Se il soggetto principale delle lettere è la vita umana, e il primo intento della filosofia l’ordinare le nostre azioni; non è dubbio che l’operare è tanto più degno e più nobile del meditare e dello scrivere, quanto è più nobile il fine che il mezzo, e quanto le cose e i soggetti importano più delle parole e i ragionamenti.
Giuseppe Parini, 1824
1. Introduzione
«La filosofia? Non c’è niente di più orribile che studiare la nostra origine, fine e destino come semplice curiosità, per soddisfare la mente».1 Miguel de Unamuno vedeva nella filosofia, intesa nella sua concezione razionalista (cioè quella che cerca di comprendere la vita all’interno di un’unica dimensione, quella della ragione) un’essenziale incapacità a comprendere la realtà reale dell’uomo. L’uomo in carne e ossa non trova soddisfazione in essa: la sua vita è esclusa dall’elaborazione filosofica, così come tutti i suoi affetti personali, intimi e unici. Lo schema logico della ragione tende alla morte dell’uomo, attraverso la fissazione di una varietà di stati esistenziali in categorie rigide che non sono applicabili alla realtà vitale che, al contrario, è in sé dinamica e irriducibile. La filosofia (e con lei la ragione) si trasforma così nel “nemico” naturale dell’uomo, spingendolo a credere d’essere razionalmente onnipotente, senza però liberarlo dall’angoscia esistenziale.
Tuttavia, ciò non significa che non si debba filosofare, bensì che bisogna farlo tenendo in conto che «quest’uomo concreto, di carne e ossa, è il soggetto ed ad un tempo l’oggetto di ogni filosofia, piaccia o no a certi sedicenti filosofi».2 L’attenzione di Unamuno è sempre rivolta all’essere umano nella sua interezza, non ad astratte idee che vorrebbero essere uomo, ma ne sono solo l’aberrazione. Ma la filosofia è comunque una tendenza naturale dell’uomo in quanto, uscendo dallo stato bruto dell’animalità e dell’immediata necessità di sostentarsi, egli non può far a meno di porsi certe domande: «Si deve filosofare, si deve filosofare sulla vita e sulla morte, sulla nostra origine e sul nostro fine, sul nostro destino, sul nostro perché, sul nostro come, sul nostro affinché, sul nostro da dove e sul nostro verso dove; si deve filosofare se vogliamo combattere bene la battaglia della nostra vita».3
L’uomo deve essere il centro della riflessione, se il filosofo vuole che questa sia utile alla sua esistenza e a quella degli altri uomini. «Homo sum; nullum hominem a me alienum puto»,4 dice Unamuno nell’incipit di Del sentimiento trágico de la vida en los hombres y en los pueblos (1913). Parafrasando i versi «Homo sum; nihil humani a me alienum puto»5 di Terenzio, sostituisce umano con uomo, perché la concezione astratta dell’umanità, anche se operata a fin di bene, non può che sminuire ciò che l’uomo è, come singolo e nella società. Allo stesso tempo non bisogna perdere di vista la realtà, appesi dentro a una cesta come il Socrate di Aristofane:
Strepsiade: «Prima di tutto, dimmi che fai, ti prego». Socrate: «Per l’aere mi muovo [Ἀεροβατῶ] e dall’alto guardo il sole». Strepsiade: «E così gli dei li guardi dall’alto di una cesta e non da terra: vero?». Socrate: «Proprio così! Non avrei mai esattamente scoperto i fenomeni celesti, se non avessi sospeso la mente e mischiato il sottile pensiero al simile aere. Se me ne stavo a terra ad osservare da giù le cose di su, non avrei mai scoperto nulla: ché la terra con forza attira a sé l’umore del pensiero. Proprio ciò che succede al crescione».6
Perdere di vista la realtà in tal modo può portare danni irreparabili alla propria vita, in quanto si finisce per non vivere, sperduti come si è nell’altro da sé senza conoscersi. Come la mia vita è sotto la minaccia di essere trasformata nella Vita, che in realtà non è di nessuno, così anche l’uomo in carne ed ossa rischia di perdere contatto con quello che è in realtà, divenendo l’Umanità di Feuerbach, l’Io di Fichte, l’Unico di Stirner, il Cogito di Cartesio o l’Übermensch di Nietzsche. Tutti filosofi che sembrano aver indagato l’uomo, ma che si sono smarriti nell’astratto filosofico, perdendo di vista quello che doveva essere il fulcro del loro pensare.
2. Ludwig Feuerbach
«Cos’è mai quest’idolo, lo si chiami Umanità o in qualsiasi altro modo, in nome del quale devono sacrificarsi tutti e ciascun uomo?7» si chiede Unamuno, in quanto l’idea di umanità annulla in sé gli uomini, relegandoli ad attributi di se stessa, dimentica delle loro peculiarità personali. Così Ludwig Feuerbach con il suo umanesimo radicale e la sostituzione di Dio da parte dell’umano («L’essere assoluto, il dio dell’uomo, è l’essere stesso dell’uomo»8), pone l’umanità come assoluto ma in realtà non esalta l’uomo vivente e reale, bensì fonda una religione dell’umanità incapace di rispondere alle autentiche esigenze dell’uomo in carne ed ossa. Il filosofo tedesco così argomentò le proprie tesi:
L’uomo come individuo indubbiamente può, e perfino deve, sentirsi e riconoscersi limitato – e in questo si distingue dalla bestia –; ma può avere coscienza di questo suo limite, di questa sua finitezza solo perché ha davanti a sé come oggetto la perfezione, la infinità della specie. […] La coscienza che l’uomo ha di Dio è la conoscenza che l’uomo ha di sé. Tu conosci l’uomo dal suo dio, e, reciprocamente, Dio dall’uomo; l’uno e l’altro si identificano. Per l’uomo è Dio il proprio spirito, la propria anima; e ciò che per l’uomo è spirito, ciò che è la sua anima, il suo cuore, quello è il suo dio: Dio è l’intimo rivelato, l’essenza dell’uomo espressa; la religione è la solenne rivelazione dei tesori celati dell’uomo, la pubblica professione dei suoi segreti d’amore.9
La filosofia di Feuerbach è un culto dell’Umanità, egli parla di 'uomo', affermando per esempio che «la venerazione di dio dipende solo dalla venerazione dell’uomo per se stesso, è solo una manifestazione di essa»,10 ma in realtà intende la sua idea astratta, una 'Umanità' idealizzata che si rivela inutile e dannosa alla vita nostra e dei nostri fratelli. A questa idea razionale viene contrapposto l’uomo in carne ed ossa, cioè lo stesso don Miguel de Unamuno o lo stesso Ludwig Feuerbach. La filosofia dev’essere una filosofia personale, incentrata sull’intimo esistere dell’uomo, affinché si possa, migliorando noi stessi, migliorare la società umana: «Se invece di consumare le nostre energie pensando a come dobbiamo trattare gli altri e come sono e cosa pensano, e come dobbiamo relazionarci con la società volgessimo gli occhi verso noi stessi, e ci scrutassimo e ci coltivassimo senza tregua, fiorirebbero spontaneamente giuste e caritatevoli relazioni tra di noi. Santificando noi stessi, anche la società si santificherà».11
