1. Una questione cruciale nel rapporto tra metafisica e rivelazione
Siamo più portati a pensare, soprattutto a partire dalla modernità, che la filosofia, quando raggiunge l’acuminata punta del pensare speculativo, rappresenti la sfida più formidabile, e forse persino decisiva, posta dalla ragione umana alla rivelazione cristiana. Ma a ben vedere è altrettanto vero, e forse ancor di più, il contrario. La rivelazione ebraico-cristiana, e in modo singolare l’evento cristologico della morte di croce del Figlio di Dio fatto carne e della sua risurrezione, sin dagl’inizi ha rappresentato e in permanenza rappresenta una sfida radicale al pensiero anche filosofico così come s’è costituito ed evoluto per impulso del genio greco.1 Il che oggi diventa sempre più evidente non solo nel confronto con la tradizione del pensiero occidentale, ma, ormai, anche con le sapienze religiose e i raffinati sistemi metafisici dell’Oriente.
In quest’affascinante, drammatico, sempre nuovo e mai concluso e decisivo confronto, questione cruciale è senza dubbio quella dell’alterità in Dio e da Dio. La formulazione stessa del dogma trinitario nei primi secoli del cristianesimo, così come l’inesausta speculazione metafisica che n’è seguita, lo stanno a testimoniare. Hegel — e la critica filosofica e teologica ormai convergono entrambe su questo punto — rappresenta uno degli episodi centrali, e sicuramente non semplicisticamente archiviabili, di questa lotta corpo a corpo tra il proprium della rivelazione cristiana e il pensiero speculativo.
La struttura stessa e il metodo del pensare di Hegel nascono da questo confronto, intendono esibirne l’indissolubile correlazione vitale, nonché un’originale — e intenzionalmente definitiva — proposta di risoluzione, garantita ed esplicata nel rigore del sapere assoluto. Il passaggio, speculativamente necessario, dalla Vorstellung religiosa cristiana al Begriff assoluto — un nodo che, nonostante le molte e differenziate ermeneutiche resta ancora a mio avviso da sondare nel suo più riposto significato e fondamento — dicono la serietà con cui Hegel vuol elevare alla sfera della speculazione razionale l’evento cristologico. Basti qui citare ancora una volta — quasi cornice dell’intero percorso della maturità del pensiero hegeliano — la ben nota pagina finale di Glauben und Wissen, vera culla del sistema, da un lato, e la rilettura dell’evento della morte di Cristo proposta nelle berlinesi lezioni sulla Filosofia della religione, dall’altro. Se, nella prima, l’elevazione del «venerdì santo storico», e cioè del sentimento (Gefühl) su cui si fonda la «religione dei tempi moderni», il sentimento che «Dio stesso è morto» (Gott selbst ist tot) alla sfera della trasparente certezza del sapere speculativo significa il rinvenimento del kairós in cui e da cui «la suprema totalità in tutta la sua serietà e dal suo più riposto fondamento, abbracciando tutto contemporaneamente e nella più serena libertà della sua figura, può e deve risuscitare»;2 nella seconda, «la morte di Cristo come intuizione dell’amore assoluto» è affermata ancora una volta, con lo stupore di fronte al sempre nuovo che è anche il più antico, nella sua sostanza d’«intuizione speculativa» della divinità che «è in quest’identità universale con l’alterità, e con la morte».3
È questo un tema sul quale ho avuto occasione di tentare una riflessione, dal punto di vista teologico, in più di un’occasione,4 muovendomi sia nella prospettiva della genesi e del significato della lettura hegeliana del negativo, sia in quella del raffronto con la teologia cristiana della Trinità compresa a partire dall’evento pasquale, che caratterizza alcuni dei più eminenti teologi nostri contemporanei, sia cattolici che evangelici ed ortodossi. Nel presente saggio, intenderei, se mi riesce, di serrare più da presso la delicata questione ontologica del «non-essere» in divinis e in creatis, in quanto speculativamente essenziale per esprimere il significato dell’alterità in coerenza e secondo la dinamica ontologica stessa che è pro-posta dalla rivelazione cristologica. Mi rifarò ad alcuni testi dell’Introduzione e del Libro I della Logica, a motivo della formalità propriamente speculativa in cui in essi è posta da Hegel la nostra questione. Ma — e questo è il mio intento essenziale — il riferimento ad Hegel offrirà anche il destro per un tentativo autonomo e distinto di rilettura.
Precisamente a tal fine, prima d’abbordare i testi hegeliani che m’interessano, mi pare essenziale collocarli, sia pure brevemente, sullo sfondo di due altri decisivi momenti della speculazione teologica e metafisica messi in opera prima di Hegel a proposito della rivelazione trinitaria. Si tratta di Agostino e Tommaso, che leggo anch’essi in questa sede in rapporto alla quaestio de alteritate in divinis. B. Forte, sul versante teologico e insieme con lui forse soprattutto E. Brito, E. Salmann e W. Pannenberg, V. Vitiello e M. Cacciari,5 sul versante filosofico, in modi diversi nella forma e negli esiti, ma convergenti nello stringere la res in gioco, hanno messo in luce assonanze e dissonanze di questa sorta di genealogia trinitaria, che ha segnato la storia del pensiero occidentale. Dal mio punto di vista, mi preme soltanto sottolineare che Agostino e Tommaso — lo dico qui quasi sotto forma di tesi, che andrebbe senza dubbio debitamente esplicata e dimostrata — rappresentano due momenti fondamentali, e di non ritorno, nella posizione della quaestio de alteritate in divinis secondo la logica della rivelazione cristologica. Costituendo così, nonostante le successive ricadute all’indietro ed anche alcune interne tensioni, due passi decisivi del distanziamento progressivo, nella comprensione della nostra questione, dal quadro metafisico istituito dall’henologia platonica e risolutivamente neoplatonica, secondo cui l’alterità è, e non può che essere come tale, esterna all’Uno in quanto Uno, nella sua scaturigine e nella sua propria sfera, ultima e insieme onniavvolgente, di superessenziale intelligibilità.
