Dalla Vorhandenheit all’eidetico: una riflessione sul superamento fenomenologico dell’atteggiamento naturale

1. Premessa

La questione del superamento dell’atteggiamento naturale, vale a dire in generale di tutti i tipi di pregiudizi che hanno caratterizzato la storia della scienza, è il Leitmotiv di tutte le opere husserliane. Sommariamente, possiamo dire, nella Filosofia dell’aritmetica tale superamento si configura come indagine genetica dei concetti dell’aritmetica contro l’assunzione preconcetta di ogni atto costitutivo; nelle Ricerche come scoperta delle idealità e della legalità nei vissuti coscienziali e quindi della logica come teoria di tali processi da rifondare in forma rigorosa; a partire dalle Idee in avanti esso si delinea come il mettere in luce che le idee preconcette abbiano limitato nella storia della filosofia il sorgere di una filosofia autentica, ossia di una fenomenologia trascendentale; ed infine nella Crisi si imputa alle scienze che si sono affidate a certezze basate su presupposti, la responsabilità della crisi delle scienze stesse.

Il «fattore negativo» da combattere resta dunque sempre lo stesso: il presupposto e le assunzioni di presupposti alla base delle scienze; in una parola l’ingenuità dell’atteggiamento naturalistico, che assume come dati i concetti operativi di cui la scienza si serve nelle sue funzioni. Poiché questo essere-dato «non può bastare» ad una fondazione rigorosa delle scienze, secondo Husserl bisogna che i filosofi si assumano il compito di portare i concetti della scienza a nuova chiarezza dal punto di vista gnoseologico; in altri termini occorre «tornare alle cose stesse»1 e guardare ai fondamenti per rintracciarvi le stratificazioni di senso in cui originariamente l’uomo intendeva spiegare i fatti della realtà e, soprattutto i meccanismi in cui la mente conosce. Qui e soltanto in tutto ciò può essere cercata la verità perché solo nelle operazioni elementari che la mente compie vivendo i suoi stessi atti psichici, risiede il senso.

La battaglia contro il presupposto si delinea dunque essenzialmente come l’obiettivo di trovare il senso effettivo delle cose, il quale appunto soltanto in un atteggiamento critico non-ingenuo può trovare le sue vere radici.

2. La critica alle scienze

Iniziamo dalla fondazione non-ingenua delle scienze. Essa richiede innanzitutto una preliminare «purificazione» del concetto di scienza, nell’estrapolarla dal contesto ingenuo del pensiero naturale, il quale ne «oscura» e ne «dilegua» la vera identità. Il primo passo per scoprire il senso non-ingenuo della scienza si configura dunque come una sorta di sospensione dell’atteggiamento naturale.

Boehm ha delineato tale cammino articolandolo in quattro tappe2 che conducono ad una sospensione del giudizio (epoché) dell’atteggiamento ingenuo (naiv) e preparano il terreno ad una «fondazione eidetica» e poi «fenomenologica», della conoscenza.3 Attraverso tale cammino, si procede all’«epurazione» dei concetti operativi dell’indagine scientifica da tutte le assunzioni acritiche del pensiero naturale, per far luce sul concetto stesso d’indagine prima ancora che esso sia utilizzato dal pensiero scientifico. Ed è proprio dell’oggetto primo di ogni indagine, ossia delle evidenze e, di conseguenza, del concetto di evidenza,4 che le scienze fanno un uso ingenuo.

Sebbene, infatti, la scienza progredisca sistematicamente accrescendo le proprie conoscenze, essa tuttavia non mai rivolto le proprie indagini ai propri fondamenti e, paradossalmente, proprio per la mancanza di strumenti, che ne possano garantire l’assoluta certezza. «In verità, asserisce Husserl, le scienze mancano proprio di quella piena razionalità, che è costitutiva per l’idea di scienza»5 poiché si ergono su asserzioni che presuppongono una datità e un’evidenza indimostrate o assunte come tali.

«Le loro teorie, precisa ancora Husserl, sono invero costruzioni prodotte nell’evidenza; ma l’evidenza usata ingenuamente conduce a concetti e proposizioni fondamentali, che nella conseguente utilizzazione provocano contraddizioni».6 Ma in che cosa consiste l’evidenza non-ingenua?

Premettiamo che secondo Husserl il significato di evidenza proposto dalla tradizione filosofica classica è stato fondato sui concetti di dogmaticità e, soprattutto, di positività e che, di conseguenza, la ricerca scientifica, a maggior ragione quella psicologica in quanto ha fatto leva proprio su tale concetto operativo di evidenza, ha sempre assunto la definizione tradizionale dell’evidenza, senza mai discuterne il fondamento.7 Il pensiero ingenuo che ne è scaturito ha così prodotto un metodo per cui «il conoscere come facoltà originaria (il conferimento di senso, la fondazione dell’essere) degli oggetti noti, non perviene alla sua legittimità teoretica»,8 ma soltanto ad una chiarezza ingenua basata sull’evidenza «naturale» o «della positività».

Di ben altra natura è l’evidenza della originaria chiarezza trascendentale dell’origine (Evidenz der transzendentalen Ursprungsklarheit) «in cui l’origine della produzione gnoseologica (Erkenntnisleistung), celata nell’evidenza della positività, viene resa manifesta con il suo orizzonte della motivazione originariamente determinata e delimitata e così viene compresa dalle origini».9 Eppure nonostante la sua originarietà questa seconda specie di evidenza non ha ancora garantito quel carattere di apoditticità tipico della criticata «evidenza positiva».10 È necessario perciò cercare un nuovo senso di apoditticità che si contrapponga a quello «ingenuo-dogmatico» dell’«evidenza positiva». «L’evidenza che noi abbiamo, scrive Husserl, ci si deve anche giustificare in quanto evidenza, ossia noi ci dobbiamo persuadere che la nostra intenzione conoscitiva… rende veramente effettivo di per sé il conosciuto e che è data… senza le corrispondenti componenti della autodatità (Selbstgegebenheit)».11

La caratteristica di un’evidenza che ci offre la datità del conosciuto direttamente ed in maniera, per così dire, «passiva» (cioè senza che la «nostra intenzione conoscitiva» debba attivare ulteriori processi gnoseologici), fa sì che l’evidenza sia un’evidenza «adeguata», ossia che lasci intravedere, anche se solo idealmente, l’idea di compiutezza propria del dato che si dà (che si evidenzia). Tale carattere di adeguatezza dell’evidenza12 sembra essere operativo sia nel campo apodittico-positivo sia in quello apodittico non-positivo. «Possiamo descrivere questa proprietà dell’evidenza adeguata anche come la sua apoditticità… Perciò possiamo utilizzare entrambe le espressioni come equivalenti…».13

Se vogliamo che la filosofia sia la scienza vera e universale, ipotizza Husserl riguardo all’Anfangsproblematik, bisogna dapprima ritornare a riflettere laddove si è lasciato erroneamente qualcosa per scontato. In questa dimensione che Husserl chiamerà eidetico-trascendentale, l’apoditticità dell’evidenza «non-ingenua» si identificherà con la percezione soggettiva dell’autodatità del dato.

Oltre alla problematica dell’evidenza, secondo Husserl, un altro aspetto da liberare dall’ingenuità è la distinzione fra la causalità propria della coscienza e quella naturale, idealmente concepita come tale, di cui fa uso la scienza. Qual è la vera causalità? Oppure, detto diversamente, quale può dirsi la causalità effettivamente «costitutiva»?

«Il causalismo radicale (streng) che la scienza della natura pretende per l’intero regno della natura, sostiene Husserl, sembra togliere la libertà che l’agente persistentemente premette e mette in azione», mentre «a questa natura appartiene anche la sovrastorica vita dell’anima…»14 È il «pregiudizio naturalistico» ad aver tralasciato gli aspetti più propri della «sfera spirituale», inquadrandoli in un angusto spazio psicologico come quello rappresentato dallo spirito o dall’anima naturalmente obiettivata.