L’uomo necessita di una filosofia della vita, della propria vita, non del concetto o dell’idea, non di «quell’arida tiritera di definizioni, scolii, tesi, prove delle tesi, obiezioni e risposte alle obiezioni che ci insegnarono nelle aule, tutta quell’artificiosa cattedrale della Scolastica».12 Gli è necessaria una riflessione sulla propria esistenza, affinché si possa migliorare la società. Sbaglia, però, chi pensa di migliorare isolandosi dalla comunità umana, «solo nella società troverai te stesso; se ti isoli non incontrerai altro che un fantasma della tua soggettività più vera. Solo nella società puoi acquistare tutto il tuo significato, ma tenendotene a distanza».13 La società deve darci la possibilità di esprimere noi stessi nel miglior modo possibile, non inglobarci o consegnarci una serie di valori e significati già pronti. Il pericolo che si corre è di fare una filosofia della vita come idea astratta: «La vita? Che cos’è la vita? Che cos’è una vita che non sia mia, né tua, né di qualcun altro? Un idolo pagano al quale esigono che ciascuno di noi sacrifichi la sua vita!14». La mia vita è minacciata dalla filosofia di essere trasformata nella Vita, una vita di nessuno, che non risponde alle esigenze di nessuno, che, in sintesi, non vive. Il centro deve essere invece la mia propria, intima e personale esistenza, inserita nel vivere quotidiano proprio dell’uomo, senza che uno schema, imposto dall’alto della sapienza razionale o dal senso comune della società in cui si vive, imbrigli l’anelito vitale: «Nessun progetto preventivo perché non sei un edificio in via di costruzione! Non è il progetto ad imporsi alla vita, è essa che lo traccia vivendo».15 Preparare in anticipo come dovrà assolutamente essere la vita è un piegarsi alla volontà altrui, a quello cioè che ci mostrano come migliore, al personaggio che vogliono che venga da noi impersonato.
3. Johann Gottlieb Fichte
L’Io fichtiano è l’espressione più pura della filosofia che si dimentica del proprio oggetto. Questo Io si pone al di sopra del mondo, imponendo la sua astrattezza sul reale concreto della vita. La forma originaria dell’autocoscienza, cioè l’intuizione intellettuale, è l’atto con cui l’Io diviene consapevole di se stesso come soggettività trascendentale, a prescindere da ogni possibile determinazione empirica: «Quindi il porsi dell’Io per se stesso è la pura attività di esso. L’Io pone se stesso ed è in forza del suo puro essere. Esso è in pari tempo l’agente e il prodotto dell’azione; ciò che è attivo e ciò che è prodotto dall’attività; azione e fatto (Handlung und Tat) sono una sola e medesima cosa; perciò l’Io sono è espressione di un atto (Tathandlung) ma anche del solo atto possibile».16 Cioè l’Io di Fichte già nella sua radice, nel primo atto della sua esistenza, è un non-io, un Io morto, che non ride e non mangia. La sua trascendentalità lo esclude dalle piccole accidentalità della vita di tutti i giorni, così mentre gli uomini vivono, soffrono, gioiscono e lottano, questo Io li guarda immobile dall’alto del suo essere astratto, credendo d’essere ognuno di loro.
Unamuno contrappone a questo Io astratto l’uomo in carne ed ossa, che è un uomo, un unico essere diverso da tutti gli altri: «Considerate che parlando dell’io, parlo dell’io concreto e personale; non dell’io di Fichte, ma dello stesso Fichte, dell’uomo Fichte».17 Quel che rende l’uomo un uomo, distinguendolo dagli altri uomini, sono due principi: il principio di unità ed il principio di continuità. Un principio di unità nello spazio, grazie al corpo, e uno di continuità nel tempo: «Senza entrare in discussione – disputa oziosa – se sono o non sono quello che ero vent’anni fa, è indiscutibile, secondo me, il fatto che quello che sono oggi deriva, attraverso una serie continua di stati di coscienza, da quello che si trovava nel mio corpo vent’anni fa».18 Questo argomento, alla fin fine, si riferisce al problema della coscienza di sé già esposto da John Locke in An essay concerning human understanding (1690): «È impossibile che qualcuno percepisca senza percepire che percepisce. Quando vediamo, udiamo, odoriamo, gustiamo, sentiamo, meditiamo o vogliamo qualcosa, sappiamo di farlo. Così avviene sempre per quel che riguarda le nostre sensazioni e percezioni presenti, e così ciascuno è per se stesso ciò che chiamo io».19 Questa idea è stata chiaramente e cinematograficamente esposta da Julio Cabrera:
Bruce Wayne, lui, sa che si traveste da Batman e si trasforma in Batman, e di ciò ha piena consapevolezza; dopo aver agito come Batman nelle varie lotte con i banditi di Gotham City, con Jocker, il Pinguino, Cat Woman, Sciarada ecc.), lui conserva il ricordo di averlo fatto, ricorda i banditi e gli scontri che ha avuto con essi ecc.; ciò che per Locke in questa memoria autocosciente costituisce precisamente l’identità di una persona è il fatto che quest’ultima possa riconoscere come sue le azioni compiute.
Se per qualche motivo (per esempio un gas che induce l’amnesia che Jocker, come sua giocosa abitudine, avrebbe potuto lanciare sulla folla) tutti gli abitanti di Gotham City avessero perso la capacità di riconoscere Batman come Batman, Bruce Wayne, secondo Locke, potrebbe comunque guardarsi allo specchio e dire: «Anche se nessuno mi riconosce come Batman, io so perfettamente che, dopotutto, sono Batman».20 L’io di cui parla Unamuno è questo io cosciente di se stesso nelle sue azioni tra gli altri uomini, ed è l’esatto contrario dell’Io fichtiano, in quanto il primo è personale, mio in quanto io vivente, il secondo è un io che in realtà non è di nessuno, un io pensato che, come tale, è solo un’astrazione del pensiero.