2. «Diversitas» e «relatio» nel De Trinitate di Agostino
Il passo fondamentale di Agostino6 testimoniato dal De Trinitate è, come noto, quello d’aver intuito — a partire dalla rivelazione cristologica — che, pur non essendovi in Dio, che è «verissime esse»,7 «nihil secundum accidens quia nihil ei accidit», tuttavia in Lui «non omne quod dicitur, secundum substantiam dicitur».8 Infatti — egli spiega — in Dio «dicitur ad aliquid sicut Pater ad Filium, et Filius ad Patrem, quod non est accidens; quia et ille semper Pater, et ille semper Filius».9 E tuttavia — prosegue — «quia et Pater non dicitur Pater nisi ex eo quod est ei Filius, et Filius non dicitur nisi ex eo quod habet Patrem, non secundum substantiam haec dicuntur; quia non quisque eorum ad se ipsum, sed ad invicem atque ad alterutrum ista dicuntur».10 La conclusione che ne trae Agostino è limpida e stringente al tempo stesso: «quamobrem quamvis diversum sit Patrem esse et Filium esse, non est tamen diversa substantia, quia hoc non secundum substantiam dicuntur, sed secundum relativum; quod tamen relativum non est accidens, quia non est mutabile».11
In questo denso — e per molti aspetti geniale12 — passo, Agostino in realtà non fa che rendere ragione della non contraddittorietà della dottrina cristiana su Dio, testimoniata dalla Sacra Scrittura e formulata dal dogma. Dio è l’Essere, ma è al tempo stesso — lo attesta appunto la rivelazione — Padre e Figlio e Spirito Santo, ciascuno essendo l’unico Essere, ma essendolo in modo diverso (questa la parola usata dall’Ipponate: «diversus est Pater esse et Filius esse») per la relazione reciproca al suo altro («ad invincem atque ad alterutrum»). Agostino s’ingegna, dunque, a comporre i due dati che accoglie, l’uno, dalla filosofia, ma anche dalla rivelazione mosaica («Quis magis est, quam ille qui dixit famulo suo Moysi: Ego sum qui sum?»13), l’altro dalla rivelazione cristologica. I due dati sono connessi in modo tale che l’unicità dell’esse divino (che concerne il livello della sostanzialità) non è intaccata dalla diversità di Padre, Figlio e Spirito Santo, che dice relazione dell’uno all’altro, la quale però, a sua volta, non è accidentale, concernendo appunto l’esse sempiterno e immutabile di Dio. La soluzione è geniale, ripeto, e aderente al dato neotestamentario, in quanto è basata sull’analisi della predicazione della relazione di paternità, figliolanza e dono (lo Spirito Santo) a riguardo dell’unico esse divino. La diversità, pertanto, è predicabile di Dio secundum relativum. Così, non solo il dato biblico e dogmatico è rispettato, ma ne consegue una radicale trasformazione del quadro metafisico tradizionale — invero un po’ addomesticato — che Agostino eredita e con cui evidentemente fa i conti.
Ma — ed ecco la questione che resta aperta o, meglio, che riaffiora dall’interno stesso della soluzione proposta da Agostino — quale modalità d’essere è quella propria del secundum relativum? Gli appellativi che designano Padre, Figlio e Spirito Santo infatti — e Agostino non si stanca di ripeterlo — non vanno predicati né secondo la sostanza né secondo l’accidente. Il secundum relativum è dunque un tertium quid? Senza dubbio — sembra rispondere implicitamente Agostino stesso —, anche se poi è estremamente difficile, e forse impossibile, dire di che si tratti. Così che riferendosi al linguaggio già usato da alcuni «Latini» — più chiaro della distinzione greca, che gli resta oscura, tra ousía e hypóstasis14 —, Agostino può concludere: «tamen cum quaeritur quid Tres, magna prorsus inopia humanum laborat eloquium. Dictum est tamen “tres personae”, non ut illud diceretur, sed ne taceretur».15
3. «Relatio subsistens» e «multitudo trascendens» in Tommaso d’Aquino
In ogni caso, è così aperta la strada alla successiva riflessione di Tommaso d’Aquino. Del quale vorrei richiamare, a proposito della nostra questione, due sostanziali contributi.16 Il primo consiste in ciò che, nella sua trattazione sulla Trinità, l’Aquinate riprende l’acquisizione di Agostino e, senza timori, la spinge alle sue estreme conseguenze, per dar conto — al tempo stesso — della logica interna alle relazioni d’origine (processiones) delle tre divine Persone, attestate dalla rivelazione, e della necessaria relecture dell’esse divino qua talis che quest’ultima in tal modo comporta. Nella Summa Theologiae, ad esempio, Tommaso parte dall’assioma che «quidquid est in Deo, est Deus […] et ideo per quamlibet processionem, quae non est ad extra, commnunicatur divina natura».17 Ne consegue di necessità che «relationes quae secundum processiones divinas accipiuntur, sint relationes reales».18 Dunque — ecco la conclusione di Tommaso, che spazza via le residue esitazioni di Agostino — «relatio realiter existens in Deo, est idem essentiae secundum rem; et non differt nisi secundum intelligentiae rationem, prout in relatione importatur respectus ad suum oppositum, qui non importatur in nomine essentiae».19
La domanda, inevasa in Agostino, circa lo statuto di realtà del secundum relativum in divinis, domanda che anzi — tanto forte era il quadro metafisico ereditato — inclinava a una preservazione dell’assolutezza del secundum substantiam, viene ora soddisfatta con nettezza: «distinctio in divinis non fit nisi per relationes originis […]. Relatio in divinis non est sicut accidens inhaerens subiecto, sed est ipsa divina essentia: unde est subsistens, sicut essentia divina subsistit […]. Persona igitur divina significat relationem ut subsistentem. Et hoc est significare relationem per modum substantiae quae est hypostasis subsistens in natura divina; licet subsistens in natura divina non sit aliud quam natura divina».20
Il secondo contributo di Tommaso concerne la ripercussione della dottrina trinitaria così formulata sul quadro metafisico generale entro cui essa, da un lato, viene posta e, dall’altro, viene percepita e sviluppata come criterio essenziale di ri-comprensione sia della costituzione dell’essere divino, sia della relazione di esso con l’essere creaturale come fondato e decisivamente rischiarato dal primo nella sua stessa struttura trascendentale. L’impresa è ardua e affascinante insieme, e differenti e persino contraddittori sono i percorsi intrapresi a tal fine dagli interpreti lungo i secoli, soprattutto a partire dalla fine dell’800, e i risultati che da essi sono sortiti. Un equilibrato abbozzo dello status quaestionis, storiograficamente documentato e speculativamente rigoroso, è quello recentemente offerto da Giovanni Ventimiglia, in un saggio pubblicato nella collana curata dal Centro di ricerche di metafisica dell’Università del Sacro Cuore di Milano: Differenza e contraddizione. Il problema dell’essere in Tommaso d’Aquino: esse, diversum, contradictio.21 La tesi che viene analiticamente ricostruita dall’esame dei testi dell’Aquinate e sinteticamente riproposta e «rigorizzata» dall’Autore (prendendo a prestito la nota espressione di G. Bontadini) è che «l’essere di Tommaso è, in quanto tale, non solo identico e uno ma pure originariamente ed intrinsecamente molteplice e diverso»; e inoltre che «Tommaso stesso ha elaborato il concetto di divisio, di diversum, di aliud come trascendentale in polemica con la concezione che egli riconosceva essere dei “Platonici”»,22 e che fu condivisa da Avicenna e, tendenzialmente, almeno circa la questione della predicazione dei termini numerali a riguardo delle divine persone, pressoché da «omnes antiqui doctores» — così l’Aquinate.23
Ora, è interessante notare che l’istanza di quest’elaborazione metafisica venne a Tommaso, indubitabilmente, dall’intellecuts fidei della reale distinzione in Dio delle persone divine. Lo sta a testimoniare, ad esempio, la dinamica di pensiero che Tommaso sviluppa rispondendo alla quaestio: utrum alteritas sit causa pluralitatis, all’interno del suo Commento al De Trinitate di Boezio.24 Qui Tommaso ha chiaramente presente il principio fondamentale della metafisica platonico-neoplatonica: l’indivisibilità dell’Uno e la conseguente esteriorità e subordinazione dell’alterità, da cui poi si genera la pluralità.25 Secondo Tommaso, l’alterità è diversità (divisio è il termine ch’egli usa per l’esse in quantum esse, distinctio quello che privilegia per l’esse divino) non solo negli enti creati e come tali composti, ma anche nell’essere in quanto essere: «sicut unum et multa, ita idem et diversum non sunt propria unius generis, sed sunt quasi passiones entis in quantum est ens; et ideo non est inconveniens si aliquorum diversitas aliorum pluralitatem causet».26 Se, dunque, la divisio e il diversum, che ne è la manifestazione, sono interni all’esse qua talis, e Dio è l’Ipsum esse per se subsistens, la divisio o distinctio — contro i platonici — è interna all’Essere stesso che è Dio. Anzi, «la molteplicità delle cose composte dipende immediatamente dalla diversità interna all’Essere, Principio primo, onnipotente Creatore di tutto ciò che è».27 Spiega infatti Tommaso: «quantum ad ordinem dignitatis et causalitatis, illa distinctio [divinarum hypostasum] excellit omnes distinctiones; et similiter relatio quae est principium distinctionis, dignitate excellit omne distinguens quod est in creaturis: non quidem ex hoc quod est relatio, sed ex hoc quod est relatio divina. Excellit etiam causalitate, quia ex processione personarum divinarum distinctarum causatur omnis creaturarum processio et multiplicatio».28 Da qui discende la soluzione innovativa che, nelle Quaestiones de potentia, Tommaso offre circa il problema di quale sia il modo della predicazione dei termini numerali a riguardo delle persone divine: «utrum positive vel remotive tantum».29 Essendo la «differentia causa numeri» — secondo la ben conosciuta sentenza del Damasceno30 —, la questione del numero in Dio corrisponde a quella della differenza intradivina.
