Il limite del logos: il logos del limite. Uno specchio asimmetrico

1. Il sistema e il limite

Molti filosofi, letterati, uomini di cultura di questo secolo hanno cercato, scoperto, esplicitato, descritto i limiti intrinseci ed estrinseci di quelle dottrine filosofiche che presumevano di essere assolute, che pretendevano di aver colto in modo esauriente Il logos. Queste dottrine si possono definire sistemi. Sistema non significa sistematico. La storia del pensiero è ricca di dottrine sistematiche; per sistematicità va inteso il rigore della riflessione, ma sistema significa altro.

Difficilmente possiamo applicare l’idea di sistema alla riflessione di Aristotele, Agostino, Tommaso, Cartesio; a ben pensarci neppure a quella di Kant. Aristotele sapeva bene che il sapere al massimo grado lo possiede solo un dio, il possesso della sapienza «è cosa sovraumana». Era ben noto a Platone, che «i più grandi fra i beni giungono a noi attraverso la follia, che è concessa per un dono divino», non a caso la profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona «in quanto possedute dalla follia, hanno procurato alla Grecia molte e belle cose, sia agli individui sia alla comunità».1 Per gli autori cristiani il Logos divino prende l’iniziativa e spesso e volentieri scompiglia i sistemi costruiti dall’uomo; si presenta come paradosso e procura scandalo. Kierkegaard ha a lungo indagato in questa direzione sulla scorta di una vastissima tradizione: la sapienza di Dio è follia per l’uomo e per i suoi ragionamenti; con la logica aristotelica non si possono esaurire i dogmi cristiani.

Un pensiero-sistema è quello che pretende di possedere il fondamento assoluto sul quale poggiare il proprio pensare, che esige di aver individuato L’equazione universale in grado di spiegare esaurientemente ogni aspetto del reale. Nel sistema l’attività assoluta si esplicherebbe da lei stessa attraverso il pensare.

Il passo decisivo verso un sistema di pensiero con queste pretese si è svolto modificando l’interpretazione del trascendentale kantiano. Secondo Armando Rigobello: «Per Kant il trascendentale non può mai divenire un sostantivo, nel senso di indicare una realtà autonoma; negli idealisti si sostantivizza, ma mutando la natura del sostantivo stesso: non oggetto, ente, ma attività assoluta; l’unica realtà possibile è quella del predicato (del pensare, non del pensiero); il soggetto e l’oggetto si risolvono nel predicato».2

Un’attività assoluta è sciolta da ogni determinazione, è libera da ogni condizionamento e nello stesso tempo produttiva del suo stesso agire. Un sistema così fondato non può che ritenersi totalizzante, esauriente, onnicomprensivo, non può che asserire di essere in grado di comprendere tutti i fattori che costituiscono il reale.

Al sorgere di un sistema tramonta la filosofia. Qualora fosse compiutamente esplicitata la Sofia non avrebbe più senso l’amicizia per il sapere, almeno come era concepita da Platone nel Simposio. Il suo compimento sarebbe il suo decesso.

Non si può tracciare una linea che colleghi direttamente, in una logica causa effetto, tali i sistemi di pensiero ai vari totalitarismo politici, di destra e di sinistra, sorti nel nostro secolo. Spesso gli ideologi di queste concezioni politiche hanno scimmiottato pensieri ben più complessi e profondi dei loro. Vi è un abisso tra le riflessioni teoretiche e le applicazioni svolte dai politici, ma indubbiamente i sistemi speculativi hanno reso fertile il terreno per lo sviluppo di queste concezioni politiche totalitarie.

La tragica storia politica della prima metà del nostro secolo, e in particolare le guerre mondiali, le innominabili atrocità commesse, l’Olocausto, interpellano il pensiero: questo è mosso, stimolato, implicato, squassato, scompigliato, richiesto, negato, e annientato da questi eventi. Di fronte a sistemi politici totalitari che hanno preteso di possedere la chiave della storia, del suo movimento dialettico, il filosofo è interpellato, anche per le conseguenze disastrose di queste teorie.

Il sistema pretende di esaurire il reale il quale da sempre sfugge a queste rivendicazioni. La più completa mappa del territorio che possiamo elaborare con i mezzi più sofisticati che ci sono offerti dalle tecnologie più avanzate, non coincide mai col territorio.

