«Potentia dei absoluta» e libertà in Pietro Pomponazzi

1. Il rapporto fra teologia e gnoseologia nelle opere giovanili

L’analisi del rapporto tra la potenza assoluta di Dio e il concetto di libertà in Pietro Pomponazzi richiede, in via preliminare, una riflessione circa il problematico rapporto che la filosofia pomponazziana intesse con l’aristotelismo come suo imprescindibile dato di partenza. Concordiamo con chi riconosce la presenza di forti influssi neoplatonici sull’aristotelismo di Pomponazzi, riteneniamo però, che il neoplatonismo pervenga al Peretto in quella particolare forma attenuata, mediata da Tommaso d’Aquino, che cerca di attuare una sorta di conciliazione fra sfondo aristotelico e teoria della creazione di stampo cristiano.1 I testi di Tommaso d’Aquino risultano, infatti, indispensabili per la concezione del potere causale conseguente all’impostazione neoplatonica che introduce il concetto di una causa prima trascendente rispetto alle cose, nonché la divisione fra cause prime e seconde.2 La riflessione sul concetto di causa prima richiede cosi il superamento dell’identificazione averroistica di cosmologia e noetica, che fa proprio il sostanzialismo metafisico di Aristotele, per recuperare, invece, un concetto di causa efficiente valido come criterio di spiegazione e conoscenza scientifica. Dal punto di vista della cosmologia averroista, infatti, gli atti che muovono i cieli non imprimono loro solo il movimento, ma forniscono la quidditas da cui ciascuno riceva la propria essenza, per questo motivo, il concetto di causalità legato a una visione sostanzialistica e teleologica della realtà ha come conseguenza l’intreccio di causa efficiente e causa finale, che a sua volta comporta il dover considerare il significato e l’essenza di qualsiasi evento oggetto di uno studio scientifico. L’obiettivo di Pomponazzi nel commento al De substantia orbis è invece quello di anteporre via thomae la causa efficiente a quella finale intendendo l’efficienza nel senso della creatio ex nihilo,3 che implicando il rapporto Dio-mondo rimanda al problema riguardante l’onnipotenza divina. A tal riguardo la tesi di un «Deum finiti in vigore» rimane valida solo accettando in toto una cosmologia che, come quella aristotelica-averroista, è tutta mozione e finalità; ma se, come Pomponazzi più volte ribadisce, la causalità esercitata dal primo movente non può limitarsi aristotelicamente all’aspetto motorio-finale e formale, ma deve estendersi all’efficienza nel senso della creatio, allora bisogna attribuirle una perfezione infinita nel vigore e nella durata.4 Del resto l’identificazione della potentia dei ordinata con la realizzazione di fatto della potentia dei absoluta è l’ipotesi euristica necessaria per studiare il mondo della natura senza il ricorso a spiegazioni di carattere metafisico. A tal riguardo lo stretto rapporto fra il piano ontologico e gnoseologico nella filosofia di Pomponazzi nasce dall’esigenza di dare una soluzione al problema dello statuto epistemologico della scientia naturalis, poiché la semplice osservazione dei fenomeni, per quanto approfondita possa essere, non ci dice ancora nulla riguardo le regolarità dei mutamenti che accadono nella realtà fisica. Il tentativo operato da Pomponazzi, per risolvere tale problema, è allora quello di stabilire a livello ontologico l’esistenza di una necessità causale di Dio, che si traduce a livello fisico in una necessità logica che porta a ritenere come valida l’inferenza che da una causa proviene un effetto, per poi stabilire a livello gnoseologico cosa può essere conosciuto dei cambiamenti naturali. Il comune corso della natura dotato cosi di un’evidenza secundum quid, che ne garantisce l’inferenza dalla causa al suo effetto, fa da sfondo ontologico per la ricerca induttiva dei principi su cui poggiano le argomentazioni della philosophia naturalis. Infatti, la presenza di qualche ordine o struttura è la condizione sulla quale posa qualsiasi ricerca induttiva. Se, dunque, il concetto filosofico e scientifico di causalità rappresenta e presuppone l’esistenza di ordine e regolarità, allora l’esperienza perde ogni carattere generale risolvendosi in osservazioni accurate che verificano e corroborano le teorie scientifiche aristoteliche. La questione metodologica, del resto, mette in piena luce le critiche di Pomponazzi all’aristotelismo scolastico per quanto riguarda la scientia naturalis. Nella Quaestio de universalibus si mostra, infatti, come da un punto di vista strettamente gnoseologico la teoria aristotelico-tomista di un universale posto al termine di un lungo processo psicologico, sia sostituita con quella proposta da A. Nifo, per il quale l’intelletto ha una conoscenza diretta dell’individuale anteriormente all’elaborazione del concetto astratto.5 Dunque, se l’astrazione universalizzatrice non è più uno sforzo d’intelligere, cioè di penetrare l’essenza, allora il regressus non può essere ritenuto (come è stato ipotizzato)6 un problema di pura logica senza connessioni esplicite con il campo delle scienze naturali. Infatti, il Peretto mostra come il processo astrattivo non sia altro che l’inventio da intendere come facoltà dell’immaginazione creatrice capace di indicare una spiegazione logica fra le tante possibili, avendo come riferimento le questioni poste in essere dalla philosophia naturalis.7 Nello specifico, Pomponazzi, non ritiene che la certezza della conoscenza scientifica dipenda solo dal passaggio da una demostratio quia o resolutio (che rappresenta il modo comune di procedere nell’investigazione delle scienze naturali, poiché si parte dall’effetto che è sempre più noto della causa che lo produce) ad una nella quale le premesse dimostrative siano date secondo lo schema aristotelico propter quid o compositio (ossia il medoto dimostrativo per eccellenza, poiché per suo mezzo dalle cause si perviene all’effetto, ottenendosi così una cognitio per causas), per evidenziare la dipendenza causale dell’effetto, ovvero il propter quid effectus non manifesto nella prima dimostrazione (quia) .8 In questo senso, la svalutazione di un processo dimostrativo troppo legato agli schemi di una logicità astratta, è dovuto alla consapevolezza del Peretto dell’impossibilità per le cause intenzionali di spiegare i fenomeni naturali, ciascuno caratterizzato da causae propriae.

Nel commento al De anima9 (1503-1504, 1514-1515) e, successivamente e in maniera più radicale nel De partibus animalium (1521-1526), Pomponazzi imposterà un discorso scientifico teso proprio a privilegiare lo studio della realtà naturale come unico contesto nel quale assumono valore la causalità efficiente e finale, poiché «in divinis non est efficiens nec finis, nisi equivoce te non verus». .10 Se è vero, infatti, che ci sono sostanze eterne (Dio, le intelligenze e i corpi celesti) e sostanze naturali è pur indubitabile che le prime non possano essere sperimentate, dato che la conoscenza degli uomini avviene soltanto attraverso ciò che «Deus et intelligentiae non habent»,11 ossia gli accidenti. L’indagine sulle sostanze eterne, infatti, non farebbe altro che collocarci, da un punto di vista gnoseologico, nell’orizzonte di una conoscenza incerta e solo probabile.12 In questo senso il commento al De partibus animalium13 suggerisce come Pomponazzi sul piano della filosofia naturale analizzi la necessità o la non necessità delle relazioni causali e colga la differenza concettuale fra il dominio della fattualità e quello della possibilità. Si giunge cosi alla destrutturazione del sostanzialismo metafisico di matrice aristotelica, che consente di salvaguardare l’idea di una potenza infinita (nel vigore e nella durata) di Dio e insieme la regolarità delle operazioni nell’ordine della natura (dato che ad essere negata, è solo la necessità del ripetersi dell’intervento divino nell’ordine naturale).14 Il problema del rapporto fra fisica e metafisica è poi anche alla base della polemica che Pomponazzi conduce contro il nominalismo dei calculatores. Non bisogna, però, pensare subito che tale polemica sia il segno di un’ostilità nei confronti della razionalità scientifica, si tratta, infatti, solo di limitare l’applicazione estensiva del calcolo proporzionale. Luca Bianchi, nel 400, asseriva che l’Italia divenne uno dei paesi in cui le più originali teorie logiche e fisiche elaborate nel tardo medioevo furono discusse e problematizzate da maestri come Agostino Nifo, Pietro Pomponazzi, Alessandro Achillini, che dedicarono ampio spazio nei loro corsi a tematiche come l’intenzione e la remissione delle forme, le proporzioni e la reazione. Lo scopo di tali corsi era di evidenziare i limiti dell’uso della matematica per evitare che tale strumento servisse per la misurazione di salassi immaginari o di una fantomatica «resistenza gnoseologica».15 A tale proposito Pomponazzi dopo aver steso tra il 1496 e il 1500 un Tractatus de maximo et minimo, e una Quaestio de minimis, nel 1515 diede alle stampe il De reactione in cui criticava pesantemente Swineshead. Bruno Nardi ha poi segnalato che ancora nel suo corso sul VII libro della Fisica, del 1517, Pomponazzi si sarebbe scagliato contro i logici inglesi e i loro epigoni italiani, definendoli come sofisti specializzati in truffe matematiche che non avevano a che vedere nulla con la filosofia.16 Meno drastico il giudizio di Stefano Caroti che giustamente sottolinea come le principali critiche rivolte da Pomponazzi ai calculatores (abuso della matematica, distacco dai dati dell’esperienza, abbandono dell’originario insegnamento aristotelico), che non si discostano da quelle degli umanisti, sono tese a evidenziare più che un abuso della logica, quello della matematica.17 Ciò che a noi interessa è proprio stabilire se gli attacchi sferrati da Pomponazzi ai calculatores possano essere bollati come la manifestazione di uno spirito antiscientifico o se piuttosto non si debba rilevare un’insoddisfazione per un certo modo di fare scienza. Ritenendo fondata quest’ultima possibilità, riteniamo che la distinzione pomponazziana fra verità secundum naturam et secundum imaginationem non comporti un rifiuto del valore epistemologico delle calculationes. Infatti, Pomponazzi continuando ad attingere all’intera eredità della filosofia naturale medievale, inclusi i moderni e i calculatores, non smetterà mai di fare uso dei linguaggi matematici come le proportiones (rapporti), l’intensio et remissio formarum18 (variazioni d’intensità delle qualità), il massimo e il minimo.19