Con inusitata forza,31 Tommaso afferma dunque: «Dico ergo, quod in divinis non praedicantur unum et multa quae pertinent ad genus quantitatis, sed unum quod convertitur cum ente, et multitudo ei correspondens. Unde unum et multa ponunt quidem in divinis ea de quibus dicuntur».32 Ma il passaggio parallelo della Summa è ancora più chiaro: «Nos autem dicimus quod termini numerales, secundum quod veniunt in praedicationem divinam, non sumuntur a numero qui est species quantitatis; quia sic de Deo non dicerentur nisi metaphorice, sicut et aliae proprietates corporalium, sicut latitudo, longitudo et similia: sed sumuntur a multitudine secundum quod est trascendens».33 Il concetto della multitudo trascendens esprime, dunque, «quella proprietà per cui ogni cosa è diversa dall’altra» e, di fatto, «non può non contenere una polemica nascosta contro i Platonici che, secondo lo stesso Tommaso, tendevano a relegare la multiplicitas, la divisio, il diversum, al di fuori (praeter) [dell’Uno e] dell’essere».34 Di qui la considerazione del diversum e dell’aliud come trascendentali dell’essere. Se ne può concludere che, secondo San Tommaso, «ovunque c’è essere, lì c’è anche, nello stesso tempo, unità e distinzione, l’“uno” e, insieme, l’“altro”».35 Dietro questa tesi — coniugata, come si sarà notato, secondo i diversi registri dell’analisi metafisica — v’è senza dubbio la lezione della Metafisica aristotelica, nella sua critica all’henologia platonica, ma al tempo stesso — in quanto la riflessione sull’ousía è trasferita in quella sull’actus essendi e in quanto la multitudo trascendens è predicabile e predicanda, appunto perché trascendens, di Dio quale Ipsum Esse —, v’è senza dubbio più ancora la luce sull’essere sprigionata dalla rivelazione cristologica dell’Unitrinità divina.36 In una sorta di «circolarità» tra ragione e fede, filosofia e teologia — come la definisce la Fides et ratio di Giovanni Paolo II (cf. n. 73) —, che si mostra in Tommaso estremamente feconda e innovativa a proposito della quaestio de alteritate in divinis (e in creatis).
Il progresso rispetto ad Agostino, e in riferimento precipuo al quadro metafisico trascendentale dell’esse in quantum esse, è evidente e consistente. Tralascio qui l’ulteriore tentativo di rigorizzazione proposto da Ventimiglia in sede di conclusione, che intende privilegiare queste punte acuminate della speculazione di Tommaso, lasciando cadere le quasi inevitabili ricadute all’indietro, e con cui l’Autore guarda avanti e sottolinea che il procedere di Tommaso «suppone che nel discorso sull’essere possa esistere un momento o un luogo, sottratto alla giurisdizione della legge di non contraddizione — ove coesiste identità e differenza — che tuttavia, invece di portare all’anarchia illegale della contraddizione e all’irrazionalismo, conduca all’affermazione della stessa legge di non contraddizione, e vi conduca per il semplice motivo che questo momento o luogo ne rappresenta il fondamento»:37 «poiché l’essere è sia unum (o idem) che aliud (o diversum), è incontradditorio».38 C. Vigna, in una densa recensione, ha contestato quest’ipotesi, indicandone la forse anche involontaria ascendenza hegeliana: e certo il discorso meriterebbe d’essere rigorosamente approfondito.39 Ventimiglia, in ogni caso, giustifica la sua ipotesi nello spirito della ricerca di «una forma di razionalità che consideri l’essere non già come ciò che è da capire, ma come ciò a partire da cui è possibile capire».40 Ora, quest’originario darsi dell’Essere come originariamente Uno e Molteplice/Diverso, in quanto Trinità, non è proprio ciò che si fa evento nella rivelazione cristologica? Commentando alcuni anni or sono, in un convegno napoletano sull’ontologia trinitaria, la lezione teo-logica di Agostino, V. Vitiello si spingeva ad affermare che «pensare sino in fondo la Trinità, pensare trinitariamente» significa non pensare più Dio come «sostanza» soggetta al principio di non-contraddizione, ma come «l’identità […] di un perenne esser altro. Uno che è Uno nell’esser Trino. Trinità che è tale nell’esser Uno, vincolo che è insieme svincolo, se è solo rinvio all’altro. La Trinità non è l’esser statico di una com-presenza, è Vita».41
4. La dialettica essere / non-essere nella Logica di Hegel
Non siamo così giunti — quasi inevitabilmente, si direbbe — a Hegel? Il guadagno del cammino sin qui compiuto, relativamente lungo nell’economia del presente saggio, ma al tempo stesso troppo breve per l’esiguità dei riferimenti addotti, è tale da compensare ora la sinteticità dello sguardo sulla quaestio de alteritate in divinis nella riproposizione hegeliana. La quale tiene certo conto del cammino precedente, tanto che senza di esso non sarebbe possibile: basti vedere la recente, ponderosa ricerca di Michael Schulz significativamente intitolata Sein und Trinität42 che, tra l’altro, mette in rilievo la centralità — almeno ideale — della metafisica di Duns Scoto nella traiettoria che da Agostino porta sino ad Hegel. Ma insieme ne tiene troppo poco conto, e rischia così di vanificare l’ulteriore guadagno proposto, lasciando però aperto lo spazio per una ripresa del discorso non tale da tornare indietro al già acquisito per fermarvisi, ma da proseguire a partire dallo stimolo fondamentale che viene dall’intenzione e dall’intuizione hegeliana.
