Il problema del senso
Si può affermare con indiscutibile certezza che, fin dai suoi esordi, la fenomenologia husserliana abbia avuto l’obiettivo di portare in luce «ciò che è valido in sé», ossia ciò che, al variare dei momenti percettivi, continua a caratterizzare invariabilmente, come tale, l’oggetto della percezione. Persino la Filosofia dell’aritmetica, nel tentativo di applicare i risultati della psicologia di Brentano alla scienza dei numeri, aveva come obiettivo quello di determinare le origini empiriche della «validità», ossia di ciò che, come il numero cardinale, ha una validità oggettiva. Il problema del senso di tale validità, ovvero del «valere in sé» a prescindere dalle varie e differenti espressioni storico-linguistiche e di attribuzione soggettiva di significato, rimanda ad un riferimento assoluto che Husserl, nelle ultime sue riflessioni, descrive come «l’essere irrelato», come «il vero essere di ogni tipo, la vera realtà, il vero valore, il vero esistere, nel vivere e operare». È questo «il senso dell’irrelativo in sé», quello di «una verità obiettiva, sovranazionale, comune a tutti».1 Tale valere, sullo sfondo di ogni affermazione, di ogni formazione culturale e persino individuale soggettiva, si palesa nella storia pur essendo, per sua essenza, non storico, cioè non soggetto ai mutamenti delle varie epoche e culture.
La storia come luogo in cui si palesa il senso: il «nucleo umano»
Nel formarsi delle culture si viene generando «come un nucleo umano che si ritrova sempre di nuovo presso le più disparate nazioni, come ciò che è proprio di una comunità globale di popoli “conformati alle usanze” (gesitteter)».2 Ogni comunità culturale o popolo, in base all’essere irrelato, produce una propria significatività, come una interpretazione di quel senso. Tuttavia, incontrandosi nei rapporti commerciali con gli altri popoli, quella comunità scopre che l’intenzione di spiegare un fenomeno o di giustificare un principio etico è la stessa, benché il modo e la tipologia di spiegazione siano differenti. Tutte le modalità di spiegazione si riferiscono infatti al «valere in sé»; così, benché siano più o meno valide o confutabili, si può affermare che esse abbiano una unica origine nel far riferimento a qualcosa che è sensato e comprensibile «in sé». Sullo sfondo di ogni formazione culturale e linguistica funge dunque sempre, secondo Husserl, un unico orizzonte di senso, un unico mondo che ci ricomprende tutti nella possibilità della significazione. Questo nucleo di senso o, ancora, di validità per l’essere umano, si ripete costantemente nelle nuove formazioni e si tramanda implicitamente in quelle già sedimentate. La sua struttura «astorica» infatti consente ad esso di fungere sullo sfondo come «possibilità» per nuove strutture significanti, così come riproposizione di valori e di validità generali forgiate in tempi passati. Il suo tempo è dunque quello di un presente continuo che si nutre del suo fungere «sullo sfondo» di ogni conferimento di validità umana in ogni epoca, ma che, al contempo, si perpetua soltanto grazie all’agire umano rivolto alla realizzazione di un qualcosa che ha senso.
La ragione umana portatrice del senso, e sua perpetuazione
Abbiamo allora un doppio agire del senso: da un lato, passivamente, esso agisce come «colto» o, meglio, «assunto» dalla volontà di significazione dell’essere umano, per cui tutte le volte che tentiamo una giustificazione o spiegazione possibile delle cose, stiamo inconsapevolmente «attivando» il senso che funge dietro tale agire. Dall’altro lato, invece attivamente, il senso agisce come tradizione avvalorata, riconosciuta e perpetuata come valida, da parte delle generazioni di pensatori o filosofi che, nella storia della filosofia riconoscono la volontà scientifica di rispondere sensatamente alle questioni di senso. In più, dunque, rispetto al «riprodurre passivamente» il senso, come normalmente ciascuno di noi fa nel vivere quotidiano (nell’atteggiamento naturale, direbbe Husserl), il filosofo, nel suo atteggiamento teoretico, ha piena consapevolezza di quell’«irrelato», in quanto proprio grazie all’osservazione non empirica ma contemplativa, egli è in grado di scorgere un principio oggettivo-universale e non soggettivo-relativo che possa conferire alle sue riflessioni una validità scientifica.3
Il problema dei vari sistemi prodotti da ciascun filosofo, osserva tuttavia Husserl, è dovuto al fatto che ognuno di essi è sorto in contrapposizione a quelli passati come tentativo di risolvere le precedenti aporie. Ma nessuno di questi è invece riuscito a scorgere una unica origine, nel pensiero razionale, di ciascun sistema come espressione o linguaggio del senso, il quale, proprio mediante i vari sistemi, ha indicato la sua struttura universale, l’origine del senso, che si propaga direttamente nella storia delle idee.4
La scaturigine del senso: Temporalität e Zeitlichkeit
E qui sorge una domanda: se il senso «parla» attraverso l’essere umano, precedendo certamente il suo «stare al mondo» – ammesso però che solo mediante la ragione umana si possa dire che esso abbia voce –, è possibile affermare che quel senso sia descrivibile come una realtà di «altro tipo», una «ultra-realtà», che «entra nel tempo», derivando tuttavia, come dimostra la sua essenza astorica, da una temporalità altra? L’afferramento dell’essenza delle cose nell’intuizione eidetica segna infatti il limite tra l’intenzionalità coscienziale con il suo possibile vissuto immanente e la trascendenza della cosa, inclusa dalla percezione interna. La costituzione del senso dell’oggettualità, il conferimento di senso (Sinngebung) deve quindi la sua origine a qualcosa di trascendente che consente ad esso di divenire strumentale ai fini della costituzione, ma che non aderisce in toto al processo costitutivo, né appartiene direttamente alla ragione che lo «porta ad evidenza».