Ogni sistema che pretendesse di essere onnicomprensivo sarebbe violento. Un sistema siffatto asserirebbe di possedere saldamente il reale attraverso i propri concetti, formule, linguaggi. Una formula (un particolare) dovrebbe esaurire la realtà: questa è una delle definizioni più appropriate della violenza.

Molti filosofi, in contrasto con questi sistemi, hanno affermato l’importanza e la necessità della filosofia intesa come amicizia per il sapere che non si possiede mai compiutamente; hanno sostenuto una filosofia che sapesse ancora interrogare sul serio, che fosse capace di percorrere le vie pericolose dell’interpretazione. Alcuni filosofi hanno praticato una filosofia intesa come spinta interiore dell’uomo alla ricerca del significato, e dunque una filosofia come lotta per il significato; filosofia la quale sa che la risposta ai suoi interrogativi non è omogenea alla domanda.3

È sorta una rivolta contro i sistemi, contro la pretesa di ogni sistema di pensiero di poter esaurire la totalità del reale; in alcuni casi l’esito di questa rivolta è stato ed è il rifiuto di ogni totalità. In questa prospettiva si sono sviluppati pensieri decostruttivisti, asistematici, antimetodici, creativi, o di pura rottura volti solo a scovare i limiti di ogni pensiero, riflessione, speculazione. Il terrore di ciò che è accaduto nella prima parte del secolo XX ha spinto alcuni a voler impedire il sorgere di qualsiasi altro pensiero che aspiri ancora ad una totalità. Ma non per questo non si è cascati in altri totalitarismi che non sono meno pericolosi di quelli della prima metà del secolo.

Oggi le ideologie non sono morte, sono solo mimetizzate ad arte. Si è ad esempio sviluppata una concezione pragmatista; molti si sono orientati verso interpretazioni (e soprattutto soluzioni) pragmatiche ritenendo inutile se non pericoloso continuare a svolgere speculazioni ed elucubrazione sui fondamenti e sulle essenze, questa via è una delle forme ideologiche più forti sul mercato odierno; c’è chi non vuole arrischiarsi in un’interpretazione unitaria e si limita a svolgere analisi tanto sofisticate quanto sterili; alcuni perseguono il valore radicale della differenza a tal punto da negare ogni identità spingendo inevitabilmente verso un’uniformità ben più totalizzante di quella che intendevano combattere; altri ancora ripiegano verso concezioni ermeneutiche infinite in quanto fini a se stesse (che è la forma di un altro totalitarismo), dove tutto è ritenuto a priori un succedersi di effimere interpretazioni.

Per molti la scoperta dei limiti sia dei sistemi di pensiero sia delle filosofie della tradizione, ha coinciso con un radicale scetticismo: la scoperta dei limite si è trasformata nell’affermazione del limite di ogni possibile pensiero.

Attorno all’ampia area semantica coperta dalla parola limite si è discusso molto in questo secolo, ma non per questo la questione è esaurita. Nelle pagine successive faremo alcune brevi considerazioni sul rapporto tra limite e logos cercando di individuare alcuni degli itinerari ancora percorribili. La filosofia che si rapporta all’esistenza, al mondo, alle cose, trova in qualche modo nei propri scacchi e nei fallimenti, nelle vie sbarrate, nei limiti imposti dall’esperienza, il proprio più fecondo alimento.

2. Un’annotazione linguistica

Nessun termine può essere tradotto da una lingua all’altra senza modificazioni. Le parole sono esse stesse l’esito di una traduzione: chi parla o scrive pensa ed intende qualcosa, e ricerca le parole che descrivano il proprio pensare. Ma ogni vocabolo significa sempre anche altro da quello che il parlante desidera comunicare. Secondo una terminologia linguistica ogni parola è considerato un semema, ciò significa che il termine copre un’ampia e variegata area concettuale. Colui che parla, utilizzando un lessema, intende dire qualcosa di preciso, vuole usare solo uno dei possibili semi cui rinvia il vocabolo. Questa operazione è già una traduzione in quanto chi parla traduce un pensiero, un concetto, in uno o più termini. Nel passaggio dal livello paradigmatico della langue a quello della parole (nel senso di De Sussurre) il parlante, nel suo discorso a livello sintagmatico, generalmente intende enunciare solo uno dei semi contenuti nelle parole che utilizza nel suo discorso, ma tutti gli altri significati non sono semplicemente cancellati, restano potenzialmente presenti in ogni lessema.

