  48. Leg. IV 716 c. ↩︎

  49. Alc. I 132 d-133 c. Ma, stando ai codici, Platone non scrive ‘intelletto’, ma ‘dio’. ↩︎