Per la filosofia naturalista infatti, spiega Husserl, «l’essere psichico non è un mondo a sé, esso è dato come “io” o come momento di coscienza (Erlebnis) dell’io (per altro in un senso molto diverso). Esso si mostra parimenti legato per un modo di esperienza ad un complesso di cose fisiche che diciamo “corpo”; questo è pure un dato immediato e naturalmente evidente».15 Per di più, secondo quest’immagine dello spirito indagabile in maniera scientifica, gli avvenimenti dell’anima «concorrono in un annodamento regolarmente ordinato con la corporeità»,16 quasi seguendo quelle leggi naturali i cui dati di fatto ne rivelano la dipendenza.

Ma ad un’analisi per così dire «storica», ossia condotta sottoponendo ad un attento controllo le modificazioni del ricordo che avvengono nella sfera dell’io, questo tipo di causalità rappresentata dall’aspettativa di una certa realtà naturale, si rivela assolutamente insufficiente. Infatti lo studio della causalità naturale segue un andamento regolato dai nessi di causa-effetto, mentre nella sfera dell’io il meccanismo causale è determinato principalmente dal tempo naturale della coscienza nel suo «tendere ad una meta», ossia dalla sua Zielmäßigkeit. In altri termini, spiega Strasser, «per il fenomenologo è sicuramente (freilich) significativo un altro fatto, che non si lascia spiegare secondo la causalità delle scienze della natura: la Zielmäßigkeit della nostra concreta vita di coscienza».17

Se, per l’appunto, nell’ambiente (Umwelt) si verifica un sostanziale «causalismo» di tipo naturalistico che accompagna tutti i fenomeni come dati di fatto, accanto a questo è all’opera anche una causalità motivazionale propria della coscienza, che ha una struttura completamente differente in quanto la scansione degli avvenimenti è descrivibile solo a partire dalla spinta propulsiva che un determinato interesse provoca singolarmente in un individuo. Ciò è assolutamente improponibile per la «filosofia naturalistica» secondo cui, come osserva Husserl, «ogni ente ha una natura psico-fisica, ossia è determinato da una legalità costante» che sembra escludere qualsiasi spinta propulsiva e, di conseguenza, automaticamente le unità coscienziali, immanenti-intenzionali, incluse nella coscienza. Per questa ragione, afferma Husserl, la «filosofia naturalistica» perviene in ultima analisi ad una «naturalizzazione della coscienza» e alla «naturalizzazione delle idee».18

Anche lo storicismo ha messo in luce questa questione che «deriva dalla scoperta della storia e dalla fondazione delle scienze dello spirito».19 Questo «fenomeno», come lo chiama Husserl, pretende di occuparsi dei fatti della vita empirica ponendo «in modo assoluto il vivere psichico, senza naturalizzarlo direttamente»,20 ma giungendo alla fine alle medesime conclusioni di «naturalizzazione» proprie della filosofia naturalistica. «Weltanschauung e filosofia della Weltanschauung, scrive appunto Husserl, sono formazioni culturali che avvengono nel volgere dello sviluppo umano e poi svaniscono; qui il loro importo spirituale è determinato e motivato fra le relazioni storiche date. Ora lo stesso vale pure per le scienze rigorose. Ma si sottraggono esse per ciò stesso ad ogni validità oggettiva?»21

In altri termini, sembra domandarsi Husserl, per ovviare alla «naturalizzazione della coscienza» e quindi all’oblio della spiritualità e della motivazione che animano il vivere della coscienza, è necessario ricorrere al «soggettivismo estremo» a cui approda lo storicismo? Quale valore avrebbe in questo caso la «causazione motivazionale» del mondo dello spirito, se la sua fondazione scientifica divenisse storicamente relativa e, quindi, oggettivamente inconsistente?

Chi, come l’autentico storicista, esclude l’esistenza di un determinato sistema e nega la sua universale validità scientifica, esclude la possibilità di una validità assoluta in generale, tanto della storia quanto delle scienze. Ed allora, quale senso avrebbe combattere la riduzione della coscienza a «fatto naturale», se ad essa non viene contrapposta un’alternativa scientifica pronta a sostituirne i fondamenti naturalistici che ne hanno sempre impedito una corretta valutazione?

La saggezza della Weltanschauung ha certamente un grande valore, «ma si dovrà dimostrare che, riguardo all’idea di filosofia, bisogna pur soddisfare ad altri valori, che sono superiori da certi altri punti di vista, ossia ai valori di una scienza filosofica».22 Infatti, mentre ogni tempo ha una saggezza e quindi una sua idea di Weltanschauung, l’idea di cui ha bisogno un’autentica fondazione delle scienze dello spirito deve proporsi come assolutamente valida nel tempo poiché la scienza deve essere intesa come «il titolo di valore assoluto intemporale».23

Viceversa, omettendo tale verità e, in particolare, riconducendo ogni manifestazione nell’angusto ambito della causalità naturale, la «filosofia naturalistica» ha impedito all’originale causalità del regno dello spirito di esprimersi. Così facendo, oltre a fraintendere la diversità strutturale delle due causalità, ha anche alimentato un certo «scetticismo» nei confronti di una filosofia radicale, dando vita alla creazione di filosofie «spirituali» come lo storicismo assolutamente prive di validità scientifica.

«È certo una grande e bella cosa “intendere” la vita spirituale dell’umanità, avverte Husserl riferendosi direttamente all’intendere storicistico. Ma purtroppo anche questo intendere non può esserci di aiuto, né deve essere confuso con l’intendere filosofico che deve svelarci gli enigmi del mondo e della vita».24

Per tale ragione, contro lo storicismo che finisce per «intendere il soggetto filosofante come interamente determinato dall’esterno, senza contatto col suo proprio pensiero e votato allo scetticismo, arguisce Merleau-Ponty, … Husserl vuole riaffermare la razionalità al livello dell’esperienza… Si tratta di trovare un metodo che permetta di pensare insieme l’esteriorità che è il principio stesso delle scienze dell’uomo, e l’interiorità che è condizione della filosofia, le contingenze senza le quali non c’è situazione, e la certezza razionale senza la quale non c’è sapere».25 «L’impulso alla ricerca non deve provenire dalle filosofie ma dalle “cose” e dai problemi».26

3. La via cartesiana

Compiuta la prima riduzione, ossia affrancato il concetto di evidenza dall’ingenuità ed aperta la strada alla fondazione scientifica della «causazione motivazionale» propria del mondo spirituale, si presenta subito una nuova problematica da porre in questione (in termini fenomenologici, da «ridurre»), che riguarda l’essere del mondo per noi. Infatti, se si trattano gli avvenimenti in relazione alla coscienza nei suoi diversi tipi di causazione emerge spontaneamente la questione dell’essere degli avvenimenti stessi, della loro autentica realtà e questo «essere del mondo per noi» richiede, secondo l’analisi fenomenologica, una scrupolosa indagine «riduttiva».

Tale seconda forma di riduzione, corrispondente alla prima vera via verso la sfera trascendentale, consiste nell’inibire, sulla scorta del dubbio scettico di Cartesio, «ogni interesse all’essere del mondo, cosicché nel nostro campo visivo entri la soggettività trascendentale».27 Dunque seguire «rettamente» la via cartesiana equivale a raggiungere la possibilità di immettersi immediatamente in un campo trascendentale a patto che, come per la critica all’ingenuità del pensiero scientifico, siano sollevate obiezioni ad una caratterizzazione «positivo-naturale» e venga eliminato ogni pregiudizio filosofico verso una conoscenza filosofica autentica.