Detto questo, è chiaro che al nostro autore interessa prima di tutto stabilire quale rapporto sussista fra l’immaginario e il reale, poiché è un dato di fatto che la fisica dei martoniani priva la speculazione scientifica di ogni convalida empirica. Stando a quanto detto nel Tractatus de maximo et de minimis e nella Quaestio de minimis per Pomponazzi si tratta di superare l’esperienza immaginaria dei calcolatori che coinvolge il possibile logico, di abbandonare tutte quelle relazioni concettuali che hanno il loro punto di partenza in un reale non attualizzato, per sviluppare un concetto di scienza delle realtà empiriche che non abbia niente a che fare con essenze le cui proprietà sono poi calcolate a priori.20 Del resto anche nel De reactione, come ci informa Stefano Caroti, Pomponazzi fa continuamente ricorso all’autorità di Aristotele e all’esperienza dei moti locali, per affermare come non si possa parlare di reactio se la medesima non si realizza.21

Ma al di là dei richiami all’esperienza e all’autorità di Aristotele e degli aristotelici non bisogna mai perdere di vista che Pomponazzi, come abbiamo avuto modo di evidenziare a proposito del commento al De substantia orbis, si allontana dall’aristotelismo ortodosso di Averroè, e su di un punto fondamentale come quello della potentia dei absoluta. Tale distacco, se da un lato, consente al nostro autore di sganciarsi dall’autorità di Aristotele, dall’altro gli permette di avvicinarsi, alle ipotesi dei calculatores, la cui grave pecca, però, consiste nel rendere la potentia dei absoluta un’ipotesi mistica, la cui postulazione si rende necessaria per procedere oltre i limiti delle possibilità fisiche ammesse come lecite all’interno della filosofia naturale.

È a questo punto chiaro che Pomponazzi cerca di ritagliarsi uno spazio autonomo nel cui ambito elaborare un progetto scientifico più complesso, che come abbiamo già ricordato prevede un legame del regressus con l’inventio per quanto concerne il campo della scienza naturale.

2. Il rapporto fra libertà e potenza assoluta di Dio nelle opere maggiori

Nelle opere maggiori il rapporto tra la dimensione naturale e quella metafisica non subisce svolte concettuali di rilievo, ma si arricchisce di nuovi temi come la naturalità dei miracoli, il rapporto libertà-necessità, che richiedono un nuovo confronto con l’aristotelismo nel tentativo di superare problemi nascenti dal confronto con i temi sopra accennati. Nel De Immortalitate animae (1516)22 il Peretto torna a ribadire che avendo l’anima bisogno del corpo ut obiecto, non può conoscere l’universale astratto, bensì solo contemplare l’universale nel singolare.23 Del resto per qualsiasi tipo di conoscenza, e quindi anche per la conoscenza astratta, l’intelletto si forma sempre delle immagini corporee, per cui esso non conosce e non si conosce mai direttamente, ma nella successione e nel tempo.

Il tipo di conoscenza che non procede per gradi e che si esaurisce nell’intuizione è valido e resta tale se ci poniamo su un piano metafisico, ma dal momento in cui l’agire, e il causare non possono prescindere dalla materia, è chiaro che si dà conoscenza soltanto delle cose singole, su cui l’intelletto, in virtù della sua capacità astrattiva, riflette e discorre.24 La verità, quindi, è che la forma intellettiva inizia e finisce insieme con il corpo e in nessun modo può operare senza di esso, e che per questo l’anima è semplicemente mortale25 anche se odora di immaterialità per la capacità astrattiva del pensiero.26

Lo stretto rapporto fra piano logico e gnoseologico si esplica proprio nella composizione di una gerarchia di attività gnoseologiche cui corrisponde una gerarchia ontologica che si definisce nel rispetto della gradualità della scala naturae. Dio è il principio trascendente la realtà la cui azione si genera dalle intelligenze e si diversifica mediante il movimento delle stelle, mentre l’azione dei movimenti stellari s’individualizza in relazione alla disposizione e la diversità del corpo e della materia.27 Anche se Pomponazzi trae dal testo aristotelico la concezione per cui le funzioni dell’intelletto e della volontà sono attive soltanto in rapporto alla vita sensitiva e organica, bisogna sempre considerare che gli elementi aristotelici sono rielaborati in uno schema di matrice neoplatonica, in base al quale, sono individuate nel De immortalitate animae le caratteristiche peculiari dell’uomo inserito fra le intelligenze celesti e le forme materiali. Tale schema neoplatonico nel De incantationibus (1520) si rende invece necessario per il rafforzarsi della concezione gerarchica28 della causalità tramite cui si stabiliscono i rapporti fra Dio e l’insieme degli effetti naturali. Pomponazzi ritiene, infatti, che tale rapporto sia il frutto della mediazione da parte delle cause prossime o specifiche, che permettono di trovare una spiegazione dei fenomeni senza la necessità di ricorrere alla causa prima. A partire da tale considerazione gnoseologica-metafisica il Peretto, applicando il rasoio di Ockham contro un’eccessiva proliferazione ontologica, ritiene impossibile che menti separate come i demoni e angeli possano influire sui fenomeni naturali.29 In questo senso, anche se a prima vista risultano introvabili spiegazioni razionali dei fenomeni, lo studio attento e meticoloso di certe proprietà dell’anima come la vis imaginationis, nonché delle virtù occulte e del loro interagire con le cause celesti consentirà al ricercatore di venire a capo di questioni scientifiche che sembravano irrisolvibili.30 L’individuazione di cause mediate e ipotesi occulte non riesce, però, a spiegare l’esistenza di alcuni fenomeni irriducibili alla natura e porta Pomponazzi a ricorrere all’astrologismo che, esercitando una funzione livellante le difformità della natura, riesce a salvare i fenomeni dal casualismo di matrice aristotelica. C’è però da dire che nonostante Pomponazzi si affanni a dimostrare la fondatezza dell’influenza astrale non riesce a dimostrarne i metodi, per cui è costretto a rapportarla alla materia variamente disposta. Ma proprio il riferimento continuo alla realtà è la condizione di quella comprensibilità che si manifesta come possibilità di ordinare la totalità delle nostre esperienze mediante l’istituzione di relazioni funzionali ben definite. In questo senso non conta tanto il contenuto concettuale della teoria astrologica proposta da Pomponazzi, piuttosto è importante il collegamento causale che ingloba nel sistema-natura tutti i fenomeni a prescindere dall’esistenza di entità astratte.

Se nel De incantationibus la teoria delle virtù occulte e l’astrologismo dovevano serivire a colmare le pecche della causalità aristotelica, che non si estendeva oltre i moti celesti, nel De fato (1520) lo stesso problema prevederà soluzioni diverse alla luce del rapporto fra libertà e necessità.31 Pomponazzi nel De Fato cerca di individuare le origini aristoteliche della concezione del libero arbitrio proposta da Alessandro di Afrodisia, e arriva alla conclusione che se Aristotele, e insieme con lui i peripatetici si fanno promotori di una concezione che attribuisce alla volontà umana la facoltà di rendere evitabile ciò che per natura non lo è, allora questi stessi si contraddicono.32 Postulare un movimento dall’eterno significa, infatti, condizionare non solo gli esseri naturali, bensì anche gli esseri dotati di volontà.33

A questo punto il Peretto ritiene che Aristotele si sia contradetto là dove, ossia nell’Etica nicomachea, sotiene che la scelta riguardi solo ciò che dipende da noi.34 In realtà, come fa notare Carlo Natali,35 non c’è alcuna discrepanza fra la Fisica e l’Etica Nicomachea, infatti, la deliberazione cui Aristotele fa riferimento non riguarda affatto i fini che sono determinati per l’eternità, ma i mezzi necessari al loro perseguimento.36