Come già preannunciato, mi soffermo su qualche passo soltanto della Scienza della logica, non solo a titolo esemplificativo, ma perché essa rappresenta il luogo in cui Hegel pone la quaestio de alteritate in divinis secondo la formula propriamente speculativo-metafisica che c’interessa in questa sede. Nell’Introduzione, infatti, Hegel, come noto, scrive: «la logica è da intendere come il sistema della ragione pura, come il regno del puro pensiero. Questo regno è la verità, com’essa è in sé e per sé senza velo. Ci si può quindi esprimere così, che questo contenuto die Darstellung Gottes ist, wie er in seinem ewigen Wesen vor der Erschaffung der Natur und eines endlichen Geistes ist (è l’esposizione di Dio, com’egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito)».43
Basti qui ricordare che «la logica ha per presupposto la scienza dello spirito che appare (die Wissenschaft des erscheinenden Geistes)»,44 e cioè il percorso precedentemente ricostruito nella Phänomenologie des Geistes, che non a caso determina il punto di passaggio al sapere assoluto nella religione disvelata, la quale vede rappresentata nella morte del mediatore «die Versöhung des göttlichen Wesens mit dem Anderen überhaupt (la conciliazione dell’essenza divina con l’Altro simpliciter, con l’Altro in quanto Altro)».45 In questo senso, la scienza della logica è chiamata semplicemente «ad accogliere ciò che ci sta dinnanzi (nur aufzunehmen, was vorhanden ist)».46 È evidente che Hegel intende dunque ripensare l’orizzonte metafisico dell’essere a partire dal suo darsi rappresentativo in quel «venerdì santo storico», che è giunto il momento d’elevare infine alla sfera della pura speculazione razionale. Nella Scienza della logica non si parla più di Cristo, ma il punto di riferimento resta il suo evento e, in particolare, la sua morte in croce. Non mi soffermo qui — anche se sarebbe essenziale — sul versante «soggettivo», come lo chiamerebbe Hegel, di quest’operazione: vale a dire sul superamento della separazione soggetto/oggetto nella sfera del sapere assoluto come inserzione — se così mi posso esprimere — nel punto di vista risolutivo dell’Assoluto stesso, che per sé esibisce «lo sviluppo immanente del concetto», che è, insieme, «il metodo assoluto del conoscere, e l’anima immanente del contenuto stesso».47 Mi soffermo invece — come del resto fa Hegel stesso, nel libro I della Logica — sulla «logica oggettiva», in quanto essa «prende il posto della metafisica di una volta» e abbraccia pertanto non solo l’ontologia, ma anche «il resto della metafisica, in quanto questa cercava di comprendere, insieme colle pure forme del pensiero, anche i substrati particolari, presi in sulle prime dalla rappresentazione, cioè l’anima, il mondo, Dio».48
In questo specifico contesto, è evidente l’intenzione di Hegel di procedere a una speculazione che prenda sul serio, e sviluppi sino alle sue ultime conseguenze, il contenuto necessariamente estraibile dalla rappresentazione religiosa della morte di Cristo, il Verbo di Dio, in croce, in ordine alla comprensione concettuale dell’alterità nell’unità-unicità dell’essere di Dio come Geist. Si noti qui, di passaggio, la diversità d’approccio rispetto allo stesso intento che, in fin dei conti, s’erano posti sia Agostino che Tommaso. Essi, per riassumere, partivano dal dato rivelato della Trinità delle persone nell’Essere di Dio Uno e s’impegnavano a trarne con coerenza le conseguenze speculative. Hegel, ovviamente, ha anch’egli presente la dottrina trinitaria, ma la coglie nel suo darsi fenomenologico nella morte in croce del Verbo fatto carne. La chance (o la «promessa», come la chiamerebbe K. Barth) è formidabile: di mezzo c’è la mistica speculativa di Eckhart, la Kreuzestheologie di Lutero e la teosofia di Böhme. Si può e si deve dunque passare — attraverso il Verbum Crucis — da una considerazione statica della quaestio de alteritate in divinis a una considerazione dinamica, o, se vogliamo, almeno a parte hominis, a una considerazione addirittura genetica. Ma Hegel v’accede — ed è ciò che ho cercato di mostrare in alcuni miei precedenti lavori — con una pre-comprensione che, in realtà, non si lascia dischiudere, all’interno d’un fecondo circolo ermeneutico, dal darsi dell’Essere nell’evento cristologico, ma ne determina aprioristicamente la comprensione stessa.
Lo speculativo che vien tratto fuori dalla rappresentazione religiosa nel suo dar-si culminante, infatti, è secondo Hegel il dialettico, e cioè il «Fassen des Entgegensetzten in seiner Einheit, oder des Positiven im Negativen (il prendere l’opposto nella sua unità, ossia il positivo nel negativo)».49 Il sapere speculativo, pertanto, consiste essenzialmente nella «semplicissima intelligenza […] di questa proposizione logica, che il negativo è insieme anche positivo, ossia che ciò che si contraddice non si risolve nello zero (Null), nel nulla astratto (das Abstrakte Nichts), ma si risolve essenzialmente solo nella negazione del suo contenuto particolare, vale a dire che una tal negazione non è una negazione qualunque, ma la negazione di quella cosa determinata che si risolve, ed è perciò negazione determinata».50 Se, con ciò, è precisato l’elemento speculativo in quanto dialettico, è però istituita, al tempo stesso, una diversa comprensione del movimento dell’essere, e in definitiva dell’essere tout court, rispetto a quella presupposta e insieme ripensata da Agostino e Tommaso: si pone, è vero, anche in Hegel, la co-originarietà dell’unum e del diversum, come in Tommaso, e, per di più, si cerca di spiegarne speculativamente l’interiore relazionalità, il movimento; ma dando insieme per tolta la differenza originaria tra l’essere di Dio e l’essere delle creature: essa, infatti, è superata — soggettivamente/oggettivamente — nel passaggio dalla rappresentazione religiosa al concetto speculativo. Ed ecco allora che la negazione — che spiega il movimento dall’uno al diverso, dall’identico all’altro — è e non può non essere che negazione «determinata»: perché non si dà l’essere di Dio in sé, il quale invece essenzialmente si dà appunto nel suo determinarsi.