Intanto, fin dall’inizio di questo percorso è necessario sottoporre a critica l’io riflessivo in modo da inibirne le intenzioni percettive, perché «ogni percezione spaziale della cosa (che abitualmente è denominata percezione «esterna»), può rivelarsi deludente, sebbene essa giunga al suo proprio senso per mezzo di una diretta autoprensione (Selbsterfassung)».28 Del resto, «di principio nulla è nel percepito e del percepito puro e adeguato»29 e anche il percepire più netto ed indubitabile può rivelare delle «manchevolezze» strutturali.

Ora, a prescindere dall’eventuale precisazione per cui in questa forma di «riduzione» i concetti di apoditticità e adeguatezza vanno inquadrati in relazione ad una visione non più naturalistica, ma in relazione ad una visione libera dall’ingenuo «sguardo positivo» all’apparente datità del mondo, bisogna rilevare che ciò nonostante in questo primo passo fenomenologico sopravvive una certa ingenuità. Tale «difetto» è causato principalmente dalla spontaneità del confidare nella «completezza» (qui inequivocabilmente sinonimo di adeguatezza) della percezione quando invece, come mostra la dubitabilità iperbolica di Cartesio che Husserl estende anche all’esperienza percettiva, tale «completezza» è inficiata dal carattere «presuntivo» della percezione stessa. Pertanto la percezione che ingenuamente risulta «completa» deve essere ritenuta gnoseologicamente inaffidabile.

Questa «manchevolezza» della percezione e la conseguente ricaduta nell’atteggiamento ingenuo sono dovute essenzialmente al nostro modo di rapportarci alle cose, che sembra contraddistinto dal restringimento della percezione nella particolare categoria chiamata da Husserl «anticipazione» per cui «in continuazione noi diciamo: “il” mondo, e lo esperiamo, unico e medesimo, come autoappreso in carne ed ossa, sebbene questa autoprensione (Selbsterfassung) è in toto semplice anticipazione…».30 «Anticipare» la percezione del mondo significa che, secondo la nostra «visione anticipata», il mondo risulta con le fattezze di un fatto «pre-percettivo», ossia come un qualcosa che precede la percezione naturale spontaneamente connessa alla rappresentazione del mondo ed, inoltre, che in questa «visione» l’oggetto-mondo è ipotizzato come ciò che si offre in carne ed ossa (leibhaftig) prima di ogni esperienza percettiva.

La limitazione gnoseologica della percezione all’anticipazione offre una certa conoscenza del dato e dell’oggetto-mondo ma, se si osserva più attentamente e si tenta di cogliere globalmente un aspetto particolare dell’oggetto-mondo, si verifica l’apparire continuo di ulteriori fatti che rendono tale esperire perennemente (immer wieder) imperfetto.31 Nel caso in cui si cerchi di individuare un particolare qualsiasi, infatti, bisogna ricorrere ad ulteriori anticipazioni, che limitano di nuovo l’esperienza percettiva alla percezione di un solo aspetto e mai del fatto globale. Ciò è dovuto ad un limite costitutivo dell’esperienza percettiva che è costretta negli argini della conoscenza dei singoli aspetti.

Di fronte a tale limite e per accrescere in qualche modo le possibilità gnoseologiche dell’esperienza percettiva, Husserl adotta come possibile antidoto l’espediente della «correzione». Tale espediente consiste nell’«aggiustamento» continuo dell’osservazione di un determinato oggetto secondo «approssimazioni progressive», che rendono sempre più completa la «visione» reale. Eppure anche questo «aggiustamento» non conduce alla verità primordiale, bensì solo ad un «così appare, così allude ad essere», che si rivela essere «soltanto espressione della effettiva struttura della nostra esperienza universale».32

In un certo senso quindi, la «correzione» favorisce un’approssimazione valida alla conoscenza effettiva del mondo, pur tuttavia risulta ancora di per sé insufficiente per la completa «prensione» cui tende l’esperire per natura. Che il mondo esista in quanto ne abbiamo una percezione immediata, scrive Husserl, «sarebbe un’idea — che però significa che esso d’altro lato è tout court impensabile come percepibile in maniera adeguata».33

Si potrebbe perciò dire, in riferimento all’esperienza percettiva, che la completezza concerne l’incompletezza del percepito (ossia la visione parziale di esso) e, insieme, la completezza del percepibile (la compattezza del polo oggettuale). Nel contempo però va detto che, nonostante questo carattere in qualche modo assoluto e relativo dell’esperienza percettiva, anche una volta che sono state «corrette» le sue manchevolezze, il processo percettivo risulterà ancora inadempiente e questo, secondo Husserl, per un «difetto filosofico» storicamente radicato nell’esperienza gnoseologica generale. «Mentre io percepisco il mondo e quindi esperisco, e percepisco in ancora più grande pienezza, mentre, dunque, esso è per me consaputo in una infrantumabile certezza come autodato, della cui esistenza io per eccellenza non posso dubitare, esso rivela una persistente contingenza gnoseologica e cioè del senso che questa autodatità in carne ed ossa non interdica mai ad esso il non essere di principio».34

Il problema della manchevolezza dell’esperienza percettiva dunque non è solo relativo alla sua struttura, per così dire «difettosa», ma è anche conseguente alla presupposizione, derivata dalla filosofia cartesiana, dell’esistenza del mondo dogmaticamente assunta come tale. In altri termini, in conformità a tale presupposto e perciò stabilendo che io posso dubitare del mondo come autodato, quando decido di metterlo in dubbio stabilisco ipso facto apoditticamente che esso è così come io lo intendo. «In tutto ciò, precisa ulteriormente Husserl, consiste l’insopprimibile contingenza dell’affermazione “il mondo è”».35

Alla luce di questa conclusione, la chiave di volta per ottenere la visione (Einsicht)36 effettivamente autentica della realtà consiste nel mettere tra parentesi tanto il nostro rapportarci al mondo, quanto l’essere del mondo stesso e non già, nel cercare di risolvere i problemi essenziali restando ancorati a principi assolutamente infondati, come il pensiero filosofico ha fatto finora. D’altra parte, se non si mette in dubbio l’esistenza del mondo, non si può dire nulla circa i suoi fondamenti e si finisce per accettare il mondo come dato costruendone così una conoscenza di esso ingiustificata e contingente. Per contro, se si intende la conoscenza del mondo come un continuo esperire della percezione originaria, si intraprende «correttamente» la via iniziata da Cartesio e si porta a termine l’autentico scopo del dubbio iperbolico. Inoltre, solo così procedendo e cioè mettendo in dubbio ogni «dato di fatto», si rende esplicito il pre-gnoseologico della percezione esterna che sarà l’esperienza per poter raggiungere l’auspicata «visione originaria» delle cose.

Ora, per sondare le effettive carenze di una simile esperienza e dopo aver scoperto l’inaffidabilità di ogni presupposto gnoseologico riguardante in generale i «dati di fatto», occorre rivolgersi alla principale fonte della conoscenza di tali dati, cioè alla cosiddetta «percezione esterna».

A tale fine premettiamo che questa percezione per Husserl s’identifica con la percezione di un qualsiasi accadimento esterno in grado di «riprodurre» l’accadimento come tale, nella sua realtà (nel suo processo dell’accadere). Ma, per conferire un valore scientifico alla «percezione esterna» nonostante la sua strutturale «manchevolezza» per cui, come si è mostrato, un fatto è sempre «visibile» solo da un lato e mai globalmente, occorre sottoporla ad una critica che Husserl denomina critica dell’«esperienza mondana». Tale critica s’identifica in una scrupolosa analisi dell’esperienza percettiva e risponde allo scopo di eliminare le forme di pensiero stratificate in seguito alla «visione ingenua», per restituirle il suo aspetto originario.

