Darwin e la questione antropologica. Appunti preliminari

1. «Ciò che rende gli uomini umani»

In un breve saggio intitolato Sulla ricerca dell’ideale, presentato a Torino il 15 febbraio 1988 in occasione del conferimento all’autore del Premio internazionale senatore Giovanni Agnelli, Isaiah Berlin (1990) ripercorre, con tono autobiografico, le tappe del pensiero che lo hanno portato alla ricerca del suo ideale morale e politico. Il punto di partenza di questa ricerca, sostenuto dalla lettura dei grandi romanzieri russi, era la convinzione del giovane Berlin che non solo esistessero soluzioni ai grandi mali dell’umanità (l’ingiustizia, l’oppressione, la falsità, la cecità morale, l’egoismo, la crudeltà, la miseria, la disperazione, ecc.), ma che fosse anche possibile scoprire queste soluzioni e, con una buona dose di altruismo, cercare di realizzarle. Il secondo passaggio, favorito dalla riflessione etica e politica della philosophia perennis occidentale, l’aveva portato a ritenere tre idee fondamentali: che tutte le domande autentiche dovevano avere, sul modello delle scienze, una e una sola risposta vera, tutte le altre essendo necessariamente sbagliate; che doveva esserci una via attendibile e sicura per pervenire alla scoperta di queste verità; e infine che le risposte vere, quando fossero state trovate, dovevano necessariamente essere compatibili tra loro e formare un tutto unico, giacché, era dato per scontato, che una verità non può essere in conflitto con un’altra. Il terzo gradino, provocato dalla lettura di Machiavelli (per il quale le virtù pagane di forza e di astuzia su cui si fonda uno stato sono opposte alle virtù cristiane dell’umiltà, dell’accettazione delle sofferenze, dalla rinuncia ai beni terreni), gli instillò un’idea choccante: che non tutti i valori supremi perseguiti dall’umanità oggi e in passato sono necessariamente compatibili fra loro ma che anzi talvolta entrano decisamente in contrasto. Da qui la scoperta, attraverso Vico ed Herder, che le singole società prendevano forma a seconda dei valori che coltivavano e che questi valori potevano differire fra loro in modo profondo, inconciliabile, non riconducibile a una sintesi definitiva. Ora, nota Berlin, molto spesso questa posizione è stata definita relativismo culturale e morale, ma in realtà questo non è relativismo. Il relativismo ritiene che le diverse culture siano chiuse nel loro bozzolo impenetrabile e che si possa escludere qualunque forma di comunicazione fra loro. Ma questo è falso da tutti i punti di vista. Gli uomini possono avere valori diversi fra loro che si possono approvare o condannare, ma non si può fingere di non comprenderli affatto o di considerarli semplicemente soggettivi. «Esiste un mondo di valori oggettivi […] I fini, i principi morali sono molti. Molti, ma non innumerevoli, perché devono restare entro l’orizzonte umano». Ci sono valori che, se non sono universali, sono almeno tali da costituire un minimum senza il quale le società difficilmente potrebbero sopravvivere. È anche vero che alcuni di questi valori oggettivi sono fra loro in conflitto e noi siamo condannati a scegliere, e scegliere significa perdere qualcosa. È in questa necessità di decidere per alcuni valori piuttosto che per altri, nel correre il rischio morale, che consiste l’autonomia, la solitudine, ma anche la dignità dell’uomo. I conflitti tra valori possono essere ridotti al minimo attraverso la promozione e la conservazione di un delicato equilibrio fatto di rimodulazione, accordi e compromessi.1 Ma vi sono alcuni (pochi) valori (Berlin elenca fra questi la schiavitù, l’omicidio rituale, le camere a gas naziste, l’omicidio gratuito, la tortura di esseri umani a scopo di piacere o di profitto) che non sono né negoziabili né disponibili al compromesso, dato che è proprio attorno a questi valori che si è costruita una nozione minima di «natura umana» e giustificare compromessi in questi valori significherebbe uscire dall’umanità. Secondo Berlin ciò che rende inconsistente la posizione del relativismo culturale e morale è il fatto che «ciò che rende gli uomini umani è comune a tutti e funge da ponte tra loro» (Berlin, 1990: 12).

«Ciò che rende gli uomini umani e funge da ponte tra loro» viene solitamente indicato come «la comune natura umana». L’idea che la nozione di «natura umana» è costruita attorno ad alcuni valori morali, o almeno l’idea che vi è un nesso inscindibile tra la nozione di «uomo» e quella di «morale», è tutt’altro che nuova. Ma le sue radici moderne affondano nell’empirismo inglese e due delle sue principali icone (ma si deve riconoscere che così schematizzando si fa torto a molti altri autori) sono costituite dallo «stato di natura» delineato dal Leviatano di Hobbes e dal Trattato sulla natura umana di Hume. Comune a tutta questa tradizione era, contro la retorica dei «metafisici» e l’arroganza dei razionalisti cartesiani, l’adozione del metodo sperimentale, induttivo, genetico o fenomenologico, nell’indagine morale. Da qui la scoperta che i sentimenti e le passioni, molto più della ragione, costituiscono il vero nocciolo duro dell’identità dell’io e si pongono quindi al centro, come motore, della vita morale. Per gli empiristi le tesi del razionalismo etico secondo le quali le idee di bene e male hanno misure eterne e immutabili, presenti in ogni tempo e in ogni luogo, valide non solo per l’uomo ma per la stessa divinità, vengono sconfessate dal fatto che i nostri giudizi morali di approvazione o disapprovazione, di lode o di biasimo, si basano prima di tutto sulle nostre impressioni di piacere e dolore. Noi consideriamo buono ciò che ci reca piacere e cattivo ciò che ci reca dolore. A partire da queste considerazioni Hobbes e Hume tracciano due percorsi diversi che portano a quella bipolarità (dualismi-monismi) antropologico-morale che ancora oggi è difficile da scalfire.

2. Il serpente e la colomba

Nello scenario disegnato da Hobbes l’uomo naturalmente egoista, ambizioso e orgoglioso, è portato a curare i propri esclusivi interessi per cui lo «stato di natura» non sarebbe nient’altro che una «condizione di guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo» alla quale mette freno la paura della morte e il desiderio di sicurezza che impone la regola generale «che ogni uomo debba cercare la pace fino a che ha la speranza di poterla ottenere; e se non può ottenerla deve cercare e usare tutti i mezzi di aiuto e i vantaggi della guerra». Lasciata a se stessa l’umanità finirebbe per autodistruggersi. Per uscire da questo stato di guerra permanente, per ottenere la pace, ogni uomo deve essere disposto, quando anche gli altri lo siano, a rinunciare al suo diritto su ogni cosa e a conservare solo tanta libertà quanta vorrebbe che gli altri ne avessero nei suoi confronti. Questo reciproco trasferimento di diritti avviene attraverso un «contratto» la cui osservanza viene garantita affidando a un potere che sta sopra i due contraenti e ha diritto e forza sufficienti a costringerli ad adempiere l’impegno. Questo potere è rappresentato dallo stato che, attraverso il monopolio della forza, è in grado di ispirare timore e costringere i singoli individui a rinunciare all’uso personale della violenza, garantendo l’ordine e la sopravvivenza della specie. Per Hobbes sono le leggi, e le gerarchie che le fanno rispettare, a salvare una specie umana i cui membri sono naturalmente portati alla violenza autodistruttiva. Il mitico scenario dello stato di natura delineato da Hobbes ha lasciato in eredità alla riflessione successiva una grande serie di problemi tutti riconducibili alla sua visione dualista del rapporto natura umana-morale. Secondo Hobbes da una parte stanno gli uomini con la loro natura di individui egoisti e dall’altra vi è un’agenzia morale esterna — lo stato, la società, la cultura, la religione, un «contratto» di reciprocità ecc. — che li costringe a stare assieme e ad adottare una morale pubblica. La morale, in altre parole, sarebbe sorta dalla necessità strumentale di andare contro la natura umana o almeno di mettere dei limiti alle sue malefatte dato che, come dirà Kant più tardi (e come Berlin ama citare «dal legno storto dell’umanità non si è mai cavata una cosa dritta»). A una visione sostanzialmente hobbesiana si sono ispirati tutti coloro che ritengono impossibile che la morale possa derivare direttamente dalla natura dell’uomo, o perché questa è amorale o perché ritengono che non esista una natura umana definitivamente data, ma che dipenda dalla storia o dalla cultura. Connesso a questa visione è il problema delle vie di uscita dal caos hobbesiano al quale hanno cercato di rispondere le dottrine del «contratto sociale», nelle loro diverse versioni (quello «ideale» di John Rawls, 1989, quello «reale» di David Gauthier, 1986, ecc.). Ma queste dottrine mostrano notevoli difficoltà a giustificare sul piano teorico, senza il ricorso a una forza estranea o a un sentimento naturale, la disponibilità degli individui a fare accordi o a mantenere i patti. Anche il principio di reciprocità (sotto la forma di riconoscimento reciproco, di dono, o di regola aurea) invocato da alcuni antropologi culturali ha difficoltà a diventare operativo se non è preceduto almeno da un naturale sentimento di fiducia che il dono sarà accettato e ricambiato. A una visione dualista sostanzialmente hobbesiana, si ispira anche la bioetica (e più in generale l’etica)2 quando si pone a contrasto e limite della hybris tecnologico-scientifica.