Tutto ciò viene in piena luce non appena Hegel si dà a esporre quel cominciamento (Anfang) che è al tempo stesso il fondamento (Grund) «su cui tutto è costruito»:51 «Il cominciamento non è il puro nulla, ma un nulla da cui deve uscire qualcosa. Dunque, anche nel cominciamento è già contenuto l’essere. Il cominciamento contiene l’uno e l’altro, l’essere e il nulla; è l’unità dell’essere col nulla; è un non essere, che è in pari tempo essere, e un essere, che è in pari tempo non essere (ist Nichtsein das zugleich Sein, und Sein, das zugleich Nichtsein ist)».52 Ne consegue che «l’analisi del cominciamento ci darebbe il concetto dell’unità dell’essere col non essere, — o, in forma riflessa, il concetto dell’unità dell’esser differente e del non esser differente, — oppure quello dell’identità dell’identità colla non identità. Questo concetto si potrebbe riguardare come la prima e più pura (e cioè più astratta) definizione dell’Assoluto».53 Ma allora — vien da chiedersi — la relazione che tiene uniti come distinti l’identico e il diverso non è altra da quella che — nei termini della rappresentazione religiosa, come direbbe Hegel — s’esprime quale creazione, e cioè — nei termini del sapere speculativo — cominciamento dall’Assoluto del determinato? Relazione che, compresa speculativamente, è l’autocostituirsi immanente del concetto assoluto? La dinamica con cui prende avvio e, per suo interno svolgimento, poi si sviluppa il primo libro della Logica, e cioè la dottrina dell’essere (Die Lehre vom Sein), in particolare nel primo suo capitolo, Sein, e in quello secondo, Das Dasein (con la sua articolazione tra finità e infinità, Endlichkeit e Unendlichkeit) stanno a dimostrarlo. Così, in primo luogo, quando Hegel illustra «la verità dell’essere e del nulla» come «questo movimento consistente nell’immediato sparire dell’uno di essi nell’altro: il divenire; movimento in cui l’essere e il nulla son differenti, ma di una differenza, che si è in pari tempo immediatamente risolta»,54 nella prima delle sue Anmerkungen si richiama alla metafisica cristiana la quale, rigettando la proposizione che dal nulla venisse nulla, «affermò un passaggio dal nulla nell’essere».55 Si tratta invero — nota Hegel — di una proposizione intesa da quella metafisica in senso meramente sintetico e rappresentativo, ma «nondimeno anche nella più imperfetta unione è contenuto un punto in cui l’essere e il nulla coincidono, e la differenza loro sparisce».56 Così che «perfino in Dio la qualità, cioè l’attività, la creazione, la potenza ecc., contiene essenzialmente la determinazione del negativo; coteste qualità [infatti] consistono nel portar fuori (hervorbringen) un altro».57 Il che risulta ancora più evidente, nella seconda delle Anmerkungen, dove il divenire, das Werden, è definito «das Bestehen des Seins soseher als des Nichtseins (il sussistere tanto dell’essere quanto del non essere)», il che significa che «il loro sussistere non è che il loro essere in uno».58 Il quale divenire, a sua volta, in quanto è il «passare nell’unità dell’essere e del nulla, la quale è come essente o ha la forma dell’immediata unilaterale unità di questi momenti, è das Dasein (l’esserci)»,59 come «essere determinato» (bestimmtes Sein).60 La controprova della verità di questo reciproco sussistere in uno dell’essere e del non-essere come divenire, s’attua — nel successivo e necessario passaggio dialettico — attraverso la determinazione dell’infinito quale negazione del finito. «Nella sfera dell’essere — spiega Hegel — l’essere determinato, il Dasein, vien fuori soltanto dal divenire: (nel senso) che col qualcosa è posto un altro, col finito l’infinito, ma il finito non trae fuori l’infinito, non lo pone».61 Infatti, «è la natura stessa del finito di sorpassarsi, di negare la sua negazione e di diventare infinito. L’infinito non sta quindi come un che di già per sé dato sopra il finito, cosicché il finito continui a restar fuori o al di sotto di quello. E nemmeno andiamo soltanto noi, come una ragione soggettiva, al di là del finito nell’infinito. […] ma il finito è soltanto questo, di diventare infinito esso stesso per sua natura. L’infinità è la sua destinazione affermativa, quello ch’esso è veramente in sé. Così il finito è scomparso nell’infinito, e quello che è, è soltanto l’infinito».62
Se è corretta l’interpretazione sinora proposta di questi noti e sicuramente decisivi — per la comprensione della filosofia hegeliana — testi della Logica, si può concludere che Hegel ha inteso speculativamente la dialettica di essere/non essere, dischiusa nel suo darsi fenomenologico nel Cristo abbandonato e morto sulla croce, nella prospettiva della relazione tra infinito e finito, e viceversa, quale chiave risolutiva della rappresentazione religiosa trinitaria dell’unità di Dio nella distinzione delle tre divine persone. In una prospettiva che rovescia, ad esempio, quella di Tommaso per il quale, semmai — come abbiamo cercato di mostrare — è la distinzione intratrinitaria a spiegare quella tra il Creatore e la creatura.63 Per Hegel, dunque, la quaestio de alteritate in divinis va intesa come posizione della diversità nel suo toglimento in quanto determinazione dell’essere uno.
Anche se, in talune affermazioni — non del tutto coerenti, del resto, con altre — sembra restare lo spiraglio per un accadimento di libertà che trascende lo svolgimento stesso dell’intero, che pure è abbracciato pienamente in sé come un Kreislauf (circolazione). Esponendo, ad esempio, la domanda sul cominciamento, Hegel la esplica come quell’andare innanzi che è un «Rückgang in den Grund, un tornare indietro al fondamento, all’originario e al vero», e precisa che proprio così «si conosce lo spirito assoluto (che si mostra qual concreta ed ultima altissima verità d’ogni essere) come quello che al termine dello sviluppo liberamente si estrinseca e si emancipa nella forma di un essere immediato, — si risolve cioè alla creazione di un mondo, il quale contiene tutto ciò ch’era compreso nello sviluppo preceduto a quel resultato, mentre per questa posizione rovesciata tutto cotesto è tramutato insieme col suo cominciamento in un che di dipendente dal resultato come dal suo principio».64 Come acutamente ha scritto in proposito M. Donà, «l’ultimo non è il primo, ma ciò che il primo, pur restando primo, presuppone».65 Si potrebbe aprire qui — penso —, e precisamente su questo punto, il confronto con lo Schelling della filosofia positiva e della rivelazione.66
5. Riflessioni conclusive
Termino a questo punto,67 dove hegelinamente si dovrebbe cominciare o ri-cominciare, con un’annotazione di fondo, che intende riassumere e rilanciare il discorso sin qui svolto. È vero: in Hegel non possiamo stare, ma neppure dobbiamo pavidamente ritrarci — come scriveva quel suo implacabile avversario che è K. Barth — di fronte all’elemento schiettamente teologico ch’egli, in qualche modo, ha intuito e che ancora attende in gran parte d’essere ontologicamente elaborato, proseguendo quel cammino di lotta corpo a corpo tra la rivelazione trinitaria e il pensiero speculativo che ha avuto tra i suoi esponenti maggiori Agostino e Tommaso.
A mio avviso — ecco il punto! — il linguaggio del non essere/essere per esprimere l’alterità in divinis, non solo in senso statico, ma nella vitalità delle relazioni personali divine, va ripreso e rigorizzato come dinamica espressiva dell’essere agape di Dio escatologicamente dispiegato nella storia dall’evento del Cristo abbandonato e risorto che effonde lo Spirito: e, come tale, è pienamente legittimo per esprimere l’alterità delle Persone divine nell’unità dell’essere di Dio. Si tratta di sondare — per dirla con G. Lafont — «les ressources de la négativité pour dire Dieu».68
Infatti, come già spiega la tradizione teologica (Agostino e Tommaso, in particolare, come abbiamo veduto), la sussistenza delle Persone divine è tale solo nella relazione, anzi — dobbiamo ulteriormente precisare — come relazione, che, essendo agape quale è dischiusa nell’evento pasquale, significa totale e reale donar-si all’Altro e reciprocamente accoglier-Lo in Sé. Così che non c’è precedenza ontologica, nelle persone divine, dell’essere sulla relazione, o viceversa: ma simultaneità. Guardando a Gesù crocifisso e abbandonato, si può però andare ancora più a fondo, e dire che in Dio ogni Persona è, perché non è. Il Padre, ad esempio, è Padre perché genera il Figlio: ma generandolo gli comunica tutto il suo esser-Dio, gli partecipa tutta la vita divina e lo fa realmente, privandosene sino in fondo — per usare un linguaggio analogico. E proprio così è, è Padre. E altrettanto si può dire, nel loro proprio modo, del Figlio e dello Spirito Santo.69
Questo movimento assoluto d’amore è proprio di Dio e di Dio soltanto. Per sé, le creature e, in special modo, le persone create non possono realizzare quest’atto, appunto perché sono create: e cioè ricevono l’essere da Dio e non hanno la possibilità di privarsene ontologicamente. Al massimo è loro possibile, negar-si, perder-si intenzionalmente (a livello, cioè, dell’atto di conoscenza e d’amore), ma non fino a dimettere totalmente il proprio essere in quanto essere. Solo la morte costituisce la dimissione nelle mani di Dio, che per sé s’impone e va accolta, di tutto il proprio essere di creatura. Spiega H.U. von Balthasar: «Nella realtà creaturale non può esistere una dedizione così assoluta, perché l’uomo non può disporre della propria esistenza e, quindi, del suo reale io, e “ciò di cui non si può disporre non si può regalare”.70 Invece, quanto all’essere assoluto che possiede se stesso si può arrivare al concetto limite che “il divino autopossesso s’esprime nel perfetto dono e reciproca dedizione di sé, dove è coinclusa anche la propria esistenza, quella che nella creature non è a disposizione della creatura”71 […] L’autodedizione del Padre, che dona non solo qualcosa di ciò che ha ma tutto ciò che è […] passa interamente al Figlio generato […]. Questo totale dono di sé, che il Figlio e lo Spirito rispondendo ripeteranno, significa qualcosa come una “morte”, una prima radicale “kenosi”, se si vuole: una super-morte».72
Ma Gesù crocifisso e risorto realizza, col dono dello Spirito Santo, una «nuova creazione», che è il compimento cui è destinata per grazia la «prima» creazione. Egli è il Verbo che si fa uomo e che vive il rapporto trinitario dell’amore col Padre per lo Spirito Santo nella sua umanità. Tanto che quest’ultima, perché unita personaliter al Verbo, può sperimentare (nell’abbandono e nella morte accettata e vissuta per amore) quel vertiginoso annullamento di sé come amore, attraverso cui è pienamente inserita, con la resurrezione e la pneumatizzazione nello Spirito, nella vita trinitaria.