L’esperienza mondana invece è l’esperienza dell’ovvio, del ciò che «è alla mano» (Vorhandenheit) e, dunque, di ciò che è apparentemente «improblematizzabile» perché ritenuto autoevidente. Altrimenti detto, noi ci disponiamo naturalmente di fronte a ciò che si presenta ai nostri occhi come se la sua effettiva esistenza sia assolutamente indubitabile; ma, si chiede Husserl, «come sarebbe la realtà, se proprio nulla fosse?»37o, meglio, se nulla fosse assolutamente come noi pensiamo che sia, al di fuori del nostro percepire?

Per rispondere a tali interrogativi, occorre analizzare più da vicino l’esperienza mondana della «percezione esterna». L’Io «percipiente» ossia il mio io, in quanto fattore principale del momento percettivo, si caratterizza da principio come protagonista attivo di questa esperienza e quindi come osservatore del fenomeno percettivo. Ora, lo stare-di-fronte-alle-cose-del-mondo da parte del mio io include anche me tra gli oggetti osservati. È infatti innegabile «che io, nella critica dell’esperienza mondana cognitiva, ho premesso me e la mia vita esperiente»38 e quindi che anche «io sono un oggetto della mia esperienza mondana tra gli altri».39

Come può dirsi a questo punto valida, ovvero scientificamente apodittica, una tale esperienza, se l’esperiente (der Erfahrende) stesso è sottoposto ad una valutazione e cioè è anch’esso relativo alla mia valutazione?

Per uscire da questo «circolo» Husserl ritiene di dover abbandonare ancora una volta la nostra visione naturale delle cose. Quello che ci sembra naturalmente effettivo, ovvio o naturale, va tralasciato e messo da parte. A questo punto però, «non è molto più evidente il fatto che a questo punto cominciano a spiccare due differenti significati di io?», l’Io-soggetto dell’esperienza e l’Io-oggetto; e che quindi, diviene evidente che quando mi trovo di fronte alle cose del mondo, trovo anche me come fatto tra i fatti?

A questo punto bisonga comprovare apoditticamente che «l’Io che è soggetto dell’esperienza sia identico a quello che, nell’uomo, è diventato Io obiettivo»;40 e quindi dimostrare apoditticamente che nella percezione che ho dei due Io (l’Io-oggetto e l’Io-soggetto), vi sia la loro identificazione come appartenenti ad un identico Io-uomo.

«L’esperire mondano in cui Io come uomo sono oggetto d’esperienza, non è certificabile invero, scrive Husserl, mentre io sono così in azione, nel contenuto obiettivo dell’esperienza; ma esso dapprima giunge alla mia prensione (Griff) attraverso riflessione. Eppure tale esperire risulta nondimeno — ed in maniera evidente — il mio esperire, cioè il mio come di quest’uomo qui».41 Quindi la difficoltà sembra quella di poter assicurare un’autentica evidenza all’Io-oggetto dell’esperienza, nello stesso momento in cui io medesimo compio l’indagine su quell’esperire.

«Ma malgrado tutto ciò, spiega Husserl, simili aporie a cui io vado incontro per una più esatta considerazione, non riesco a lasciar sfuggire la differenza», che si rivela sostanziale fra i due Io. Nel processo in cui io compio la critica all’esperienza mondana e guardo ad essa come verso un qualcosa le cui possibilità di spiegazione risiedono nella mia costruzione ed esplicazione individuale, «sorge in me di fatto la visione apodittica che, in relazione alla fattualità, il mondo esperito non ha bisogno affatto di essere».42 In altri termini, il dato che la critica dell’esperienza mondana mette in luce è il fatto che il mondo come tale, ossia in quanto oggetto della mia percezione, è frutto della mia attività percettiva e pertanto, in quanto mondo percepito, potrebbe benissimo essere altro o non essere affatto. «Stabilito dunque ciò, questo mondo potrebbe non essere affatto e non sarebbe neppure il mio corpo né dunque io come uomo, così non resterebbe alcunché … Io sarei e resterei quello della nullificazione di tutto ciò che è mondo…»43

A causa della «apoditticità relativa del mondo», è dunque necessario togliere all’esperienza mondana ed alla «esperienza esterna» la loro validità apodittica. D’altra parte anche l’io-uomo, in seguito al suo far parte di quel mondo percepito, non ha più la possibilità di collegare la propria soggettività ad un corpo e, quindi, anche esso deve essere inscritto nell’orizzonte della contingenza gnoseologica.

Ma, di fronte a tale esito della riflessione, sorge spontanea la domanda: che cosa resta di apodittico, se si è stabilito con certezza che «nessun essere temporale è riconoscibile in apoditticità»?44 È vero infatti che una volta messa in crisi l’esperienza mondana si è raggiunta la consapevolezza della relatività della conoscenza e quindi dell’essere del mondo. Eppure è altrettanto vero che proprio in virtù di una tale relatività (Husserl parla di «apoditticità relativa del mondo»), traspare il polo «non più mondano» in cui la contingenza del conoscere diventa un’esperienza assolutamente apodittica. Si tratta della Selbsterfahrung, ossia della visione apodittica dell’Io che vede apoditticamente la contingenza gnoseologica del mondo.45

4. Dal mitico-pratico al teoretico

Riflettendo sulla conoscenza del mondo e sulle difficoltà ad essa conseguenti cui ha condotto la via cartesiana, secondo Husserl si apre la possibilità di intravedere un nuovo percorso. «Ho pensato la seconda via come derivante dal contrasto fra la visione del mondo mitico-pratica e la visione del mondo guidata dall’interesse teoretico».46

Questa nuova via, che egli chiama «la seconda» fondendo in un unico percorso il cartesianischen Weg e la Wissenschaftskritik, ha la stessa finalità delle precedenti vale a dire l’eliminazione dell’ingenuità dal pensiero scientifico, ma un diverso punto di partenza, che l’analisi fenomenologica rinviene nelle originarie formazioni del pensiero mitico.

La «visione mitico-pratica del mondo» corrisponde all’inizio del pensiero allorquando le prime formulazioni astratte del pensiero umano si sono strutturate in funzione del conoscere. Da allora il mondo ha cominciato a rivelarsi gradualmente come «il mondo dell’esperienza». Nello stesso tempo la ragione, guida di tale esperire, da un iniziale stadio «spassionato» (nüchtern) si è incamminata verso la propria «autoconsapevolezza» ed «autocostituzione» nelle vesti di ragione dossica o ragione logica. Nella «visione del mondo guidata dall’interesse teoretico», chiarisce a tale proposito Husserl, «si trova il proprio inizio: la stabilizzazione dell’esperienza e conoscenza pure e teoretiche e della concezione «spassionata» del mondo, da cui la cultura autonoma… sorge nella «ragione» spassionata e sotto la guida della ragione dossica».47

Il cammino del pensiero degli inizi si è mosso da principio in connessione con gli interessi pratici e con le intenzioni generali che hanno permesso la costituzione di norme e costumi. È nata così la logica come «scienza degli inizi». Ora, al fine di poter nuovamente «purificare» il pensiero, in questo caso nel campo della logica, dall’ingenuità della «visione naturale» che ne ha reso inoperanti le caratteristiche più autentiche, è necessario ripercorrere le tappe della «formazione logica originaria dell’umanità» secondo l’originaria ragione «spassionata», e «ricreare», così propone Husserl, «un altro inizio».48

La logica degli inizi era animata da un unico scopo, quello di conoscere e di trovare soluzioni efficaci per il mondo quotidiano. Per tale ragione l’attività teoretico-speculativa si è sviluppata in funzione pratica. La visione intellettuale, le norme, la scienza e, in generale, la conoscenza hanno avuto come scopo principale quello di dar luogo, da un lato ad un mondo controllabile e dall’altro, quello di controllarlo formalmente riconducendolo entro un in un contesto logico-razionale. Per questo, nel corso della storia umana, ha preso forma l’idea di costituire una «scienza assoluta dei principi», in grado di garantire la verità universale delle affermazioni soggettive.