Una delle difficoltà nell’uso della lingua sta anche in questo: la totalità di essa (a livello paradigmatico) è sempre presente anche nel discorso «orizzontale», sintagmatico. Il parlante sceglie un sema tra quelli possibili nel semema, e lo utilizza nel suo discorso, ma in pratica il sema utilizzato trascina con sé la possibilità di tutti quelli compresi nel semema.

La questione si manifesta ogni qual volta che un lettore (che può essere lo stesso scrivente, magari dopo che è trascorso un po’ di tempo da quando a redatto un testo) cerca a fatica di comprendere il significato di uno scritto. Il lettore deve tradurre un sintagma nel proprio pensiero, e cerca di individuare i semi, e dunque i concetti, intesi dall’autore. Ma non sempre l’operazione riesce. Quale era il significato del termine a cui pensava l’autore?

Queste considerazioni vanno attentamente soppesate anche per i termini logos e limite. Dovremo esplicitare nello sviluppo del discorso alcuni dei semi presenti in quelle parole senza mai poter prendere alla leggera le difficoltà poste dal linguaggio.

3. Il limite del logos

3.1 Logos come linguaggio

Il linguaggio non è un semplice e neutrale strumento del pensiero, il minimo che si possa dire è che è complesso. Il linguaggio si fa carico di storia, cultura, pensieri, precomprensioni e li trasmette in ogni sintagma oltre le intenzioni del parlante o dello scrivente. Questo carico non è da interpretarsi esclusivamente come una condanna, è sia una ricchezza sia un limite. Il limite consiste nel fatto non poter eliminare completamente l’ambiguità da qualsiasi discorso, per quanto semplice sia; la ricchezza sta nel fatto che solo in tal modo il linguaggio, secondo la nota espressione di Heidegger, può essere la casa dell’essere, cioè il luogo — così minuscolo come le parole: un insieme di suoni o di lettere — dove è possibile indicare l’intera realtà e ciò che sta di là della realtà stessa.

Ogni parola ha la capacità di ospitare tanti significati, a volte anche opposti tra loro, e spesso senza alcuna relazione evidente: che rapporto c’è tra bianco di vino bianco — che è giallo — e bianco dell’uva bianca che è verde? Si tratta di due colori diversi, ma sempre colori. Ma se diciamo bianco come la neve nel senso di puro quale relazione si instaura coi precedenti significati di bianco? Che legame c’è tra acuto inteso come intelligente, e acuto inteso come un suono o come angolo? E tra canto come canzone, poema ed angolo? Che rapporto c’è tra il termine personne inteso come persona e personne nel senso di qualcuno (Mourire? Il n’est pas question que personne meure), chiunque (vous le savez mieux que personne), o nessuno (Personne ne le sait. Qui vient? Qui m’appelle? — Personne)? Che legame semantico esiste tra la preposizione per col significato di attraverso (vado per il ponte), o durante (per lungo tempo), o come segno moltiplicatore (tre per due)? Neppure il linguaggio matematico è esente da queste problematiche.

Se ciò vale per le parole più semplici che dire di quelle più complesse che appartengono per di più a lingue, storie e culture diverse? Se è già difficile tradurre all’interno di un codice da un livello paradigmatico ad uno sintagmatico nel passaggio tra pensiero e linguaggio, che dire della traduzione tra lingue diverse? Ogni lingua appartiene ad una storia, spesso lunghissima. L’uomo parla, comunica da quando esiste, e sembra non si tratti di millenni. La comunicazione si può far risalire al momento in cui l’uomo o il suo progenitore ha iniziato a utilizzare e poi costruire degli strumenti, come un osso o un sasso spuntato o levigato per farlo diventare una lama. Il linguaggio ha sedimentato questi lunghissimi tempi, ha decantato l’esperienza del reale nel tempo e nei tempi.