Hume dedica invece molti sforzi a dimostrare che le impressioni di piacere e dispiacere non sono dirette soltanto verso il nostro esclusivo interesse. L’egoismo universale o parziale, se pure fa parte della natura umana, come sostengono Hobbes e Locke, non è tanto importante per la moralità, e, nella vita pratica, quelle che prevalgono sono le disposizioni della benevolenza e della generosità e affezioni come l’amore, l’amicizia, la compassione e la gratitudine. Nessun uomo è del tutto indifferente alla felicità e alla miseria degli altri; la prima tende in genere a dare piacere la seconda dolore per via di un sentimento che è alla base della nostra stessa vita sociale: la simpatia reciproca. L’atteggiamento di simpatia o senso di umanità o di benevolenza generale, originario e comune a tutti gli uomini, fa sì che la nostra natura non sia quella del lupo e del serpente, ma sia molto di più quello della colomba. L’uomo per Hume non è naturalmente egoista, ma naturalmente con-passionevole rivolto a condividere il piacere e il dolore degli altri. Da notare che, secondo Hume, «non c’è bisogno di spingere le nostre ricerche fino a domandare perché noi abbiamo il senso di umanità e di simpatia per gli altri. Basta che si sperimenti che è un principio della natura umana. Dobbiamo pur fermarci a qualche punto nel nostro esame delle cause; e vi sono, in ogni scienza, dei principi generali al di là dei quali non possiamo sperare di trovarne altri più generali» (Ricerche sui princìpi della morale V, II). Il sentimento dal quale discende tutta la morale, la simpatia, non è tanto un valore da giustificare quanto un «dato di fatto» da constatare e da spiegare. Nell’impostazione humeana tutta la cultura (e quindi anche la morale) deriverebbe direttamente dalla natura dell’uomo, dai suoi istinti e desideri, e quindi all’interno di questa natura, senza il ricorso a nessuna agenzia esterna, si devono trovare le sue radici. Lungo questa linea si sono mossi in qualche misura tutti i programmi di naturalizzazione e biologizzazione dell’etica, tentati soprattutto da sociobiologi e psicologi evoluzionisti che hanno trovato nella rivoluzione antropologica darwiniana il loro insuperato punto di avvio.

3. Una natura amorale

L’etica darwiniana si muove completamente all’interno del bipolarismo antropologico-morale costituito dagli scenari disegnati da Hobbes e da Hume. Ciò che differenzia la teoria di Darwin rispetto a quella di altri autori empiristi e positivisti suoi contemporanei e che gli dà un rilievo di rivoluzione scientifica e culturale deriva dal suo tentativo di fondare l’evoluzione della moralità sulla selezione naturale. Così facendo Darwin inserisce anche la morale nella sua grande scoperta che nella natura agisce «una legge generale che ha per scopo il progresso di tutti gli esseri organizzati, cioè la loro moltiplicazione, la loro variazione, la persistenza del più forte e l’eliminazione del più debole» (O. S. , 242).3 Depurata dal linguaggio ottocentesco questa legge suggerisce, sul piano biologico, quel principio di «ottimizzazione attraverso riproduzione-variazione-selezione», che ha fornito alle scienze naturali una cornice teorica generale, semplice e potentemente euristica, entro cui ricollocare tutta la storia della vita sulla terra. Pur avendo subito numerose modifiche, ampliamenti e precisazioni la teoria darwiniana dell’evoluzione rappresenta ancora oggi, nella sua essenza, una teoria ampiamente fondata e verificabile che, sul piano biologico e paleontologico, non ha trovato alcuna seria alternativa. La rivoluzione culturale darwiniana si basa sostanzialmente su due principi. Il primo è che la natura non è sempre stata così com’è adesso, ma ha una lunga storia. Tutte le specie attuali hanno avuto origine e si sono diversificate a partire da un unico vivente originario; la loro differenziazione è dovuta all’accumulo di variazioni nella trasmissione dei caratteri ereditari che è potuto avvenire nella lunghezza dei tempi geologici. Il secondo è il principio dell’unità della natura per cui tutti gli esseri viventi dal più semplice al più complesso hanno la stessa natura fisico-chimica e differiscono tra loro solo per grado (Darwin cita spesso il detto leibniziano natura non facit saltus). Anche l’uomo è il prodotto degli stessi processi fisico-chimici ed evolutivi di tutti gli altri enti naturali, dato che anche la specie umana si è originata da altre (in particolare, per Darwin, come è noto, dai primati) attraverso il meccanismo della variazione graduale-selezione naturale.

La grandiosa visione di Darwin di una natura dai tempi geologici così dilatati che la presenza della specie umana sulla terra può essere paragonata a un rapido battito di ciglia, sembra dominata da un meccanismo naturale (riproduzione-variazione-selezione), di stampo squisitamente hobbesiano, che offre un panorama di assoluta indifferenza e amoralità. Scrive ad esempio Stephen Jay Gould (2003: 161 ss.): «la natura non ha necessità di operare secondo le norme della morale umana. Se nella natura amorale l’adattamento di un individuo richiede la morte di migliaia di altri, così sia. Il procedimento può essere confuso e distruttivo, ma la natura ha tempo in abbondanza e non è necessario che i suoi procedimenti brillino per efficienza». Da questa visione della natura si devono trarre, secondo Gould essenzialmente due insegnamenti: 1. dopo Darwin la natura non è più il luogo da cui trarre motivi di fede religiosa o di insegnamenti morali: se si vogliono cercare ragioni per la fede o per la morale queste non vanno cercate nelle leggi della natura, ma da qualche altra parte; 2. dopo Darwin le due domande fondamentali di ogni etica: «che cosa significa comportarsi moralmente?» e «perché comportarsi moralmente?» diventano praticamente irrilevanti: «Quali esseri umani abbiamo un interesse personale e legittimo per il nostro comportamento etico ma non possiamo sacralizzare questa proprietà facendole occupare più che un angolino della natura (quali che siano il suo impatto sul pianeta e la nostra preoccupazione particolaristica per la sua unicità)». Forse è vero che nella prospettiva delle profondità paleontologiche, come quella adottata da Gould, le nostre questioni morali possono apparire insignificanti. Del resto il pensiero religioso e filosofico non ha avuto bisogno di attendere né Darwin né la paleontologia per riflettere a fondo sulla precarietà e la fugacità della vita dell’uomo sulla terra. Il fatto è che l’uomo è, sì, nient’altro che una fragile canna, ma è una canna pensante e, almeno per quanto ne sappiamo ora, è l’unica specie che, essendo consapevole di questa precarietà, si pone domande sul suo significato. Inoltre è anche vero che, di fronte ai dilemmi morali posti agli uomini dalla vita quotidiana, è la prospettiva paleontologica a risultare del tutto irrilevante. In realtà, come già suggeriva Thomas Henry Huxley nella sua celebre lettura Evolution and Ethics (1894), proprio l’indifferenza della natura può essere una buona ragione perché l’uomo si assuma le sue responsabilità morali.

Il lungo periodo, dodici anni, intercorso tra la pubblicazione dell’Origine delle specie (1859) e quella dell’Origine dell’uomo (1871) è stato giustificato da Darwin con il timore che le sue idee sull’origine dell’uomo avrebbero suscitato nuovi pregiudizi sulle sue teorie. Ma in realtà questi anni segnano anche il passaggio di Darwin da uno scenario di tipo hobbesiano, mediato soprattutto da Robert Malthus, ad un linguaggio più humeano4 visto soprattutto con gli occhi di Adam Smith: un rilevante lavoro di approfondimento e di precisazione di Darwin stesso su diversi punti essenziali della sua teoria dell’evoluzione, proprio nella direzione di rendere coerente la sua visione biologica con le peculiari caratteristiche delle facoltà cognitive e morali dell’uomo. L’immagine della natura presentata dall’Origine delle specie infatti assomiglia per molti versi al mitico stato di natura della hobbesiana guerra di tutti contro tutti. Ma il meccanismo della selezione naturale, così come è presentato nell’Origine delle specie, mostra due punti deboli: il primo è quello relativo al sorgere e consolidarsi della sterilità in diverse caste di insetti; il secondo, molto più rilevante, è quello relativo al sorgere e al consolidarsi dei comportamenti altruistici umani. Responsabili di questa debolezza sono la correlazione, ribadita più volte da Darwin, tra la metafora della selezione naturale e la metafora della lotta per l’esistenza e l’affermazione continuamente ripetuta, e connessa all’idea di trasmissione ereditaria e all’accumulo di variazioni di piccola entità, che la selezione naturale opera a esclusivo vantaggio del singolo individuo.5 Il primo a rendersi conto dell’evidente fallimento di una rappresentazione della natura fatta di soli competitori, incapace quindi di descrivere il sorgere della cooperazione, è stato lo stesso Darwin. In mancanza di altri fattori la selezione naturale favorisce il sorgere e il prevalere di soli individui egoisti: ciascun gene, ciascuna cellula, ciascun individuo, ciascun gruppo tende a promuovere il suo esclusivo successo riproduttivo a spese dei suoi competitori. Come si spiega allora la presenza tra gli animali e, in misura ancor maggiore, tra gli umani di una robusta e diffusa presenza di comportamenti altruistici? A questa domanda Darwin cerca di rispondere nell’Origine dell’uomo sottolineando l’importanza di quella particolare forma di selezione naturale che è la selezione sessuale e introducendo due elementi nuovi: gli istinti sociali, e quella «selezione naturale a vantaggio del gruppo» che ha costituito, per oltre un secolo, una spina sul fianco del darwinismo. In ogni caso nell’Origine dell’uomo cambia (o forse, meglio, si articola) lo scenario di competizione di tutti contro tutti e l’altruismo diventa l’elemento cruciale per le sorti di una morale darwiniana che ha la necessità di spiegare come alcuni individui dotati dalla selezione naturale di un forte istinto di sopravvivenza che li spinge a competere con gli altri per il successo riproduttivo, siano portati, in alcune circostanze, a essere talmente generosi da sacrificare la loro stessa vita per difendere o aiutare gli altri. La chiave di volta di queste puntualizzazioni è costituita dalla teoria darwiniana degli istinti. Benché rivisti e ampiamente modificati in funzione delle nuove acquisizioni scientifiche, i principi darwiniani sugli istinti hanno costituito le basi metodologiche da cui sono mosse le ricerche della etologia, della sociobiologia e della psicologia evoluzionista.

4. Vita di società

Il cambio di prospettiva provocato dalla visione darwiniana della natura ha avuto profonde ripercussioni sul piano antropologico spostando l’uomo, dall’apice di una creazione concepita in forma di piramide gerarchica, all’ultimo della fila tra i viventi comparsi sulla terra, ai margini e non al centro della storia naturale, e costringendolo, con un esercizio di umiltà, a riconoscere di essere parte e non padrone del mondo, o, come in maniera più colorita suggerisce James Rachels (1987; 1996), di essere un animale creato da altri animali. Le implicazioni morali di questa dislocazione rivoluzionaria sono state esplorate essenzialmente in due direzioni.