Dunque, è solo per l’innesto in Gesù crocifisso e risorto, assunto e vissuto per grazia dalla libertà, che anche la persona creata può partecipare di questa realtà. Non per nulla, l’apostolo Paolo parla di un «morire» e di un «risorgere» con Cristo (cf. Rom 6, 4-5). Non è un modo di dire, è una realtà: anche se la coscienza credente, normalmente (ma si dovrebbe interrogare di più, in proposito, l’esperienza mistica), riesce ad attingere quest’evento solo in minima parte, e anche se questa realtà — in tutta la sua profondità ontologica — sarà data solo nell’escatologia compiuta.
In tal modo, la quaestio de alteritate in divinis, dischiusa trinitariamente, viene a illuminare anche la quaestio de alteritate tra Dio e la creazione. La creazione, infatti, alla luce dell’evento del Crocifisso/Risorto, può esser vista e approfondita come kenosi e, dunque, non-essere d’amore di Dio.73 Analogamente a quanto avviene tra le divine Persone in seno alla Trinità. Con l’unica (ma abissale) differenza che, nella creazione, questo avviene da parte di Dio in rapporto a ciò che non è Dio, o, meglio ancora, in rapporto a ciò che, per sé, semplicemente non è. Nell’ottica dell’agápe, potremmo pensare di riformulare il principio tradizionale della creatio ex nihilo, parlando di un ex nihilo amoris74: nel senso che il «nulla» dal quale Dio crea è la kenosi di agape che Dio liberamente vive nel momento in cui dona l’essere all’altro-da-sé, a ciò che per sé non è. In realtà, come scrive M. Blondel, «Dio non lascia fuori di Sé assolutamente nulla che si possa immaginare vuoto o chiamare nulla positivo. Ma allora — si dirà — dove collocare le creature eventuali o reali?». E risponde: «ricorrendo alla sublime espressione di S. Paolo: Deus semetipsum exinanivit, Dio, per creare, non ha prodotto fuori e accanto a Sé (il che è assurdo) un pieno vuoto, o almeno una semi-pienezza, una nebulosa ontologica […]. È meno ingannevole partire da un’intenzione tutta misericordiosa del Creatore che prepara non nello spazio, non nella sua pienezza sostanziale, ma nel suo fecondo amore una capacità di vita, di felicità, di unione trasformante per altri Sé stesso».75
Così, la possibilità e la realtà stessa del negativo come rottura e come peccato trova spazio di realtà e di redenzione entro la distinzione trinitaria che sovrabbraccia la creazione. Scrive von Balthasar, rispondendo tra le righe a Hegel: «Che Dio (in quanto Padre) possa dar via la sua divinità e che Dio (in quanto Figlio) non la tenga unicamente come prestata, ma la possegga in “eguaglianza d’essenza”, significa una così inconcepibile e insuperabile “separazione” di Dio da Se stesso che ogni altra separazione in tal modo resa possibile (mediante essa!), sia pure la più amara ed oscura, può verificarsi solo all’interno di essa. E questo, nonostante che la stessa comunicazione sia un evento di assoluto amore, la cui felicità consiste nella donazione non solo di qualcosa di Se stesso, ma di Se stesso semplicemente. Se tutte e due le cose si afferrano con uno sguardo, quanto detto non dà diritto a vedere la Trinità unilateralmente come il “gioco” di una assoluta “beatitudine”, che astrae dal dolore reale, quindi manchevole della “serietà” della divisione e della morte».76
In definitiva, la quaestio de alteritate in divinis non solo è riproposta in forma inedita e ineludibile alla ragione dalla rivelazione trinitaria, ma, nell’orizzonte dischiuso dalla morte-resurrezione di Cristo può trovare un accesso di pregnante rilevanza ontologica per una riproposizione della domanda originaria. Può sembrare una mera questione linguistica, ma non lo è. Perché il linguaggio è chiamato a dire l’essere. Salvaguardando sempre il principiare dal mistero e il ritornare dossologicamente al mistero, senza cui non vi è vera teologia, penso che ci troviamo qui di fronte a un punto importante in ordine al compito che — come ricordavo all’inizio — ci è proposto dalla Fides et ratio.
Ovviamente si tratta solo di una pista, da vagliare e approfondire. Ma anche soltanto dai rapidi cenni qui proposti, sono intuibili i percorsi che essa può dischiudere in ordine ai grandi temi della teologia cristiana: dalla creazione all’incarnazione, dalla soteriologia all’antropologia, dal confronto con la filosofia moderna (le sue istanze e le sue impasses) a quello con le grandi religioni orientali e le diverse tradizioni mistiche, cristiane e non. Alla fine, il linguaggio dell’amore che perché non è (si dà) è dice in maniera bella e stupita la gloria e la trascendenza di Dio, roveto ardente e incombusto dell’Agape tripersonale, e la sua grazia che scende sino all’ultimo perduto abisso creato — è proprio il caso di dirlo — dalla libertà umana. Del resto, se vale per la creatura umana l’evangelico «nessuno ha un’agape più grande di questa: dare la vita per i suoi amici» (Gv 15, 13), tanto che Agostino può dire che caritas «facit in nobis quandam mortem»,77 quanto — e infinitamente di più — ciò deve poter valere per Dio.