Certe parole essenziali per lo spirito di un’epoca paiono intraducibili. Che dire della parola logos? Basta uno sguardo alla letteratura filosofica che parla di logos per essere presi dalle vertigini. È sufficiente leggere qualche testo di Heidegger per cadere nello sconforto: come tradurre logos? La ricerca di un origine sicura è impresa utopica. Aristotele e prima di lui Platone, utilizzano il termine con più significati. Due vanno ricordati: discorso e ragione. A partire dall’antichità, come ricorda Heidegger, il Logos di Eraclito è stato interpretato «come ratio e come verbum, come legge del mondo, come ciò che è logico e costituisce la necessità del pensiero, come il senso, come la ragione».4

Sostituendo le due traduzioni di logos citate nell’espressione il limite del logos abbiamo il limite del discorso e il limite della ragione. Ma con queste sostituzioni non abbiamo risolto nulla: discorso e ragione in che senso? Entrambi i termini hanno significati diversi già per Platone ed Aristotele che parlavano greco. Discorso e ragione poi hanno significati distinti se proferiti nell’antichità che era essenzialmente cosmologica e nella modernità che è (era?) sostanzialmente antropologica. Anticamente ragione e discorso appartengono alle cose e all’essere prima che all’uomo, nell’epoca moderna il logos appartiene esclusivamente all’uomo.

Heidegger riconduce i sensi di logos a raccogliere, riunire: il logos sarebbe il raccogliente posare innanzi; raccogliere e cogliere che sono un riunire e un portare insieme che è innanzitutto un mettere in serbo ciò che viene selezionato, eletto. Logos «è l’originario riunire della raccolta principale a partire dall’iniziale posare».5 È un posare raccogliente, è un raccogliere ciò che c’è (l’essere, la presenza delle cose) e serbarlo nel linguaggio che lo indica lasciandolo essere ciò che è. Il linguaggio sarebbe logos nel senso che è un riunente lasciare — stare — dinanzi ciò che è presente nella sua presenza. I lessemi riunire, raccogliere, posare, sono tutti sememi; quali semi dobbiamo considerare? La difficile decodificazione di frasi cosi complesse è dovuta anche a questi problemi linguistici; la difficoltà di cogliere lo spirito del testo proviene anche dal dover percorrere le sabbie mobili del linguaggio che hanno inghiottito anche la storia delle parole.

A prima vista la formula limite del logos ha un sapore decisamente kantiano. Le varie Critiche sono per l’appunto la descrizione del limite del logos inteso come ragione e discorso umani. L’espressione limite del logos può però far riferimento ad altre culture, pensieri che appartengono ad evi diversi. Queste considerazioni accumulano difficoltà sopra difficoltà; come districarsi in questa selva?

Per di più non abbiamo neppure sfiorato la questione del rapporto tra pensare e linguaggio che è indispensabile almeno citare: esiste un pensiero non linguistico? O è il linguaggio che ci offre i paradigmi del pensiero? Per rispondere a tali interrogativi dovremmo prima conoscere l’essenza del pensiero e del linguaggio. Chi si arrischia ancora ad affrontare territori così sconfinati e impervi?

Dunque il primo limite del logos, inteso come discorso, è che appunto si tratta di linguaggio, fatto di parole; queste sono come anguille che sfuggono naturalmente ad ogni presa definitiva. Tale limite è da valutare sia negativamente sia positivamente. Tenendo presente tali questioni inerenti il logos come linguaggio proseguiamo l’indagine.

3.2 Logos come ragione

Dove cade l’accento nell’espressione il limite del logos: su limite o su logos? L’accentazione non è un dato irrilevante nell’interpretazione di un testo. Ciò che determina i significati delle parole, delle frasi, dei sintagmi, non è solo la semantica, ma lo sono tutte le altre strutture intermedie, come la morfologia; pure quella sovrasegmentale ha una sua importanza.6 Ogni lingua si comporta a tal proposito in modo diverso. In italiano la morfologia sovrasegmentale è rilevante. La variazioni di volume, di altezza e durata nel proferire delle parole o un discorso, modificano il senso dei termini e delle frasi, sono in grado di cambiare i rapporti comunicativi. Nel linguaggio verbale usiamo correntemente di queste variazioni d’intonazione che sono ben note a chiunque parli ed ascolti (benché non siano codificate nello scritto a livello segmentale, se non in pochi casi, come ad esempio il punto interrogativo che segnala una variante melodica ascendente in altezza che trasforma un’enunciativa in interrogativa). Heidegger, in molti sui testi (ricordiamo in particolare Il principio di ragione) ha giustamente insistito sull’importanza dell’intonazione, e usando corsivo ha indicato a livello di scrittura alcune delle varianti tipiche del codice orale che e a volte sono decisive per la comprensione del senso del testo.