In pratica la visione sostanzialistica-orizzontale che si esaurisce entro la medesima prospettiva ontologica, propria della Fisica e della Metafisica aristotelica non è affatto abbandonata nell’Etica Nicomachea, da questo punto di vista già a livello metafisico la concezione pluralistica delle cause permette di pensare un universo come caratterizzato sia in senso deterministico che in senso non deterministico, dato che la molteplicità dei fini permette di fondare elementi di indeterminazione nelle reazioni degli agenti umani. È chiaro dunque, come Alessandro di Afrodisia mostri una maggiore aderenza ai testi aristotelici rispetto a Pomponazzi, la cui prospettiva verticale presupponendo una neoplatonica gerarchia di piani, non ammette la sommabilità dei diversi piani causali. Il ricorso pomponazziano allo stoicismo e al provvidenzialismo riguardo non solo la specie, ma anche il singolare vanno in tal senso sempre inquadrati nell’ottica del suo aristotelismo neo-platonico, tutta la polemica con Alessandro di Afrodisia risponde, infatti, al tentativo di superare un certo aristotelismo ortodosso, le cui mancanze a livello metafisico (rapporto causa prima- mondo), a livello gnoseologico (l’inconsistenza della sola dimostrazione propter quid), erano sempre più evidenti. Lo stoicismo di cui Pomponazzi sembra farsi propugnatore (in particolar modo nel II libro del De fato) contro l’aristotelismo di Alessandro di Afrodisia è allora solo la maschera adottata per affermare una propria concezione filosofica, tale mascheramento, poi è utilizzabile solo perché si giustifica anche storicamente, poiché lo stoicismo è già implicito all’interno della filosofia neoplatonica, per la quale le idee comunicate dalla mente divina alla prima intelligenza altro non sono che forze o meglio ragioni seminali di stampo stoico. In sostanza, l’adesione di Pomponazzi allo stoicismo si giustificherebbe solo se fossimo costretti a mantenerci sul piano di una causa prima considerata come potentia dell’ordinata, a questo livello, infatti, la dottrina deterministica degli stoici sarebbe più coerente rispetto a quella di Aristotele, ma è la distinzione fra provvidenza e fato a tradire la prospettiva di un’adesione alla filosofia stoica. Infatti, se la provvidenza è la razionalità fondata in Dio, che tutto ordina, e il fato è il medesimo ordine, considerato, però dal punto di vista del mondo, allora il modo in cui si attua il destino, ossia per mezzo di entità differenti, intermedie fra Dio e l’uomo, porta ad escludere ogni sorta di immanenza della causa prima di origine stoica.

A questo punto, confutata la dottrina aristotelica, l’unico modo per far coesistere provvidenza e libero arbitrio, è inizialmente offerto dal Boezio della Consolazione della filosofia, per il quale Dio precorre nella sua mente la totalità del tempo, e per tale motivo, i risultati delle scelte future, che alla conoscenza umana appaiono contingenti, per la mente divina che le contempla nella modalità dell’eterno presente, hanno carattere necessario.37 Per Boezio, dunque, è assurdo pensare a una determinazione del futuro ad opera della prescienza di Dio, perché tutto avviene alla sua presenza in un eterno presente, sia ciò che accade in seguito ad una necessità, sia quello che accade come conseguenza del libero arbitrio; Dio vede allo stesso modo sia il risultato necessario delle leggi fisiche, sia gli accadimenti dovuti alla volontà dell’uomo. Certo, quello che Dio sa che deve avvenire, avviene; ma questo sapere di Dio è un sapere del presente, non una determinazione del futuro, per questa ragione la libertà del volere degli uomini è salvaguardata, nonostante sia contemplata da Dio.

La soluzione di Boezio sembra rendere compatibili provvidenza e libero arbitrio, infatti, da una parte ogni cosa si conosce sempre in relazione alla sua natura di cosa conoscibile, dall’altra parte la conoscenza di Dio non è mai ambigua o in potenza, purchè, avverte Pomponazzi, ogni cosa sia considerata neo-platonicamente secondo il suo grado di realtà.38 La solutio di Boezio trova poi una correzione in virtù di un’innovazione apportata da Tommaso per cui accanto alla boeziana conoscenza del futuro ut praesens, alla mente divina è insita anche la conoscenza del futuro in suis causis, ossia del futuro non ancora prodotto nelle sue cause, e quindi nella sua contingenza. Tale dottrina di stampo cristiano nonostante sia l’unica vera, genera secondo Pomponazzi delle obiezioni circa il fatto che se Dio considera il fututo contingente in quanto futuro contingente, sa solo che esso accadrà in modo contingente, non può quindi, essere certo di nessuna delle due alternative contrapposte, poiché in tal modo supererebbe la natura del futuro contingente.

Sul piano della potenza assoluta coerenza vorrebbe che Dio conoscesse il futuro fuori delle sue cause, ma in questo caso la facoltà di peccare e non peccare non sarebbe in potere dell’uomo, ma si risolverebbe in una determinazione divina.39 Le mancate soluzioni alle pesanti obiezioni cui i tentativi concordistici fra libertà e libero arbitrio sembrano condurre portano Pomponazzi ad aderire nuovamente alla tesi stoica, per cui tutto accade fatalmente, sotto la spinta di una concatenazione causale indissolubile imposta da Dio.40 Gli stoici, infatti, consapevoli dell’incompatibilità della provvidenza e del libero arbitrio, negavano il libero arbitrio se con esso andava comunemente intesa la possibilità per l’uomo di produrre un’azione senza essere mossi dall’esterno. L’adesione alla tesi di un Dio come potenza assoluta, alla maniera dei cristiani, avrebbe comportato, del resto, troppe contraddizioni; oltre a quella già esaminata di una provvidenza divina, che considera il futuro come contingente, bisogna considerare altre incongruenze come la possibilità dell’uomo di errare (nonostante Dio fosse in potere di dissuaderlo), la presenza di continue tentazioni cui l’uomo è esposto, quasi che Dio volesse indurlo al peccato, e più in generale la questione del male, che Dio sembrava non voler contrastare.41 Dunque, se da un lato, ovvero riguardo la potentia ordinata, la dottrina di Aristotele è incoerente poiché si fa promotrice di un insostenibile connubio tra libero arbitrio e necessità della specie, dall’altro lato, ossia dal punto di vista della potentia absoluta, la dottrina cristiana propone un Dio che può, ma che senza una ragione precisa non vuole; dunque per ragioni di coerenza è preferibile la posizione che sul rapporto fra provvidenza e libero arbitrio era stata avanzata dagli stoici.42 Ancora una volta la soluzione stoica ammessa dalla ragione come la più razionale, non è affatto quella definitiva, tant’è che Pomponazzi nel terzo libro43 del De fato cerca costantemente di stabilire un legame tra la conoscenza contingente e causa universale, introducendo rispetto alla concezione della provvidenza formulata da Tommaso d’Aquino il riferimento al tempo reale;44 per cui la conoscenza divina del futuro ut futurum, come conoscenza dell’evento nelle sue cause, è definita tenendo conto della concreta temporalità.45 Dio, infatti, conosce gli atti umani prima che avvengano e li conosce prima e dopo il loro svolgimento, sempre tramite un unico sguardo, ma in modi diversi a seconda delle diverse circostanze .46 Infatti, la conoscenza degli atti futuri in quanto futuri non comporta anche la loro determinazione, poiché ogni atto di conoscenza fa sempre riferimento alla natura della cosa conosciuta .

Dunque, poiché gli atti, in quanto futuri, sono contingenti e indeterminati, Dio li conosce come contingenti, e sa solo ciò che concerne li loro accadere o meno.47 In tal senso quando Dio conosce Socrate, sa solo che potenzialmente potrà peccare e non peccare, non conosce nella sua eternità anche l’atto del peccato nel momento in cui esso è in atto. Ma a Dio non è da attribuire soltanto la conoscenza del tempo dal punto di vista del futuro, bensi anche quella riguardante il tempo in cui un accadimento avviene fuori delle sue cause, in questo secondo senso la sua conoscenza non è più in potenza, ma determinata.48 Il risultato di tale modo di procedere mette capo a una concezione della prescienza divina essendo certa o incerta secondo le diverse parti del tempo. Dio, infatti, conosce in modo contingente che Socrate peccherà, ma in relazione alla conoscenza del futuro, che fa invece riferimento alla sua eternità, «vede» determinatamente le sue colpe, in quanto contiene in atto il tempo in cui egli peccherà.49 Pomponazzi riesce così a riabilitare il concetto di contingenza che pure aveva negato nel primi libro del De fato a seguito della polemica con Alessandro di Afrodisia, riconducendolo alla stessa conoscenza divina, ragion per cui è lo stesso Dio a fondare la possibilità di una libertà, non da intendersi come scelta del male quale movente della propria azione, ma come libertà della volontà di non esprimere il proprio assenso al bene che l’intelletto le prospetta.50 La contingenza, in Pomponazzi, non è dunque garantita da un limite intrinseco della conoscenza umana o dalla potenza divina, bensì da una sorta di loro volontario ritrarsi.51 La soluzione che lega l’eternità di Dio in rapporto alla contingenza temporale, non va, però, interpretata come un’adesione formale alla teologia cristiana, poiché tale ipotesi giustificherebbe il luogo comune storiografico che toglie ogni spessore speculativo agli ultimi tre libri del De fato, ritenendoli l’espressione di un puro esercizio dialettico. In realtà, il Peretto ponendosi nella prospettiva della potentia absoluta,52 come confermato anche dal commento al De substantia orbis di Averroè, cerca di razionalizzare la dottrina cristiana della creazione ex nihilo, tramite la filosofia di Scoto mediata da quella di Tommaso d’Aquino.53 Infatti, come nel De substantia orbis, anche nel De fato si attua il passaggio dalla metafisica tomista, per cui l’atto dell’essenza non è più la forma (si supera in tal senso Aristotele) ma l’esistenza, alla metafisica di Scoto, che considerando la nozione di essere solo nel suo ultimo grado di astrazione, quello in cui si applica in un solo e unico senso a tutto ciò che è, consente la fondamentale distinzione fra essenza ed esistenza, da cui proviene l’idea fondamentale di un mondo autonomo rispetto all’opere del creatore. Pomponazzi, però, non accetta in pieno il volontarismo di Scoto (non pensa mai di cancellare ogni distinzione tra l’intelletto di Dio e la sua volontà), per cui la volontà completamente libera si opporebbe all’attività naturale dell’intelletto, anzi accetta la tesi tomista della cooperazione fra intelletto e volontà già formulata nel De immortalitate animae,54 (poiché l’intelletto detiene comunque il primato rispetto alla volontà, perché rappresenta il legame dell’uomo al sistema di causalità che discende da Dio e prospetta all’uomo sempre il bene), e in considerazione della distinzione metafisica di Scoto fra essenza ed esistenza, ammette una distinzione formale fra intelletto e volontà, per cui quest’ultima ha la possibilità di non esprimere il proprio assenso al bene prospettato dall’intelletto.55 Se, infatti, la distinzione fra essere ed esistenza comporta un’autonomia della natura dal proprio creatore, allora una relativa autonomia si prospetta anche per le volontà umana, che è formalmente distinta dall’intelletto; del resto una distinzione reale56 fra intelletto e volontà prospettata «via fidei» non solo sarebbe risultata assolutamente contraria alla filosofia aristotelica, ma avrebbe riproposto tutte le obiezioni ai tentativi concordistici di libertà e provvidenza avanzate nel secondo libro del De fato dalla lex cristiana.