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In tal senso s’esprime, in più di un luogo, la Fides et ratio: mi permetto rinviare in proposito al mio La sapienza della croce e astuzia della ragione. Teologia del crocifisso e filosofia dell’essere, in «Nova e vetera», I, 1999/1, 27-42. Si legge, ad esempio, in FeR 93: «Il vero centro della riflessione (della teologia) sarà la contemplazione del mistero stesso di Dio Uno e Trino. A questi si accede riflettendo sul mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio: sul suo farsi uomo e sul conseguente suo andare incontro alla passione e alla morte, mistero che sfocerà nella sua gloriosa risurrezione e ascensione alla destra del Padre, da dove invierà lo Spirito di verità a costituire e ad animare la sua Chiesa. Impegno primario della teologia, in questo orizzonte, diventa l’intelligenza della kenosi di Dio, vero grande mistero per la mente umana, alla quale appare insostenibile che la sofferenza e la morte possano esprimere l’amore che si dona senza nulla chiedere in cambio». L’invito non è soltanto a contemplare nella fede l’abisso d’amore che è reso visibile e tangibile nell’evento pasquale, ma a penetrarne anche intellettualmente il significato in ordine alla comprensione dell’Essere di Dio e, nella sua luce, dell’essere creato. È Giovanni Paolo II stesso a esplicitare quest’istanza, sia quando invita i teologi a prestare «particolare attenzione alle implicazioni filosofiche della parola di Dio» e a compiere «una riflessione da cui emerga lo spessore speculativo e pratico della scienza teologica» (n. 105); sia quando li esorta a «riproporre il problema dell’essere secondo le esigenze e gli apporti di tutta la tradizione filosofica, anche quella più recente, evitando di cadere in sterili ripetizioni», perché la filosofia dell’essere è essenzialmente «una filosofia dinamica» (n. 97). ↩︎
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G.W.F. Hegel, Fede e sapere, tr. it. di R. Bodei, in Primi scritti critici, Mursia, Milano 1971, 253. ↩︎
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G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, tr. it., di E. Oberti e G. Borruso, Laterza, Bari 1983, III, 142. ↩︎
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Cf. Il negativo e la Trinità, Città Nuova, Roma 1987; e, in forma più sintetica ma anche forse più teologicamente stringente e rigorosa, il saggio La via del negativo e la Trinità, in «Asprenas», XXXV (1989), n. 3, 315-330. ↩︎
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Cf. B. Forte, Trinità come storia. Saggio sul Dio cristiano, Ed. Paoline, Roma 1985; Id., Trinità per atei, R. Cortina, Milano 1996; E. Brito, La christologiae de Hegel. Verbum Crucis, Paris 1983; Neuzeit und Offenbarung, S. Anselmo, Roma 1986; Id., Der Geteilte Logos, S. Anselmo, Roma 1992; W. Pannenberg, Grundzüge der Christologie, Gütersloh 1966; tr. it., Morcelliana, Brescia 1974; Id., Systematische Theologie, I, Göttingen 1988; tr. it., Queriniana, Brescia 1990; V. Vitiello, Topologia del moderno, Marietti, Genova 1992; si vedano infine le posizioni espresse e argomentate da M. Cacciari soprattutto in Dell’Inizio, Adelphi, Milano 1990. ↩︎
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Cf. De Trinitate, V. Su questo centrale tema si vedano: I. Chevalier, La théorie augustinienne des relations trinitaires, in «Divus Thomas», XVIII (1940), 317-384; O. Du Roy, L’intelligence de la foi en la Trinité selon saint Augustin. Genèse de sa théologie trinitaire jusqu’en 391, Paris 1966; F. Bourassa, Théologie trinitaire chez Saint Augustine, in «Gregorianum», 58 (1977), 675-725; 59 (1978), 375-412; E. Falque, Saint Augustin ou comment Dieu entre en théologie: lecture des livres V-VII du De Trinitate, in «Nouvelle Revue Théologique», 117 (1995), 84-111. ↩︎
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De Trinitate, V, 2.3. ↩︎
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De Trinitate, V, 5.6. ↩︎
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Ibid. ↩︎
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Ibid. ↩︎
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Ibid. ↩︎
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Basti richiamare quanto sottolineato in proposito da J. Ratzinger nel suo classico Einführung in das Christentum, riferendosi al libro V del De Trinitate: «In questa semplice ammissione, si cela un’autentica rivoluzione del quadro del mondo: la supremazia assoluta del pensiero accentrato sulla sostanza viene scardinata, in quanto la relazione viene scoperta come modalità primitiva ed equipollente del reale. Si rende così possibile il superamento di ciò che noi chiamiamo oggi “pensiero oggettivante”, e si affaccia alla ribalta un nuovo piano dell’essere. Con ogni probabilità, bisognerà anche dire che il compito derivante al pensiero filosofico da queste circostanze di fatto è ancora ben lungi dall’esser stato eseguito, quantunque il pensiero moderno dipenda dalle prospettive qui aperte, senza le quali non sarebbe nemmeno immaginabile» (tr. it, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 1969, 140-141; Ratzinger rinvia in nota a M. Schmaus, Katholische Dogmatik, I, München 19483, 425-432). ↩︎
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De Trinitate, V, 2.3. ↩︎
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De Trinitate, V, 8.10. ↩︎
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De Trinitate, V, 9. ↩︎
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Sul nostro tema si vedano, in particolare, A.K. Krempel, La doctrine de la relation chez sanit Thomas. Exposé historique et systematique, Paris 1952; A. Malet, La synthèse de la personne et de la nature dans la théologie trinitaire de saint Thomas, in «Revue Thomist» 54 (1954), 483-522; Id., Personne et Amour dans la théologie trinitaire de saint Thomas d’Aquin, Paris 1956; G. Lafont, Peut-on connaître Dieu en Jésus Christ?, Cerf, Paris 1969, 107-167; R.M. Burns*, The divine simplicity in St. Thomas*, in «Religious Studies», 25 (1989), 271-294. ↩︎
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S.Th, I, q. 27, a 3, ad 2 um. Cf. M. Reichberg, La communication de la nature divine en Dieu selon Thomas d’Aquin, in «Revue Thomiste», 93 (1993), 50-65. ↩︎
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S.Th., I, q. 28, a 1. ↩︎
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S.Th., I, q. 28, a 2. ↩︎
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S.Th., I, q. 29, a 4. ↩︎
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Vita e Pensiero, Milano 1997; dello stesso Autore si veda anche Le relazioni divine secondo S. Tommaso d’Aquino. Riproposizione di un problema e prospettive d’indagine, in «Studi tomistici», 44 (1991), 166-182. ↩︎
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Ivi, 45. ↩︎
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Ventimiglia nota, acutamente, la novità e il coraggio dimostrato dall’Aquinate nel porre e nel dimostrare quest’asserzione, in Q. de pot., q. 9, a 7: «Quidam vero non distinguentes inter unum quod convertitur cum ente, et unum quod est principium numeri, crediderunt e contrario, quod utrolibet modo dictum unum, adderet aliquod esse accidentale supra substantiam; et per consequens omnis multitudo oportet quod sit aliquod accidens pertinens ad genus quantitatis. Et haec fuit positio Avicennae, quam quidem videntur secuti fuisse omnes antiqui doctores. Non enim intellexerunt per unum et multa nisi aliquod pertinens ad genus quantitatis discretae». ↩︎