Dicendo il limite del logos, non diciamo il limite del logos. Nel primo caso l’accento cade su limite, e così l’attenzione dell’interprete è rivolta al fatto che il logos abbia un limite. Del logos conta che abbia un limite, questo è il dato importante, è l’informazione che la frase sembra dare. Volendo utilizzare ancora una terminologia della linguistica si potrebbe dire che l’accentuazione definisce il rema. Il sintagma orienta il lettore comunicandogli che qualsiasi cosa sia il logos, questi è limitato, ha una forma finita, dei confini, oltre i quali probabilmente non è possibile andare, e forse non sarebbe neppure opportuno sconfinare al di là di essi. Seguendo questa interpretazione è importante comprendere quali siano questi limiti, che contorno definiscano. Naturalmente si dice qualcosa anche del logos, il rilievo su limite può significare che il logos è caratterizzato da questi confini.

Il logos, sia inteso come discorso sia come ragione, compreso come qualcosa di limitato, come un isola nell’oceano, ci rinvia a Kant. «Noi abbiamo fin qui non solo percorso il territorio dell’intelletto puro esaminandone con cura ogni parte; ma l’abbiamo anche misurato, e abbiamo in esso assegnato a ciascuna cosa il suo posto. Ma questa terra è un’isola, chiusa dalla stessa natura entro confini immutabili».7 In questo modo inizia il capitolo terzo del libro secondo dell’«Analitica trascendentale», capitolo dove Kant parla del principio che distingue tutti gli oggetti in generale in Fenomeni e Noumeni. Nel passo citato Kant parla dell’intelletto e dei suoi limiti. L’intelletto è come una terra limitata dal mare, i suoi confini sono immutabili, si tratta di un’isola, di una piccola isola se confrontata a ciò che sta oltre essa: «È la terra della verità (nome allettatore), circondata da un vasto oceano tempestoso, impero proprio dell’apparenza, dove nebbie grosse e ghiacci, prossimi a liquefarsi, danno ad ogni istante l’illusione di nuove terre […] ».8 Di questo mare l’intelletto «non può mai venire a capo». Cosa è questo oceano pericoloso, minaccioso (tempestoso), oscuro (nebbie grosse), illusorio dove non si trova un terreno solido «sul quale poterci fabbricare una casa»?9

L’intelletto è la terra delle verità, intesa come «accordo della nostra conoscenza con gli oggetti».10 Dunque l’oceano attorno all’isola è terra di non verità, non nel senso che non esista, che non sia importante — forse più importante — ma nel senso che là non vi è più accordo tra conoscenza e oggetti. L’intelletto si perde in questo oceano perché esce fuori dai limiti che la natura ha definito. L’intelletto va richiamato quando «come è inevitabile» seguendo il desiderio di sapere «oltrepassi continuamente i confini del suo possedimento, e si smarrisca in illusioni e chimere».11 L’intelletto non «può determinare a se stesso e sapere i limiti del suo uso, ciò che può trovarsi al di dentro o al di fuori di tutta la sua sfera».12

Questi limiti, come detto, è la natura a definirli, «questa terra è un’isola chiusa dalla stessa natura». Ma cos’è la natura? È forse quell’oceano che lo racchiude entro i confini immutabili? L’intelletto è confinato nel regno della verità, cioè quello dell’accordo fra la nostra conoscenza e gli oggetti; questi sono intesi come fenomeni cioè oggetti di una esperienza possibile, mentre delle cose in generale e in se stesse l’intelletto non può dire nulla. Infatti, secondo Kant, le nostre facoltà conoscitive non permettono una intuizione intellettuale.13 L’intelletto, con le sue categorie, non può spingersi al di là dei limiti degli oggetti dell’esperienza (dell’isola); «il territorio di là della sfera dei fenomeni (per noi) è vuoto […] Il concetto di noumeno è dunque solo un concetto limite, per circoscrivere le pretese della sensibilità».14