La trascendenza della cosa rimanda infatti a qualcosa di invariabile in essa, a prescindere dai momenti percettivi e dai relativi adombramenti della percezione esterna: la sua validità è indipendente dal momento attuale in cui la coscienza la percepisce. Essa continua a valere, in questa sua caratteristica e nella sua autonomia, anche nel momento in cui diviene un vissuto immanente non più soggetto a adombramenti e, persino, al di là dell’esistenza della cosa stessa. Tale validità è dunque appercepita insieme alla cosa nella sua trascendenza e nella condizione in cui essa, fuori dal tempo, permane identica nella stessa forma. La sua condizione di possibilità, il suo valere, il suo essere comprensibile come essenza trascendente invariabile e «sempre di nuovo» identica, è pertanto afferrata da una intuizione eidetica, e tuttavia come non appartenente alla cosa di per sé, ma come qualcosa che è la condizione del suo «continuare a valere» come tale in un orizzonte preliminare di senso. Appartiene alla cosa, detto altrimenti, il suo essere e la sua essenza; ma la condizione di validità in cui essa vale e continua a valere e che è colta solo da una intuizione eidetica ha la sua genesi altrove, in un orizzonte in cui «ciò che continua a valere» è originario e fondante nei suoi riguardi. È in altri termini la ragione umana (come Husserl definisce più genericamente, la facoltà di intuire eideticamente) a cogliere l’invariabile nella cosa; ma essa può far questo solo in quanto il riferimento ad un’invariabilità la sospinge indietro ad un orizzonte di assolutezza che non ha i caratteri del finito. La costituzione, per tale ragione, sembra poter nascere solo in quanto alle sue spalle «funge» un «essere assoluto», «irrelato», astorico che nei processi di significazione della ragione fa da paradigma, da condizione e da fondamento.
Alla possibilità di una costituzione dell’oggetto e del mondo di oggetti che «hanno un significato» corrisponde l’idea di un assoluto «in un nuovo senso», un senso cioè «ultra-trascendentale», «ultra-umano»: «Si tratta del logos assoluto, la Verità assoluta, in senso pieno e totale come l’unum verum bonum, a cui tutto l’essente finito è rivolto nell’unità di un tendere che abbraccia in tutto e per tutto l’essente finito, e verso cui tutto il vivere trascendentale soggettivo, nel suo essere, direttamente vive costituendo quella verità che ogni io trascendentale e, da un punto di vista comunitario, ogni noi trascendentale porta in sé nella sua personalità trascendentale, come norma ideale assoluta per tutte le sue norme relative e, con ciò, porta in sé un ideale di un vero essere a cui il vero essere è fondato nel suo essere fattuale personale».5
La teleologia della ragione e il compito dello storico della filosofia
In questo senso Husserl parla di una «teleologia della ragione».6 Se infatti questo logos assoluto, ultra-umano e ultra-trascendentale si esprime nei processi di significazione (nel conferimento di senso) e, ancora prima, nella costituzione temporale della coscienza (laddove emerge la trascendenza della cosa e, implicitamente, l’orizzonte di validità che ne consente una comprensione), nel suo fungere da «norma ideale» per tutti i processi normativi, è proprio la ragione e alla sua espressione storica il luogo a cui occorre guardare se vogliamo scorgere l’origine di tale logos. Grazie agli sforzi della ragione di dar senso (Sinngebung) e, prima ancora, di afferrare il senso (intuizione eidetica), tale Verità assoluta è entrata nella storia. Nei sistemi filosofici, nella storia delle idee espresse dai processi di validazione, la ragione ha così disegnato il suo telos, il fine cioè di una ragione che vuol dare senso riflettendo tuttavia, in tale agire, il lavoro di un senso superiore, di un assoluto «in un nuovo senso» che è oltre l’uomo, oltre il trascendentale, ma che, a sua volta, si esprime solo mediante la ragione e grazie ad essa. Nella storia della ragione è dunque visibile un telos, come storia dell’esprimersi, da un lato, della volontà umana di significazione, dall’altro, della possibilità che «sempre di nuovo» si mostra in tale significazione come «assoluta norma» per tutte le relatività. La storia può così essere intesa come «una costituzione stratificata di formazioni di senso sempre più alte dominata da una teleologia immanente».7