In conclusione possiamo affermare che l’abitudine pomponazziana di rilevare di continuo contraddizioni interne a dottrine filosofiche accredidate senza che la loro validità fosse stata prima accertata, non risponde ad alcun virtuosismo dialettico, piuttosto è il tentativo di applicare quel metodo squisitamente filosofico condensato nelle formula «Docebo vos dubitare» che Pomponazzi non si stancava mai di ripetere ai suoi allievi.


  1. Tanto Garin quanto Kristeller e Fiorentino, invece, circoscrivono l’aristotelico Pomponazzi sotto l’influsso di Ficino. Si veda E. Garin, Pietro Pomponazzi e l’aristotelismo del Cinquecento, «Nuova antologia», LXXIX, 1944, pp. 28-30, P.O. Kristeller, Aristotelismo e Sincretismo, Firenze, 1983 p. 13 e Francesco Fiorentino, Pietro Pomponazzi. Studi storici su la scuola bolognese e padovana del secolo XVI, Firenze, 1868, p.175.Dello stesso avviso C. Innocenti, Una fonte neoplatonica nel De incantationibus di Pietro Pomponazzi>: Marsilio Ficino, in «Interpres», XV, 1995-1996, p. 447. Cfr. ancora F. Graiff, I prodigi e l’astrologia nei commenti di Pietro Pomponazzi, al De Caelo, Alla Meteora e al De generazione « Medioevo», II, 1976, p. 336. Di diverso parere Vittoria Perrone Compagni per la quale Pomponazzi ha sempre presente il concetto aristotelico di una scala naturae. Si veda Vittoria Perrone Compagni, Critica e riforma del Cristianesimo nel De fato, in P. Pomponazzi, De Fato, Nino Aragno editore, 2004, p. CXLVI. La tesi di un aristotelismo di stampo neoplatonico è stata invece sostenuta da Giancarlo Zanier, La biologia teoretica nel pensiero pomponazziano, in Itinerari dell’aristotelismo cinquecentesco, a cura di Id, D. Facca, Roma, 1992, p. 117 e da Rita Ramberti, Il problema del libero arbitrio nel pensiero di Pietro Pomponazzi, Firenze, 2007, pp. 270-275. ↩︎

  2. P. Pomponazzi, Expositio de substantia orbis, a cura di Antonino Poppi, Padova, Antenore, MCMLXVI, p. 131. ↩︎

  3. Ivi, pp. 128,129. ↩︎

  4. Ivi, p. 132, dove si dice: «[…] Ad argumentum formaliter respundetur quod caelum habet infinitam operatione secundum apitudinem, quare argumentum concludit quod si aliquod activum potest movere aeterno tempore, ergo te passivum». Cfr invece Antonino Poppi, Causalità e infinità nella scuola padovana, Padova, MCMLXVI, p. 198. Poppi parla di un’efficienza in Pomponazzi tutta da determinare ritenendo che aristotelicamente l’efficiens sia un principium unde motus, da materia precedente o da un modo d’essere potenziale a un altro, e che dunque non abbia carattere emanativo. Franco Graiff invece parla invece di un’infinita perfezione della causa prima in Pomponazzi ricavando da alcune reportationes la vicinanza di Pomponazzi alla tradizione platonica. Si veda Franco Graiff, Aspetti del pensiero di Pietro Pomponazzi nelle opere e nei corsi del periodo bolognese, « Annali dell’Istituto di filosofia, Università di Firenze», Facoltà di lettere e filosofia, I, 1979, pp. 84-89. ↩︎

  5. P. Pomponazzi, Quaestiones phisicae et animisticae decem, Quaestio de universalibus, in Corsi inediti dell’insegnamento padovano, e A. Poppi, Padova, 1966-70, p. 127, dove si dice espressamente «[…] tenendo Gregorium Arminesem in I Sent., in proemio, vel in dist. 3 eiusdem I. Dicit enim ipse quod illud quod primo imprimitur ipsi intellectui est ipsum singolare, et homo non cognoscitur directe sed per discursum et per collocationem intellectus, non quidem a re immediate sed mediate. Imprimitur enim primo singulare in mente et ab ipso sumitur similitudo essentialis quae reperitur in omnibus eiusdem rationis, et ex ista similitudine essentialis reperta causatur universale sic, scilicet quod immediate a similitudinem essentialis mediate autem a re. « ↩︎

  6. Antonino Poppi, Saggi sul pensiero inedito di Pomponazzi, Padova, 1970, pp. 109,123. ↩︎

  7. Si veda Valeria Sorge, Me autem vellent comburere… La questione dell’oggetto in Pietro Pomponazzi, in Oggetto e spazio. Fenomenologia dell’oggetto, forma e cosa dai secoli XIII-XIV ai post-cartesiani, Atti del convegno (Perugia, 8-10 settembre 2005), a cura di Graziella Federici Vescovini e Orsola Rignani, Firenze, 2008. ↩︎

  8. P. Pomponazzi, Quaestiones phisicae et animisticae decem, Utrum detur regressus, in Corsi inediti dell’insegnamento padovano, Padova, 1966-70, p. 165. Si propone l’analisi dai fenomeni osservati alle cause generali, e poi la sintesi che ci riporta dalle cause generali agli effetti. P. O. Kristeller ritiene che Pomponazzi non abbia contribuito in modo significativo allo sviluppo della scienza moderna, intesa come scienza sperimentale. Si veda P. O. Kristeller, Aristotelismo e sincretismo nel pensiero di Pietro Pomponazzi, Editrice Antenore, Padova, MCMLXXXIII, p. 18. Non siamo dello stesso parere, perché se è vero che Pomponazzi non può essere considerato il predecessore di Galileo Galilei è pur vero, come si evince dal commento al De partibus animalium, che il concetto di scienza è più articolato di quello che si pensi. Pomponazzi identifica la scientia con la «cognitio rei» e la peritia con la «cognitio modo tractandi», ossia con il metodo che può essere «in universali et in particolari», l’ambito dell’universale pertiene alla logica quello del particolare alla filosofia naturale. Si veda P. Pomponazzi, Expositio super primo et secondo De partibus animalium, a cura di Stefano Perfetti, 2004 , cit., pp. 15-16. Pomponazzi contesta ad Aristotele la mancanza dell’attestazione diretta dei fenomeni, la scienza, invece, parte proprio del mondo naturale per occuparsi della materia fisica e sensibile, di moventia mota, per giungere a rintracciare le cause efficienti e finali e del venire al essere delle cose. Si veda Ivi, lectio vigesima septima et octava, op. cit., pp. 301-305. Il problema, come ammette Pomponazzi, è quello di avere esperienza in tutti i campi del sapere, ma ciò è impossibile poiché solo «Christus cognoscat omnia animalia». Si veda Ivi, lectio duodecima, cit., p. 215. Da tale problema secondo Bruno Nardi deriva il rinnovamento della scienza moderna. Si veda B. Nardi, Saggi sulla cultura veneta del Quattro e Cinquecento, Antenore, Padova 1971, p. 52, nota 1. Bisogna, però, mettere in rilevo che lo stesso Kristeller, riferendosi ad un commento di Pomponazzi pubblicato dal Ferri, sostiene che Galileo Galilei doveva aver conosciuto la discussione del Peretto intorno la nobiltà della scienza che dipende dalla certezza del suo metodo e non dalla nobiltà del suo oggetto. Si veda P. O. Kristeller, Aristotelismo e sincretismo nel pensiero di Pietro Pomponazzi, op.cit., p. 21, nota 64. ↩︎

  9. Pomponazzi esprime chiaramente la tesi che la psicologia non abbia nulla a che fare con la metafisica, ma solo con la filosofia naturale. Certamente l’anima razionale ha una duplice natura e occupa una posizione intermedia fra le sostanze eterne e quelle non eterne. Ma se un Agostino Nifo giustificava la divisione della psicologia in filosofia naturale e metafisica accettando una differenza generica fra le parti dell’anima, per Pomponazzi in un composto non possono esserci più forme sostanziali realmente distinte, bensi solo una che possiede una pluralità di virtù. ↩︎