In questo passo Kant utilizza il termine Grenzbegriff. L’intelletto stesso limita la sensibilità chiamando le cose in sé noumeni, e pone a sé il limite di non poter conoscere le cose in sé per mezzo di nessuna categoria «e poterle soltanto pensare a titolo di un ignoto».15

È impressionante la fortuna di questo «ignoto» nella storia della cultura successiva. Da una parte l’intelletto è limitato, e autolimita le proprie pretese, e questo è un dato positivo infatti «prima di affidarci a questo mare, per indagarlo in tutta la sua distesa, e assicurarci se mai qualche cosa vi sia da sperare, sarà utile che prima diamo ancora uno sguardo alla carta della regione, che vogliamo abbandonare, e chiederci anzi tutto se non potessimo in ogni caso star contenti a ciò che essa contiene»,16 dall’altra è inevitabile che l’intelletto desideri superare questo confini, sia affascinato da questo oceano vasto, senza misura, ignoto, problematico.

Per molti aspetti è proprio l’atto di porre precisamente un confine, di assicurare il possesso di questa regione contro ogni nemica pretesa, a gettare una luce intesa quanto più è oscura sulle nebbie che stanno oltre di esso.

Questa idea dell’isola riaffiora spesso nella storia del pensiero. Dario Antiseri interprete del Tractatus di Wittgenstein utilizza la medesima metafora: «Ciò che può dirsi chiaramente è quel che può dirsi attraverso il linguaggio della scienza, quel che può venir controllato dall’esperienza, lo scientificamente dicibile. Ma attorno a quest’isola del dicibile (del dicibile in proposizioni, in proposizioni scientifiche) esiste l’oceano dell’indicibile dello scientificamente indicibile: e questo è quello che più conta per noi. È l’etico».17 P. Engelmann afferma di Wittgenstein che «non è la costa di quell’isola che egli vuole esaminare con tanta meticolosa accuratezza, bensì i limiti dell’oceano»,18 affermazione che poggia sulla proposizione 6.45 del Tractatus: «Intuire il mondo sub specie aeterni è intuirlo quale tutto — limitato —. Sentire il mondo quale tutto limitato è il mistico».

In questi termini il limite sembra essere, per un singolare rovesciamento, porta sull’illimitato, sull’ignoto. Il discorso sul limite diviene espressione del desiderio di sfondarlo per sprofondare nell’ignoto.

3.3 Il sublime limite

Questo rovesciamento di prospettiva ha avuto enorme fortuna. Il limite, il limite del logos inteso come discorso e come ragione umana, diviene la chiave di accesso per introdursi nell’oceano, nell’ignoto, nel mistico. Il confine lo è sia delle coste sia dell’oceano. È chiusura ed apertura nel medesimo tempo.

Kant è stato maestro anche in questo, in particolare nelle pagine sul sublime che hanno avuto così grande influsso nella storia della cultura moderna. Introducendo l’analitica del sublime Kant scrive: «Il bello della natura riguarda la forma dell’oggetto, la quale consiste nella limitazione; il sublime invece, si può trovare anche in un oggetto privo di forma, in quanto implichi o provochi la rappresentazione sull’illimitatezza, pensata per di più nella sua totalità […]».19 Dunque ricompare il vasto, l’oltre confine, lo smisurato, l’illimitato. L’intelletto si arresta al bello, la ragione spazia nel sublime. Ma come può navigare in ciò che non è misurabile, oltre l’isola, nell’oceano sconfinato? Positivamente non può farlo perché nell’oceano perde l’orientamento. La via per questo viaggio è solo indiretta, negativa; esige da noi un altro modo di sentire il limite: «il sentimento del sublime invece è un piacere che sorge solo indirettamente, e cioè viene prodotto dal senso di un momentaneo impedimento […] il sublime non si può unire ad attrattive; e, poiché l’animo non è semplicemente attratto dall’oggetto, ma alternativamente attratto e respinto, il piacere del sublime non è tanto una gioia positiva […] merita di essere chiamato un piacere negativo».20 Nessun oggetto naturale, neppure la natura stessa, è sublime, come non lo è «l’immenso oceano sollevato dalla tempesta».21 Il sublime concerne sempre noi stessi e non le cose. La natura, soprattutto quando si manifesta violenta, potente, caotica, devastante, selvaggia suscita il sublime. In noi stessi va ricercato il sentimento del sublime che inerisce non più il limitato e il misurato dall’intelletto, ma il sentimento dell’assolutamente grande. L’intelletto qui si arresta, ma non l’uomo che si tuffa in tale oceano.

