Jan Patočka, Cristianesimo e mondo naturale e altri saggi, a cura di R. Paparusso, postfazione di G. Baffo, Lithos, Roma 2011.
Parafrasando la celebre affermazione del Manifesto di Marx ed Engels, si potrebbe dire che uno spettro si aggira, da ormai circa due secoli, per l’Europa: lo spettro della fine della (sua) storia. Dal compimento della storia con la parousia dello Spirito nel sapere assoluto di Hegel alla sua ripresa contemporanea da parte di Kojève, a sua volta fonte di ispirazione per le tesi «post-moderne» sulla fine della storia di Fukuyama; dal superamento del conflitto storico attraverso la rivoluzione comunista in Marx fino alla «fine della storia dell’essere» di cui ha parlato, nei suoi ultimi anni, Heidegger (per limitarci qui ad accostare alcuni autori e discorsi che andrebbero rigorosamente contestualizzati e mantenuti nelle loro irriducibili differenze specifiche): il ritorno insistente di questo motivo nelle sue differenti forme — affermatrice o contestatrice, giubilatoria o luttuosa — è senz’altro l’indizio di un’inquietudine profonda dello spirito europeo rispetto al proprio destino, alla propria storia, al senso della nostra epoca. Questa inquietudine ha il suo rovescio più fecondo, dal punto di vista filosofico, nello stimolo formidabile che essa costituisce a riflettere in modo radicale sui concetti di storia e storicità, sul senso della storia occidentale e della contemporaneità, sul rapporto che intrattengono tra loro le diverse componenti e radici di questa storia, sulle possibilità che questa storia ancora racchiude e che possono eventualmente essere rilanciate.
Alla serie di queste meditazioni sulla «fine» si può aggiungere il pensiero di Jan Patočka, che nei suoi ultimi anni ha diagnosticato in più di un’occasione una possibile fine della storia, in un senso peculiare: non come esaurimento e compimento dei conflitti, ma come ritorno della civiltà occidentale a una condizione pre-storica di subordinazione alla mera conservazione della vita biologica, nell’esaurimento di ogni slancio problematico che elevi l’uomo al di sopra di questo piano. Questa fine della storia o «post-storia» è uno dei temi al centro del volume Cristianesimo e mondo naturale e altri saggi (Lithos editore, Roma 2011), curato da Riccardo Paparusso. Questa raccolta (che conferma peraltro un momento di particolare fortuna dell’opera patoèkiana in Italia, anche dal punto di vista delle iniziative editoriali) comprende innanzitutto tre testi di Patočka: Fondamenti spirituali della vita contemporanea (1969), Cristianesimo e mondo naturale (1972), Il problema dell’inizio e del luogo della storia (1974). A questi si aggiungono un ampio e incisivo saggio introduttivo dello stesso Paparusso e una ricca postfazione di Giancarlo Baffo. I tre testi di Patočka si inseriscono pienamente nel contesto complessivo della sua riflessione sulla storia condotta in quegli anni, che troverà il suo risultato più significativo nei Saggi eretici sulla filosofia della storia e che, pur estendendosi su un ampio spettro problematico, mantiene sempre un legame essenziale con l’altro polo fondamentale del pensiero patockiano, vale a dire la fenomenologia e in particolare l’analisi del mondo naturale. L’elemento forse di maggiore interesse di questo volume, nell’insieme dei testi che lo compongono, è rappresentato proprio dalla possibilità che offre di riflettere sull’intreccio che lega temi diversi e apparentemente disgiunti: la fenomenologia del mondo naturale, le questioni della storia e della storicità, la possibile «fine della storia», il problema della tecnica, la trasformazione dell’epoca contemporanea in un’era post-europea, il rapporto alla religione e alla sfera del sacro in generale, il ruolo storico del cristianesimo, il concetto di sacrificio. Intreccio indissolubile ma le cui articolazioni non sono sempre facili da cogliere e che rappresenta quindi un problema rilevante tanto da un punto di vista teorico-storico generale quanto dal punto di vista dell’interpretazione dell’opera di Patočka.