«Lo sviluppo dell’idea di una Mathesis formale, spiega Husserl, conduce oltre la pura dottrina delle forme dei significati ad un’analitica specifica- come logica della contraddizione. Da qui procede la via verso la logica della verità formale».49 Tale logica appunto ha come scopo quello di produrre «proposizioni giudicative» (Urteilssätze) e di esprimere così «verità giudicative».

Tuttavia, la difficoltà di questa operazione formale risiede nel fatto che, pur riuscendo a connettere proposizioni a verità giudicative, una simile logica non garantisce affatto la «costituzione effettivamente vera» di giudizi e proposizioni. Infatti, sebbene queste ultime verrebbero ad assumere una forma assolutamente valida, così come i giudizi, esse non riuscirebbero ad adempiere l’iniziale esigenza che aveva animato lo sviluppo di una scienza come la logica. Tali proposizioni e tali giudizi, cioè, non rispondono al quesito di base che la logica sottende, vale a dire non soddisfano l’urgente bisogno di trovare una corrispondenza tra verità logica e cose «reali», a cui fra l’altro la logica fa riferimento.

Per colmare una tele lacuna, suggerisce Husserl, sarebbe opportuno provare a «recuperare» il momento «pre-formale», in cui la logica avrebbe dovuto offrire solamente i mezzi argomentativi alle domanda sulla realtà delle cose. «Stando nella positività abbiamo… il mondo predato (vorgegebene Welt) e possiamo trovare in esso il pre-valutativo mondano attraverso una decostruzione (Abbau)».50 Grazie a questo procedimento «decostruttivo» è possibile risalire alla «predatità» del mondo e soprattutto alle strutture formali che lo costituiscono come «predato». «All’apriori di un’esperienza concordante e dell’essere esperito (nel Logos), precisa ancora Husserl, corrisponde, nel grado più alto, l’apriori di una valutazione e di un’azione concordante e non come di un mondo in quanto dato di fatto… bensì di un mondo ideale…».51

Un tale «apriori del mondo» equivale ad un mondo ideale che intende «il mondo non dato come dato di fatto» e cioè come un episodio semplicemente certificato dall’esperienza che si verifica «al di fuori», ma piuttosto come «costituito» dalla logica umana e dalla cultura, per la comunità umana.

Sarebbe questo il senso autentico, contrapposto a quello ingenuo, che la logica dovrebbe cercare di «recuperare» nella «genuinità» (Echtheit) della vita umana e nel suo correlarsi ai fatti e al mondo. E d’altra parte solo in questa ottica, a partire cioè dalla scoperta dell’autentica finalità della logica originaria, è possibile ravvisare in essa la Zielmäßigkeit umana (la tensione umana alla realizzazione ideale) ed il senso autentico dell’essere del mondo.

Che cosa succederebbe se invece venisse sollevata la questione del «per sé» del mondo al di là della sua idealità che Husserl ha risolto in un definitivo a priori? Il problema sembrava non presentare aporie riguardo al concetto di mondo contenuto nel passo sopra esaminato come «mondo ideale» il cui «in sé» in verità non è necessario, visto che «un mondo non ha bisogno di essere» né di avere una «verità in sé».52 Tuttavia, riflettendo più approfonditamente sulla questione, si vedrà emergere un altro importante aspetto a cui il percorso husserliano fa riferimento e che offre della concezione del mondo, oltre all’apriori, un’ulteriore prospettiva.

Spontaneamente noi immaginiamo il mondo facendo riferimento ai fatti ed alle cose che vediamo. Secondo questa «visione spontanea» il mondo ingloberebbe in sé ogni fatto e dunque sarebbe «un insieme di fatti». Ma in realtà se è vero che si rivela nei fatti, è anche vero che il mondo si rivela in questi non nella sua «totalità», bensì solo in alcuni suoi aspetti, cioè nella sua singolarità. Inoltre, siccome la singolarità, come abbiamo già avuto modo di dimostrare, non si dà in maniera definitiva e una volta per tutte, la prensione del mondo che con esso si attua, avviene solo in concomitanza con la prensione di un orizzonte del singolo fatto, il quale a sua volta rivela una sola ed unica faccia della realtà. Per questa ragione penetrare l’orizzonte di un accadimento implica che oltre al fatto si colga la singolarità del mondo a cui l’orizzonte si richiama.

Cerchiamo di chiarire questo punto. Precedentemente si è stabilito che la «visione del mondo» è visione di un fatto del mondo e di un «singolo» suo aspetto. Di conseguenza, conoscere il singolo aspetto di un determinato fatto implica il raggiungimento di una «visione orizzontale» e «limitata» del mondo. Per questo la conoscenza si configura come una continua prensione di orizzonti e, quindi, di fatti la cui individualità illumina solo una singola zona del contesto-mondo.

Ora però, dato che il mondo «come totalità» ha un orizzonte «totale» in cui si rispecchiano tutti gli orizzonti dei fatti, viene spontaneo chiedersi: si tratta di un orizzonte infinito o delimitato e finito? Qualora infatti sia infinito, come si evince dall’affermazione che i fatti accadono illimitatamente e sono essi a garantire la «compattezza» al mondo, allora l’orizzonte del mondo come «totalità» sfugge ad ogni prensione. Nel caso in cui viceversa sia finito, come risulta immediatamente se è considerato come «contenuto» e dunque limite dei fatti, allora diventa possibile una sua prensione.

La risposta all’intricata questione sembra contenuta in un Manoscritto che Gerd Brand ha preso in esame nel suo studio sul problema del mondo in Husserl. «La rappresentazione del mondo, si legge in questo Manoscritto, non è una rappresentazione fra le mie rappresentazioni. Essa è un movimento e una sintesi universale nel movimento di tutte le mie rappresentazioni, tale che tutto ciò che in essa è rappresentato si riunisce nell’unità del mondo, come unità di qualcosa che è reciprocamente implicato, il correlato dell’unità, che si è prodotta e che progressivamente si produce di tutte le mie rappresentazioni…».53

Questa «unità di qualcosa che è reciprocamente implicato» e che progressivamente si produce producendo a sua volta rappresentazioni, dà modo di connettere sia l’aspetto infinito (nell’infinita capacità di venir rappresentato), sia quello finito (nella sua peculiarità di essere «correlato dell’unità») dell’orizzonte del mondo. Per questo Brand definisce il mondo come qualcosa che «non può essere ritrovato nella stessa direzione degli orizzonti», bensì come ciò che è «al di sopra e al di là degli orizzonti, un terreno e un fine».54

Secondo tale affermazione, la questione dell’apriori sollevata all’inizio può essere risolta in questi termini: il «per sé» del mondo deve essere concepito come il suo orizzonte e la sua idealità, che è la trascendenza del mondo stesso. Il suo apparire, sottolinea la Trentaquattresima Vorlesung, è infatti «un apparire trascendentale»,55 ossia un apparire che «noi cogliamo» ed entro cui «noi cogliamo». La struttura di tale apparenza ci permette pertanto di cogliere l’essere del mondo come «orizzonte del nostro cogliere stesso» mentre penetriamo gli orizzonti che costituiscono il mondo. «Il mondo è una specie di «visione» del mondo (Weltanschauung)»,56 sottolinea di nuovo Brand, ma, soprattutto, orizzonte «in sé», che si offre come terreno per l’esperienza dell’io e funge da terreno al dispiegarsi degli orizzonti.

Alla luce di una tale conclusione, sembra possibile poter descrivere l’essenza del mondo come l’avere un orizzonte e l’essere un orizzonte per l’io che, nel suo sfondo, appunto perviene alla conoscenza della totalità. La «disponibilità» del mondo perciò permette ogni movimento dell’io; ogni singolarità, di conseguenza, s’iscrive in questo terreno.57

5. La via oltre le ontologie positive

In un’Abhandlung del 1923 intitolata Via verso la fenomenologia trascendentale come assoluta e universale ontologia attraverso le ontologie positive e la positiva filosofia prima, Husserl riannoda le fila della sua critica alla scienza, tracciando un percorso attraverso «l’ontologia positiva» e «la positiva filosofia prima». Questa riflessione è rivolta a superare il relativismo della scienza ed a ritrovare le sue radici ontologiche. A tale scopo Husserl insiste ancora sulla distinzione fra il significato «positivo» e quello «fenomenologico» di ontologia, questa volta chiamando in causa problematiche «ultrascientifiche».