La definizione di sublime è a prima vista contraddittoria: ciò che è assolutamente grande. Kant sottolinea questa contraddizione specificando che vuole dire con assolutamente ciò che è grande al di là di ogni comparazione. Una misura deve poter avere un’unità di misura, deve poter essere confrontata, paragonata con altro. Definire i limiti dell’isola significa misurarla. Nulla è assolutamente grande perché il grande è relativo all’unità di misura scelta. Kant non intende il lessema grande come una misura al di fuori della cosa stimata grande in comparazione con altro da essa, non lo interpreta come quantitas ma come magnitudo. Questa misura appartiene alla cosa stessa, è quasi un giudizio etico (di stima), «È una grandezza che è uguale solo a se stessa».22 Il sublime non è da ricercarsi nelle cose della natura, ma solo nelle nostre idee.

L’impulso a lanciare lo sguardo esternamente all’isola è fortissimo, ma fuori non vi è nulla da vedere. Il sublime non si può vedere eppure preme potente in noi: «nella nostra immaginazione vi è una spinta a proseguire all’infinito […] nella nostra ragione (vi è) una pretesa all’assoluta totalità» noi abbiamo una disposizione d’animo che ci spinge verso ciò che è assolutamente grande, oltre ogni confronto. Facciamo esperienza di una sproporzione (oltre ogni misura) che «desta in noi il sentimento di una facoltà soprasensibile».23 Vi è una facoltà dell’animo, dice Kant, superiore ad ogni misura dei sensi.

Quale via seguire per orientarsi in questo mare al di là del sensibile (e del fenomeno)? Come detto solo negativamente, indirettamente. Kant dice che «il sublime non si può cercare nei prodotti dell’arte […] dove uno scopo umano determina così la forma come la grandezza, né nelle cose della natura il cui concetto include già uno scopo determinato […] ma soltanto nella natura grezza (e in questa soltanto a condizione che non presenti alcuna attrattiva e non susciti la paura d’un pericolo reale), in quanto è semplicemente grande».24 Il semplicemente grande è l’assolutamente grande, il grande in sé, il sublime, come l’infinito che «è grande assolutamente (non per semplice comparazione). Paragonata con esso, ogni altra grandezza (della stessa specie) è piccola».25

Quando Kant parla di in-finito (di non finito) usa le stesse definizioni di sublime. Infatti solo il poter pensare l’infinito «esige nell’animo umano una facoltà, che sia essa stessa sovrasensibile».26 L’infinito non è un dato naturale, è un’idea, un’idea in noi che supera i limiti della sensibilità e dell’intelletto.

Sarebbe abbastanza facile confrontare queste considerazioni con le meditazioni cartesiane sull’idea di Dio in noi (passi tanto amati da Levinas). Col nome di Dio Cartesio intende «una sostanza infinita […] sebbene l’idea di sostanza sia in me per il fatto stesso che io sono una sostanza, tuttavia, non per questo avrei l’idea di sostanza infinita, essendo io finito, se essa non procedesse da una sostanza veramente infinita».27 Sono ben note queste riflessioni volte a dimostrare l’esistenza di Dio. Le differenze con Kant, almeno a livello di conclusioni, sono molte, ma il percorso seguito è il medesimo.

Per Kant il fatto che l’uomo possa pensare l’infinito come totalità (il sublime) trascendendo ogni misura della sensibilità, non va valutato sul piano teoretico: questa possibilità non fa conoscere, ma estende l’animo «il quale si sente capace di superare i limiti della sensibilità da un altro punto di vista (dal punto di vista pratico)».28