La prima è quella, volta ad allargare progressivamente le frontiere della morale ad altri soggetti (gli animali, appunto) che tradizionalmente ne sono stati esclusi, dell’uguaglianza interspecifica. Su questa strada si incontra, ad esempio, quella variante dell’utilitarismo classico che è l’ugualitarismo degli interessi di Peter Singer (1991; 1989; 2000), per il quale la natura degli esseri coinvolti in una deliberazione morale (uomo o donna, bianco o nero, intelligente o stupido, a due zampe o a quattro zampe) è del tutto indifferente e la discriminazione basata sull’appartenenza a una specie è soltanto un pregiudizio, specismo, paragonabile al razzismo o al sessismo, mentre quello che rende uguali gli uomini e gli altri animali è la sensibilità al dolore e alla sofferenza. Un’impostazione quella di Singer che lo ha portato a rivedere in chiave di ugualitarismo molti temi della bioetica a partire dall’allargamento ad alcuni animali (i primati, qualche cetaceo, il maiale, ecc.) della nozione di «persona» (negata però al feto umano e al cerebroleso), alle prese di posizione molto nette a favore dell’aborto, dell’eutanasia ecc. La questione dell’ugualitarismo interspecifico e quella connessa dei diritti degli animali, ha avuto il grande merito di orientare l’opinione pubblica contro alcuni trattamenti (chiusura nelle gabbie, sperimentazioni, vivisezioni, ecc.) cui sono sottoposti gli animali talvolta anche senza reale necessità («che rapporto c’è tra il fatto che l’uomo è razionale e il coniglio non lo è e la pratica di spalmare gli occhi dei conigli con prodotti chimici per testare gli effetti di alcuni cosmetici?» si chiede Rachels). Ma nei suoi termini generali la retorica dell’ugualitarismo che, come ha riconosciuto lo stesso Singer (1999), ha improvvidamente rinunciato alla nozione di «natura umana», non è riuscita a cancellare le obiettive disuguaglianze e i conflitti che sono presenti nella natura.

La seconda direzione è quella che, proprio riconoscendo il debito maturato dall’uomo nei confronti della natura in genere e degli animali in particolare, gli assegna il compito di «responsabile» o di curatore. L’etica della responsabilità o meglio della cura, quella che il figlio più giovane deve ai suoi anziani genitori, non comporta che l’uomo misconosca la sua discendenza, ma piuttosto che se ne prenda cura, non tanto perché loro hanno dei diritti ma perché lui ha dei doveri.

Nel quadro della natura disegnato da Darwin questi due aspetti sono entrambi rintracciabili. La natura dell’uomo si caratterizza infatti sotto due profili: per il primo l’uomo è un animale sociale; per il secondo l’uomo è l’unico ente morale presente in natura. La definizione dell’uomo come «animale sociale», non nuova ma ribadita da Darwin a più riprese, rientra, a prima vista, nel solco di una lunga tradizione che affonda le sue radici nella filosofia greca. Non a caso essa è stata accostata da diversi commentatori, alla ricerca di padri nobili, al politikÕn zùon di Aristotele.6 In realtà, come è già stato sottolineato da altri, la nozione aristotelica di politikÕn zùon intende fornire una definizione essenzialista dell’uomo, a marcarne la differenza rispetto agli altri animali, dato che il vivere nella polis fa parte della sua natura esclusiva. L’espressione darwiniana «animale sociale» indica invece che l’uomo appartiene a una precisa categoria di animali, quelli che uno zoologo odierno definirebbe «obbligatoriamente gregari» per i quali cioè la vita in gruppo non è un’opzione, ma una necessaria strategia di sopravvivenza (così, ad esempio, de Waal, 2006: 4 ss.). La sua quindi è una definizione inclusiva, sottolinea la continuità della natura dell’uomo con quella degli altri animali e in particolare con quelli che possiedono istinti sociali. Gli animali sociali condividono con gli altri animali alcuni istinti di base come quello di autoconservazione, l’attrazione sessuale, l’amore della madre per i suoi neonati, ecc. Ma oltre a questi ne hanno sviluppato altri che portano un animale sociale a provare piacere nella compagnia dei suoi simili, a sentire una certa quantità di simpatia nei loro confronti, ad aiutarli e difenderli in caso di bisogno. L’istintiva simpatia reciproca degli animali sociali sarebbe stata modellata dalla selezione naturale come estensione, oltre i confini familiari, dell’amore dei genitori verso i figli (altruismo parentale) che sarebbe alla base di tutti gli istinti sociali i quali a loro volta sarebbero rafforzati anche dall’esercizio continuato (abito) e dalla constatazione dei vantaggi reciproci (altruismo reciproco). Queste considerazioni hanno portato alcuni autori (cfr., ad esempio, Singer, 1981; de Waal, 2001) a suggerire che il fondamento istintuale comune agli uomini e ai primati e la matrice della moralità è la relazione di cura parentale. Nel caso dell’uomo questa relazione sarebbe stata accentuata da alcune eterocronie e in particolare dalla immaturità alla nascita e dal prolungamento abnorme dell’investimento parentale nell’infanzia e nell’adolescenza. Da questa relazione di cura così protratta, allargando via via il cerchio per prossimità, sarebbe sorto l’altruismo umano. In realtà, le cose non sembrano così semplici perché l’altruismo parentale e l’altruismo non parentale sembrano rispondere a meccanismi diversi e non facilmente collegabili.

5. Altruista, quello?! No, è soltanto un «egoista razionale»

Nella seconda metà del Novecento l’altruismo è diventato il tema centrale della sociobiologia. I tentativi di dare risposta agli interrogativi lasciati in sospeso da Darwin sull’origine e la natura dei comportamenti altruistici sono stati numerosi e hanno contribuito ad apportare sostanziosi chiarimenti sui meccanismi evolutivi che potrebbero spiegare i comportamenti altruistici degli animali sociali e dei primati sia per sé, sia come cause remote dell’altruismo umano. Il punto di avvìo del problema è fornito dallo scenario hobbesiano-malthusiano-darwiniano di un mondo abitato da soli competitori. In un panorama di questo tipo la selezione darwiniana favorisce gli individui più competitivi e se anche, per mutazione, dovessero apparire caratteri cooperativi, la presenza di profittatori (free-riders) cioè di individui che godono dei benefici comuni senza pagarne il costo, ridurrebbe ben presto a zero il numero degli altruisti. Come si può spiegare in uno scenario del genere il sorgere e il consolidarsi dei comportamenti altruistici, verificabili tra gli animali, e, in misura molto maggiore, tra gli uomini? È evidente che, se la selezione naturale tende a favorire i tratti egoistici, per spiegare la presenza degli altruisti è necessario ricorrere ad altri meccanismi evolutivi. In realtà Darwin stesso aveva indicato nell’amore dei genitori per i figli e nella selezione dei gruppi i meccanismi in grado di spiegare gli atti altruistici, ma fino agli anni sessanta del Novecento queste indicazioni erano considerate piuttosto vaghe sia perché si riteneva che la selezione operasse esclusivamente a livello di organismi e non fra i gruppi, sia perché in mancanza di conoscenze precise la relazione tra geni e atti altruistici restava confusa, sia infine perché il termine «altruismo» continuava a mantenere un aspetto di «volontarietà» che rendeva difficile la sua formalizzazione. Nella prima metà degli anni sessanta del Novecento, in concomitanza con le nuove conoscenze relative ai processi di trasmissione delle informazioni geniche, i due tipi di meccanismi in grado di promuovere la cooperazione, la selezione parentale e la reciprocità, la prima relativa all’altruismo fra organismi geneticamente correlati e il secondo tra organismi privi di relazione di parentela, hanno cominciato ad assumere contorni più precisi. Uno schema molto semplice delle teorie sul sorgere e consolidarsi dei tratti altruistici in una popolazione di soli egoisti, proposto da Martin A. Nowak (2006), può aiutarci a sintetizzare e chiarire il nucleo del discorso sulle condizioni formali dell’altruismo.

Fig. 1

Image Si supponga una popolazione virtuale di soli defezionisti (D) la cui fitness media è minima (la guerra di tutti contro tutti rende il gruppo più debole); in essa per mutazione nasce un cooperatore (C); la selezione naturale in una popolazione mista tende a favorire i defezionisti e quindi l’unico cooperatore sarebbe destinato a sparire senza trasmettere il suo tratto di reciprocità; per la stabilizzazione di un tratto altruista nella popolazione serve quindi un meccanismo di supporto che freni gli egoisti e favorisca gli altruisti. I due meccanismi potrebbero essere l’altruismo parentale e la selezione dei gruppi. Si potrebbe supporre ad esempio che il sistema di riconoscimento parentale, a causa di mutazioni genetiche o di cambiamenti demografici, sia casualmente modificato per estendere ai non parenti del gruppo l’altruismo parentale; in seguito, per adattamento, si potrebbe introdurre una ulteriore modifica che discrimina fra i non parenti che adottano comportamenti di reciprocità e quelli che defezionano (Axelrod and Hamilton 1981). Oppure si potrebbe supporre una selezione dei gruppi, dato che una popolazione con molti altruisti sarebbe facilmente vittoriosa sulle altre e quindi espanderebbe i tratti altruistici. Entrambe queste possibilità sono state adombrate da Darwin. A mano a mano che i tratti altruistici si diffondono la fitness media tende a crescere (da Nowak, 2006, modificato).

