Ambrogio Bongiovanni, Fondamentalismi, EMI, Bologna 2010, 63 pp., € 4,50.
Il fondamentalismo è indubbiamente una delle questioni più drammaticamente attuali del nostro tempo. È innegabile e sotto gli occhi di tutti, infatti, come alcune delle tragedie che attraversano, a varie latitudini, il mondo contemporaneo, debbano essere ricondotte all’intolleranza religiosa, dalla quale, oltretutto, provengono anche alcune delle sue minacce più insidiose ed autodistruttive. La deriva fondamentalista, in altri termini, è uno dei rischi che sta maggiormente condizionando il vivere quotidiano delle società globalizzate postmoderne, rispetto alla quale, però, non soltanto sembra esserci un’insufficiente reazione culturale, ma anche un’incapacità di fondo a comprenderne la complessa fenomenologia e a sviscerarne le radici ultime. Limite, questo, tanto più stridente se si prende atto che senza un’adeguata comprensione del problema, non sarà realisticamente possibile individuare le soluzioni capaci di scongiurare gli effetti disastrosi che esso può avere sulla convivenza pacifica delle civiltà.
Ben ha fatto, quindi, Ambrogio Bongiovanni, in questo suo ultimo sforzo editoriale, a concentrare la propria ricerca teologica sul tema del fondamentalismo. L’autore, docente alla Pontificia Università Urbaniana, è tra i massimi esperti italiani di dialogo interreligioso, avendo per anni coordinato i corsi dell’Istituto di Studi Interdisciplinari su Religioni e Culture dell’Università Gregoriana ed essendo concretamente impegnato, col Movimento San Francesco Saverio, nel dialogo tra cristiani, indù e musulmani in India ed in Italia. Il libro, inoltre, era tanto più auspicabile in quanto nel panorama editoriale italiano, a discapito della sua importanza, sono ancora pochi i saggi che abbiano affrontato adeguatamente il fondamentalismo. Sicuramente esso non era ancora stato presentato in una siffatta veste editoriale, che riesce a combinare felicemente divulgazione, sintesi e scientificità. Il volume, infatti, è inserito nella collana della Emi dal titolo «Le parole della fede», che è stata appositamente studiata per offrire al lettore degli agili strumenti che siano capaci di illustrare in modo accessibile le principali tematiche del vocabolario religioso contemporaneo. La natura della collana, pertanto, dà il taglio all’opera, che si presenta piccola nel numero di pagine, ma densa nei contenuti, senza mai risultare, però, particolarmente difficile o pedante. È questo, appunto, uno dei meriti più evidenti del libro, ovverosia, la sua capacità di divulgazione e di sintesi senza tuttavia banalizzare o semplificare questioni complesse e polimorfe quali sono appunto quelle sollevate dal fondamentalismo.
In generale, per chi abbia seguito i precedenti lavori di Bongiovanni, ed in particolare il suo saggio del 2008 dal titolo Il dialogo interreligioso. Orientamenti per la formazione, è facile cogliere la continuità, ma anche lo sviluppo ulteriore, sia filosofico che teologico, con il quale l’autore porta avanti il suo studio trasversale delle conflittualità di natura religiosa. Di esse, il fondamentalismo è ovviamente il contenuto precipuo, del quale, all’interno del saggio, lo studioso svolge una lettura critica riepilogativa con l’intenzione, come spiega già nell’introduzione, di analizzare «non tanto i singoli fondamentalismi religiosi, quanto piuttosto offrire al lettore qualche riflessione generale sul fenomeno, dandone alcune chiavi di lettura e di interpretazione» (3). Non a caso, per esempio, la riflessione di Bongiovanni inizia proprio menzionando alcuni errori di valutazioni che condizionano e distorcono la cognizione del problema; come l’associare il problema fondamentalista al solo Islam; il ritardo della teologia; o la limitata comprensione dell’esatta natura del dialogo interreligioso.