Che cosa intenda per «positività» lo ha già chiarito nella «critica alle scienze», quando ha definito «positiva» la «visione naturale» strutturata su un’evidenza ingenua del mondo. Ma in più, in quest’ultima «via», che Husserl indica come ulteriore allontanamento della visione «scientifica» da quella «ingenua», il cardine della distinzione tra «positivo» e «fenomenologico» sembra incentrato sulla puntualizzazione che non si dà un senso relativo di ontologia, come vorrebbe l’indagine scientifica, bensì soltanto un concetto di ontologia «trascendental-fenomenologico con valenza di universalità».58 In questo ordine di idee, occorre chiedersi: che cosa significa ontologia positiva e relativismo ontologico da un lato, e ontologia e universalità ontologica, dall’altro?

Per rispondere a questa domanda innanzi tutto è necessario riflettere sulla premessa fenomenologica che l’essere non sia obiettività da indagare sulla base di qualsivoglia presupposto ma, al contrario, che l’essere sia il vero primo oggetto di un’autentica ontologia (come «scienza dell’essere»). Tale avvertimento permette di distinguere i differenti concetti di ontologia «positiva» e «fenomenologica».

L’«ontologia positiva», per tutto ciò che si è già detto sulla «positività», è una «struttura relativa» ad un preesistente impianto filosofico, ossia un’asserzione scientifica sulla realtà delle cose, che rimanda a delle premesse non giustificate e, dunque, oscure e infondate. L’«ontologia trascendentale», per converso, «è eo ipso fondata su se stessa e richiede poi, di nuovo da se stessa, uno svolgimento graduale (Stufenbehandlung) a cui si dirige per assicurarsi la propria sistematica completezza ed allo stesso tempo per oltrepassare la propria originaria ingenuità (un’ingenuità di un livello più alto)».59 Ciò comporta che tale forma di ontologia, che per questa sua radicalità Husserl definisce l’autentica o «genuina» (echte Ontologie), sia da intendere già come scienza assolutamente prima in quanto si interroga sulla struttura dell’essere e dei fondamenti dell’essere stesso.

D’altra parte, come si precisa nella conclusione della citata Abhandlung del 1924, il significato «autentico» di ontologia deve coincidere con la definizione di ontologia «come scienza delle necessità apodittiche», che «altro non è che la sistematica costruzione… dell’idea di scienza».60 È proprio in virtù di questa sua essenzialità, che tale ontologia permette il superamento del relativismo, poiché indica con i suoi principi la strada «che ci assicura il dominio su tutte le relatività, su tutte le correlazioni dell’essere. E ciò può realizzarsi e deve divenire possibile, nel costruire sistematicamente a priori l’essenza della soggettività trascendentale in un sistema».61

Grazie a questa sua struttura, pertanto l’«ontologia genuina» garantisce la priorità in sé e l’immediatezza di una scienza prima e assoluta rispetto ad ogni altra formazione scientifica e, per questo inoltre è in grado di divenire il punto di vista di riferimento fermo e a priori per qualsiasi scienza. Per tali ragioni, una volta raggiunta la sua completa fondazione, l’obiettivo di questa ontologia diviene quello di indagare tutta la sfera originaria e, in particolare, la «forma originaria» (Urform) che guida le azioni e le intenzioni umane, al fine di assicurare ad esse una fondazione strutturale, assolutamente autentica.

Ora, ci si chiede: come si struttura tale «forma» che solo un’ontologia originaria riesce a prendere in esame in maniera radicale?

Secondo un’indagine storica, sembra rilevare Husserl,62 fin dalla reazione socratico-platonica alla sofistica, era sembrato evidente a filosofi greci che una sorta di «idea conduttrice» (die Zweckidee) animasse ogni riflessione filosofica sui fondamenti e promuovesse lo sviluppo scientifico. Ora, in seguito alle riflessioni filosofiche successive ed in particolar modo ad opera dello scetticismo, questa grande scoperta è stata fraintesa e soffocata e così è andata perduta la vera essenza della «filosofia prima».

Eppure, replica Husserl, in ogni agire umano è ben esplicita la presenza di una «tensione a qualcosa»; vale a dire, è sottintesa una «meta dello spirito» (i geistigen Ziele) che vivifica l’agire umano, pur senza esprimervisi apertamente.

Ebbene, quantunque i filosofi del passato abbiano avuto coscienza di questa «meta ideale» che in ogni tempo anima lo spirito umano, non hanno tuttavia riconosciuto «filosoficamente» tale forma e così hanno lasciato «intematizzato» un aspetto essenziale della filosofia prima. Recuperare tale momento però è ancora possibile, secondo l’analisi fenomenologica, qualora si riscopra quell’elaborazione spirituale volta ad un fine (Zweckidee) che sta a fondamento di ogni azione e giudizio umano. Husserl parla a questo proposito di Ideenwerke63 e distingue una comune da una individuale «tensione-verso-uno-scopo-ideale» (Selbstzweck o Selbstwert) attraverso cui poter ripercorre a ritroso la «causalità spirituale» che provoca l’agire, per metterne in luce i fondamenti. Ritiene inoltre che, in tale indagine, sia possibile riscoprire l’essenza della causalità umana che risiede nel «progetto preliminare» (Vorentwurf), da intendere unicamente come oggetto di una scienza radicale ovvero di un’ontologia «vera e genuina», che si occupi della verità originaria e non dei suoi inautentici surrogati.

Perseguire un obiettivo così radicale impone ad Husserl l’esigenza di soffermarsi sulle origini remote della «formazione concettuale» e di renderne manifesti gli aspetti, per così dire, «generanti». Negli scritti raccolti sotto il nome di Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, ritorna sulla questione del superamento della naturalità e, questa volta, da un punto di vista «interno», cioè affrontando il problema a partire dalla formazione del concetto stesso di naturalità. A questo riguardo Husserl osserva che originariamente ogni «funzionalità» dell’io è un consolidamento della naturale mentalità secondo la quale il mondo ha certe caratteristiche e determinate aspettative. Tale «formazione mentale» deve poi essere valutata prima che ogni relazione dell’io divenga consuetudine e presupposta come indiscutibilmente data. Solo in tale maniera è possibile raggiungere l’obiettivo di poter osservare la «formazione concettuale» e, soprattutto, di poter ravvisare in essa l’emergenza dell’esperienza originaria.