5.1. L’amore dei parenti e l’egoismo dei geni

L’idea di una correlazione tra la parentela genetica e i comportamenti altruistici era già stata intuita e avanzata molti anni prima, ma la sua formalizzazione si deve a William D. Hamilton (1964). Il primo passo è stato una definizione operativa degli atti «altruistici». L’altruismo, dal punto di vista operativo, descrive i comportamenti di un individuo a beneficio di qualcun altro, in opposizione a «egoismo» che è l’insieme delle azioni rivolte al proprio esclusivo interesse. Gli atti altruistici sono caratterizzati da due elementi: 1. recano un beneficio (b) al destinatario; 2. comportano normalmente dei costi (c) per l’individuo che li pratica. In biologia i costi e i benefici sono valutati, darwinianamente, in termini di successo riproduttivo effettivo e potenziale (fitness), ovvero nell’atteso numero di discendenti.7 A partire da questa definizione Hamilton ipotizza che, perché avvenga un atto altruistico, il coefficiente di parentela genica tra donatore e ricevente deve essere superiore al rapporto tra costi e benefici, e formalizza questa relazione nella regola, divenuta poi molto popolare, r>c/b.8 Secondo questa regola, il grado di altruismo degli animali risulta essere tanto più grande quanto più è stretto il legame di parentela genica e i benefici erogati con atti altruistici sono tanto maggiori e i costi tanto più sopportabili (vicini allo zero) quanto più è alto il coefficiente di parentela genica.9 Secondo Hamilton il comportamento sociale di una specie evolve come se l’individuo in ogni situazione tenesse conto, oltre che del suo, anche del successo riproduttivo dei suoi parenti cooperando con il suo comportamento al successo di chi condivide i suoi stessi geni (inclusive fitness). In pratica è come se la selezione naturale invece di esercitarsi a livello dei singoli organismi operasse a livello del gruppo dei parenti (kin selection). I comportamenti altruistici, del tutto incomprensibili a livello del singolo individuo (perché una madre ama tanto suo figlio da rischiare la vita per lui?) sembrano acquistare una loro ragionevolezza se guardati dal punto di vista della sopravvivenza e diffusione di un pool genico comune a diversi individui. A partire da queste ipotesi negli anni sessanta-ottanta in molto neodarwinismo (cfr., Williams, 1966; Dawkins, 1976) che praticamente considerava il gene come la sola unità su cui si esercita la selezione naturale e l’individuo come il livello su cui avviene l’adattamento, gli esempi di altruismo vengono spiegati esclusivamente in termini di autointeresse. Secondo George C. Williams i geni sono la fondamentale unità di selezione perché hanno la durata (sono virtualmente eterni) che gli individui non hanno. Con Dawkins, successivamente, il gene diventa egoista e gli individui diventano veicoli robot controllati dai geni mentre l’altruismo non sarebbe nient’altro che un trucco dell’egoismo dei geni per assicurarsi la loro diffusione e sopravvivenza. La visione della selezione genica come unico livello di selezione è stata utile, a suo tempo, per mettere a fuoco alcuni punti di vista della genetica, ma si scontra con molti problemi teorici (ad esempio la differenza tra replicatori e interattori, tra genotipo e fenotipo) e osservazionali (ad esempio il fatto, verificato dalla genetica di popolazione, che il gene favorito dalla selezione tra i gruppi rimpiazza il gene favorito dalla selezione all’interno del gruppo elevando la fitness media della popolazione [v. fig. 1]; la teoria dell’altruismo parentale inoltre lascia aperto il problema decisivo: dato che né gli insetti sociali né l’uomo possono vedere direttamente il dna di un altro, cos’è che fa sì che i geni riconoscano il grado di parentela genica degli interattori?).

La teoria della selezione parentale (e del «fenotipo esteso», Dawkins, 1982) sembra aver trovato sul piano empirico alcune conferme, sia tra gli insetti sociali sia tra i primati, ma in realtà la regola di Hamilton fornisce solo le condizioni «formali» perché l’altruismo parentale possa introdursi e consolidarsi in un mondo di defezionisti. Proprio per la sua semplicità e flessibilità formale la regola di Hamilton è diventata il modello per la formalizzazione di altre regole in grado di promuovere la cooperazione (Nowak, 2006). Nella realtà tuttavia le cose sono molto più complicate. I parenti, ad esempio in presenza di risorse locali scarse, possono essere anche competitori e giungere a una lotta fra parenti vicini riducendo o anche annullando l’effetto della parentela nel promuovere l’altruismo. L’immagine della natura umana prospettata dal primo neodarwinismo non è solo sconfortante ma anche paradossale10 e soprattutto miope dato che in ogni caso non riesce a spiegare con la condivisione genica i numerosissimi casi di altruismo non parentale.

5.2. La reciprocità e l’egoismo dei gruppi

L’idea che negli animali, prima che negli uomini, potesse essere sviluppato un istinto di «reciprocità» e che questo istinto spiegasse l’altruismo non parentale è stata proposta da Robert L. Trivers (1971) al seguito di numerose osservazioni sul mutualismo degli animali. La reciprocità, l’andirivieni di qualcosa da X verso Y e viceversa, che sino allora era stata considerata da una lunga tradizione,11 come la regola caratteristica delle società umane, fondamento della giustizia e quindi della pace sociale, diviene un istinto ereditato dai nostri antenati animali e quindi una specie di legge di natura. Nel modello messo a punto da Trivers l’evoluzione genetica dell’altruismo reciproco avviene sulla base di un mutuo vantaggio e sul relativamente rapido riequilibrio del rapporto, attraverso il ricambio del beneficio.12 Un altruista reciproco accetta costi immediati a fronte di un beneficio futuro,13 ma perché questo avvenga è necessario che gli individui siano nelle condizioni di incontrarsi e interagire relativamente di frequente. L’altruismo reciproco si può evolvere più facilmente quindi in specie che hanno vite abbastanza lunghe, buona memoria, e una popolazione sufficientemente stabile nella quale due individui hanno probabilità di incontrarsi più volte e di ricordare il comportamento passato, tutte condizioni che spiegherebbero la grande diffusione di questa regola nella specie umana. Un comportamento altruista è vantaggioso per colui che lo pratica se è diretto verso individui che in caso di necessità sono disposti a ricambiare. Ma, data l’ipotesi iniziale di una popolazione formata da soli egoisti (v. fig. 1) e dato che il beneficio futuro è connesso al successivo comportamento del beneficiato su cui l’agente non ha il controllo, cos’è che fa sì che la regola della reciprocità venga rispettata? Attorno a questa domanda John Maynard Smith (1982) ha sviluppato, a partire dagli anni settanta del Novecento, la teoria evoluzionistica dei giochi che ha consentito di portare notevoli conoscenze sulle condizioni formali relative al sorgere e consolidarsi della cooperazione14 umana. Molte di queste sono state illustrate attraverso il celebre «Dilemma del prigioniero» a due persone la cui strategia vincente, quando sia giocato una sola volta (nel qual caso non può esservi reciprocità), rispetta il principio della selezione naturale, è cioè sempre a favore del defezionista (D) e a svantaggio del cooperatore (C), secondo una matrice del guadagno di tipo 2 × 2:

C D
C (b-c) -c
D b 0

che nella situazione standard vede ovviamente (b-c) <b e -c<0. Se però la situazione descritta dal dilemma del prigioniero si ripete più volte con gli stessi attori allora la strategia che risulta vincente, come hanno dimostrato Axelrod e Hamilton (1981) e Axerold (1984, 1997) con due celebri tornei, è quella fornita dal semplice algoritmo del «colpo su colpo», (tit-for-tat, Tft), cioè quella di ripetere la stessa mossa fatta in precedenza dall’avversario: cooperare se coopera, defezionare se defeziona, che è caratterizzata dalla massima reciprocità diretta. La semplicità e la robustezza della strategia TFT ha per un po’di tempo messo in ombra i suoi due limiti principali: il problema della prima mossa e la possibilità dell’errore. Il presupposto di TFT è infatti la disponibilità a cooperare per cui essa è vincente se ha di fronte altre strategie cooperative. Molto più complicata è, ad esempio, l’insorgenza e la stabilizzazione di una strategia di cooperazione quando la prima mossa di un avversario si basa sulla strategia del «defeziona sempre» (always defect, ALLD). In questo caso l’applicazione rigida di TFT comporterebbe una risposta defezionista innescando così la impossibilità dell’insorgenza della cooperazione. Per risolvere questo problema sono state avanzate diverse proposte. Se ad esempio all’interno di una popolazione sufficientemente ampia un individuo può scegliere con chi giocare (ad esempio solo con cooperatori), oppure se è libero di scegliere caso per caso se giocare o non giocare, allora qualche livello di cooperazione può insorgere; un’altra proposta, forse non meno interessante, è rappresentata dal modello «barbe verdi» nel quale i cooperatori si riconoscono fra loro attraverso un’etichetta arbitraria (come un tratto del volto, l’odore, ecc.; questo riporterebbe a una specie di selezione di parentela, ma se li riconoscessero anche gli altri sarebbero destinati a essere sfruttati e a perdere). Infine un altro meccanismo in grado di promuovere il comportamento reciproco può essere costituito dalla punizione dei defezionisti (ma solo una volta che la reciprocità sia già stata accolta, istintivamente o no, come regola: la punizione non può avvenire per una regola che non c’è ancora).

Ma vi è un altruismo specificamente (di specie) umano? Il che potrebbe voler dire: vi è una moralità specificamente umana? Le risposte a questa domanda non sono semplici. In un lungo saggio sull’altruismo umano, Ernst Fehr e Urs Fischbacher (2005) sostengono che le società umane rappresentano una vistosa anomalia nel complesso del mondo animale: esse sono attualmente basate su una articolata divisione del lavoro e su una cooperazione a larga scala di gruppi di individui geneticamente non correlati. Per contrasto gran parte delle specie animali mostrano una ridottissima divisione del lavoro e la cooperazione è limitata a piccoli gruppi. Anche nelle altre società di primati che con noi condividono gli antenati, la cooperazione è incomparabilmente meno sviluppata che negli umani. Perché gli uomini sono così spettacolarmente unici rispetto a tutti gli altri animali? La risposta è proprio che vi sono forme di «altruismo» unicamente umane. L’altruismo umano va ben oltre ciò che è stato osservato nel mondo animale dove l’altruismo e la cooperazione sono strettamente limitati al gruppo parentale. Ad esempio non sembrano esservi casi, nel mondo animale nei quali si possa riconoscere che la cooperazione è motivata dalla costruzione di una reputazione personale (che nel mondo umano è una delle motivazioni prevalenti). L’altruismo umano sembra avere dei limiti che derivano essenzialmente dai costi degli atti altruistici, dalla competizione tra gli individui e dai confini dei gruppi. La maggior parte dei comportamenti altruistici umani non rientrano nel modello della reciprocità diretta: tra gli uomini spesso le relazioni sono asimmetriche e fugaci. È il caso, ad esempio, dell’elemosina a un povero: i poveri non sono in grado, per definizione, di essere reciproci anche se spesso sono capaci di essere grati. Oppure è il caso delle donazioni offerte a sventurati sconosciuti colpiti da calamità naturali come terremoti o inondazioni in qualche angolo sperduto del mondo. Cos’è che sostiene questi comportamenti altruistici non direttamente reciproci? Secondo molti autori la moneta che alimenta la reciprocità indiretta è proprio la reputazione. Aiutare qualcuno promuove una buona reputazione che sarà ricompensata da altri. Sebbene forme semplici di reciprocità indiretta possano essere riscontrate anche presso gli animali (Warneken et al., 2007) soltanto gli uomini sembrano pienamente coinvolti nella piena complessità del gioco. La reciprocità indiretta comporta fondamentali livelli di conoscenza. Non soltanto dobbiamo ricordare le nostre interazioni, ma dobbiamo anche monitorare la rete sociale del gruppo che varia continuamente. Il linguaggio sintatticamente articolato sembra necessario per guadagnare le informazioni e diffondere il gossip associato con la reciprocità indiretta e per esprimere, attraverso la lode e il biasimo, i giudizi morali (Alexander, 1987) e le norme sociali.