4. Max Stirner
«Quando Fichte dice: “L’io è tutto”, può sembrare che questo concordi pienamente con le mie tesi. Ma l’io non è tutto, bensì distrugge tutto e solo l’io che si dissolve, l’io che non arriva mai a essere, l’io – finito è realmente io. Fichte parla dell’io “assoluto”, io, invece, parlo di me, dell’io caduco».21 Leggendo un’affermazione di questo genere, la si potrebbe pensare di Unamuno, pur essendo invece di Max Stirner. Ma questo non significa che la posizione filosofica del primo si avvicini o sia simile a quella del secondo. Se il filosofo spagnolo condivide la condanna all’astratto io fichtiano, anche l’Unico di Stirner si inserisce in questa critica, perché esso in realtà è un riferirsi a qualcos’altro, l’Unico appunto:
Non voglio qui usare il termine io dicendo che, filosofando, sono io che filosofo e non l’uomo, affinché non si confonda quest’io concreto circoscritto, di carne e ossa, che soffre di mal di denti e che trova la vita in sopportabile se la morte è l’annichilamento della coscienza personale, affinché non lo si confonda con quell’altro io di contrabbando, l’Io con la lettera maiuscola, l’Io teorico che introdotto in filosofia da Fichte, né tanto meno con l’Unico, anch’esso teorico, di Max Stirner.22
Unamuno vede anche in Stirner una negazione dell’uomo in quanto essere vivente, persona: ponendo l’individuo fuori sia dai suoi rapporti sociali sia da quelli affettivi, ne fa un idolo, astratto ed egoisticamente volitivo, a cui assoggettarsi e che non sono io, perché io sono io, non l’Unico. Se «Dio e l’umanità hanno fondato la loro causa sul nulla, su null’altro che se stessi. Allo stesso modo io fondo allora la mia causa su me stesso, io che, al pari di Dio, sono il nulla di ogni altro, che sono il mio tutto, io che sono l’unico»,23 l’unico in questa maniera diventa un ente cui riferirsi, attraverso un’ontologia dell’io che si nullifica rispetto a qualsiasi cosa che non sia l’io stesso. Ma quest’io unico che risulta non sono io, ma un qualcosa che mi auto-impongo come io. Stirner, alla fin fine, non riesce ad ottenere nient’altro che la sostituzione del dio-umanità di Feuerbach con un idolo-uomo, falsamente concreto perché falsamente esistente. Proprio in quest’idolo ogni uomo dovrebbe immedesimarsi e identificarsi, perdendo però in questo modo se stesso e la propria peculiarità: «L’ideale “l’uomo” è realizzato non appena la concezione cristiana si ribalta in questa tesi: “Io, questo unico, sono l’uomo”. Il problema concettuale: “Che cos’è l’uomo?” si è così trasformato nel problema personale: “Chi è l’uomo?”. Col “che cosa” si cercava il concetto per realizzarlo; col “chi” non c’è assolutamente più problema, bensì la risposta è già presente di persona in colui che pone il problema: il problema si risponde da sé».24
L’uomo è il mio idolo ed io sostengo di esserlo, «il mio rapporto col mondo è questo: io non faccio più niente per il mondo “per amore di Dio”, io non faccio più niente “per amore dell’uomo”, ma tutto ciò che faccio, lo faccio “per amore di me stesso”25». E così di finisce «con la divinizzazione, con l’unico di Max Stirner».26 Il 'chi' stirneriano è un’astrazione logica con tutte le sue proprietà, ma queste proprietà non sono quelle dell’uomo in carne ed ossa, e l’Unico in realtà è nato già morto nella sua essenza falsamente dinamica: «se io fondo la mia causa su di me, l’unico, essa poggia sull’effimero, mortale creatore di sé che esso consuma, e io posso dire: Io ho fondato la mia causa su nulla».27 Ma in questo modo l’agonia tragica che caratterizza l’esistenza umana sfuma e si svilisce in un nichilismo senza speranza, impedendo l’autenticità del vivere, anziché fondarla. Bisogna vivere, invece, lottare per la nostra propria esistenza personale, vivere a costo di morire, perché «morire come Icaro è meglio che vivere senza aver mai provato a volare, anche se con ali di cera».28
5. Cartesio
L’uomo prima di tutto esiste, poi ha coscienza di sé come essere pensante, e quindi «l’aspetto negativo del discorso del metodo di Descartes non è il dubbio metodico previo, non è il fatto che iniziasse volendo dubitare di tutto, il che non è altro che un semplice artificio; è il fatto che volle iniziare prescindendo da se stesso, da Descartes, dall’uomo reale, di carne e ossa, da colui che non vuole morire, per essere un mero pensatore, cioè un’astrazione».29
Una certa “resistenza” verso il pensiero cartesiano è sempre stata presente nelle riflessioni unamuniane, fin dai suoi manoscritti giovanili, dove si può individuare la radice della sua costante critica contro Cartesio. In uno dei più importanti manoscritti della sua gioventù, la Filosofía lógica (1886), già nelle prime righe troviamo un riferimento al Cogito: «Si deve partire da qualcosa di evidente, altrimenti il cammino sarebbe nel falso. Ogni pensatore e ogni scuola ha avuto il proprio punto di partenza, gli scolastici l’ente, Descartes l’entimema “penso, quindi sono”30». Questo non è che un discorso introduttivo, in cui Unamuno dichiara ciò che sta cercando, cioè un principio primo determinato ed incontestabile, che all’epoca pensava d’aver trovato nei fatti (hechos). Questa ricerca del punto di partenza, in fondo, è l’unica influenza cartesiana che possiamo trovare nel suo pensiero. Anche nella sua maturità filosofica, infatti, il filosofo spagnolo cercherà il punto di partenza, e lo troverà nell’uomo de carne y hueso. Ma l’influenza di Cartesio finisce qui: nella determinazione della necessità di trovare un punto fermo su cui costruire la propria filosofia. Questo giudizio critico è inizialmente dovuto a un’impostazione positivista, che si scontra con il razionalismo del filosofo francese:
Nella storia della filosofia c’è un punto di partenza famoso, l’entimema di Cartesio: io penso, quindi sono. Qui, partendo dall’io, si giunge all’idealismo soggettivista. Ma il problema è che l’io non ha senso se non nell’opposizione al non-io, e non si conosce nessuno se non come opposto al mondo esterno, l’io penso suppone che ci sia qualcuno pensato, e questo pensato è qualcosa che non sono io, essendo tanto evidente la sua esistenza quanto la mia. Il soggetto non si conosce come tale se non per opposizione all’oggetto, questo è il punto di partenza, l’opposizione tra il fatto e l’idea. Dove c’è pensiero, in quanto relazione relazione, lì c’è un soggetto pensante e un oggetto pensato. Il «quindi sono» vuol dire «quindi mi oppongo, quindi sono uno distinto da altri». L’entimema equivale a dire: «Io penso una cosa, quindi sono un’altra».31
Unamuno sostiene che il soggetto si conosce solo per opposizione all’oggetto, e questo ci induce a credere che non abbia letto l’introduzione alle Oevres de Descartes (Charpentier libraire-éditeur, Paris 1844) che possedeva nella sua biblioteca. Per quel che riguarda, infatti, la definizione 'entimema' riferita al Cogito cartesiano (una costante nell’interpretazione unamuniana), Jules Simon, che ha curato l’edizione, scrisse: «Je pense, donc je suis […]: Ce n’est pas un raisonnement. Il est vrai, ce n’en est pas un enthymème, c’est un fait incontestable. […] La première affirmation d’existence réelle, ou la première idée concrète, ne peut être l’idée du non-moi; car je ne puis penser sans penser à moi».32 Anche nella Historia de la filosofía (1847) di Jaume Balmes, che fu uno dei testi più letti e studiati nelle scuole e nelle università spagnole fino almeno alla fine del XIX secolo e che quindi Unamuno ha sicuramente letto nei suoi anni giovanili, troviamo ben espresso questo concetto.33
Ma di questi argomenti non c’è traccia in nessun testo unamuniano, il che fa pensare che o non li considerasse validi, anche se non vi sono argomenti per questo tipo di conclusione, oppure, come sembra più probabile, che semplicemente non li conoscesse. Infatti, il giovane ispanico pone la coscienza di sé come relazionata, o meglio opposta, all’esistenza di altro; quindi non come un’idea immediata, ma come frutto di un ragionamento: io penso una cosa (mi oppongo ad essa) quindi sono un’altra. E qui non c’è spazio per il «penser à moi», che anzi nemmeno viene preso in considerazione. In tal caso, infatti, si giungerebbe all’assurdo: io penso a me, quindi non sono io. In effetti, per Cartesio non è l’esistenza a essere dimostrata dal pensiero, bensì il fatto di pensare certifica il fatto d’esistere, giacché non esistendo non si potrebbe pensare. Il Cogito si presenta come una risposta al dubbio, e non come una fondazione esistenziale. Il dubbio metodico cartesiano non è un dubbio reale ma, appunto, parte del metodo per la ricerca della verità. L’ipotetica messa in dubbio della propria esistenza viene confutata dal fatto che «mi resi conto che nell’atto in cui volevo pensare così, che tutto era falso, bisognava necessariamente che io che lo pensavo fossi qualcosa».34 Dal che si deduce che il pensiero non fonda l’esistenza, ma la certifica in quanto questa gli è antecedente e necessaria.
Nel pensiero maturo di Unamuno questa radicale critica a Cartesio permane, anche se determinata non più da un approccio di tipo positivistico bensì da uno esistenziale. Per questo in Del sentimiento trágico de la vida en los hombres y en los pueblos scrisse che «il dubbio metodico di Cartesio è un dubbio comico, un dubbio puramente teorico, provvisorio; è il dubbio di uno che finge di dubitare, ma non dubita».35 Il cogito ergo sum descritto nel Discorso sul metodo, o meglio quell’io implicito nel cogito, viene letto come un’astrazione rispetto a quel che io sono veramente. L’io sottinteso nell’affermazione cartesiana, la quale se quello venisse esplicitato si presenterebbe come «io penso e quindi io sono», è un io irreale, così come anche la sua esistenza è irreale:
E giunge al cogito ergo sum, a cui aveva già preluso Sant’Agostino; ma l’ego implicito in questo entimema, ego cogito, ergo ego sum, è un ego, un io irreale, cioè ideale, e il suo sum, la sua esistenza, è anch’essa irreale. «Penso, dunque sono», non può significare altro che «penso, dunque sono un essere pensante»; questo essere che sono, che deriva da penso, non è altro che un conoscere; questo essere è conoscenza, ma non è vita. E il dato primitivo non è che penso, ma che vivo, poiché vivono anche coloro che non pensano.36
Tralasciando l’insistenza con cui Unamuno legge il cogito ergo sum come un entimema, la conclusione è che non è fondamentale l’accidentalità della mia ragione, cioè che io pensi, ma il fatto che io esista, viva. La vita si impone sul pensiero per il semplice fatto che essa viene prima in ordine di tempo, il pensiero senza una vita non può esistere, la vita senza pensiero sì. L’uomo, prima di esistere come essere pensante, è, in quanto essere vivente; quindi «la verità è sum, ergo cogito, esisto, dunque penso, sebbene non tutto ciò che esiste, pensi».37 Vivere è la cosa più importante, e l’unica maniera per farlo con significato autentico è vivere agonicamente, con l’eroismo della fede nell’immortalità.
6. Friedrich Nietzsche
Si deve voler credere, e in questo volere sta l’eroismo dell’uomo, l’eroismo di Sancio che contro la sua ragione credeva nel suo signore Don Chisciotte. Contro la sua stessa ragione. Il credente unamuniano non è il superuomo di Nietzsche,«quel ladro di energie, come egli goffamente chiamava il Cristo, che volle coniugare il nichilismo con la lotta per l’esistenza, e che vi parla di ardimento».38 Per Unamuno il superuomo non è un forte, ma un debole, e la filosofia di Nietzsche una filosofia di deboli che aspirano ad essere forti. L’eterno ritorno come frutto della volontà di potenza è una falsificazione del desiderio angosciosamente autentico di immortalità.