Possiamo cercare, se non di esporre compiutamente, quantomeno di delineare questo intreccio, seguendo due fili conduttori, che separiamo qui solo per esigenze espositive: la comprensione patoèkiana della storia e la questione della religione. Patočka mira a cogliere quell’evento, quel movimento dell’esistenza e della sua comprensione che fa sì che accada la storia e che il mondo naturale si dia sempre in una certa configurazione storica. La storicità dell’esistenza è per Patočka sempre presa in un’oscillazione essenziale, che è determinata dalla sua tendenza fondamentale a perseguire la propria autoconservazione sul piano meramente vitale: da un lato la storia è sempre «storia di un certo raddrizzamento dell’uomo al di sopra del suo stadio biologico», ma dall’altro lato è anche sempre storia della «lotta contro tutte le minacce a cui l’uomo è esposto, e che incombono su di lui a partire dal suo fondamento biologico» (p. 99) e determinano quindi una sempre possibile decadenza rispetto al livello di libertà raggiunto. Se l’esistenza è in quanto tale caratterizzata dalla storicità, intesa come l’essere in rapporto con se stessi e con le proprie possibilità, si dà storia propriamente detta solo lì dove c’è uno scuotimento del senso già dato e accettato per aprirsi a un senso problematico, un’elevazione al di sopra del piano della mera sussistenza per istituire uno spazio pubblico in cui gli uomini mettono in gioco, gli uni per gli altri, la loro libertà. È quello che secondo Patočka accade esemplarmente, una volta per tutte, con la polis greca, la quale «rappresenta il momento più importante dell’intera storia umana» (p. 122), perché è l’atto di nascita della storia e della politica nel senso proprio che questi termini hanno per l’Occidente. Le grandi civiltà arcaiche pre-greche avevano il loro scopo fondamentale nell’organizzazione, nella difesa e nella riproduzione della vita, in un mondo che era determinato in ogni suo aspetto dal mito: l’esistenza si comprende qui nel suo rapporto di subordinazione a delle divinità che ne determinano il destino e di cui bisogna mantenere il favore proprio per garantire la conservazione della vita. Anche in questo contesto emergono certo dei germi di problematicità che fanno segno al di là della ricerca della nuda sussistenza; tuttavia è solo con il progetto (politico, storico e filosofico) di libertà inaugurato dalla polis greca che accade quello scuotimento del senso che è proprio della storia e che rompe con il mondo del mito. Tutta la storia dell’Europa è allora leggibile come il movimento di quell’oscillazione tra il rilancio del progetto della libertà e la decadenza di questo slancio, con la conseguente ricaduta nel primato di un piano meramente vitale.
Ciò a cui si assiste nell’epoca contemporanea, per Patočka, è una nuova e inquietante forma di questa oscillazione o forse il rischio che l’oscillazione stessa si fermi: il predominio universale e pervasivo della tecnica, la correlativa riduzione della realtà a immenso serbatoio di energie e l’instaurazione di un ciclo di produzione continua appaiono a Patočka come un paradossale e inquietante ritorno ad una condizione simile a quella pre-storica, in cui il mondo intero e l’esistenza stessa sono sottomessi all’unico scopo della ricerca, produzione e consumo dei mezzi necessari alla riproduzione della vita. Si comprende allora l’interrogativo inquieto posto da Patočka: «come è stato possibile che l’uomo, uscito dallo stadio preistorico, dopo aver attraversato il processo storico, abbia fatto ritorno a questo livello biologico? » (p. 96). In altri termini, la società contemporanea sembra rifluire, dopo un lungo détour storico, nella situazione delle civiltà mitiche della pre-storia, dalle quali si distingue tuttavia per il proprio nichilismo. Questa interpretazione del movimento storico dell’esistenza è ciò che conduce Patočka a parlare, come avevamo anticipato, di «fine della storia» o di «post-storia», espressioni che assumono tutta la loro portata se si tiene presente che esse non si limitano a indicare lo stadio finale della storia europea, ma vengono progressivamente estese alla situazione planetaria del nostro tempo, a ciò che oggi chiameremmo «globalizzazione» e che Patočka tematizzava lucidamente, fin dagli anni Settanta, sotto il nome di «post-Europa». L’epoca contemporanea è essenzialmente un’epoca post-europea, in quanto è segnata da quel doppio movimento per cui da un lato il dominio politico-storico dell’Europa è giunto al suo termine, dall’altro lato la tecnica, la scienza e la razionalità europee si estendono su tutto il globo e vengono imposte a (e assorbite da) tutte le altre culture. Il tema della post-Europa, seppur senza ricevere ancora questo nome, ha la sua prima tematizzazione esplicita proprio in uno dei testi qui presentati, Fondamenti spirituali della vita contemporanea. Patočka sottolinea qui in particolare quello che appare come uno dei tratti fondamentali della nuova epoca storica in cui viviamo, vale a dire la «scoperta del pluralismo delle sostanze» storiche (p. 65), dopo la fine di una storia che si era incentrata sul ruolo dell’unica potenza europea. Questa nuova