Se l’altruismo parentale sembra determinato dall’egoismo dei geni, quello reciproco sembra determinato dall’egoismo dei gruppi che, attraverso il sacrificio dei singoli, tendono a incrementare la loro fitness media (v. fig. 1). In tutti questi contesti i termini altruismo e cooperazione hanno assunto significati tecnico-operativi che escludono dal loro orizzonte qualunque valutazione morale. L’atto altruistico viene sempre considerato connesso all’autointeresse dei singoli, o dei gruppi. Vengono eliminate le caratteristiche che connotano l’altruismo come atto morale, la gratuità da un lato e la gratitudine dall’altro, ed escono così dall’orizzonte della moralità, fenomeni come il dono, la solidarietà, il volontariato, gli aiuti internazionali, la grazia, ecc. L’immagine della natura umana che ne viene fuori è però l’immagine piatta, unidimensionale dell’Homo oeconomicus, una definizione univocamente centrata su quella razionalità europea che, per motivi storici, è stata fatta coincidere, almeno dal Rinascimento in poi, con la massimizzazione del profitto riproduttivo ed economico. È sostanzialmente su questa immagine (anche se nelle versioni aggiornate dell’«egoista razionale» o del «massimizzatore vincolato» di Gauthier, 1986) che si fonda la strategia darwinista di formazione delle norme sociali e della morale. Estendere il principio di reciprocità agli animali ha fatto sì che questa immagine acquistasse la parvenza di una legge naturale, ma in realtà Smith e Darwin considerano naturale l’immagine dell’uomo prodotta dalla borghesia capitalista e che loro stessi hanno contribuito a costruire. Marcel Mauss nel suo Saggio sul dono (1965: 283-284) nota che se vi è nell’uomo un egoismo calcolatore esso non fa parte di una natura umana, ma è un portato della storia e della organizzazione sociale: «sono state le nostre società occidentali a fare, assai di recente, dell’uomo un “animale economico”… L’uomo è stato per lunghissimo tempo diverso e solo da poco è diventato una macchina, anzi una macchina calcolatrice».15 L’individuazione delle condizioni formali per il sorgere dell’altruismo parentale e dell’altruismo reciproco, effettuata dal laboratorio virtuale della teoria dei giochi e delle decisioni economiche, non dice molto in realtà a riguardo di come effettivamente sono andate le cose dal punto di vista dell’evoluzione, ma ha messo in luce due elementi di grande interesse. Il primo è che il punto di partenza fornito dallo scenario hobbesiano-malthusiano-darwiniano di un mondo abitato da soli competitori è uno scenario «mitico»: questo scenario infatti dovrebbe essere retto da una popolazione perfettamente mista (v. fig. 1), nella quale cioè ogni individuo è in un rapporto univoco con ogni altro. Ma in natura, o almeno tra gli animali superiori, non si conoscono popolazioni così composte, dato che tutti gli individui sono collocati all’interno di relazioni e gerarchie plurime, famiglia, gruppo parentale, vicinato, ecc. In altre parole, l’hobbesiana guerra di tutti contro tutti non è mai esistita, come, forse, non è mai esistita la pace di tutti con tutti. Il secondo punto, ancora più rilevantemente fecondo, è che gli studi sull’altruismo evidenziano che nella selezione naturale, accanto al principio darwiniano di «competizione», opera un altro principio, non rilevato da Darwin, un principio generale di «cooperazione». Infatti si possono osservare forme di cooperazione a tutti i livelli biologici: i geni cooperano nei genomi, i cromosomi cooperano nelle cellule eucariotiche, le cellule negli organismi multicellulari, gli individui cooperano nelle colonie di animali sociali e, tra gli animali superiori, gli uomini sono forse il maggior esempio di successo evolutivo dovuto alla cooperazione. Secondo Maynard Smith (Maynard Smith J., Szathmary E., 1995) è proprio la cooperazione sotto diverse forme che ha consentito le otto transizioni biologiche principali e permesso l’emergenza di caratteri a livelli di complessità superiore.

6. Il senso morale

Ciò che maggiormente distingue l’uomo dagli altri animali, è, secondo Darwin, il suo senso morale. Che cosa Darwin intenda per «senso morale» non è però facile da chiarire. Nelle prime righe del quarto capitolo dell’ Origine dell’uomo esso viene presentato come «coscienza» o «senso del dovere»: «esso è riassunto in quella breve ma imperiosa parola ought (dovere) così piena di alto significato»; e in uno dei non molti slanci retorici prosegue citando la Metafisica dei costumi di Kant «Dovere! … pensiero straordinario». A prima vista il senso morale è un comando interiore che fa sì che un uomo, senza esitare, rischi la vita per i suoi compagni, oppure, dopo opportuna riflessione (spettatore interno), decida di sacrificare la sua vita per una grande causa. Questa concezione ha fatto accostare il senso morale di Darwin a un imperativo categorico che la selezione naturale avrebbe consolidato per limitare i desideri egoistici individuali e favorire la promozione della cooperazione sociale, dato che cooperare con coloro che condividono un pool genico o che possono reciprocare favorisce la fitness riproduttiva. Proprio a partire da queste considerazioni l’etica darwiniana è stata posta da Michael Ruse (1986) all’interno del cosiddetto «scetticismo morale» dato che il senso del dovere non sarebbe nient’altro che un trucco della selezione naturale per farci cooperare. Lo scetticismo morale, come illustrato ad esempio da John L. Mackie (1977), sostiene che le nostre affermazioni su specifiche proprietà del mondo, come i valori e le qualità etiche, sono necessariamente tutte false in quanto tali proprietà non sono proprietà reali ma solo psicologiche. La confusione tra proprietà reali e sentimenti psicologici avrebbe portato il senso comune e anche la riflessione di molti filosofi a ritenere che esistano valori morali reali. Ma si tratterebbe di un errore, dato che in realtà non esistono imperativi categorici, non c’è niente che noi «dobbiamo» fare e i nostri giudizi morali sono ontologicamente non validi. Secondo Mackie la moralità non è da scoprire, ma da inventare: siamo noi che dobbiamo decidere se e quali orientamenti morali adottare (per un primo approccio al pensiero di Mackie cfr. De Mori, 2005; per gli sviluppi successivi cfr. Joyce, Kirchin, 2007). Nei fatti però anche la teoria dell’errore morale si scontra con le stesse difficoltà logiche che minano alla base tutte le teorie metaetiche scettiche e relativiste: un pensiero sostanzialmente sterile, incapace di giudicare, pirronianamente afasico e indifferente, spesso venato di psicologismo, fondato sul paradosso per cui si è scettici su tutto eccetto il proprio scetticismo. In realtà l’etica darwiniana che sostiene che la moralità è parte della natura umana della quale, in qualche direzione, costituisce una ottimizzazione oggettiva; che questa moralità è autoritativa e normativa; che tutte le società umane possiedono, virtualmente, una moralità alla quale sembra quindi impossibile poter sfuggire; e che, infine, i nostri giudizi morali hanno rilevanti effetti pratici, difficilmente si può collocare all’interno di teorie metaetiche scettiche.

Secondo Darwin il senso morale è il risultato evolutivo della combinazione di due elementi: gli istinti sociali e le peculiari facoltà cognitive dell’uomo. L’uomo è l’unico ente morale sulla terra perché è l’unico vivente nel quale lo sviluppo delle capacità cognitive ha raggiunto un punto così alto da permettergli di comparare le azioni passate con quelle presenti e darne una valutazione nei termini di giusto o sbagliato e quindi a sentirsi obbligato a seguire una certa condotta.16 Soltanto oltre una certa soglia di sviluppo delle facoltà cognitive si ha l’emergenza del senso morale, una nuova facoltà o una facoltà del giudizio esclusivamente umana. In Darwin tuttavia il rapporto tra istinti sociali e ragione nella costruzione del senso morale lascia aperta la porta a diverse interpretazioni. In effetti le riflessioni postdarwiniane sulla moralità si sono sviluppate tradizionalmente lungo tre assi principali: 1. quello degli istinti sociali come fonte del senso morale; 2. quello delle precondizioni cognitive che consentono la valutazione morale; 3. quello della selezione dei gruppi. Tutte queste riflessioni hanno trovato il loro punto di partenza e la trattazione darwiniana più esplicita soprattutto nel quarto capitolo della prima parte dell’Origine dell’uomo, ma sono molto lontane dal confluire in una concezione antropologico-morale unitaria rispecchiando quelle che sono le difficoltà incontrate da Darwin stesso: l’impossibilità di una sintesi tra una visione monista e una dualista dell’uomo.

7. La grammatica e l’incesto

Alla genesi dei giudizi morali (secondo la dicotomia giusto/sbagliato), ha dedicato un ampio studio Marc D. Hauser (2006). Secondo Hauser il senso morale dell’uomo va considerato alla stregua di una vera e propria facoltà al pari di quella linguistica e matematica. Si tratterebbe di «una capacità innata di tutte le menti umane che inconsciamente e automaticamente generano giudizi su ciò che è giusto o sbagliato» sviluppatasi con l’evoluzione e costituita da una serie di circuiti neurali. Questa facoltà opererebbe per gran parte come una «grammatica morale», alla stregua di come opera la grammatica universale di Chomsky. Come la grammatica generativa di Chomsky opera a livello inconscio dettando le regole che generano la sintassi e il vocabolario, senza alcun linguaggio particolare, così la «grammatica morale» detta le regole per la formazione dei giudizi morali senza una lista di norme specifiche che vengono fornite dalle singole culture. Tuttavia queste regole sono così stringenti che un certo numero di norme sono praticamente universali: la regola aurea, non uccidere, evita l’adulterio e l’incesto, non tradire, non rubare, aiuta chi soffre, ecc. .17 Ma in concreto le diverse culture possono assegnare pesi differenti ai singoli elementi della grammatica morale e quindi mostrare una pluralità di valori morali.