Il vero filosofo (il fenomenologo), consapevole di questa teleologia espressa nella storia, ha pertanto un dovere ben preciso nei confronti dell’umanità: egli deve riportare in luce il senso mostrandone la scaturigine e, inoltre, deve chiarire come la filosofia altro non sia se non la storia dei tentativi filosofici di palesare tale senso stesso. Egli deve far comprendere il senso di una «intenzionalità universale»8 alla base del filosofare e indicare all’essere umano l’unicità della medesima fonte da cui la ragione, in ogni epoca e in ogni cultura (in tutte, cioè, quelle «evidenze relative»9), attinge per significare e dar vita ad un orizzonte di senso, umanamente valido. Il filosofo consapevole, detto altrimenti, ha il compito di riuscire a portare in luce e a indicare a tutti la verità ultra-umana (la «struttura universale» di tutte le relative elaborazioni di senso) che la ragione ha espresso, mediante le idee, nella storia. È questa l’«unità di un’idea la più alta e l’ultima […] che ha chiaramente una ultra-realtà, una ultra-verità, una ultra-effettività, un ultra-in-sé che, innanzitutto, dà il vero senso a tutto l’essere relativo, finito, mondano e di per sé trascendentale-monadico».10
Il senso ultra-umano espresso dalla ragione è allora fungente per l’umano ma la sua natura sovrastorica non può dirsi umana. Esso funge con noi e per noi, derivando tuttavia da un tempo diverso da quello della finitezza e della relatività che appartengono alla dimensione finita umana. «Soltanto un Dio», che è guida dell’umanità attraverso le idee, può essere concepito come il fondamento di tutte le realtà relative nella sua natura «irrelativa» e non finita di «ultra realtà».11
-
E. Husserl, L’univocità del senso nella storia dell’umanità. Tre scritti sulla filosofia della storia, tr. it. N. Ghigi, Città Nuova, Roma 2017, p. 115. ↩︎
-
Ibidem, p. 129. ↩︎
-
«Ciò che deriva dal pensare razionale, dall’atteggiamento teoretico, giunge certamente anche a ciò che è compreso per consuetudine, praticato in quanto avente validità; ma, di consuetudine, è divenuta anche l’esigenza di poterlo giustificare dai suoi fondamenti, fondamenti che sono propri della ragione teoretica. La capacità della ragione, dell’evidenza di una validità comune a tutti gli esseri umani, è la capacità di quella validità che deve essere riperpetuata ad libitum, riportata a consapevolezza, giustificata» (ibid., pp. 118-119). ↩︎
-
È in particolare l’Europa, proprio mediante la storia delle idee, l’espressione della ragione, ad avere quella «forma spirituale» che, scrive Costa, si propaga «senza compimento» come apertura infinita (V. Costa, L’assoluto e la storia. L’Europa a venire, Morcelliana, Brescia 2023, p. 104. ↩︎
-
E. Husserl, Grenzprobleme der Phänomenologie. Analysen des Unbewussteseins und der Istinkte. Mataphysik. Spätetik. Texte aus dem Nachlass (1908-1937) [«Husserliana», XLII], R. Sowa, T. Vongehr (edd.), Springer-Dordrecht, Heidelberg-New York-London 2014, p. 250. ↩︎
-
Ibidem, p. 228. ↩︎
-
E. Husserl, Analysen zur passiven Synthesis. Aus Vorlesungs- und Forschungsmanuskripten, 1918-1926 [«Husserliana», XI], M. Fleischer [ed.], M. Nijhoff, Den Haag 1966, p. 219; Lezioni sulla sintesi passiva, trad. it. V. Costa, La Scuola, Brescia 2016, p. 324 ↩︎
-
L’intenzionalità universale va intesa per Husserl «come ciò che giunge a compimento, in maniera univoca, nell’unità di un sistema di compimento totale» (E. Husserl, Universale teleologie, in Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass. Dritter Teil. 1929-35, cit., p. 595), vale a dire come il fungere di una entelechia implicita, che «opera» in maniera inconsapevole rispetto all’umanità nel suo agire, e di una entelechia esplicita che emerge, invece, nella volontà di realizzazione del telos da parte di quel filosofo che si assume il compito di portare la ragione al suo rischiaramento (cfr. N. Ghigi, Introduzione, in E. Husserl, La storia della filosofia e la sua finalità, cit., pp. 16-18). ↩︎
-
E. Husserl, Grenzprobleme der Phänomenologie. Analysen des Unbewussteseins und der Istinkte. Mataphysik. Spätetik. Texte aus dem Nachlass (1908-1937), cit., p. 249. ↩︎
-
Ibidem, p. 151. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