  10. P. Pomponazzi, Expositio super primo et secondo de partibus animalium, op.cit., cit., p. 49. ↩︎

  11. Ivi, lectio octava decima, cit., p. 101. Si fa notare come la conoscenza dell’uomo avvenga per «saltim iniziative», proprio a mettere in rilievo il salto concettuale necessario per concepire come reali strutture e operazioni diverse da quelle del cosmo aristotelico. ↩︎

  12. Ivi, p. 102. ↩︎

  13. Ibidem. ↩︎

  14. Solo considerando in Dio un infinito in vigore oltre che nella durata possiamo giustificare, — si veda il commento al De partibus animalium —, una causalità valida solo per il mondo naturale, che è in divinis solo per omonimia. ↩︎

  15. Luca Bianchi, Fra Ermolao Barbaro e Ludovico Boccadiferro: Qualche considerazione sulle trasformazioni della «Fisica medievale» nel Rinascimento italiano, «Medioevo», II, 2007, pp. 348-351. ↩︎

  16. « Et ubi Aristoteles in hoc loco fuit parcus, Entisbery in suo tractatu et Calculator fecerunt de hoc magnus tractatus. Aristoteles enim dimisit hec, quia ille compositions et ille truffe spectant ad mathematicam: et calculators latenter vincunt philosophos; interponunt enim geometricalia. Sed philosophus, ut philosophus est non se intromittit ad hec. Et isti calculators sophiste appellantur; quare non se debent intromittere in philosophia, sed in geometria», cit., in Bruno Nardi, Saggi sull’aristotelismo padovano dal secolo XIV al XVI, Firenze, 1958, p. 112. Si vedano anche le discussioni di argomento calcolatorio citate dal Nardi fra Pomponazzi, Gerolamo Donati e Alberto Pio. Cfr. Bruno Nardi, Studi su Pietro Pomponazzi, Firenze, 1965, pp. 55-59; 61-63. ↩︎

  17. Stefano Caroti, Pomponazzi e la reactio. Note sulla fortuna del pensiero oxoniense e parigino nella filosofia italiana del Rinascimento, in G. Federici Vescovini (cur.), Filosofia e scienza classica, arabo-latina medievale e l’età moderna, Fidem, Louvain-la-Neuve, 1999, pp. 261. Raimondi sottolinea giustamente le dure critiche di Pomponazzi ai mertoniani, ma come il Nardi tende a evidenziare troppo il distacco ( che pure esiste) tra Pomponazzi e i calculatores. Si veda F.P. Raimondi , Il Pomponazzi e la tradizione calculatoria in Italia, «Bollettino Stor. Filosofico», II (1993-1995), pp. 53-94. ↩︎

  18. Si veda Fabio Zanin, Matematica e nuova fisica del Trecento. Le leggi del moto e il significato di «natura», «Medioevo», XXXIII, 2008, pp. 150, dove si dice « La fisica del Trecento, sviluppata tra il merton College di Oxford (1320-1350) e la facoltà delle arti di Parigi (1350-1380), fu nuova non tanto perché applico la geometria delle proporzioni alla fisica, mutando l’approccio dello studio della natura rispetto a quello di Aristotele, quanto perché quell’applicazione produsse risultati che limitarono la validità almeno di uno dei principi fondamentali della filosofia naturale aristotelica « Tutto ciò che ha un inizio deve necessariamente avere anche una fine». Appare così opportuno adottare un atteggiamento diverso dal passato nei confronti della fisica matematica del tardo medioevo , per comprendere quale apporto originale abbia dato alla storia della scienza e della fisica in particolare : guardare agli effetti che l’applicazione della matematica ebbe sulla filosofia naturale aristotelica, che nessuno rifiutò allora esplicitamente, e tralasciare la questione di quali siano stati i paradigmi di riferimento ( in prevalenza, di tipo platonico o neoplatonico) che indussero a effettuare quell’applicazione. ↩︎

  19. Si veda Luca Bianchi, Le scienze nel Quattrocento. La continuità della scienza scolastica, gli apporti della filologia, i nuovi ideali di sapere, l’influsso dei «parigini» e dei «mertoniani», in Le filosofie del Rinascimento, a cura di Cesare Vasoli, Mondadori, Milano, 2002, p. 100, dove si dice: «In secondo luogo pensatori inglesi come Burley, Bradwardine, Swineshead, Heytesbury, Dumbleton- abitualmente detti mertoniani, perché legati al Merton College di Oxford- avevano creato un’originale tradizione di ricerca basata sull’uso di strumenti logici, sematici e matematici. Principale obiettivo di tale tradizione era di spostare l’attenzione del filosofo naturale dal mondo al discorso su di esso e in particolare, di sottolineare la necessità di una rigorosa analisi del modo, spesso ambiguo e incoerente, in cui si dispiegano i concetti di “movimento”, “istante”, “inizio”, “fine”. Si sviluppò così una composita letteratura, costituita di trattati, di sophysmata physicalia e di calculationes, che si serviva di particolari “linguaggi di misura”: il linguaggio dei rapporti (proportiones); i linguaggi dell’infinito, del continuo, e dei limiti (de primo et ultimo instanti, de maximo et minimo, de incipit et desinit); il linguaggio dell’incremento e del decremento delle qualità (de intensione et remissione formarum), espressione del tentativo, poi originalmente ripreso a Parigi da Oresme, di “quantificare le qualità”.». ↩︎

  20. Pietro Pomponazzi, Tractatus de maximo et minimo ad Laurentium Molinum, in Corsi inediti dell’insegnamento padovano, op. cit., pp. 226-229, in particolare 228, dove si dice : «Sed quod ista opinio ex toto non satisfacit, probatur, quia ponit dari maximam tarditatem, et per consequens minimam proportionem a qua potest provenire. Illud autem probatori esse falsum, quia secundum Aristotelem, [154v] VI Phys., t.c. 86, quanto spera est propinquior cancro, tanto tardius movetur; et in VIII iusdem, t.c. 84, dicit quod circulus aequinoctialis velocissime movetur, quia est maximus circulus Et Averroes in summa libri Metheororum, in secunda parte contra Ptolomaeum et Avicenna arguens, dicit quod existens prope potos habent intensi frigus, quia illae partes caeli ibi tardius moventur. Cum igitur in infinitum appropinquet aliqua pars polo, igitur in infinitum tarde movetur aliqua pars, et per consequens non datur minima proportio a qua potest provenire motus. Confirmatur, quia in infinitum parvum circulum in una die naturali describit aliqua pars caeli, sed velocitas motus locali habet attendi penes spatium de scriptum rectae (?); igitur de facto in infinitum tarde movetur aliqua pars. […] Sed quantucumque illa responsio sit una fuga, tamen insto fortissimo argumento, quod sic dicentes destruunt Aristotelem et Commentatorem, nam VI Phys., t.c. 15, habent quod omne quod movetur quocumque motu contingit velocius et tardius moveri, ergo non datur neque maxima tarditas, neque maxima velocitas, quia tunc illud quod sic moveratur non posset velocius et tardius moveri, et sic non datur maxima vel minima proportio a quibus possit provenire motus. Et Averroes ibi, dominus Albertus, beatus Thomas et dominus Egidius dicunt quod motus ut motus est velocitabilis in infinitum et tardabilis.». Si veda anche P. Pomponazzi, Quaestio de minimis, in Corsi inediti, op. cit., pp. 246-251, in part. p.246, dove si dice: «Si tu dices quod non erit motus saed subita mutatio tunc, cum quamlibet mutationem preceda alteratio, sequeretur quod chic precederei ali qua alteratio quam non video.Praeterea , sequitur quod aer movebitur localiter in istanti; nam aer circumdans illud quod condesatur, tunc quando illud condensatur, aer aut sequitur immediate aut mediate; si primo modo, tunc cum illa condensatio sit in istanti, motus localis erit in instanti; si mediate, cum inter illud quod condensatur et aerem non si sit aliquod corpus medium, sequetur quod daretur quod daretur vacuum.». ↩︎

  21. «Quarta autem conclusio fuit: nullo modo sive inter aequalia reactio est possibilis secundum qualitates eiusdem contrarietatis et secunsum easdem partes. Mirum autem est de his doctissimis viris quod magis rationi quam sensui adhaerent, cum tamen Aristoteles tertio De generatione animalium capite nono ad finem dicat quod magis sensui quam rationi credendum est, rationi etiam fides adhibenda est si quae demostrantur convenient iis quae sensu percipiuntur rebus. Et octavo De physico auditu textu commenti 28: quaerere rationem et dimittere sensum arguit imbecillitatem intellectus, experimentum enim sermonum vero rum est ut concordet sensatis. Modo sensui manifestum est reactionem esse, hacque dempta auferuntur naturalia, immo totus ordo generabilium et corruptibilium destruitur, quod manifeste apparet…Docet namque Aristoteles in fine repatiatur, tunc erit generatio et non mixtio; si vero superet et superetur, tunc fit mixtio. Hoc autem accipit Aristoteles tamquam sensui manifestum; unde, etsi ali qua ratio ad hoc adduci potest, firmitatem tamen habebit ap ipso sensu, unde istud potest raziocinante colligi ex causa finalis, quia si debet fieri mixtio, necessarium est reactionem fieri secundum easdem qualitates, sed mixtio est necessaria, ergo etc. Modo minor in hac argumentatione est accepta per sensum. Verum istos viros neque sensus neque ratio neque auctoritas ali qua movet, sed solum sibi ipsis credunt, inhaerentes suis phantasticis imaginationibus.», in Stefano Caroti, Pomponazzi e la reactio, op. cit., p. 276, nota 41. ↩︎