Il fatto che la grammatica morale che valuta le cause e le conseguenze delle azioni nostre e di quelle degli altri sia inconscia, rende un’illusione il paradigma dominante secondo il quale noi costruiamo la morale con la ragione a partire da principi espliciti. Naturalmente anche la nostra convinzione di poter decidere con libertà, il libero arbitrio, è un’illusione (ma Hauser non spiega come mai, se il comportamento morale è istintivo, una tale convinzione è così universalmente diffusa) dato che è sufficiente seguire le regole innate modellate dalla selezione di gruppo. Per dimostrare la sua ipotesi Hauser ricorre a testimonianze ricavate da osservazioni scientifiche e da ingegnosi esperimenti mentali, ritenendo che le questioni del moralmente giusto/sbagliato siano state per troppo tempo in mano ai filosofi morali o ai moralisti e sia giunta l’ora che esse vadano in quelle dei biologi evoluzionisti. L’etica deve diventare una branca della psicologia umana. In questa direzione un certo sviluppo hanno avuto le ricerche relative all’evitazione dell’incesto.

Gli studi sulla proibizione dell’incesto hanno visto confrontarsi, sin dalla fine dell’Ottocento, due posizioni: quella di Edward Westermarck secondo il quale la proibizione dell’incesto riflette una ripugnanza innata nell’uomo all’accoppiamento tra membri dello stesso gruppo domestico; e quella solitamente attribuita a Edward B. Tylor, e adottata poi da una schiera di antropologi culturali, che collega l’incesto all’esogamia sintetizzata nella formula «o sposarsi fuori della famiglia o venire uccisi fuori della famiglia». Secondo la prima ipotesi l’evitazione dell’incesto sarebbe stata favorita dalla selezione naturale per limitare la diffusione di geni deleteri dovuta alla fecondazione tra membri della stessa famiglia; per la seconda invece la proibizione dell’incesto sarebbe una regola sociale volta a favorire la cooperazione fra i gruppi: nel primo caso si potrebbe considerare l’evitazione dell’incesto come una forma molto sofisticata di altruismo parentale (che si potrebbe esprimere con la regola: la diffusione del proprio pool genico non può avvenire se questa pratica mette a rischio la fitness complessiva dei geni condivisi); nel secondo invece la proibizione dell’incesto costituirebbe la premessa dell’altruismo reciproco umano, o, come propone Lévi-Strauss, la cerniera tra natura e cultura. Il punto centrale di questo dibattito è costituito dal problema (lasciato aperto dall’altruismo parentale, v. sopra) del sistema di «riconoscimento della parentela». Per alcuni sociobiologi il problema di riconoscere i parenti è stato risolto da parte di alcuni animali attraverso una serie di «indicatori indiretti» come l’odore e la vicinanza territoriale. Ma, nel caso dell’uomo, vi sono ancora all’opera indicatori analoghi e se sì quale peso hanno, oppure il riconoscimento dei parenti avviene esclusivamente sulla base della terminologia di parentela e quindi sul piano culturale? Rispolverando la vecchia idea di Westermarck, Debra Lieberman et al. (2007), avanzano l’ipotesi che il cervello umano abbia elaborato evolutivamente un sistema che riconosce la parentela (kin detection system), un circuito neurale discreto non conscio — un indice di parentela che ricalca quello di Hamilton — che alimenterebbe sia il disgusto e la riprovazione morale per l’incesto sia l’altruismo verso i famigliari. Secondo gli autori il circuito neurale che riconosce il grado di parentela determinerebbe una specie di imprinting tra fratelli attraverso due indizi indiretti e indipendenti (ma non si escludono altre tracce): 1. l’associazione materna perinatale, ovvero il fatto che i figli maggiori possono osservare le cure materne dedicate ai figli minori che quindi inconsciamente vengono etichettati come fratelli; 2. la durata della coresidenza durante il periodo dell’investimento parentale (convenzionalmente da 0 a 18 anni) che fa sì che i figli minori riconoscano i maggiori come fratelli. Queste informazioni sarebbero quindi inviate a due diversi sistemi motivazionali: quello dell’avversione/attrazione sessuale e quello dell’altruismo verso i famigliari. Quando il sistema di riconoscimento della parentela ha etichettato (giusto o sbagliato che sia) una persona come fratello/sorella, allora, da un lato, il pensiero di fare sesso con quella persona solleverebbe disgusto, e dall’altro solleciterebbe invece l’altruismo. L’ipotesi di una qualche relazione tra l’altruismo parentale e la proibizione dell’incesto ha un certo fascino. In fondo la diffusione del pool genico attraverso i parenti trova un limite proprio nell’evitazione dell’incesto. Ovviamente non si può escludere che nell’architettura neurocognitiva umana esista un circuito neurale specializzato di questo genere, ma il problema consiste proprio nel valutare se quel circuito e la componente genica che lo sostiene è ancora la causa dell’evitazione dell’incesto e dei comportamenti altruistici verso i parenti o se non sia stato reso inutile nell’uomo (come ad esempio l’odore) dalla evoluzione di un sistema di segnalazione molto più efficace come quello linguistico che, oltre a classificare in maniera più precisa e articolata i parenti, è in grado di indurre il disgusto e di elaborare le regole per la sua socializzazione.

In realtà il tentativo di ridurre i giudizi morali a una grammatica neurologica o a tratti psicologici fondati sulla biologia è una variante poco più sofisticata del vecchio determinismo genico.

8. «Sono» quindi non «devo»

I tentativi di ridurre la genesi dei giudizi morali alle componenti neurologiche riaprono la porta a una vasta famiglia di problemi tutti riconducibili all’idea che la morale è un fatto naturale e che quindi viene meno la differenza tra «fatto» e «valore», tra «essere» e «dover essere». Il primo a rendersi conto di questo tipo di problemi sembra essere stato proprio Hume. Nella sezione I della parte I del III libro di A Treatise of Human Nature pubblicato a Londra nel 1739-40, Hume scriveva:

Sono sorpreso nel constatare che invece dell’usuale copula delle proposizioni «è» o «non è» non ho incontrato alcuna proposizione che non sia connessa da «deve» o «non deve». Si tratta di un cambiamento impercettibile, ma tuttavia di estrema rilevanza. Dato che questo «deve» o «non deve» esprime una qualche relazione o affermazione nuova è necessario che essa venga osservata e spiegata. E nello stesso tempo che venga fornita una ragione poiché sembra del tutto inconcepibile che questa nuova relazione possa essere dedotta da altre che sono completamente differenti da essa.

Le interpretazioni di questo paragrafo di Hume, conosciuto come «il divieto is-ought», hanno dato vita ad accesi dibattiti e sono, ancora oggi, piuttosto divergenti fra loro.18 Esso sembra comunque sostenere la scorrettezza logico-formale di tutte quelle teorie che pretendono di ricavare affermazioni relative ai doveri e ai valori (quelle connesse dal verbo «deve») da affermazioni relative ai fatti (quelle caratterizzate dalla copula «è»). Assegnare i fatti e i valori allo stesso livello del discorso non è possibile dato che «è» e «deve» esprimono due relazioni radicalmente diverse; e d’altra parte se si pone «è» e «deve» su due diversi livelli del discorso sembra impossibile derivare l’uno dall’altro e si introduce così una dicotomia insanabile. La legge di Hume non sembra vietare di trattare i valori morali come fatti naturali. Lo stesso Hume nella Ricerca sui principi della morale, benché si sforzi di operare una sintesi tra la ragione (che presiede ai valori) e il sentimento (che è un fatto naturale), propende in maniera netta, alla fine, per assegnare le distinzioni della morale al sentimento, più originario nella natura umana. Ma forse è consapevole che facendo diventare i valori morali dei fatti naturali si elimina il punto di vista valutante (un tema che sarà ripreso più tardi ad esempio da Adam Smith con la sua proposta di uno «spettatore interno»), cioè la loro connotazione di «moralità», che è connessa al «dovere».

Il paragrafo is-ought di Hume è stato collegato da alcuni autori al problema, che ha percorso tutto il Novecento, della fallacia naturalistica. Quello della «fallacia naturalistica» è il dibattito teorico più rilevante con il quale lo studio della morale da parte dell’evoluzionismo si è trovato (e in parte ancora si trova) a dover fare i conti. Avviato dalle reazioni antipsicologiste di Gottlob Frege contro il primo Husserl e contro John Stuart Mill («è qui fatale il doppio senso della parola “legge”. Nel primo essa annuncia ciò che è; nel secondo, ciò che deve essere», Frege, 1965: 485),19 il problema della fallacia naturalistica ha trovato sistemazione nella morale dei Principia Ethica (1903) di George Moore. Secondo Moore ogni tentativo di definire il «bene» in termini naturalistici è destinato a fallire dato che il bene in quanto tale è indefinibile:

Il bene […] è incapace di ogni definizione […] «Bene» non ha definizione in quanto è semplice e non ha parti. Esso è uno degli innumerevoli oggetti del pensiero che di per sé sono incapaci di definizione, giacché essi sono i termini ultimi rispetto ai quali ciò che è capace di definizione deve essere definito» (I, 9-10).