Prima di passare oltre, valutiamo intanto analiticamente il percorso che Husserl ci indica per il raggiungimento di tale obiettivo. Come punto di partenza raccomanda di prendere in esame «la natura originaria come tema da sviluppare in infinitum e da connettere in se stesso compiutamente».64 Ma, anziché affrontare l’aspetto che spontaneamente si dipanerebbe e che ci porterebbe di nuovo alla «visione ingenua» del pensiero naturalista, fa presente che occorre osservare gli oggetti dell’esperienza originaria «nel loro modo di apparizione, nel loro essere davanti alla mia esperienza ed il modo in cui essi determinano la mia sensibilità per mezzo del loro apparire ecc.».65

Husserl chiama questo orizzonte d’esperienza «sfera originaria» a cui appartiene lo «sperimentare la natura» «come si distingue nella mia esperienza originaria: prima di tutto la natura sperimentata in quanto essente e poi «svalutata» come non essente, cioè chiarita come non valida…».66 La «sfera originaria» quindi contiene ad un tempo la percettibiltà degli oggetti ed il «darsi della natura» svalutata nel suo essere. «Esperienza originaria» significa infatti sperimentare e determinare l’evidente come noto, come «afferrabile», ossia determinare i mezzi percettivi che occorrono all’esperienza stessa. Nella «sfera originaria» poi natura ed esperienza originaria si intersecano continuamente offrendo, in certe connessioni, l’essenzialità. Quando l’esperienza, ad esempio, riporta il darsi degli oggetti della natura in contatto con la sensibilità, quando cioè si offre il concreto e la sua descrizione in cui cade anche la soggettività concreta, si ha come risultato una totalità indivisibile. «Questa, afferma Husserl, è la soggettività concreta, la concreta oggettività ridotta alla mia esperienza originaria è identica alla concreta soggettività come mia esperienza originaria».67

Il processo riduttivo della concreta oggettività consiste nel sottintendere la «predatità» degli oggetti, senza tematizzarla nella sua forma antepredicativa. È questa una sorta di «appercezione muta» (Husserl parla di «modo non attivo»68) da cui si diramano continue affezioni pratiche, le quali offrono l’orizzonte d’esperienza, la «sfera originaria», in tutte le dimensioni. L’appercezione tuttavia, spiega ancora Husserl, può acquisire una certa intenzione solo qualora entri in gioco la «reattività» dell’io «come senziente volente (fühlend wollenden)».69

A questo punto si realizza la tematizzazione e la piena attività dell’esperienza originaria, qui trasformata in esperienza intenzionata e appercepente. Ora, un passo prima di tale riduzione70 ed uno appena dopo la «predatità», s’incontra l’attività dell’io che, come si è detto, è ancora «muta». In tale «attivizzarsi» dell’essere reattivo l’io «dà» il suo modo d’essere concreto, la sua «primordialità», oltre cui è impossibile spingersi. In questo settore, dove ogni ingenuità è stata fugata, afferma Husserl, sono inclusi tutti i modi di coscienza nella loro principale funzione di portare «qualcosa a validità e ciò che è valido in essi appartiene esso stesso inseparabilmente a tutti questi modi di coscienza, ad un insieme esperito ed esperibile».71

La primordialità dunque è l’assoluta originarietà ultima, l’ultimo «concreto» da cui poter partire per nuove indagini al di là del concreto, ma in un certo qual modo sempre nel concreto. L’io come fonte originaria di luce e, al contempo, come luogo da illuminare, espone l’evidenza come autodatità e in quest’esperienza del tutto concreta e assolutamente autentica (non-ingenua) illumina il passaggio ad un mondo (e come tale ad un concreto) di autodatità ed evidenze, la cui principale struttura è l’assolutezza. Da un punto di vista tematico questo passo era già stato anticipato in Untersuchungen ma, in quel caso, l’attesa assolutezza era di ordine logico; qui invece il campo delle evidenze concerne piuttosto un orizzonte «eidetico» di assolutezza con il quale l’analisi fenomenologica deve necessariamente iniziare a fare i conti.


  1. E. Husserl, Logische Untersuchungen. Erster Band: Prolegomena zur reinen Logik, in «Husserliana» XVIII, hrsg. von E. Holenstein, M. Nijhoff, Den Haag 1975, p. 6; ed. it.: E. Husserl, Ricerche logiche, Il Saggiatore, Milano, 2001, p. 271. ↩︎

  2. Ales Bello indica un’altra «via della riduzione» attraverso l’intersoggettività verso la «Monadologia» (cfr. A. Ales Bello, Husserl. Sul problema di Dio, Studium, Roma 1985, pp. 35-40). ↩︎

  3. Boehm offre questa chiave di lettura che seguiremo, nell’introduzione al secondo libro di Erste Philosophie di Husserl. Cfr. Einleitung des Herausgebers, in E. Husserl, Erste Philosophie (1923/24). Zweiter Teil: Theorie der phänomenologischen Reduktion, in «Husserliana» VIII, hrsg. von R. Boehm, M. Nijhoff, Den Haag 1959, pp. XI-XLIII. ↩︎

  4. Cercare di definire il concetto di evidenza nella fenomenologia di Husserl è un compito veramente arduo sebbene essenziale. Molto in generale, si potrebbe dire che nonostante le significative sfumature che sono facilmente rintracciabili nell’evoluzione del pensiero husserliano, l’evidenza si delinea come la vera essenza delle cose. Non a caso il §51. di Prolegomena la definisce come «il vissuto della verità» (E. Husserl, Logischen Untersuchungen, III ed., cit., vol. I, p. 190; E. Husserl, Logische Untersuchungen. Erster Band: Prolegomena zur reinen Logik, cit., p. 193; ed. it.: E. Husserl, Ricerche logiche, a cura di Piana, Il Saggiatore, Milano, 1968, vol. I, p. 195). ↩︎

  5. E. Husserl, Erste Philosophie (1923/24). Zweiter Teil: Theorie der phänomenologischen Reduktion, in «Husserliana» VIII, cit., p. 251. . ↩︎

  6. Ibidem.↩︎

  7. Ib., pp. 232- 235. ↩︎

  8. Ib., p. 27. ↩︎

  9. Ib., p. 30. ↩︎

  10. Ib., p. 33. Relativamente alla situazione in cui si verifica la mancanza di apoditticità, poco sopra (p. 32) Husserl parla di una differenza fra le Evidenzmängel che lasciano aperta la porta ad una tensione alla conoscenza, e le Evidenzmängel che non lo fanno, accontentandosi quasi di giustapporre pezzi ad un’evidenza e ad una conoscenza considerate «ad un solo lato». ↩︎

  11. Ibidem↩︎

  12. D’altra parte Husserl ne aveva parlato in altri contesti dato che la qualità della «adeguatezza» presenta una certa rilevanza in ambito gnoseologico (cfr. E. Husserl, Logische Untersuchungen, I ed., cit., p. 103; in «Husserliana» XIX/2, Logischen Untersuchungen. Zweiter Band: Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis. Zweiter Teil, hrsg. von U. Panzer, M. Nijhoff Publishers, The Hague/Boston/Lancaster, 1984, p. 633; ed. it.: E. Husserl, Ricerche Logiche, cit., II vol., pp. 402-403; dove si definisce un’essentia adeguata «come un’essentia la cui materia si identifica con quella del significato»). ↩︎

  13. E. Husserl, Erste Philosophie (1923/24). Zweiter Teil: Theorie der phänomenologischen Reduktion, in «Husserliana» VIII, cit., p. 35. «Adeguato» può coincidere con «apodittico» in due sensi: il primo ed essenziale è quello «sensitivo-naturale» (si avverte qualcosa al tatto e questo qualcosa è un’evidenza indiscutibilmente «adeguata»), il secondo è quello che prende forma nella relazione ideale con ciò che ci si aspetta come evidente (è quindi una presupposizione ingenua). Ma, nonostante questa precisazione che sembrerebbe distinguere la non-ingenuità dall’ingenuità dell’evidenza, la frattura fra positivo e autenticamente apodittico, ovvero tra «adeguato-ingenuo» da un lato e «adeguato-non-ingenuo» dall’altro, sembra netta e di conseguenza non è chiaro se per Husserl «adeguato» è un aggettivo trasferibile anche al piano «non-ingenuo» oppure solo consegnato all’ambito positivo-naturale delle scienze. Il problema sorge forse in conseguenza dell’equivocità semantica del termine «adeguato», che probabilmente Husserl intende come sinonimo di «dogmaticamente presupposto». Per esplicitare maggiormente la questione egli introduce la problematica dell’Adeguazione immanente, affermando fin dalla prime battute che questa apporta un’apodittica datità (ib., Beilage XXVIII alla 53. Vorlesung, pp. 465-472). ↩︎