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In Boet. De Trin., q. 4, a 1. ↩︎
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Cf. G. Ventimiglia, op. cit., 180. ↩︎
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Ibid. ↩︎
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Ivi, 190. ↩︎
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In I Sent. d. 26, q. 2, a 2, ad 2; cf. Q. de pot., q. 3, a 16. ↩︎
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S.Th., I, q. 9, a 7. ↩︎
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Iohannes Damascenus, De fide orthodoxa, I. 3, c. 8 (ed. Buytaert, 291; cit. da G. Ventimiglia, 191). ↩︎
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Lo nota giustamente Ventimiglia, op. cit., 202. ↩︎
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Ibid. ↩︎
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S. Th, I, q. 30, a 3. ↩︎
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Ivi, 205. ↩︎
-
Ivi, 245. ↩︎
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Sollecitato in ciò — nota Ventimiglia — «dal Mistero della Trinità ed aiutato dalla Metafisica e dalla Fisica aristoteliche» (ivi, 294s.). ↩︎
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Ivi, 350. ↩︎
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Ivi, 348. ↩︎
-
In «Verifiche», 3-4 (1988), 349-355. ↩︎
-
Ivi, 348. ↩︎
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V. Vitiello, De tenebris. Trinità teologica e Trinità antropologica in sant’Agostino, in P. Coda — L. Zak (edd.), Abitando la Trinità. Per un rinnovamento dell’ontologia, Città Nuova, Roma 1998, 155-171, qui, rispettivamente, 164 e 162. ↩︎
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EOS Verlag Erzabtei St. Ottilien, 1997. ↩︎
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Citiamo dall’ed. G.W.F. Hegel, Werke in zwanzig Bänden, 5. Wissenschaft der Logik, I, Suhrkanp Verlag, Frankfurt 1969; e, salvo diversa indicazione dalla tr. it. curata da A. Moni, rivista in 2a ed. da C. Cesa, Laterza, Bari 1974 (prima ed. nella «Universale Laterza», 1978); d’ora innanzi WL, col primo n. che si riferisce all’ed. tedesca e il secondo alla tr. it.. Qui: WL, 32; 41. ↩︎
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WL 67; 65. ↩︎
-
Phänomenologie des Geistes, 567; vol. II, 277. ↩︎
-
WL 68; 67. ↩︎
-
WL 17; 10. ↩︎
-
WL 61; 61. ↩︎
-
WL 52; 51. ↩︎
-
WL 49; 47. ↩︎
-
WL 32; 27. ↩︎
-
WL 73; 73. ↩︎
-
WL 74; 74. ↩︎
-
WL 83; 86. ↩︎
-
WL 85; 88. ↩︎
-
Ibid. ↩︎
-
WL 86; 89. ↩︎
-
WL 95; 99. ↩︎
-
WL 113; 121 (tr. nostra). ↩︎
-
WL 115; 124. ↩︎
-
WL 130-131; 143 (tr. nostra). ↩︎
-
WL 150; 167-168. ↩︎
-
Secondo Tommaso, la processione della Persone divine è «ratio et causa» della creazione (cf. S.Th., I, q. 45, a. 6; G. Emery, La Trinité créatrice, Vrin, Paris s.d.). ↩︎
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WL 70; 70. ↩︎
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M. Donà, Sull’Assoluto. Per una reinterpretazione dell’idealismo hegeliano, Einaudi, Torino 1992. ↩︎
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Cf. il nostro Critica illuministica ed ermeneutica romantica della rivelazione, in «Lateranum» 61 (1995), 79-121. ↩︎
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Un altro Autore che sarebbe necessario esaminare, in questo percorso speculativo, è certamente A. Rosmini: cf. il mio La Trinità delle persone come attuazione agapica dell’Essere Uno. Il contributo di A. Rosmini per un rinnovamento della teo-onto-logia trinitaria, in K.-H. Menke — A. Staglianò (cur.), Credere pensando. Domande della teologia contemporanea nell’orizzonte del percorso di A. Rosmini, Morcelliana, Brescia 1997, 251-272. Rosmini, infatti, s’inoltra sul terreno lasciato aperto da Agostino e Tommaso, propiziato in ciò da due fatti: il profilarsi dell’attenzione alla storia della salvezza e l’affermarsi, progressivo, di una sensibilità personalistica e dialogica (indotta dalla rivelazione cristiana). Egli stesso, poi, tenta di disegnare, a partire dalle «viscere della rivelazione» una «metafisica della carità». E ciò interpretando radicalmente l’essere di Dio come atto (il che è già di Tommaso), ma come atto che — nella luce della rivelazione — va essenzialmente compreso come dono-di-sé e cioè amore, secondo l’espressione della 1 Gv (cf. 4, 8ss). In questo senso, secondo il Roveretano la natura divina è per sé tale da «includere necessariamente il concetto di un eterno dare se stesso»: la prima Persona della SS.ma Trinità dà e ha sempre dato tutto alla seconda, «il qual atto di dare è ella stessa, onde ella stessa non sarebbe, se non desse e avesse sempre dato tutto alla seconda» (Teosofia, vol. IV, libro III, cap. IV, art. I, 1320, p. 168). Ne deriva che «in questa costituzione della divina Trinità, nell’operazione del principio si distinguono logicamente, non realmente, due note o condizioni: 1. un dare tutto ad altri; 2. un ritenere tutto, ossia un mettere tutto in atto in se medesimo: di maniera che l’essenza divina, che è nel principio e che viene comunicata, è messa in atto per lo stesso atto pel quale sono messe in atto le divine persone distinte realmente tra loro. Di che risulta, che il dare tutto se stesso al proprio oggetto e all’oggetto amato è quell’atto con cui si costituisce il principio stesso nell’ultima e infinita sua perfezione» (Teosofia, vol. IV, libro III, cap. V, art. V, 1383, p. 252). Basti notare due cose: 1) il linguaggio ontologico e personalogico insieme del «dare tutto se stesso» permette a Rosmini di saldare l’unicità dell’atto d’essere che Dio è e la triplicità delle persone che si costituiscono, appunto, a partire e all’interno di tale atto; 2) in riferimento alle persone, il dinamismo del dono s’esprime nella coincidenza del «dare tutto» / «ritenere tutto», e cioè — secondo il linguaggio di Tommaso — di sussistenza in sé e di relazione all’altro come comunicazione totale di sé. ↩︎
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Cf. G. Lafont, Peut-on connaître Dieu en Jésus Christ?, cit., 229-262. ↩︎
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Per un approfondimento, mi permetto rinviare al mio Mistero trinitario e monoteismo, in «Studia Patavina», 48 (2000), 5-28. ↩︎
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A. Brunner, Dreifaltigkeit, Johannes, Einsiedeln 1976, 24. ↩︎
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Ivi, 25. ↩︎
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Teodrammatica, 5, Jaca Book, Milano 1986, 71-72. ↩︎
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Mi permetto rinviare, in proposito, al mio Dio e la creazione, I., in «Nuova Umanità», XX (1998), n. 115, 67-88. ↩︎
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Si può trovare la formula ex amore nella costituzione pastorale del Vaticano II sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (cf n. 19), e l’analogo in S. Bulgakov, La Sposa dell’Agnello. La creazione, l’uomo e la storia, tr. it., Dehoniane, Bologna 1991 (sul quale cf. il mio L’altro di Dio. Rivelazione e kenosi in S. Bulgako, Città Nuova, Roma 1998); e A. Ganoczy, Suche nach Gott auf den Wegen der Natur. Theologie, Mystik, Naturwissenschaften — ein kritischer Versuch, Patmos, Düsseldorf 1992; tr. it. Teologia della natura, Queriniana, Brescia 1997. ↩︎
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M. Blondel, L’Être et les êtres, Paris, PUF 1963, 311-312. ↩︎
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Teodrammatica, IV, Milano 1986, 302-303. ↩︎
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In Ps. 121, 12. ↩︎