La volontà di credere si distingue dalla volontà di potenza in quanto quest’ultima è la volontà creatrice di un superamento dell’uomo e della vita, verso l’Übermensch. La vita stessa dice a Zarathustra «io sono quella cosa che sempre deve superare se stessa»,39 e di conseguenza il superuomo non può che vedere l’uomo come «una derisione o una dolorosa vergogna»40 ancora relegata nel suo «essere in conflitto, un ibrido di pianta e di fantasma».41 Ma l’uomo non deve superarsi, deve vivere in quanto uomo in carne ed ossa, e per poterci riuscire deve credere. La fede creatrice di Unamuno si contrappone alla volontà creatrice di nuovi valori di Nietzsche, in quanto quella si oppone al nulla, questa si fonda su di esso. La volontà di credere non vuole finire nel nulla e, per mezzo della fede, lotta contro il nulla imponendo la sua realtà alla ragione che le si oppone con la propria; la volontà di potenza è totalmente avvolta dal nulla, è la volontà che accetta il nulla come sua genesi e nella coscienza del quale impone se stessa a se stessa come creatrice di valori che scaturiscono dal nulla. La fede unamuniana è agonica, la volontà nietzschiana è un superamento continuo di se stessa e, per suo tramite, della vita. Ed in questo superamento c’è tragedia, ma non lotta, non agonia. La volontà di potenza trova la sua tragicità nel doversi continuamente superare, non nella lotta contro la morte: «Il suo cuore gli chiedeva il tutto eterno, mentre il suo cervello gli additava il nulla e, disperato e pazzo, per difendersi da se stesso, maledisse ciò che più amava. Non potendo essere il Cristo, bestemmiò il Cristo».42 Non potendo cioè “conciliare” il nulla con l’immortalità che voleva, attraverso la determinazione dell’esistenza agonica, non riuscendo come Cristo a vincere con la fede il nulla, si rifugia in una «misera parvenza di immortalità»,43 cioè l’eterno ritorno. Se Zarathustra morisse adesso, sostengono i suoi animali, direbbe così: «Ora muoio e sparisco […] e fra un istante non sarò più nulla. Le anime sono mortali come i corpi. Ma l’intreccio della cause in cui sono avvolto tornerà un giorno, e di nuovo mi creerà! Faccio parte io stesso delle cause dell’eterno ritorno».44
Questa è la posizione dei deboli, «solo i deboli si rassegnano alla morte finale, e sostituiscono con surrogati l’anelito d’immortalità personale».45 Quel che si vuole è la propria immortalità, non l’annullamento nella morte ed un successivo ritorno indefinito e vago, che in realtà è più un atto della volontà di potenza come creatrice di una possibilità di perpetuarsi. Ma questa possibilità si rivela inefficace in quanto non è concreta ma un’astrazione della sfera volitiva che cerca di imporre un proprio riproporsi eterno che, però, non può soddisfare l’uomo né saziargli la sua fame d’immortalità autentica. L’uomo veramente forte non si accontenta di un palliativo, vuole la propria immortalità fenomenica, «nei forti l’ansia di sopravvivenza supera l’incertezza di riuscire a conseguirla»,46 e questo dubbio viene eliminato dall’uomo con la propria fede, fondata appunto su di esso. Il desiderio dell’uomo è continuare a vivere, non rivivere eternamente la stessa vita che ho già vissuto, dato che se c’è un’eternità rivolta al futuro c’è anche un’eternità rivolta al passato, «ma si dà il triste caso che io non ricordi alcuna delle mie esistenze anteriori - se è possibile che possa ricordarmene – giacché due cose assolutamente e totalmente identiche non sono che una cosa sola».47 Lo spirito che nel deserto diventa leone, che vuol conquistare la sua libertà, lo spirito del leone che affronta con il suo «Io voglio» il grande drago chiamato «Tu devi»,48 questo leone , alla fine dello Zarathustra, ride, ma «di che ride il leone? Di rabbia, credo, perché non basta a consolarlo il fatto di essere già stato lo stesso leone in passato e di tornare ad esserlo in futuro».49
L’uomo ha fame di immortalità vera, autentica, fenomenica, non gli interessa un palliativo inconsistente. Unamuno vede la filosofia di Nietzsche come l’estrema conseguenza del naturalismo, il quale «finisce con la divinizzazione, con l’unico di Max Stirner; il superuomo di Nietzsche finisce con il nichilismo. Egotismo e nichilismo sono cose che finiscono con l’identificarsi».50 Il naturalismo conduce l’uomo all’ὕβρις di credersi Dio (o qualcosa di simile a Dio), arroganza possibile solo con una postulazione del nulla di stampo nichilista, come nulla di ogni altro o come nulla della mia esistenza. Altra conseguenza del naturalismo è il positivismo (corrente a cui il giovane Unamuno aveva brevemente aderito), «che ha fatto molto bene e molto male. Tra gli altri male prodotti, ci fu quello di aver apportato un tipo di analisi mediante cui i fatti venivano polverizzati, ridotti a polvere di fatti».51 Cioè la volontà positivistica di attenersi ai soli fatti, e solo con la ragione e l’esperienza scoprire le leggi effettive dei fenomeni, non riesce a cogliere l’autenticità dei fatti, che si trovano sbriciolati dalla ragione senza che essa possa coglierne la sostanza. Se un fatto si separa dal resto della sua circostanza, per usare un termine di Ortega y Gasset, si trasforma in polvere, perché atomizzandolo in questo modo si impedisce la comprensione autentica della realtà, ridotta a una mera molteplicità. Ma il desiderio di voler tornare ai fatti, senza divinizzazioni ideali o nichiliste, e il rifiuto dall’onnipotente ragione idealista a favore di una logica dei fenomeni, sono tra le cose buone portate dal positivismo. Il suo contrapporsi ad un idealismo assoluto, all’idealismo di Hegel, opponendo i fatti, seppur polverizzati, alla logica fissativa che non genera altro che la morte dalla vita, tutto questo Unamuno lo vede in maniera positiva. In fondo è l’idealismo l’avversario maggiore dell’uomo, in quanto «l’idealismo snerva ed è più superbo del positivismo».52
7. Karl Marx
Un posto particolare nella filosofia unamuniana lo occupa la critica al marxismo, infatti mentre sviluppava questa critica, che si dirige soprattutto contro il materialismo storico, Unamuno giunse a sviluppare anche la sua peculiare filosofia della storia, argomento su cui il filosofo di Salamanca scrisse molto poco e quasi sempre lo fece soltanto per contrapporsi alla concezione storica di Marx. Unamuno fu, per un certo periodo socialista (ebbe anche la tessera del PSOE dal 1894 al 1897), e lo dimostrano ad esempio alcuni articoli in «Las Noticias», quotidiano socialisteggiante di Barcellona, e la sua collaborazione con «Lucha de Clases», la rivista dei socialisti spagnoli. Come socialista, accettò per un breve periodo la teoria storica di Marx, tanto che nel febbraio 1897, poco prima di lasciare il partito, scrisse: «Se il socialismo può aspirare all’attributo di scientifico è a causa del senso storico, perché attribuisce i mali sociali a un incoercibile processo, e perché indica la sua crisi e la sua soluzione come risultato del processo economico-sociale [… e] per questo, nessuno meglio di noi socialisti riconosce la funzione sociale del capitalismo moderno, i suoi grandi servizi al progresso».53 Ma abbandonò presto tali posizioni, e già nel 1899 scrisse che «la così detta concezione materialista della storia, quella di Marx, che alla base di ogni processo sociale vedeva come ultima ratio il fattore economico, ci mostra solo una faccia della realtà».54 Pur accettando la teoria del fattore economico come motore della realtà, all’uomo non può essere sottratta la sfera spirituale, cioè egli non può, e non deve, ridursi ad essere un semplice lavoratore, cioè una forza lavoro acquistata e fatta fruttare. Unamuno rinfaccia a Marx di non aver compreso che la causa finale di questa è il momento spirituale, religioso, da cui non sfugge nemmeno il filosofo tedesco: «Non credete che la sua [di Marx] famosa concezione materialista, purulenta, della Storia, gli sgorgò da una fame spirituale, forse da un terribile complesso di profonde radici secolari?55». Quindi anche la filosofia materialista di Marx ha un fondamento quasi metafisico-religioso, essendo questo il vero senso storico-vitalista dell’uomo. Il fondamento metafisico di Marx non sarebbe altro che la missione messianica del proletariato. Questa lettura messianica del marxismo, comunque, oltrepassa la semplice concezione materialista della storia a favore di un’interpretazione che, alla fin fine, non è altro che una interpretazione religiosa. Questo accade perché all’uomo non può essere sottratta la sfera spirituale, cioè egli non può, e non deve, ridursi ad essere un semplice lavoratore, cioè una forza lavoro acquistata e fatta fruttare. Ma soprattutto Unamuno non può accettare l’affermazione di Marx che «il modo di produzione della vita materiale è ciò che condiziona il processo sociale, politico e spirituale. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma, al contrario, è il loro essere sociale che determina la loro coscienza».56 Don Miguel, cioè, rifiuta il materialismo storico, fondato sulla credenza che «sono le cose che fanno e portano gli uomini», opponendo a esso la fede di coloro che «vogliono credere che siano gli uomini, le persone, quelli che fanno e portano le cose».57 È l’uomo il punto di partenza, ed è lui che decide come deve essere il mondo, che dirige la società e la storia, non il contrario: «Perché l’anima dell’uomo, la sua coscienza umana, non la sua coscienza animale, è un qualcosa di storico e che c’è soltanto nella Storia. E fuori dalla Storia non c’è vera vita umana che meriti tale nome. E i popoli senza storia non sono popoli».58
Il filosofo spagnolo rigetta anche la visione della storia come tesa all’affermazione del potere del proletariato attraverso la lotta di classe. Se Marx, come scrisse Lenin, «studia, come in un processo di storia naturale, la genesi della nuova società che sorge dall’antica, le forme di transizione tra l’una e l’altra»,59 Unamuno sostiene che noi alimentiamo «con dubbio e con agonia la fede nella concezione storica, nella concezione personalista o spiritualista».60 Solamente la persona ha valore nella storia, la persona umana in carne e ossa nella sua vita spirituale, in quanto «la Storia è la vita dello spirito».61 La concezione materialista della storia porta a un meccanicismo e a un determinismo che annichilano la possibilità dello spirito umano d’essere se stesso, negando quindi che l’uomo possa vivere fino in fondo la propria vita. Per Unamuno, al contrario, la storia non può essere letta in questo modo, che termina con la determinazione a priori della storia come storia messianica, riferita al proletariato, né come una semplice concatenazione di fatti. Tutto questo non è altro che una forma mascherata di determinismo, cioè la determinazione di ciò che avverrà nel futuro di ciascun uomo, visto che l’interpretazione materialista della storia di Marx è «una dottrina determinista […]. E questa dottrina finì per creare un’illusione, un inganno, una finalità, quella dell’oppio rivoluzionario del bolscevismo di Lenin, una religione. E i poveri fedeli si immaginarono di sapere il fine per cui erano nati».62 La storia è un concatenarsi di vite, ognuna con la propria peculiarità, che conduce al tempo presente senza determinarlo in modo previo. Coloro che propongono la teoria di un determinismo e della naturale evoluzione spesso «dimenticano che la società evolve e cambia a propria volta e quelli che oggi sono più adatti potranno essere domani i più inadatti, così come le qualità che, secoli fa, facevano di un uomo un eroe ne farebbero oggi un bandito».63
Il determinismo e la naturale evoluzione verso qualcosa non sono concepibili, se non dal punto di vista spirituale del singolo, come presenza di una provvidenza divina, ma comunque è sempre l’uomo in carne ed ossa ad imporsi sulla storia, vivendo al suo interno, e non viceversa. Sono gli uomini a fare la storia, ed è la storia, come prodotto umano, come realtà dell’uomo che vive, ad imporsi sulla realtà. L’evoluzione predeterminata in direzione di qualcosa, al di fuori della vera essenza dell’uomo, non è concepibile, in quanto negazione della libertà storica dell’uomo, che per determinarsi ha bisogno solamente di se stesso. L’ipostatizzazione del sogno, così come la sua scientificizzazione, termina sempre in una devitalizzazione del senso autentico della vita: il sogno è una fede, non una scienza, e così necessita di vita, non di calcoli, per il suo sviluppo. Sono gli uomini che fanno la storia, ed è la storia, come prodotto umano, come realtà dell’uomo che vive, ciò che si impone sulla realtà. Anche con le loro filosofie, determinando i fatti e i fenomeni, gli uomini producono storia che si impone su quegli stessi fatti, anche «le dottrine personali di Karl Marx, l’ebreo sadduceo che credeva che fossero le cose a fare gli uomini, hanno prodotto cose. Fra l’altro l’attuale rivoluzione russa. Per cui si avvicinò molto di più alla realtà storica Lenin quando, al sentire che una certa cosa non andava d’accordo con la realtà, rispose: “Tanto peggio per la realtà”64». La realtà è un prodotto umano, non un qualcosa di fissato ed assoluto, e se l’uomo producendo storia produce qualcosa che va contro il senso comune della realtà, sarà quest’ultima a cedere, perché superata dalla storia prodotta.
8. Messianesimo e sadduceismo
La definizione di Marx come «judío saduceo» è piuttosto interessante, visto che i sadducei erano il partito opposto ai farisei, che rifiutava la tradizione orale, la risurrezione e l’esistenza degli angeli, e inoltre «per gli ebrei sadducei razionalisti, il Messia è lo stesso popolo ebraico, il popolo eletto».65 Unamuno li preferiva, pur identificandoli coi materialisti, rispetto ai farisei, cioè gli idealisti, riflettendo tra l’altro che «coloro che più perseguitarono Gesù e quelli contro cui più diressero le sue ingiurie sono stati i farisei, che credevano nella resurrezione della carne; gli idealisti di allora, non i sadducei».66 In questa prospettiva s’inserisce la tesi di filosofia della storia in cui Walter Benjamin, in Über den Begriff der Geschichte (pubblicato postumo nel 1942), paragonò il materialismo storico all’automa che giocava agli scacchi di un testo di Edgar Allan Poe (Maelzel’s Chess-Player, 1836). Questo automa, vestito alla turca con una pipa in bocca, era costruito in tal modo che sembrava potesse vincere al gioco degli scacchi tutti gli sfidanti che gli si proponevano. In realtà al suo interno aveva un nano gobbo, imbattibile negli scacchi che lo manovrava per mezzo di fili. Questo nano, nella metafora di Benjamin, rappresenta la teologia. Egli sosteneva che «vincere deve sempre il fantoccio chiamato “materialismo storico”. Esso può farcela senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è noto, è piccola e brutta, e che non deve farsi vedere da nessuno».67 Nella prospettiva di Benjamin la teologia assumeva la forma di una teologia del proletariato, in un’ottica di sostituzione della divinità con la classe operaia, e di una giustificazione messianica del materialismo storico. Al momento attuale la teologia sarebbe piccola e brutta perché inadatta al suo scopo, che è quello di giustificare l’ascesa inevitabile del popolo al potere, e solo nel momento in cui il materialismo la volesse al suo fianco essa avrebbe senso. Ma questa non è altro che una falsificazione, perché a vincere deve essere la storia come prodotto umano, quindi l’uomo, non il proletariato messia di se stesso. Il materialismo storico non può soddisfare l’uomo nella sua fame d’immortalità, perché riesce a dare solo una risposta negativa a questo desiderio, negando qualsiasi cosa oltrepassi la materia ed il sensibile.