Prendendo atto di tali articolazioni, non era pertanto facile pianificare un’indagine riflessiva unitaria su questioni tanto sfuggenti e stratificate come quelle sollevate dei vari fondamentalismi, e soprattutto appariva un compito particolarmente arduo il dare a tale indagine una struttura riepilogativa che ordinasse sistematicamente le sue ramificate diversificazioni. Nonostante tali difficoltà preliminari, però, possiamo certamente affermare che l’autore è riuscito a dare una rappresentazione del problema oggettivamente rispettosa di tutte le sue sfaccettature, anche se, ovviamente, in virtù della natura editoriale della collana, nessuna pista di indagine ha avuto lo sviluppo che avrebbe meritato. A discapito delle intrinseche complessità, pertanto, il libro è strutturato in modo tale che il lettore trova nelle sue pagine una definizione del termine fondamentalismo; una giustificazione della sua trasversalità; un approfondimento delle diverse espressioni con le quali esso si manifesta (storico, sociologico, psicologico, filosofico, teologico); un elenco dei suoi nodi problematici antropologico-sociologici più stridenti; ed infine un’indicazione di quali possono essere le strategie di soluzione al vicolo cieco evidenziato da tutte le degenerazioni fondamentaliste. Quest’ultima, inoltre, è presentata in modo tale che la vittoria su di esse risulta coincidere con il palesarsi di una confessione di fede finalmente adulta, autentica e matura.
È da sottolineare, comunque, scorrendo l’indice del testo, una scelta premeditata dell’autore: quella cioè di declinare al plurale il fondamentalismo prima ancora di darne una definizione. Tale decisione lascia appunto comprendere quale sia la sua sensibilità e come egli intenda evitare preliminarmente ogni particolarismo confessionale tale da compromettere lo studio oggettivo della sua trasversale fenomenologia. Bongiovanni si chiede, per esempio, se il fondamentalismo sia un termine che uniforma indiscriminatamente diversità reali o se ci siano caratteristiche comuni che lo identificano. A prescindere da tale questione, comunque, e a sua definizione almeno parziale, il teologo dell’Urbaniana sostiene che caratteristica comune dei vari fondamentalismi è la resistenza a forme moderne di secolarizzazione (11). Dal momento, però, che quest’ultima corrisponde ad una sorta di erosione dell’identità religiosa concepita come assoluta, la riflessione dell’autore ne approfitta per introdurre uno dei principi che riteniamo essere l’architrave che dà forma e sostengo al libro. Egli sostiene, cioè, che «in una società pluralista e globalizzata sorge la necessità di rivedere le pretese di assolutizzazione della verità delle religioni. Qui si intravede il ruolo centrale di discernimento e ricerca del dialogo interreligioso. Questa operazione non può essere liquidata come relativismo» (12). Come si diceva, è questo, a nostro avviso, uno dei passaggi più rilevanti del saggio, dal momento che ogni resistenza al fondamentalismo è troppo spesso equivocata ed associata al relativismo, così come, del resto, lo è lo stesso dialogo interreligioso. Diventa perciò primariamente necessaria, e l’autore si dimostra consapevole della necessità di analizzare tali corollari, una riflessione sul senso e la natura di queste due complementari ed antitetiche espressioni del vivere religioso moderno. Qualsiasi autentica ed efficace reazione al fondamentalismo, in altre parole, dal momento che, come spiega un paragrafo del libro, esso è sempre «reazione al cambiamento», passa attraverso la sottolineatura del valore spirituale del dialogo. Al tempo stesso egli ci tiene altresì a sottolineare come ogni eventuale accoglienza del nuovo o integrazione dell’altro non sia un detrimento, una minaccia dell’identità, ma bensì un suo arricchimento. Potremmo, a questo riguardo, anticipare le conclusioni del saggio, e spiegare come il senso ultimo di ciò l’autore lo illustri solo nelle pagine terminali, quando, citando Raimon Panikkar, spiega che «la verità stessa è relazione». Prima di affrontare direttamente la questione identitaria, però, che a nostro avviso costituisce il vero climax del libro, l’autore inserisce due capitoli propedeutici: quello sui «Tratti comuni dei fondamentalismi» e quello sugli «Approcci ai fondamentalismi».