In quanto oggetto del pensiero semplice e senza parti la nozione di «bene» è autoreferenziale. Se vogliamo dare una definizione di «bene» noi dobbiamo anche dire se quella definizione è buona. Noi possiamo trovare molte cose «buone», come possiamo trovare molte cose colorate, profumate, saporite, ecc.; ora mentre il colore, l’odore e il sapore sono tra le proprietà di quelle cose, il «buono» non è tra le proprietà di quelle cose. «Per essere definibile “buono” dovrebbe essere complesso e così si dovrebbe dire di ogni definiens se è buono. Dopo tutto una definizione non dovrebbe essere semplicemente analitica, essa dovrebbe dare informazioni sul definiendum; quindi qualunque definizione venga data deve essere sempre possibile dire, con significato, del complesso così definito, se esso stesso è buono» (Hill, 1976, 99, cit. in Teehan, diCarlo, 2004). Nel quarto capitolo dei Principia Moore afferma che ogni definizione di bene, sia di tipo naturalistico sia di tipo metafisico commette una fallacia naturalistica: i naturalisti perché credono che l’etica possa essere spiegata in termini di proprietà naturali, i metafisici perché credono il «bene» un oggetto soprasensibile effettivamente esistente. Per Moore, il bene è un oggetto del pensiero, oggettivo anche se non esistente (oggettivismo etico), un valore soprasensibile, che può essere conosciuto soltanto attraverso l’intuizione e non attraverso le scienze empiriche. Quindi le scienze empiriche (come già sosteneva Socrate nel Fedone 96a-97b), non solo non sembrano in grado di aiutarci a definire ciò che è bene e ciò che è male, ma addirittura possono costituire un serio ostacolo alla sua conoscenza. Non è il caso qui di addentrarci nei dibattiti ancora in corso tra chi ritiene che la fallacia naturalistica sia un falso problema (e gli oppone una fallacia antinaturalistica) e chi invece lo considera ancora l’insorpassabile Rubicone che proibisce alle scienze naturali di avventurarsi nel campo della morale. E forse il punto fondamentale evidenziato dalla fallacia naturalistica non è neanche quello che normalmente più si paventa relativo all’autonomia dell’etica. Il problema principale è che seguire l’equilibrio della natura, anche concesso che la nostra informazione sia affidabile (e nel caso dei circuiti neurali la cosa è ampiamente ipotetica), equivale letteralmente a non decidere nulla. Il processo di psicologizzazione dell’etica consiste, nei suoi termini generali, in una serie di riduzioni eliminative che tolgono all’etica la normatività e cancellano l’idea che l’uomo possa decidere razionalmente e liberamente. Da riflessione sul modo in cui la vita dovrebbe essere vissuta, su ciò che uomini e donne dovrebbero essere e fare, l’etica diventa così una semplice descrizione di sentimenti e comportamenti che non hanno bisogno di essere fondati o giustificati, ma soltanto spiegati. Questa prospettiva, il cui limite principale è costituito dalla difficoltà di dare un solido fondamento alla distinzione tra comportamenti abituali e azioni morali, si dimostra anche incapace di dare indicazioni riguardo a ciò che sarebbe giusto o sbagliato fare quando, ad esempio, siamo messi di fronte a problemi morali nuovi come quelli suscitati dalla bioetica, dall’etica ambientale o dalla globalizzazione. Se l’etica viene ridotta a etologia o a psicologia è perché alcuni evoluzionisti percepiscono la morale più come un problema imbarazzante che come una risorsa squisitamente umana.

9. Capacità morale e giudizi morali

Il fatto è che per Darwin l’etica non è intuizionistica. Il giudizio morale non è un’emozione o un sentimento per cui l’individuo intuisce ciò che è giusto o sbagliato; esso è piuttosto, come in Kant, il frutto della facoltà della ragione. Secondo Giovanni Boniolo (2006) è possibile riconoscere, in Darwin, due teorie dell’origine della morale: la prima è una teoria della genesi della «capacità morale», cioè delle condizioni biologico-evolutive che mettono l’uomo in grado di esprimere valutazioni morali sui comportamenti e di adeguarsi a queste valutazioni; la seconda è una teoria della genesi dei diversi giudizi morali. Ora, secondo Boniolo, le due teorie darwiniane sull’origine della morale, pur essendo entrambe presenti in Darwin, devono essere tenute separate, proprio perché, mentre i prerequisiti della «capacità morale» (gli istinti sociali e le strutture cerebro-mentali specie-specifiche dell’uomo) dipendono completamente dall’evoluzione biologica, i diversi giudizi morali nascono nell’ambito dei rapporti sociali e culturali e non dipendono direttamente dal meccanismo fondamentale darwiniano. Da qui l’osservazione che «i tentativi di analizzare la genesi o lo status delle teorie morali comparando il comportamento non-umano con quello umano vanno guardati con sospetto».20 Inoltre la «capacità morale», non essendo intrinsecamente morale, poiché riceve questa qualifica solo a posteriori dato che moralità e immoralità sono proprietà che dipendono dal giudizio, non si presta a spiegazioni dell’etica di tipo fondazionalista o essenzialista. La distinzione di Boniolo, che reintroduce la dicotomia tra innato e acquisito, secondo la quale la sola capacità morale costituita dal binomio «istinti sociali-facoltà cognitive» si trasmette ereditariamente, mentre le norme positive sarebbero fornite dagli interessi delle singole culture, ricolloca la morale darwiniana su una linea antropologica duale. Questa posizione sembra in grado di dare una risposta a due osservazioni: 1. che la capacità morale è diffusa presso tutti i gruppi umani; 2. che le norme morali variano da un gruppo all’altro. Molta più difficoltà mostra però nel rendere conto dei cosiddetti «universali morali», ovvero del fatto che vi sono alcune intuizioni morali, tradotte in norme, che sono pressoché comuni a tutti i gruppi umani. Venendo a mancare qualunque rapporto tra supporto biologico e norme, la nozione darwiniana di «senso morale» rischia di essere svuotata di ogni contenuto e resa una specie di lavagna vuota, nella quale i singoli gruppi umani scrivono volta a volta le loro regole del gioco. Ma vi sono molti dubbi nel considerare le strutture cerebro-mentali dell’uomo come neutre e vuote, dato che non mancano osservazioni che portano a pensare che l’intelligenza umana è orientata in senso sociale (o, se si vuole, machiavellico). Il problema consiste proprio nell’elaborare una visione unitaria che integri nell’uomo gli aspetti biologici e quelli socio-culturali. Non a caso l’autore mostra serie difficoltà là dove tenta di sfuggire, aggrappandosi a distinzioni che creano più problemi di quanti ne risolvano, alla deriva relativista.

In realtà secondo Darwin nel senso morale risulterebbero selezionati e consolidati alcuni giudizi morali derivanti dalla natura di animale sociale dell’uomo. I contenuti sui quali vertono i primitivi giudizi «morali» promossi dagli istinti sociali si condenserebbero nella regola aurea nella sua versione più semplice: «ama i tuoi amici e combatti i tuoi nemici». Questi giudizi sarebbero stati formulati inizialmente dagli altri componenti del gruppo attraverso i meccanismi dell’approvazione e del biasimo. Ma a mano a mano che l’uso, l’istruzione e la riflessione diventano più mature l’uomo non accetta più la lode e il biasimo dei suoi simili come unica guida, ma sono le sue convinzioni abituali, controllate dalla ragione a dargli la legge più salda. È soltanto con l’aiuto della ragione, dell’istruzione e dell’amore o del timore di Dio che l’uomo ha potuto, ad esempio, superare la legge del taglione e formulare una norma più elevata come quella che dice «amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano» (Lc, 6, 27). In una nota dedicata all’odio Darwin osserva:

Né è probabile che la coscienza primitiva avrebbe rimproverato un uomo per aver offeso un suo nemico: piuttosto lo avrebbe condannato se non si fosse vendicato. Restituire bene per male, amare il proprio nemico, è un’altezza morale cui si può dubitare che gli istinti sociali da soli ci avrebbero mai portati. È stato necessario che questi istinti, insieme alla simpatia, fossero coltivati ed estesi con l’aiuto della ragione, dell’istruzione e l’amore o il timore di Dio, prima che si concepisse e seguisse una legge così aurea (O. U. 101).

In altre parole la morale dell’uomo per Darwin è diventata tanto elevata: a) perché attraverso la ragione è andata oltre i giudizi di valore suggeriti dagli istinti sociali; b) non si è lasciata condizionare dall’opinione pubblica. Soltanto quando la sua ragione diviene talmente forte da controllare gli istinti e da dare una corretta valutazione del giudizio dei suoi compagni, l’uomo si sentirà spinto a certe linee di condotta che prescindono da piaceri o da pene transitorie. Soltanto allora la sua coscienza diviene giudice e guida suprema della sua condotta ed egli può affermare con Kant: «Io non violerò nella mia persona la dignità umana» (99). Dignità che consiste nella capacità di autonomia nelle decisioni morali, diventata, senza suo merito, il carattere specifico (di specie) della natura umana.

10. La natura del branco e oltre

Scriveva, ormai un po’di tempo fa, Richard D. Alexander, uno dei più lucidi e rigorosi studiosi evoluzionisti:

I biologi e gli antropologi di formazione biologica […] ritengono come dato che tutte le forme viventi sono venute all’esistenza attraverso un’evoluzione organica guidata in primo luogo dalla selezione naturale […] La selezione naturale implica vantaggi riproduttivi. Ma vi sono interi settori dell’attività umana che sembrano non avere niente a che fare con la riproduzione e che nessuno è stato disponibile ad affrontare in tali termini. Come si può spiegare l’arte, la musica, l’opera, la letteratura, lo humor, la politica, la scienza o la religione, usando argomenti dall’evoluzione biologica? Viceversa, perché dovremmo prendere sul serio l’evoluzione, tentando di comprendere noi stessi, se tali importanti attività sembrano impenetrabili alle sue indagini? (Alexander, 1990).