Unamuno scrisse El Cristo de Velázquez, una poesia dove mostra (quasi) la sua compassione nei confronti di questi sadducei, i quali non riescono a vivere una vita autentica, avendo rinunciato al sogno. Ma quel che questi sadducei vogliono è svegliare gli altri uomini, così che anche a essi sia negata l’autenticità del vivere. Non per malvagità, ma solamente che i sadducei si sbagliano, e credono vera la vita falsata dalla ragione e il materialismo, e falsa quella che oltrepassa i semplici limiti del sensibile:
Piega la fronte, triste sadduceo, scruta la polvere, tua fronte, e guarda che con la torre di Babele il cielo non romperai, e che la vita è solo menzogna se al di là non ve n’è un’altra. Cos’è il progresso che apparì quel giorno di rosso occaso, in cui la spada ardente dell’angelo di Dio brillò alla porta del Paradiso? Di’: cos’è il progresso? Se, foglie morte in preda al vento, vanno le nostre anime ad ingrassar la terra dove in attesa della scure l’albero della vita la nostra morte adombra? A che vale sapere, se sull’orlo del nulla genitore la coscienza più nulla spera di sapere? Dove sono l’onde che gemendo sulla spiaggia s’inabissarono? E l’altre che gonfie bramavano annegar con le schiume le stelle all’orizzonte? Di’: che resta? So che domandi, sadduceo triste, con ghigno amaro, quale donna avremo dopo la morte. Dimmi: ma, da vivi, che vita è questa se attendiamo solo ciò che sarà quando più non saremo? Cessa l’invidia, triste sadduceo; lascia che la speranza ci addormenti, che sulle labbra all’ultimo sospiro muoia l’ultima raffica del Credo. e tu, Cristo che sogni, sogno mio, fa’ che l’anima mia, in te sopita, vinca la vita d’essere Te sognando!68
La filosofia deve riuscire a saziare la fame d’immortalità dell’uomo, non cercare di eluderla o ingannarla. Ma desiderare, anzi volere la propria persistenza non significa vivere solo in funzione di quella, aspettando solamente di morire. La morte va sempre tenuta presente, ma solamente per dare un significato alla vita, non per annullare la vita dell’al di qua in attesa dell’avvento di quella nell’al di là.
9. Conclusioni
La filosofia può trasformarsi in un tranello, una truffa e un inganno, ci dice Unamuno. Perché l’arroganza della ragione è sempre in agguato, pronta a dimenticare la sua natura e il suo compito per lanciarsi ad altezze (o bassezze) che non può raggiungere, distruggendo se stessa e ciò che rappresenta. Ma se s’incontra il giusto equilibrio, l’aristotelico giusto mezzo, allora vita e filosofia possono continuare insieme il cammino, aiutandosi mutuamente: «Nel punto di partenza, nel vero punto di partenza, quello pratico e non teorico, di ogni filosofia, c’è un fine. Il filosofo filosofa per qualcosa di più del semplice filosofare. Primum vivere, deinde philosophari, dice l’antico proverbio latino, e giacché il filosofo prima d’esser filosofo è un uomo, ha bisogno di vivere per poter filosofare, e di fatto filosofa per vivere».69
Ma alla fine l’obbiettivo dell’uomo è vivere, non filosofare. La filosofia per la filosofia, come l’arte per l’arte o la verità per la verità sono aberrazioni, che falsano il significato autentico dell’uomo, la sua finalità originale: «La filosofia è un prodotto umano di ogni filosofo, ed ogni filosofo è un uomo in carne e ossa che si rivolge ad altri uomini di carne e ossa come lui. E, qualunque cosa faccia, filosofa non soltanto con la ragione, ma con la volontà, col sentimento, con la carne e con le ossa, con tutta l’anima e con tutto il corpo. È l’uomo che filosofa».70 E non si deve fuggire da questo compito, anche se la filosofia non riesce a dare una risposta esaustiva per la ragione, questa è la via in cui bisogna impegnarsi, perché non si fa filosofia col telecomando, cambiando canale perché quel che vedo non mi interessa e poi spegnere. In tutto ciò che è umano c’è uno scopo che va conseguito con la lotta costante, un fine che non può essere che «vivere, vivere davvero, vivere spontaneamente, senza secondi fini, vivere per morire e continuare a vivere».71 E se i filosofi non sono d’accordo non importa, perché questo è il solo sistema per poter avere una vita realmente piena di significato. «I filosofi formano una serie, uno sparisce mentre ne appare un altro, distruggendo ciò che il precedente aveva costruito»,72 annotò Unamuno nel suo diario. I palazzi della filosofia e le grandi cattedrali della scolastica vengono demoliti poco dopo esser stati costruiti, per poter far spazio ad altri palazzi e ad altre cattedrali. Ma, qualcuno potrebbe chiedere: ma allora all’uomo che cosa resta? Forse gli rimane solo la propria vita, la sua tragica condizione d’essere mortale agonizzante nel proprio desiderio d’immortalità. Ma solo in questa tragicità, che è il trionfo ed il tormento di ciascuno di noi, l’uomo può essere veramente se stesso.