  22. Nel nono capitolo de De immortalitate Pomponazzi definisce l’anima «simpliciter mortali et sucundum quid immortalis» sulla base della lettura del De anima. Andrew H. Douglas rilevò che la posizione di Pomponazzi contro l’immortalià dell’anima si può ricavare dalle riflessioni di Tommaso d’Aquino, basate sulla gnoseologia aristotelica, insistenti sulla teoria dell’anima forma corporis in opposizione al dulismo degli avvertisti parigini. Pomponazzi utilizzerebbe (nel commento al De anima del 1514) l’argomento filosofico di San tommaso come arma contro Averroè e gli Averroisti, per poi colpire (nel De immortalitate animae 1516) il San Tommaso teologo, che distorcendo il testo di Aristotele afferma l’unità dell’uomo secundum quid. Si veda A. H. Douglas, The philosophy and psicology of Pietro Pomponazzi, ed. by C. Douglas- R.P. Hardie,Cambridge, 1910, pp. 55-56. ↩︎

  23. Pomponazzi nei commenti al De anima (1503- 1504) esprime chiaramente la tesi che la psicologia non ha nulla a che fare con la metafisica, ma solo con la filosofia naturale. Successivamente Pomponazzi ribadisce, approfondendolo, tale concetto nei commenti al De anima del 1514-1515 e nel commento al De partibus animalium (1521-1524). Proprio nel commeto al De partibus animalium (dove più chiaramente risulta che lo studio dell’anima si accorda in tutti i suoi aspetti al dominio della filosofia naturale) Pomponazzi ribadisce la famosa definizione dell’anima come la prima attualità di un corpo naturale. Questa formula è importante poichè chiarisce, secondo Pomponazzi, come l’anima umana sia definita dalle sue relazioni con il corpo. ↩︎

  24. Ivi, p. 105. ↩︎

  25. Stefano Perfetti sottolinea come le reiterate dichiarazioni di dubbio, del tipo «Sed in ista materia vellem esse scolari set habere qui me doceret […] in hac materiam dicam […] unum de certo, scil, quod non intelligo et quod sum perplexus» non sono che metafore che non inficiano, ma evidenziano l’affermazione della legittimità dell’intepretazione mortalista. Si veda Stefano perfetti, «An anima nostra sit mortalis». Una quaestio inedita discussa da Pietro Pomponazzi nel 1521, «Rinascimento», II s, XXXVIII, 1998, p. 222, 223. Sul valore della metafora in Pomponazzi si veda Paola Zambelli, La metafora è conosciuta solo da chi fa metafora. Pomponazzi, Bessarione e Platone, «Nouvelles de la Republique des Lettres», 1991, 2, pp. 82-88. La studiosa fa notare come il metodo filosofico di Platone apprezzato da Pomponazzi, sia posposto a quello di Aristotele. ↩︎

  26. Ibidem. In questo senso la capacità astrattiva del pensiero va considerata come il limite regolativo indicante ciò che a livello gnoseologico ci è precluso. ↩︎

  27. Ivi, p. 193. ↩︎

  28. Non siamo dello stesso avviso di Franco Graiff, quando questi ritiene che l’universo magico di Ficino sia il modello dal quale attinge a piene mani Pomponazzi: si pensi solo al fatto che il progetto di magia naturalis in Ficino si incontra con quello della ricostruzione della prisca sapientia e della prisca theologia. Certamente sono considerevoli gli apporti ficiniani, ma essi sono dal Pomponazzi sradicati dal loro contesto naturale e calati in un ambito più strettamente naturalistico. Assumendo come substrato filosofico la dottrina delle idee di Platone, Ficino parte dall’ammissione del mondo intelligibile e del mondo sensibile: lì le idee, qui la materia. Diviene necessario, allora, postulare l’esistenza di un termine medio che funga da tramite tra i due mondi, ossia l’anima del mondo, in quanto essa contiene gli intelligibili che poi riflette sul sensibile. E’ questo il procedimento che conduce Ficino alla dottrina dello Spiritus mundi, ossia dello spirito come soffio impalpabile che pervade tutte le cose e istituisce il collegamento fra intelletto e materia, fra mens divina e mens umana. La magia studia come governare gli «influssi» dello spiritus sul mondo corporeo, avvalendosi di talismani e oggetti particolari. Siamo, dunque, sul piano della magia auricolare e incantatoria, che poco ha di naturale se confrontata con quella di Pomponazzi. Il nostro autore, infatti, non ha bisogno di ipotizzare un legame tra il piano metafisico e quello materiale, il suo universo, infatti, non è costruito organicamente, bensì gerarchicamente, poiché non c’è un rapporto di ‘simpatia’ che lega i diversi piani, ma una serie di nessi che tengono uniti due piani intesi come ontologicamente diversi. Non sempre la distinzione tra i piani è facilmente individuabile: per esempio, nel caso delle apparizioni dei santi, Pomponazzi ritiene che ciò che esiste sulla terra diffonda le immagini e le specie nell’aria fino al cielo, e che come uno specchio quest’ultimo le rifletta nuovamente sulla terra. Risulta chiaro, allora, in che modo egli spieghi, negli Incantesimi, l’apparizione dell’immagine di san Celestino: i vapori concretizzano la specie di san Celestino, imprimendo una figura a lui simile nell’aria sia in modo reale che spirituale. Dunque, solo in apparenza l’universo è inteso organicamente come una commistione di fisico e metafisico. In realtà a rivestire un ruolo fondamentale sono le concause fisico-astrali, per cui ci troviamo nel contesto gerarchico di una causalità in cui neanche le preghiere hanno senso, in quanto Dio e le intelligenze non causano direttamente le mutazioni della materia. Le modificazioni della realtà sublunare, soltanto custodite dalle intelligenze, sono attuate dalle influenze astrali che imprimono le virtù occulte, producendo a loro volta effetti diversificati a seconda della composizione psico-fisica del soggetto. ↩︎

  29. P. Pomponazzi, Gli Incantesimi, a cura di C. Innocenti, Firenze, 1997, pp. 32-33. ↩︎

  30. Ivi, pp. 100-101,112-113, in particolare p. 113, dove si dice espressamente: «In secondo luogo, se i vati conoscono solamente in relazione al moto locale, allora, potendo il moto locale essere prodotto anche dai corpi celesti ed essere causato in queste cose inferiori e nella potenza dell’intelligenza (infatti, soltanto il corpo celeste è motore mosso e strumento), perché sarebbe necessario porre tali spiriti, tanto buoni quanto cattivi, dal momento che senza di loro possiamo spiegare queste cose, come insegna il filosofo? Che se dice che l’intelligenza che muove il cielo non è nel vate, mentre lo è lo spirito, allora la similitudine non regge. Inoltre si domanda in che modo lo spirito è nel vate: come sua forma, attraverso cui il vate è un uomo, o come motore nel mosso, nient’altro, infatti, può essere verisimilmente pensato. Non è il primo caso, perché è semplicemente impossibile; così, infatti, potremmo dire che l’uomo è uomo per la forma del leone, anzi di più, essendo l’uomo più vicino a un leone in carne ed ossa che a un demone incorporale; se pure le due ultime forme specifiche si trovassero in un medesimo vate, ci si troverebbe anche il demone o l’angelo, affermazioni queste che non solo sono false, ma anche profondamente ridicole. Rimane, dunque, che il demone sia nel vate come un motore nel mosso, ma si dice che il motore è nel mosso perché il motore è presente quando lo muove, potendo però il cielo muovere queste cose inferiori, si dirà allora che il cielo è nel vate e soprattutto nella sua intelligenza, nella virtù che è mossa dal cielo. Ma forse ancora si obietta contro quest’argomento che lo spirito usi del vate in questo modo, che perché il vate non parli non è sufficiente che lo stesso vate sia mosso dall’angelo a dal demone, ma è necessario che venga toccato, e non toccando l’intelligenza il vate, mentre lo spirito così tocca il vate, ne segue che il vate mosso dall’intelligenza non proferisce parola, mentre mosso in questo modo dallo spirito parla. Certamente questo non par detto in modo sensato: in primo luogo è difficile capire che così ci sia contatto, se non virtuale, come anche il magnete che altera il ferro, per quanto lontano sia, lo tocca in modo virtuale […] Perciò considerato ancora che ci sia qualcosa che muove il vate, questa cosa deve trovarsi nel vate secondo un qualche modo d’essere che non è stato ancora individuato da questi […] i vati hanno queste proprietà come causa efficiente, per disposizione dei corpi celesti […] Questi prodigi, inoltre, vengono ottenuti dagli dei e dai corpi celesti con molti strumenti e vari espedienti: infatti ad alcuni sono mandati durante la quiete e nel sonno dei simulacri che chiamiamo sogni e ci veniamo istruiti su molte cose da fare e azioni, come si legge nella storia dei due amici Arcadi, da me citata nel nostro Trattato sull’immortalità dell’anima; alcuni invece sono edotti a proposito della loro salute, come è notissimo per i medici, e così per casi infiniti che non possono essere enumerati; in altri, invece, questi simulacri non sono immessi soltanto durante la quiete o il sonno, ma anche durante la veglia, ed essi credono fermamente di vedere o sentire queste cose, sebbene ciò non succeda solo per i simulacri ricevuti da fuori, ma anche dall’intero attraverso gli spiriti trasmessi dalle virtù interiori ai sensi interni, come hanno stabilito concordemente tutti i peripatetici.». A questo proposito si veda anche T. Dracon, La doctrine des qualités occultes dans le De incantationibus de Pomponazzi, in «Revue de Métaphisique et de Moral», n° 1, 2006, pp. 6-7, dove si dice espressamente «L’existence d’une tension au sein de l’aristotélisme médieval au sujet de la question de la génération des formes est bien connue, et constamment confirmée depuis les travaux de Bruno Nardi qui, l’un des premiers opposa la doctrine de l’inchoatio formarum telle qu’elle se trouve definie chez Albert le Grand au primat thomiste de la forme substantielle. […] Il repose sur une radicalisation de la tradition peripatéticienne médicale qui rapporte ces qualités ou virus à une « forme spécifique », imprimée par le corps celestes». Il bel saggio di Dracon è teso a mostrare come Pomponazzi, invocando le qualità occulte per rendere conto degli effetti insoliti della natura intervenga in quel già antico dibattito relativo alle forme specifiche di avicenniana memoria. ↩︎