situazione porta con sé almeno due problemi: da una parte il conflitto tra questo pluralismo e la tendenza omogeneizzante dell’eredità tecnico-scientifico-razionale che diviene comune a tutte le civiltà; dall’altra parte, la questione di una comprensione tra le diverse culture al di là di ogni eurocentrismo, ma anche di ogni semplice constatazione relativistica e rassegnata di una pluralità incomunicabile. In questa direzione per Patočka si tratta di mostrare non la vanità e l’indifferenza, ma la finitezza di ogni determinazione del mondo: «non è a causa della sua irrimediabile assurdità, o della sua povertà, che noi non comprendiamo l’universo, ma in ragione della sua inesauribile ricchezza. Tutte le chiavi di cui pure disponiamo per accedere all’universo si rivelano inadeguate: lo stesso movimento con cui ciascuna di esse dischiude un aspetto parziale nasconde tutti gli altri» (p. 80). Qui come in altri testi, il senso del tentativo di Patočka ci sembra consistere nell’indicare l’incidenza in ogni mondo storico di una trascendenza non-metafisica e non-oggettivabile, che non è un fondamento positivo comune a cui ridurre tutti i mondi, ma che al tempo stesso impedisce la chiusura di ogni singolo mondo. È in particolare attraverso una riflessione sul tempo, come «mistero» ultimo e orizzonte di ogni manifestazione, che in questo testo Patočka delinea una simile struttura concettuale.
Tutto il quadro che abbiamo sinteticamente richiamato può e deve in realtà essere riletto dal punto di vista delle questioni del sacro, della religione, del cristianesimo, e del loro ruolo nella vicenda storica dell’Occidente. Tra i diversi temi in gioco, l’accento dei saggi di Paparusso e di Baffo cade non a caso proprio sulla questione del fenomeno religioso e sul rapporto di Patočka al cristianesimo, dal momento che si tratta di questioni che non hanno ricevuto una trattazione sistematica da parte dello stesso Patočka e che sono state finora abbastanza trascurate da parte dei commentatori, con l’eccezione delle notevoli analisi di Derrida in Donare la morte, giustamente richiamate dai due studiosi. I due saggi risultano peraltro preziosi e indispensabili per avere un quadro organico della questione, dal momento che le indicazioni di Patočka in Cristianesimo e mondo naturale, per quanto significative, restano piuttosto ellittiche (e rispetto all’insieme del volume pubblicato ci si può forse soltanto rammaricare del fatto che non contenga anche altri testi di Patočka, richiamati nell’introduzione e nella postfazione, che avrebbero permesso al lettore di avere una base testuale più ampia). La peculiarità dell’approccio di Patočka alla questione del religioso risulta innanzitutto proprio da un doppio legame con gli altri temi richiamati:
1) all’inizio della conferenza del 1972 Patočka afferma che si tratta di introdursi «al problema di Dio, del divino, muovendo dalla tematizzazione del mondo della vita naturale in cui tutti noi siamo situati» (p. 90): il problema del rapporto al sacro va dunque inquadrato a partire dal suo inserimento nel contesto complessivo dell’esperienza del mondo naturale, in relazione a quelli che Patočka considera i movimenti fondamentali dell’esistenza. Se le civiltà arcaiche sono caratterizzate essenzialmente proprio dal ruolo predominante e strutturante del mito, Patočka si spinge qui a indicare nell’apertura al sacro e al divino una struttura costante e durevole del mondo naturale, che si dà a sua volta in modi storicamente mutevoli per quanto riguarda i suoi contenuti specifici; la fede appare allora come «forma di apertura nel senso cristiano» (p. 110).
2) L’oscillazione tra slancio e decadenza che ritma la storia è anche ed essenzialmente legata alla configurazione dell’ambito religioso e il problema della storia può allora essere così riformulato: uscire dalla quotidianità non in modo orgiastico/irrazionale, ma con l’assunzione della responsabilità come essere più proprio dell’esistenza. È il filo conduttore che scandisce la storia della religione e della responsabilità tracciata da Patočka nel terzo dei Saggi eretici e oggetto del commento di Derrida. Il mondo pre-storico del mito è anche mondo del sacro e del mistero orgiastico, come unica alternativa alla quotidianità votata a garantire la conservazione della nuda vita. Se una prima, ambigua e non-definitiva rottura con quest’ordine è rappresentata dal platonismo, è con il cristianesimo che per Patočka avviene il tentativo più profondo di comprensione della responsabilità umana e di rottura con l’ambito del sacro-orgiastico. Svolta decisiva che ruota attorno a due elementi cardine: il rapporto con Dio come altro personale che ha accesso al segreto della mia coscienza e la radicalità del sacrificio cristiano come auto-sacrificio «per niente», che spezza così il carattere «economico» della logica sacrificale arcaica. È quindi attraverso una radicalizzazione del motivo cristiano che nei suoi ultimi testi Patočka tematizza il concetto di sacrificio come possibile «alternativa» etica al mondo della tecnica e come ambito in cui si svela il fondamento stesso della manifestazione, come ciò che si dona senza essere un ente disponibile.