-
Miguel de Unamuno, Diario intimo, a cura di Cecilia Bolles, introduzione di Stefano Santasilia, Studium, Roma 2018, p. 90. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Del sentimento tragico della vita negli uomini e nei popoli, in Id., Filosofia e Religione, a cura di Armando Savignano, Bompiani, Milano 2013, p. 659. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Hay que filosofar, in Adolfo Sotelo Vázquez, Miguel de Unamuno: Artículos en «Las Noticias» de Barcelona (1899-1902), Editorial Lumen, Barcelona 1993, p. 303. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Del sentimento tragico, cit. alla nt. 2, p. 659. ↩︎
-
Terenzio, Heautontimoroumenos, I, I, 25. ↩︎
-
Aristofane, Le Nuvole, vv. 225-234 in Id., Commedie, a cura di Giuseppe Mastromarco, Utet, Torino 1983, p. 349. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Del sentimento tragico, cit. alla nt. 2, p. 675. ↩︎
-
Ludwig Feuerbach, L’essenza del Cristianesimo, a cura di Antonio Banfi, Feltrinelli, Milano 1960, p. 29. ↩︎
-
Ivi, pp. 31 e 37-38. ↩︎
-
Ludwig Feuerbach, L’essenza della religione, a cura di Ferruccio Andolfi, Newton Compton, Roma 1994, p. 23-24. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Diario intimo, cit. alla nt. 1, p. 76. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Hay que filosofar, cit. alla nt. 3, p. 304. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Addentro!, in Id., Filosofia e Religione, cit. alla nt. 2, p. 355. ↩︎
-
Ivi, p. 353. ↩︎
-
Ivi, p. 343. ↩︎
-
Johann Gottlieb Fichte, Sul concetto della dottrina della scienza. Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, traduzione di Adriano Tilgher ulteriormente riveduta e corretta da Filippo Costa, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 79. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Del sentimento tragico, cit. alla nt. 2, p. 669. ↩︎
-
Ivi, p. 671. ↩︎
-
John Locke, Saggio sull’intelletto umano, a cura di Marian e Nicola Abbagnano, Utet, Torino 1971, p. 394. ↩︎
-
Julio Cabrera, Da Aristotele a Spielberg. Capire la filosofia attraverso i film, traduzione di Marco Di Sario, Bruno Mondadori, Milano 2000, p. 131. ↩︎
-
Max Stirner, L’Unico e la sua proprietà, traduzione di Leonardo Amoroso, 2a ed., Adelphi, Milano 2002, p. 192. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Del sentimento tragico, cit. alla nt. 2, pp. 703-705. ↩︎
-
Max Stirner, L’Unico e la sua proprietà, cit. alla nt. 21, p. 13. ↩︎
-
Ivi, p. 380. ↩︎
-
Ivi, p. 333. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Diario intimo, cit. alla nt. 1, p. 54. ↩︎
-
Max Stirner, L’Unico e la sua proprietà, cit. alla nt. 21, p. 381. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Addentro!, cit. alla nt. 12, p. 347. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Del sentimento tragico, cit. alla nt. 2, p. 713. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Filosofía Lógica, en Id., Cuadernos de juventud, introducción, edición y notas de Miguel Ángel Rivero Gómez, Ediciones Universidad de Salamanca, Salamanca 2016, p. 233. ↩︎
-
Ivi, p. 239. ↩︎
-
Jules Simon, Introduction, en Oevres de Descartes, Charpentier libraire-éditeur, Paris 1844, pp. VIII-XI. ↩︎
-
Cfr. Jaime Balmes, Curso de filosofía elemental, Librería de A. Bouret y Morel, Parigi 1849, pp. 580-581: «Alcuni hanno creduto che il principio di Descartes fosse un vero entimema, e perciò gli hanno obbiettato, che dal pensiero non poteva dedurre l’esistenza, se non suppone preventivamente questa proposizione: «ciò che pensa esiste», il che equivarrebbe a riconoscere un principio più fondamentale dell’altro. Ma l’obiezione poggia su un falso supposto a cui dette origine l’enunciazione in forma di entimema, ed anche alcune parole non abbastanza chiare del filosofo. Ma in realtà egli non voleva fare un vero discorso; solo cercava di esprimere un fatto di coscienza, cioè: che nel dubitare di tutto trovava una cosa che resisteva al dubbio – il proprio pensiero». ↩︎
-
René Descartes, Discorso sul metodo, 9 ed., traduzione di Maria Garin, introduzione di Tullio Gregory, Laterza, Bari 2006, p. 45. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Del sentimento tragico, cit. alla nt. 2, p. 831. ↩︎
-
Ivi, p. 715. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 739. ↩︎
-
Fridrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, traduzione di Michele Costa, Mursia, Milano 1965, p. 104. ↩︎
-
Ivi, p. 19. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Del sentimento tragico, cit. alla nt. 2, p. 739. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit. alla nt. 39, p. 194. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Del sentimento tragico, cit. alla nt. 2, p. 739. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 819. ↩︎
-
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit. alla nt. 39, p. 32. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Del sentimento tragico, cit. alla nt. 2, p. 819. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Diario intimo, cit. alla nt. 1, p. 54. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Del sentimento tragico, cit. alla nt. 2, p. 669. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Diario intimo, cit. alla nt. 1, p. 79. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Sentido histórico, in Id., Escritos socialistas. Artículos inéditos sobre el socialismo (1894-1922), ed. Ayuso, Madrid 1976, pp. 251-252. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Nicodemo il fariseo, in Id., Filosofia e Religione, cit. alla nt. 2, p. 265. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, ¿Hambre…?, in Id., Visiones y comentarios, in Id., Obras Completas, 9 voll., a cura di M. García Blanco, Escelicer, Madrid 1966-1971, vol. VII, p. 1085. ↩︎
-
Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Club del Libro Fratelli Melita, La Spezia 1981, p. 31. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, L’agonia del cristianesimo, a cura di Carlo Bo, SE, Milano 2006, pp. 29-30. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Salvar el alma en la historia, in Id., Cartas al amigo, in Id., Obras Completas, cit. alla nt. 50, vol. VII, p. 1003. ↩︎
-
Vladimir Il’ič Lenin, Stato e rivoluzione, a cura di Valentino Gerratana, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 112. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, L’agonia del cristianesimo, cit. alla nt. 57, p. 30. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, VI, en Id., Cartas al amigo, cit. alla nt. 58, p. 1025. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, I, en Id., Cartas al amigo, cit. alla nt. 58, p. 1015. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Darwinismo falsificado, en Id., Escritos socialistas, cit. alla nt. 53, p. 117. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, L’agonia del cristianesimo, cit. alla nt. 57, p. 30. ↩︎
-
Ivi, p. 26. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Diario intimo, cit. alla nt. 1, p. 79. ↩︎
-
Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Id., Angelus Novus, a cura di Renato Solmi, Einaudi, Torino 1997, p. 75. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Sadduceismo, in Id., Il Cristo di Velásquez, in Id., Filosofia e Religione, cit. alla nt. 2, pp. 1373-1375. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Del sentimento tragico, cit. alla nt. 2, p. 705. L’adagio viene tradizionalmente attribuito a Thomas Hobbes, ma probabilmente è molto più antico. ↩︎
-
Ivi, p. 703. ↩︎
-
Miguel de Unamuno, Diario intimo, cit. alla nt. 1, p. 34. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