  31. Pomponazzi non ha mai avuto difficoltà a conciliare il concetto della libertà con l’idea di un Dio in quanto essere necessario; dato che la libertà non consiste nella contingenza dell’azione, e nemmeno nell’indeterminismo, ma nella possibilità per l’uomo, nel contesto di una scala gerarchica di stampo neoplatonico, di diventare Dio o degradarsi in bestia. Nel De immortalitate, infatti, l’ambiguità della natura umana consiste proprio nel fatto che l’uomo non gode né dello status dell’immortalità, né è completamente assorbito nella vicenda temporale, egli è nel mezzo tra le due nature ed ha la libertà di assumere quella che preferisce. Di fatto, l’anima intellettiva unita al corpo nell’operare, dipende da questo ut obiecto, ragion per cui l’unico spiraglio di libertà per l’uomo consiste in quel «profumo di immortalità» che lo induce a sperare ciò che è precluso alla sua conoscenza. Nel De incantationibus si mantiene inalterato lo stesso concetto di libertà, basato però su presupposti diversi; se, infatti, la gerarchia di matrice aristotelico-neoplatonica permane in entrambi i testi, essa è funzionale nel De Immortalitate all’individuazione delle caratteristiche dell’uomo, che posto accanto alle intelligenze superiori, resta legato alle forme materiali, come il massimo grado raggiungibile da quest’ultime. Nel De incantationibus, invece, lo stesso schema metafisico, ha la funzione di illustrare il rapporto fra la causa prima e il mondo sublunare, senza che però sia necessario ricorrere per la spiegazione dei fenomeni naturali ad altro se non alle cause prossime. Per questa ragione nel De Incantationibus il concetto di libertà si delinea a partire dalle disposizioni date dal corpo celeste, che non costringono, bensi inclinano l’intelletto. In tal senso la virtù celeste dirige una materia già predisposta verso i fini più disparati, ragion per cui le virtù occulte impresse dai corpi celesti devono comunque assecondare la complessione psico-fisica dell’individuo. Da quanto detto emerge senza dubbio che la psicologia pomponazziana segue quella aristotelica, tant’è che sia nel De immortalitate, quanto nel De incantationibus, la volontà resta legata all’intelletto, che rappresenta a sua volta l’anello di congiunzione con il sistema gerarchico delle intelligenze celesti; ma in entrambi i testi si concede che è facoltà dell’uomo scegliere se utilizzare l’intelletto o meno, ossia non seguire l’intelletto e in questo senso degradarsi in bestia, o farne uso e ascendere a Dio. In sostanza la vera libertà non è la libertas indifferentiae, ma quella che ci mostra l’intelletto legato al sistema della causalità. Riteniamo, però, che tale concetto della libertà abbia la sua origine razionale nell’idea di un Dio di potenza infinita, realtà intelligibile, non compreso nella natura, che racchiude nella sua mente tutte le possibilità logiche, emanate con un atto di libertà che non è l’arbitrio (dato che Dio non può scegliere il contraddittorio); per cui l’uomo è libero di scegliere tra le essenze compossibili prodotte da Dio. ↩︎

  32. P. Pomponazzi, Il fato, il libero arbitrio e la predestinazione, saggio introduttivo, traduzione e note di V. Perrone Compagni, Torino, 2004, p. 95. ↩︎

  33. Ivi, p. 97. ↩︎

  34. Ivi, p. 99. ↩︎

  35. Carlo Natali, La deliberazione nel De fato di Alessandro di Afrodisia, «Elenchos», XXVII, 2006, pp. 84,85. ↩︎

  36. P. Pomponazzi, De fato, op. cit., p. 91. Si veda poi ARISTORELE, Etica Nicomachea, a cura di Carlo Natali, Laterza, 2005, libro terzo, pp. 85, 87, 89, 91. ↩︎

  37. P. Pomponazzi, Il fato, op. cit., p. 307. ↩︎

  38. Ivi, p. 309. ↩︎

  39. Ivi, p. 311. ↩︎

  40. Ivi, p. 315. ↩︎

  41. Ivi, pp. 385,387,389. ↩︎

  42. Ivi, p. 449. ↩︎

  43. Cfr. M. Pine, Pietro Pomponazzi, and the Scholastic Doctrine of Free Will, «Rivista critica di filosofia», XXVIII (1973), pp. 5-6, dove si dice: «[…] for Pomponazzi the De fato represents an entirely new departure in its consideration of fauth as rationally defensible» e poi ancora criticando Giovanni di Napoli « Pomponazzi plays the role of the theologian only to deride Christian doctrine, to proclaim the absurdity of predestination and in the end to reduce the Christian God an immoral monster». ↩︎

  44. Si veda Maria Emanuela Scribano, Il problema del libero arbitrio nel «De fato» di Pietro Pomponazzi, «Annali dell’Istituto di filosofia», Università di Firenze, Facoltà di lettere e filosofia, III, (1981), pp. 23-69. ↩︎

  45. Pietro Pomponazzi, De fato, op. cit.,p. 585. ↩︎

  46. Ivi, p. 579. ↩︎

  47. Ibidem. ↩︎

  48. Ivi, p. 581. ↩︎

  49. Ivi, p. 589. ↩︎

  50. Ivi, p. 719. ↩︎

  51. Si veda sul tema Martin Pine, Pietro Pomponazzi: Radical Philosopher of the Renaissance, Padova, 1986, p. 315, 325, 327. A p. 325 si mettono in luce le fonti medievali che sostanziano la filosofia Pomponazziana, si dice, infatti, che «Scotus establishes human freedom in the face of the predestining decree by noting that all divine acts which proceed into the temporal order are contingent. For God freely choose any action from His Knowledge of all possible things. Now the Knowledge of all possible things. Now the Knowledge of a all possible things is necessary for God in the sense that it is always present to Him in eternity; there is no way that God can not know all possible things which are contained in His intellect. But for things to exist in the temporal order, God must choose them from his knowledge of all possible things. He must, as it were, thrust them from eternity; there is no way that God can not know all possible things. He must, as it were, thrust them from eternity into the temporal order. Now his action itself is free and produces contingency in the created order. But what makes these divine acts contingent? How can a decision of God’s be definite and at same time contingent? According to Scotus, the contingency of the divine decree is established by God’s capacity to will the opposite of what is willed even at the moment of willing», poi a p 327 si dice: «In a remarkable attempt to save human freedom, Ockham attacked the Aristotelian notion of determinate and indeterminate knowledge. According to Aristotle, a determinate event must correspond to some settled actuality. In this category would fall all past and present events as well as those future events whose occurrence is necessitated by some action which is past or present relative to it. Those future events which are not settled by a past or present action relative to then. The acceptance of Aristotle’s position would necessitate the conclusion that any definite action of God (assuming as Ockham does that it occurs in time) is a necessitating past action relative to all future occurrences. The human will would therefore be determined by this past action of God and all moral responsibility would vanish». Esprimiamo qualche dubbio sul legame di Pomponazzi con Ockham, quest’ultimo ammette, infatti, un Dio onnipotente nel contesto di un universo nominalista, in cui sono assolutamente abolite tutte gli attributi divini; infatti, nulla si frappone in Dio fra la sua essenza e le sue opere, per cui si ammette un concetto radicale di contingenza. Una tale concezione di Dio e dell’universo non appartiene certo a Pomponazzi (si pensi solo alla distinzione in Dio di intelletto e volontà a a tutto il sistema delle cause seconde che Ockham elimina). Sulla limitazione del potere divino si veda anche Nicola Badaloni, Filosofi, utopisti, scienzati (P. Pomponazzi, F. Patrizi, B.Telesio, G. Bruno), in N. Badaloni — R. Barilli — W. Maretti, Cultura e vita civile tra Riforma e controriforma, Bari 1973, pp. 16, dove si dice: «Mentre dunque dal punto di vista della ragione la soluzione storicizzante conduce alla inglobante inclusione del male in Dio, assumendo i presupposti cristiani del Dio buono, è necessario concludere insieme alla libertà ed alla limitazione della potenza di Dio». Rita Ramberti, Il problema del libero arbitrio nel pensiero di Pietro Pomponazzi, Firenze, 2007, p. 145, dove si dice: «Per garantire la possibilità di questo libero uso della grazia e per potere, così affermare il principio della piena responsabilità morale umana umana. Pomponazzi ribadisce e perfeziona la sua tesi della volontaria autolimitazione della prescienza divina. Dio, infatti, pur conoscendo con certezza quali saranno gli eletti e quali i dannati — poiché il destino ultraterreno di ciascuno è stato definito e deciso nell’eternità della sua mente e del suo volere — può, tuttavia, scegliere liberamente di osservare secondo la contingenza le azioni degli uomini e il modo in cui essi usano la grazia.». Lo stesso concetto è ripreso in Rita Ramberti, Stoicismo e tradizione peripatetica nel De fato di Pietro Pomponazzi, «Dianoia», Annali del dipartimento di filosofia, Università di Bologna, II, 1997, p. 26, dove si dice: «La libertà umana si fonda sulla libertà divina e opera allo stesso modo di questa. Le due dottrine originalmente pomponazziane, del rapporto fra volontà e intelletto dell’uomo e dell’autolimitazione dell’onniscienza divina risultano quindi estremamente legate, in quanto la seconda è fondamento della prima». ↩︎