Se allora «la storia stessa non può che innanzitutto essere stata storia della responsabilità cristiana e storia cristiana della responsabilità» (Paparusso, p. 38), bisognerebbe problematizzare a partire da qui sia i rapporti tra cristianesimo e platonismo nelle analisi di Patočka (il quale, in Platone e l’Europa, indica la grecità come unica fonte decisiva della storia europea), sia la ricezione di Patočka che tende a leggerlo unicamente secondo il filo conduttore della cura dell’anima di eredità platonica. La storia europea è in realtà inseparabile dalle vicende storiche del cristianesimo, le quali tuttavia, malgrado il loro slancio originario, non sono affatto lineari. Da un lato, infatti, secondo quello che è stato forse l’imperativo più costante della storia del cristianesimo e che lo stesso Patočka sembra qui ripetere, si tratta di distruggere le sedimentazioni storiche che hanno occultato il nucleo autentico del cristianesimo per ripeterne l’apertura originaria, al di là del platonismo che ancora lo abita o (come sottolinea Baffo, p. 138) della sua configurazione onto-teologica. Dall’altro lato, la stessa apertura cristiana verso la responsabilità ha contribuito nel corso della storia a un rovesciamento paradossale: rompendo con il mondo naturale nella sua quotidianità e “miticità”, assolutizzando la propria prospettiva sacrificale e trascendente, il cristianesimo ha concorso a svuotare di senso questo stesso mondo naturale e ha aperto così la strada alla sua completa oggettivazione operata dalle scienze naturali e dalla tecnica; è questa oggettivazione che ha condotto infine all’oblio del senso e al nichilismo, a quel riflusso in una nuova pre-storia e in una nuova mitologizzazione che è per Patočka il pericolo incombente sull’epoca contemporanea. Secondo l’interpretazione che Paparusso delinea nella sua introduzione, si potrebbe allora affermare che la radice di questa nuova mitologizzazione contemporanea nella tecnica risiede proprio nel fatto che il cristianesimo ha voluto rompere in modo completo con il terreno del mondo naturale e quindi anche del mito. Questa rottura in realtà non è mai realizzabile totalmente, perché il mondo naturale, anche nella sua componente mitica, è il suolo da cui proviene ogni nostra esperienza e quindi anche il nostro rapporto pre-riflessivo al religioso. Se l’umanità contemporanea deve operare un nuovo movimento de-mitologizzante, quest’ultimo deve allora in ogni caso realizzarsi «riattraversando il primitivo terreno mitico […] recuperando e conservando il mito come sua fonte continua, come sua indissolubile eredità» (Paparusso, p. 44). Si potrebbe dire che il cristianesimo si è auto-assolutizzato, tentando di arrestare quell’oscillazione continua che è invece propria della storicità: «il mondo della nostra vita è miticità che rilascia lo spirito storico in esso già da sempre annunciato, ritmando il flusso delle sue — sempre parziali, e immemori — manifestazioni» (Paparusso, p. 39).
Questo paradossale rovesciamento dialettico nella modernità potrebbe essere mostrato, come indicato da Baffo nella sua postfazione (pp. 151 e ss), anche attraverso l’interpretazione che Patočka in altri testi fornisce del primato kantiano e post-kantiano di una teologia morale che dovrebbe sostituire la precedente teologia metafisica e razionale. Confrontandosi con Kant e Nietzsche, Dostoevskij, Masaryk e Heidegger, Patočka affronta le questioni della morale moderna e del nichilismo, della volontà di potenza soggettiva e della finitezza, nella piena consapevolezza dell’impossibilità di ogni ritorno nostalgico a un ordine morale, ma anche nella volontà tenace di porre la questione del senso dell’agire nell’epoca del nichilismo, ovvero, secondo una delle formule più ricorrenti di Patočka, la questione di una «vita nella verità».