Da notare che tra le condotte umane elencate da Alexander manca la morale. Forse non a caso, dato che l’autore tre anni prima di questo scritto aveva dato alle stampe un lungo saggio sulla biologia dei sistemi morali (Alexander, 1987) e quindi dava per scontato che il darwinismo non solo era la cornice più idonea, ma l’unica, entro la quale si potevano comprendere i comportamenti morali. Le descrizioni delle cause remote di alcuni comportamenti prosociali, o di un generico senso morale, come quello proposto dal darwinismo, sono in quanto tali degne di attenzione. Esse ci consentono di arrivare a una migliore comprensione del nostro passato, di quella che è stata la nostra storia naturale di uomini; da questo punto di vista il darwinismo è un impareggiabile fonte di conoscenza di noi stessi. Altra questione è se queste descrizioni siano rilevanti ai fini delle riflessioni etiche ovvero se permettono la distinzione tra comportamenti abituali e azioni morali, e se oltre a dare una descrizione biologica di ciò che noi facciamo o pensiamo che dovremmo fare, possono anche dare indicazioni riguardo a ciò che sarebbe giusto o sbagliato fare quando, ad esempio, siamo messi di fronte a problemi morali nuovi. All’inizio della sua trattazione della morale nel quarto capitolo dell’Origine dell’uomo Darwin cita Kant; nelle osservazioni conclusive dello stesso capitolo discute «il principio della massima felicità» di John Stuart Mill. Kant e Mill rappresentano gli alfieri dei due principali filoni delle filosofie morali contemporanee: a Kant fanno capo, in qualche misura tutte le etiche di carattere «deontologico», che si basano cioè sull’idea di «dovere»; a Mill tutte le etiche di carattere teleologico cioè orientate a perseguire dei fini. In Kant Darwin sembra, in realtà, cercare una semplice conferma della sua equiparazione del senso morale con il senso del dovere; invece nel principio utilitarista della massima felicità di Mill, Darwin trova un ostacolo alla sua teoria dell’origine della morale dagli istinti sociali. Dopo aver osservato che il principio proposto dall’utilitarismo è un criterio di valutazione e non un motivo di condotta (nessuno agisce avendo a mente la massima felicità per tutti), Darwin sostiene che gli istinti sociali non si sono sviluppati per la felicità generale della specie, ma per il bene comune, cioè per il bene delle singole comunità, dove per bene si deve intendere sostanzialmente la loro fitness riproduttiva. In realtà quella di Darwin non né un’etica deontologica (e meno che mai un’etica del dovere per il dovere) né un’etica dei fini. Entrambe queste etiche hanno l’obiettivo di dirci come «dovremmo» essere e che cosa «dovremmo» fare. Darwin invece ha lo scopo di illustrarci chi «siamo» e come ci comportiamo. Il sottinteso è che, una volta appreso chi siamo e che cosa facciamo, è anche possibile decidere che cosa «dobbiamo» fare. Ma il darwinismo fallisce proprio nel passaggio dall’«è» al «deve». La sua etica, strettamente connessa alla sua visione biologica, è un’etica che è sorta e si è sviluppata attraverso la selezione naturale solo perché è risultata «funzionale» alla competizione riproduttiva di piccole comunità. Secondo Darwin la natura umana che la selezione naturale ci ha consegnato è la natura del branco, della banda, della tribù; attorno a questa natura ha costruito un’etica coerente: quella della fedeltà ai compagni, dell’obbedienza al leader e della paura e della lotta al diverso. Ma la morale del branco, adatta ai piccoli gruppi sociali dei nostri antenati, sembra diventata un maladattamento, forse pericoloso, per le mega società del presente. Secondo Alexander (1990) estrapolata ai giorni nostri, la tendenza alla selezione dei gruppi porta a conclusioni piuttosto inquietanti quali la inevitabilità della competizione fra nazioni, la corsa internazionali agli armamenti, e il rischio di mutua estinzione e di scomparsa di civiltà. «Le idee discusse qui sembrano predire — e forse richiedere — proprio una tale tendenza». Questo processo, iniziato dalla cooperazione fra individui dello stesso gruppo, con la comparsa delle cure parentali, e dalla competizione fra gruppi diversi, evidenziato dal consolidarsi delle tendenze monogamiche nella linea umana, e accentuato dall’evoluzione del cervello e dell’intelligenza, sarebbe diventato ormai inarrestabile. Anche se non vi sarà un’aggressione su larga scala o un irreversibile danneggiamento dell’ambiente a causa della competizione sulle risorse (ma questi esiti sembrano sempre più probabili), il destino dell’uomo sembra quello di assistere a una continua corsa agli armamenti e alla scomparsa di interi gruppi umani. Questo perché gli uomini fanno i loro interessi cooperando all’interno dei gruppi, ma non all’interno di quell’unico gruppo che è l’umanità. L’onesta conoscenza di noi stessi esige, secondo Alexander, che si prenda atto di questa situazione creata dalla legge della selezione dei gruppi. D’altra parte, nota Alexander nel finale, «nessuna parte della teoria biologica ha mai legittimamente comportato che gli uomini non possano usare delle loro caratteristiche evolutive per darsi e raggiungere nuovi obiettivi che possono essere diversi — o anche contrari — alla loro storia di selezione naturale». Con lo sviluppo della ragione, aiutata dall’istruzione e dalla fede, l’evoluzione sembra aver consegnato all’uomo la capacità morale, uno strumento in grado di disegnare, se, come dice Berlin, accettiamo il rischio di usarlo, una nuova immagine della natura umana.

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  1. Per un primo approccio al tema dei conflitto dei valori e alla complessità delle decisioni etiche si può vedere Panizza, 2003. ↩︎

  2. Cfr., ad esempio, Changeux J. P., Ricœur P., 2000. ↩︎

  3. La traduzione, eseguita direttamente dall’inglese, differisce leggermente da quella qui indicata. ↩︎

  4. Nonostante l’adozione di termini come amore, simpatia ecc., Darwin non è mai riuscito a integrare la visione hobbesiana con quella humeana ed è rimasto profondamente hobbesiano: la competizione viene solo spostata dal livello degli individui a quello dei gruppi. ↩︎

  5. Non è possibile, per motivi di spazio, addentrarsi nei dettagli tecnici del dibattito, ormai secolare, sull’unità e i livelli di selezione, anche se questo avrebbe potuto chiarire il senso di alcune affermazioni; rimandiamo alle oltre 1600 pagine di Gould (2003) che, a detta dello stesso autore, non sono altro che un lungo ragionamento, dichiaratamente partigiano, sui livelli di selezione per supportare la tesi a favore di una «selezione gerarchica» che comprenda geni, linee cellulari, organismi, demi, specie e cladi. ↩︎

  6. In particolare Larry Arnhart (1998) nel tentativo di accreditare un darwinismo di destra o conservatore, arruola, con un’operazione a dir poco spericolata, sia Aristotele sia san Tommaso nella schiera dei pre-darwiniani (o, se si preferisce, fa di Darwin un aristotelico o un realista) dato che le nozioni di uomo «animale politico» e di «legge naturale» fonderebbero l’etica direttamente sulla biologia. ↩︎

  7. Nel caso dell’uomo il rapporto tra costi e benefici viene misurato sia con il successo riproduttivo sia con il successo sul piano socioculturale. ↩︎

  8. Dove r è il coefficiente di parentela genica tra donatore e ricevente ed esprime la probabilità che due individui condividano un dato gene in forza della loro discendenza da un antenato comune recente; c sono i costi sostenuti dal donatore per l’atto altruistico; b è l’insieme dei benefici ricevuti dal ricevente. ↩︎

  9. Ad esempio, secondo questa regola, la disponibilità a sacrificare la propria vita da parte di un organismo diminuisce a mano a mano che il legame di parentela si allenta: in un diploide sarà del 50% per un fratello, del 25% per un fratellastro, del 12,5% per un cugino primo e così via. ↩︎

  10. Basta considerare la stucchevole retorica (ricorrente in tutto il libro) con cui, ad esempio, Dawkins (1976), dopo aver sostenuto che l’uomo è solo una macchina per la riproduzione dei geni, annuncia: «Noi abbiamo il potere di sfidare i geni egoisti della nostra nascita… Possiamo anche discutere i modi di coltivare e nutrire deliberatamente un puro disinteressato altruismo - cosa che non esiste in natura, cosa che non è mai esistita prima lungo l’intero arco della storia del mondo. Noi siamo costruiti come macchine dei geni… ma abbiamo anche il potere di rivoltarci contro i nostri creatori. Noi, soli sulla Terra, possiamo ribellarci contro la tirannia dei replicatori egoisti». ↩︎

  11. In un passo molto citato dell’Etica nicomachea (1132b 21 e segg.), Aristotele facendo un gioco di parole tra le Grazie (divinità) e la grazia (charis) scrive: «Per questo è costruito, bene in vista, un tempio delle Grazie, perché vi sia reciprocità. Questo infatti è proprio della grazia: che bisogna ricambiare favori a chi ha dato il suo favore e a nostra volta iniziare noi a dar favori». ↩︎

  12. Più che di reciprocità si dovrebbe palare di mutuo autointeresse. ↩︎

  13. Costi e benefici sono calcolati, darwinianamente, in rapporto al loro contributo alla fitness inclusiva. ↩︎

  14. Il termine «altruismo» usato dai biologi è praticamente equivalente a quello di «cooperazione» usato dagli scienziati sociali (Sober e Wilson, 1998). I termini defezionista e cooperatore corrispondono quindi, trascurando le sfumature, a quelli, rispettivamente, di egoista ed altruista. Ricordiamo che c e b sono rispettivamente i costi e i benefici. Negli studi sui comportamenti degli animali la nozione di «altruismo» viene usata, come termine descrittivo, per indicare una serie di situazioni e di comportamenti (che vanno dalla sterilità delle api operaie, alla condivisione del cibo, al grooming, all’empatia, alla cooperazione nella ricerca del cibo e nella guerra, ecc.). L’altruismo umano invece condensa una serie di relazioni (dalla cooperazione, alla solidarietà, alla reciprocità e in generale ai comportamenti prosociali). ↩︎

  15. Per una breve analisi della lotta di Mauss contro l’immagine dell’Homo oeconomicus e più in generale sul significato del dono si può vedere Gaion, 2004. ↩︎

  16. Non è il caso di discutere qui quanto sia forte o debole questo obbligo. ↩︎

  17. Se si escludono i comandi verso Dio, queste norme ripetono, forse non troppo stranamente, i dieci comandamenti. ↩︎

  18. Se Hume intendesse tracciare proprio una precisa dicotomia tra fatti e valori o se avesse usato questa dicotomia solo come stratagemma per far passare una visione empirista della morale, è un problema che si può lasciar risolvere gli storici della filosofia. A noi qui interessa soltanto come problema teorico e come anticipazione logica del problema epistemologico della fallacia naturalistica. ↩︎

  19. Frege fa questa affermazione a proposito delle «leggi» della logica, ma il suo platonismo lo collega in qualche misura al platonismo morale di Moore. ↩︎

  20. Da questo punto di vista, dire, come fa Frans de Waal (2001), ad esempio, che i nostri cugini scimpanzè sono «naturalmente buoni» suona del tutto improprio. ↩︎