  52. Nel primo capitolo del presente, analizzando il commento al De substantia orbis abbiamo messo in evidenza come Pomponazzi polemizzi con Averroè, Greorio da Rimini e altri teologi, che ritenevano fosse un errore considerare Dio causa efficiente. In questo senso il il Peretto compie un’interessante percorso che parte dalla dipendenza nel moto del cielo dall’intelligenza secondo un triplice ordine di cause (efficiente, formale e finale), da cui deriva che siccome il motore presuppone il moto, il fine l’agente, l’esistenza di una causa finale richiede una efficiente. L’ottica aristotelica, condivisa da Averroè e da Gregorio da Rimini per il quale «caelum effective habeat esse a Deo», dovuta ad una priorità della causa finale su quella efficiente non è ancora superata, sarà Tommaso d’Aquino che ripensando il significato dell’ousia della metafisica aristotelica sosterrà una creazione da parta di Dio ex nihilo. Dunque Dio è causa efficiente e non si identifica né con la forma, né con la materia delle cose create, tale concezione della causalità ha ppi delle conseguenze fondamentali per quanto concerne la questione dell’infinità della potenza divina, ma per questo si veda il primo capitolo della nostra tesi. Sul rovesciamento della fisica aristotelica si veda E. Weil, La philosophie de Pietro Pomponazzi, Pic de la Mirandole et la critique de l’astrologie, a cura di E. Naert e M. Lejbowicz, Paris, Vrin, 1985, pp. 42-43, dove si dice «Mais ici relation unilaterale est directement inversée. Ce n’est plus le monde qui se rapporte à Dieu, mais Dieu qui se rapporte au monde; il reste certes actus purus, mais il se soucie de la nature, soumise à son décret, dècret déterminé de toute éternité […]. De là s’institue pour le monde une toute nouvelle donation de sens, le cosmos obtient un nouvel centre de sens […] À prèsent, Dieu s’oriente sur quelque chose et, par là, cet objet du divin est devenu le point central de l’ordre […], et ce point central est l’humanité […]. Dieu prend soin du monde. Par là, la cosmologie est inversée. Mais est inversé en même temps le mouvement interne du cosmos. Si le mouvement allait précédement du bas vers le haut, du monde à Dieu, il va maintenant du haut en bas,de Dieu au monde. Cela signifie, si la phisique est la doctrine du mouvement dans le monde, una nouvelle phisique. Car, à présent, le concept fondamental n’est plus le telos, mais la cause efficiente». ↩︎

  53. Per un’interpretazione tomistica del De fato si veda Tristan Dracon, Pomponazzi’s De fato and Thomas Aquinas, Akademai kiadò, Budapest, 2004, pp. 201-213, in particolare p. 201. Dove si dice: «The De fato, which is contemporany to early Lutheran reform, is not a theological work claiming, to make a statement on the interpretation of the Scriptures. Christian doctrine is only mentioned in the context of a study of Aleander’s De fato which extends to different doctrines (Epicurian, Stoician, Peripatetician). Among them, we find the doctrina fidei catholicae, which states the coexistence of providence extendes to individual things and yhe liberty of human will. Pomponazzi claims his implicity faith in this doctrine because of the authority of the relavelation and the infallibility of the Roman Church. This truth, seen as absolute, is not the subject of the discussion. What one looks at here is not the article of faith in and of itself, but at the doctrine from a strictly “philosophical” point of view, meaning the modus intelligendi. Thomistic theology is used here because, according to Pomponazzi it propose the most complete philosophical exposition of the Cristian doctrine of providence, of freedom,and therefore, of predestination. As opposed to De immortalitate animae, it is not a question of examing Aristotelian orthodoxy of the Thomistic path, but its internal consistency on point which do not concern Aristotles directly. The possibility of a theology which borrows argumentative principles from philosophy is questioned here. In this respect, the question bears directly upon the Thomistic tentative to consider theology as a science». Nel suo saggio Dracon analizza poi il rapporto di Pomponazzi con Boezio e Tommaso in relazione al tema dell’adequamento dell’azione di Dio alla natura della cosa. Per Pomponazzi, infatti, la modalità della conoscenza deve corrispondere alla modalità dell’ oggetto conosciuto, per questa ragione Boezio entra in contraddizione quando afferma che qualcosa di indeterminato può essere determinato in relazione a Dio. Dicendo che con Dio la conoscenza non segue la natura del noto, e nonostante ciò tale scienza può essere determinata relativamente a Dio, Boezio sovverte l’ordine essenziale della conoscenza e della definizione della verità come adeguazione di scienza e del suo oggetto noto. Tommaso, invece, mantiene la contingenza dell’effetto, perché lo ritiene il frutto del nesso fra le cause e lascia che il suo rapporto con la causa prima sia determinato dalle modalità specifiche dell’ordine delle cause seconde. Quest’idea riconcilia la necessità specifica della scienza alla contingenza del fututo così come esso ha luogo nel naturale ordine delle cose. La differenza fra Tommaso e Pomponazzi consiste nel concetto di rivelazione divina; infatti, Dio per Pomponazzi non è altro che un principio filosofico che garantisce l’identità delle determinazioni modali delle realtà naturali, ragion per cui la materia non è come per Tommaso legata indissolubilmente alla forma intesa nella sua sostanzialità, bensì da forme specifiche che la rendono autonoma. Dracon conclude mettendo in rilievo l’insoddisfazione di Pomponazzi per un aristotelismo giudicato ortodosso, e il suo ripiegamento verso la riforma neoplatonica introdotta da Ficino che nella sua teologia platonica recupera il concetto di partecipazione riproducendo l’antico dualismo fra forma e materia. Sulla derivazione del platonismo di Pomponazzi da Ficino abbiamo espresso i nostri dubbi nel capitolo sugli incantesimi. Maria Emanuela Scribano, Il libero arbitrio in P. Pomponazzi, op. cit., p. 26. ↩︎

  54. Ivi, pp. 457-463.Si veda anche Lorenza Tromboni, Appunti per una bibliografia ragionata: Intelletto e volontà in Tommaso d’Aquino, «Annali del dipartimento di filosofia», XIV (2008), pp. 239-257. ↩︎

  55. La teoria dell’esclusiva causalità dell’oggetto conosciuto dall’intelletto è attribuita a Goffedo di Fontaines e quella del primato della volontà a Scoto, Enrico di Gand e Capreolo. Il concorso equilibrato di intelletto e volontà, secondo il Gaetano, sarebbe invece stato affermato da San Tommaso. Si veda M. Emanuela Scribano, Il problema del libero arbitrio, op. cit., p. 26. Ma come riporta Rita Ramberti, nella Quaestio de voluntate, Pomponazzi si mostra insoddisfatto della solutio proposta da San Tommaso, in quanto questi sostiene la distinzione reale di intelletto e volontà: «Nolo hinc recensere opinionem Thomae quia illa non mihi placet» (ms. lat. 6533 della biblioteca nazionale di Parigi, f. 119v; DF, II, 5, p. 249). Si veda Rita Ramberti, Il problema del libero arbitrio nel pensiero di Pietro Pomponazzi, op. cit., p. 114, nota 103. Anche per A. Galimberti, Intelletto e libertà nell’ultimo Pomponazzi, in Aristotelismo veneto e scienza moderna, a cura di L. Olivieri, Atti del 25º anno accademico del Centro per la storia della tradizione aristotelica nel Veneto, Padova, 1983, II, p .686, l’intera trattazione del De fato si fonda sui problemi sollevati dalla sostanziale identificazione fra intelletto e volontà. ↩︎

  56. La distinzione reale fra intelletto e volontà era necessaria alla dottrina cristiana per attribuire all’uomo la colpa delle proprie azioni. Duns Scoto concepisce, invece, la distinzione formale come intermedia tra la distinzione di ragione (che è poi quella tomista) e la distinzione reale. Per Scoto c’è una distinzione formale ogni volta che l’intelletto può concepire in un essere reale uno dei suoi costituenti formali come separato dagli altri. ↩︎