Nel primo, la cui tesi andrebbe forse studiata meglio proprio perché si propone come chiave di lettura non di uno, ma di ciascun fondamentalismo, Bongiovanni elenca cinque tratti: l’inerranza del contenuto del libro sacro; l’interpretazione tormentata della storia; la superiorità della legge divina rispetto a quella umana; il primato del mito delle origini; e la forza aggregativa. Nel secondo, che è la sezione maggiormente ampia del volume, e quella nella quale la concettualizzazione del firmatario raggiunge la sua più alta densità riflessiva, egli approfondisce rispettivamente tre approcci nuovi ed ulteriori alla realtà conturbante del fondamentalismo: quello psicologico, quello filosofico e quello teologico, dal momento che le considerazioni svolte nei paragrafi precedenti attengono piuttosto alla storia e alla sociologia. Di per sé, comunque, anche soltanto questa evidente polifonia con la quale può essere raccontato il fondamentalismo, dimostra l’enorme complessità strutturale del fenomeno in questione, e la compenetrazione dei fattori che lo compongono. Per quanto riguarda l’approccio psicologico, per esempio, l’autore dà alcune spiegazioni del perché esso non possa sopravvivere senza il supporto di strutture psichiche. Per quanto invece riguarda l’approccio filosofico, lo studioso, nel tentativo di dimostrare che alcune analisi del pensiero moderno trovano riscontro nei vari accenti tipici del fondamentalismo, si richiama direttamente alle speculazioni di filosofi come Hegel, Marx, e Sartre. Per quanto concerne infine l’approccio teologico, sul quale è forse doveroso spendere qualche considerazione in più, Bongiovanni spiega che la questione della verità è decisiva nella formulazione della sua stessa definizione. Egli, a questo riguardo, evoca per esempio l’henologia platonica, la quale avrebbe appunto funto a criterio guida della cultura religiosa occidentale e della sua propensione fondamentalista. In contrapposizione diametrale al dualismo vero-falso che tanto caratterizza il dogmatismo tradizionale, l’autore presenta quindi una delle sue conclusioni più emblematiche e programmatiche: «L’incontro interreligioso diventa così luogo preferenziale per un cammino verso la verità» (35). Come spiega meglio, infatti, utilizzando anche il pensiero di Balthasar, l’identità «non è minacciata ma è arricchita attraverso l’apertura alla verità» (36). I contenuti di questo paragrafo, in sintesi, che peraltro contengono riferimenti anche ad Eliade, Ricœur, Küng, Panikkar e Jung, sono una sorta di introduzione al capitolo sull’identità, che, come si diceva, è forse il vero fulcro del saggio. La speculazione di Bongiovanni, infatti, sembra essenzialmente orientata a svuotare teoricamente il fondamentalismo, dimostrando che l’identità «è dinamica e si costruisce nella relazione e nell’esperienza con l’altro» (45). Contro la chiusura e l’assolutizzazione identitaria delle varie cellule fondamentalistiche, egli contrappone pertanto la categoria di «identità aperta». Prima di arrivare alle conclusioni, però, consapevole della stretta interconnessione tra politica ed integralismo religioso, l’autore, che non trascura di menzionare anche i vari fondamentalismi laici presenti nell’attuale panorama istituzionale italiano, dedica un capitolo alla «dimensione politica del fondamentalismo» ed un altro al rapporto tra «fondamentalismo e violenza».