  14. Ib., p. 231. ↩︎

  15. E. Husserl, Die Philosophie als strenge Wissenschaft, in «Logos», p. 298; in «Husserliana» XXV, p. 13; ed. it., p. 19. A proposito del concetto husserliano di Erlebnis e della sua significativa differenza con quello diltheyano, Ales Bello osserva che «la diversità è legata al modo di intendere l’Erlebnis; per Dilthey con quella espressione si intende l’esperienza vitale, come fluire della propria vita con tutti i suoi contenuti psichici e spirituali, per Husserl il termine si riferisce agli atti, e quindi alle strutture della vita interiore, della coscienza…» (Ales Bello, Sacro e religioso nella fenomenologia della religione, cit., p. 26). ↩︎

  16. E. Husserl, Erste Philosophie (1923/24). Zweiter Teil: Theorie der phänomenologischen Reduktion, in «Husserliana» VIII, cit., p. 235. ↩︎

  17. S. Strasser, Das Gottesproblem in der Spätphilosophie Edmund Husserls, in «Philosophisches Jahrbuch» LXVII (1958), p. 131. In tale saggio è affrontata in modo esplicito la distinzione fra le due causalità. ↩︎

  18. E. Husserl, Die Philosophie als strenge Wissenschaft, in «Logos», p. 295; in «Husserliana» XXV, p. 9; ed. it., p. 12. ↩︎

  19. Ib., p. 294; p. 8; ed. it., p. 11. ↩︎

  20. Ib., p. 323; p. 41; ed. it., p. 59. Spesso Husserl definisce la Weltanschauung con i termini di «intuizione», habitus, «saggezza». In una nota alla sua traduzione a La filosofia come scienza rigorosa che qui seguiamo nell’edizione originaria, Filippo Costa aggiunge che tale parola rappresenta per Husserl «una deviazione psicologico-irrazionalista dell’originario impulso filosofico, una accentuazione della “soggettività” definitiva di ogni concezione del mondo e quindi la perdita del valore “scientifico” della filosofia stessa» (Ib., pp. 7-8). ↩︎

  21. Ib., p. 324; p. 43; ed. it., p. 61. ↩︎

  22. Ib., p. 332; p. 51; ed. it., p. 71. ↩︎

  23. Ib., p. 333, p. 52; ed. it., 72. ↩︎

  24. Ib., p. 336; p. 56; ed. it., pp. 76-77. ↩︎

  25. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia e scienze umane, tr. it. M.C. Liggieri, La Goliardica Editrice, Roma 1985, pp. 33-34. ↩︎

  26. E. Husserl, Die Philosophie als strenge Wissenschaft, in «Logos», p. 340; in «Husserliana» XXV, p. 61; ed. it., p. 83. ↩︎

  27. E. Husserl, Erste Philosophie (1923/24). Zweiter Teil: Theorie der phänomenologischen Reduktion, in «Husserliana» VIII, cit., p. 127. ↩︎

  28. Ib., p. 45. ↩︎

  29. Ibidem.↩︎

  30. Ib., pp. 46-47. ↩︎

  31. Si può trattare di un particolare qualsiasi che risulta immediatamente come «estraneo» alla precedente esperienza. ↩︎

  32. Ib., p. 47. ↩︎

  33. Ib., p 48. ↩︎

  34. Ib., p. 50. ↩︎

  35. Ibidem. Questo è anche il titolo della 33. Vorlesung che qui si è presa in esame. ↩︎

  36. «La traduzione del termine Einsicht, (riprendiamo le parole di Giovanni Piana), dà luogo ad alcune difficoltà documentate dalle varietà dei modi in cui esso viene reso (intuizione evidente, visione intellettiva, evidenza razionale, intellezione, intuizione intellettuale, ecc.). In senso del tutto generale, esso indica l’afferramento della verità come verità (cfr. R. L., I, p. 153: «Ich Einsicht habe, d. i. die Wahrheit selbst erfasse»; cfr. anche R. L., I., p. 108). Per questo la Einsicht è l’evidenza stessa in quanto viene colta e appresa. Si è perciò reso con evidenza oppure, nei casi in cui era necessario sottolineare il carattere dell’afferramento, con comprensione evidente, tenendo conto del fatto che il senso di einsehen è appunto “comprendere”» (E. Husserl, Ricerche logiche. Nota terminologica, a cura di G. Piana, cit., p. 553). Anche Ales Bello traduce il termine con «visione intellettuale» (A. Ales Bello, Husserl e la metafisica, in «Aquinas» XXIII 1980, p. 152). ↩︎

  37. E. Husserl, Erste Philosophie (1923/24). Zweiter Teil: Theorie der phänomenologischen Reduktion, in «Husserliana» VIII, cit., p. 69. ↩︎

  38. Ib., p. 70. ↩︎

  39. Ib., p. 71. ↩︎

  40. Ibidem↩︎

  41. Ib., p. 72. ↩︎

  42. Ibidem↩︎

  43. Ib., pp. 72-73. ↩︎

  44. Ib., p. 398. ↩︎

  45. Ib., pp. 74-75. ↩︎

  46. Ib., p. 252. ↩︎

  47. Ibidem. Il termine nüchtern può essere reso anche con «sobrio» o «obiettivo». ↩︎

  48. Ib., p. 254. ↩︎

  49. Ib., p. 255. ↩︎

  50. Ib., p. 256. ↩︎

  51. Ib., p. 257. ↩︎

  52. Ib., p. 258. ↩︎

  53. E. Husserl, Manoscritto KIII 6, p. 111; in G. Brand, Mondo io e tempo nei Manoscritti Inediti di Husserl, tr. it. E. Filippini, Bompiani, Milano 1960, p. 59. ↩︎

  54. G. Brand, Mondo io e tempo nei Manoscritti Inediti di Husserl, cit., p. 59. ↩︎

  55. E. Husserl, Erste Philosophie (1923/24). Zweiter Teil: Theorie der phänomenologischen Reduktion, in «Husserliana» VIII, cit., p. 53. ↩︎

  56. G. Brand, Mondo, io e tempo nei Manoscritti Inediti di Husserl, cit., p. 59. ↩︎

  57. Questa conclusione si prospetterà insufficiente nel contesto metafisico, laddove la singolarità dell’orizzonte rivendica una certa autonomia ed una particolarissima forma di intenzionalità. ↩︎

  58. E. Husserl, Erste Philosophie (1923/24). Zweiter Teil: Theorie der phänomenologischen Reduktion, in «Husserliana» VIII, cit., p. 219. ↩︎

  59. Ib., p. 217. Qui si prende in esame un’altra Abhandlung del 1924, intitolata Idee der vollen Ontologie, pp. 212-218. ↩︎

  60. Ib., p. 218. ↩︎

  61. Ib., p. 228. ↩︎

  62. Ib., Vormeditationen sull’inizio apodittico della filosofia; pp. 3-26. (È necessario però tenere presente che questo titolo, come gli altri, non è sempre di Husserl ma dell’editore). ↩︎

  63. Ib., p. 207. ↩︎

  64. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass. Zweiter Teil (1921-1928), in «Husserliana» XIV, hrsg. von I. Kern, M. Nijoff, Den Haag 1973, Beilage LII, p. 438. ↩︎

  65. Ibidem. È proprio «questo modo» ad offrire la novità fenomenologica, seppure non bisogna dimenticare quanto «poco pura» sia ancora questa fenomenologia mancante delle riduzioni fondamentali che canalizzerebbero l’attenzione invece che in relazione dell’ovvio verso l’eidetico. ↩︎

  66. Ibidem↩︎

  67. Ib., p. 439. ↩︎

  68. Ibidem↩︎

  69. Ibidem↩︎

  70. Quello della tematizzazione è un passaggio riduttivo che esclude ancora la naturalità in quanto evidentemente astratto. ↩︎

  71. E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass Dritter Teil (1928-1935), in «Husserliana» XV, hrsg. von I. Kern, M. Nijhoff, Den Haag 1973, Beilage XXXVII, p. 559. ↩︎