Al di là, comunque, dei contenuti di questi due sezioni, che, potremmo dire, contestualizzano geograficamente il problema e ne evidenziano gli effetti più deleteri, vale comunque la pena soffermarsi direttamente sulle conclusioni, anche perché in tali pagine Bongiovanni non soltanto illustra meglio il senso della sua lettura critica del fondamentalismo, ma diventa anche propositivo. Prima di presentare le varie ipotesi risolutive, però, quasi a mo’di premessa cautelativa, l’autore ha cura di distinguere la radicalità, che descrive come coerenza e fedeltà al proprio credo religioso, dal fondamentalismo. A suo avviso, per esempio, le espressioni e gli sviluppi fondamentalistici non hanno nulla a che fare con il vivere radicalmente la propria fede religiosa. Bongiovanni, infatti, e questo passaggio deve essere rimarcato con forza, individua nella radicalità una categoria irriducibile a quella di fondamentalismo, dal momento che «la radicalità indica coerenza e fedeltà nel proprio credo religioso e non necessariamente vuol dire chiusura, discriminazione e intolleranza» (60). Quest’ultima, cioè, sembra dire l’autore, non si oppone preliminarmente all’altro come invece fa il fondamentalismo. Non a caso, a questo riguardo, una delle esternazioni maggiormente lapidarie di Bongiovanni è proprio la convinzione palesata che «Chiudendo agli altri, alla diversità, si chiuda la porta inevitabilmente al divino» (60). Nella convinzione, pertanto, che il fondamentalismo sia una minaccia non soltanto per tutta la società, ma anche «per la propria tradizione religiosa» (59), e traendo ispirazione dalla Nostra aetate, che per certi aspetti rappresenta il cuore della sua ermeneutica religiosa, il teologo pugliese indica tre piste di soluzione per uscire dall’impasse del fondamentalismo:
- Il dialogo interreligioso
- Il miglioramento della formazione
- Il mantenimento di equilibrio tra necessità di restare saldi nel fondamento della propria fede e apertura al dialogo vivendo la diversità come una ricchezza nella relazionalità.
In altre parole, se il fondamentalismo è una degenerazione della fede radicale, se è un’identità chiusa che non ha compreso la necessità vitale ed ontologica dell’altro, all’opposto, secondo Bongiovanni, è invece possibile «un’accoglienza della diversità in coerenza con la propria identità» (60). È questo, ci sembra, l’esito nodale che emerge dalle speculazioni del libro. Tuttavia, pur elogiando lo sforzo fatto dall’autore per analizzare il fondamentalismo e farne una contestuale critica, esso nondimeno, suscita non pochi quesiti. È quasi inevitabile, per esempio, chiedersi come sia possibile eludere tutti i corollari contraddittori implicanti «l’accoglienza della diversità in coerenza con la propria identità». Un tale interrogativo, infatti, è tanto più legittimo nella misura in cui l’integrazione dell’altro e della sua difforme ulteriorità, deve preventivamente essere collocata in un orizzonte di senso di cui attualmente la teologia pare ancora sprovvista. Tale lacuna, del resto, è strettamente legata all’aporia insolubile in cui sembra impantanata la stessa teologia delle religioni: dal momento che una Teologia pluralistica delle religioni non è accettabile dal Magistero cattolico; ed una Teologia cristiana delle religioni è altrettanto inaccettabile dalle confessioni di fede non cristiane. Tra questi due indirizzi teologici, infatti, passa la stessa tensione irrisolta che c’è tra dialogo e missione. Da un altro punto di vista, inoltre, ci si chiede se sia legittimo affrontare la questione del fondamentalismo prescindendo da un’analisi altrettanto profonda del secolarismo, che, come in verità indica l’autore stesso nelle pagine del suo volume, ne rappresenta l’altra faccia della medaglia.
Sono questi, tuttavia, limiti e quesiti che si devono attribuire al carattere divulgativo e compendiario della collana, che non permette uno sviluppo di tutte le necessarie precisazioni. È questo il motivo per il quale ci auguriamo che il volumetto presentato possa essere ripreso in un saggio di più ampio respiro. A prescindere da questo auspicio, comunque, vale la pena concludere menzionando le stesse conclusioni di Bongiovanni sulla «natura relazionale della verità» (63), vera chiave di volta di questa sua critica al fondamentalismo. Egli, infatti, echeggiando Raimon Panikkar, propone una sorta di legittimazione teorica per quel dialogo interreligioso che si presenta alla stregua di una forza contro-fondamentalista, nella misura in cui, appunto, la verità è concepita come relazione, comunicazione che non può essere ridotta né all’unità né alla molteplicità.
Se, dunque, la globalizzazione religiosa lancia una sfida formidabile alla filosofia e alla teologia contemporanea, e, come dice l’autore, la paura è il vero «terreno fertile dei fondamentalismi» (61), questo libro non soltanto può essere un utile strumento di discernimento, ma anche un aiuto per superare quei timori reverenziali che, della deriva fondamentalista, sono appunto una pre-condizione.