3.4 Il limite per Caspar David Friedrich e per Leopardi

L’idea di infinito presuppone una negatività (l’in- di infinito: il non finito, il non limite). La natura è sublime in quei fenomeni la cui intuizione include l’idea della sua infinità, «la qual cosa non può avvenire se non mediante l’insufficienza del più grande sforzo della nostra immaginazione, nella valutazione della grandezza di un oggetto».29 In questo sentimento di insufficienza, di sproporzione si deve cercare ciò che suscita il sublime piuttosto che negli oggetti naturali. «Chi vorrebbe chiamar sublimi masse montuose informi, poste l’una sull’altra in un selvaggio disordine, con le loro piramidi di ghiaccio, oppure il mare cupo e tempestoso, e altre cose del genere?».30 Il sentimento del sublime sorge per l’insufficienza e la sproporzione tra un’immaginazione estesa al limite di tutta la sua potenza e le idee della ragione che la superano evidenziando in tal modo l’inadeguatezza di questa potenza. Le idee della ragione oltrepassano i confini dell’isola, dell’intelletto, della sensibilità, dell’immaginazione. Nulla è adeguato al sublime, eppure la ragione, sorgente delle idee, trova questo concetto in sé.

Kant cerca nella natura e non nell’arte ciò che può suscitare il sentimento del sublime, eppure proprio l’arte ha sviluppato da subito e per lungo tempo l’idea di sublime. Alcuni artisti hanno cercato di esprimere ciò che non si può neppure immaginare. In un certo senso queste pagine kantiane sembrano limitare le possibilità dell’arte umana di esprimere l’infinito (in quanto l’arte è finalizzata ad uno scopo). Il non-finito, il non-formato, il non-limitato, esce dai confini di un’arte intesa come regno di equilibri formali, armonie, corrispondenze ed accordi. L’arte appartiene al regno della bellezza, non del sublime. L’arte ha a che fare con la sensibilità, dunque potremmo dire coi fenomeni, ma il sublime è altrove, e si appoggia all’insufficienza dell’immaginazione, alla natura grezza, all’impossibilità di colmare la sproporzione tra ciò che è dentro e ciò che è fuori dall’isola dell’esperienza possibile.

3.4.1 La via seguita da Friedrich

A mio avviso è impossibile comprendere l’opera di Friedrich (1774-1840) senza l’idea di sublime di Kant, ed è possibile comprendere meglio l’idea kantiana di sublime attraverso le opere di Friedrich. Alcuni brani di Kant a proposito del sublime dinamico della natura sembrano commentare i suoi quadri (che dovevano essere ancora dipinti): «Le rocce che sporgono audaci in alto e quasi minacciose, le nuvole di temporale che si ammassano in cielo tra lampi e tuoni, i vulcani che scatenano tutta la loro potenza distruttrice, e gli uragani che si lasciano dietro la devastazione, l’immenso oceano sconvolto dalla tempesta, la cataratta di un gran fiume, etc., riducono ad una piccolezza insignificante il nostro potere di resistenza, paragonato con la loro potenza. Ma il loro aspetto diventa tanto più attraente per quanto più è spaventevole, se ci troviamo al sicuro; e queste cose le chiamiamo volentieri sublimi, perché esse elevano le forze dell’anima al di sopra della mediocrità ordinaria, e ci fanno scoprire in noi stessi una facoltà di resistere interamente diversa, la quale ci dà il coraggio di misurarci con l’apparente onnipotenza della natura».31

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Ma come dipingere il sublime piuttosto che riprodurre spettacoli naturali che di per sé non sono sublimi? Questo deve essere stato uno dei grandi problemi di grandi artisti, come Friedrich. Il sublime può essere espresso solo negativamente, come sproporzione, insufficienza. Kant infatti spiega che nell’incapacità di trovare una misura adeguata per la valutazione dell’immensità della grandezza del dominio della natura «scoprimmo la nostra propria limitazione».32 Ciò che viene ad evidenza è proprio questa limitazione, il confine che ci appartiene, quello della nostra terra.

Questa limitazione non va letta solo come frustrazione, come confine negativo, infatti è una chiave dell’infinito. Kant prosegue dicendo: «ma ci fu rivelata nello stesso tempo, nella facoltà della ragione, un’altra misura non sensibile, la quale comprende quell’infinità stessa come una unità, e di fronte a cui tutto è piccolo nella natura». La nostra impossibilità di resistere alla potenza naturale ha come esito contemporaneo quello di farci scoprire superiori e indipendenti dalla natura, e gli esiti sono etici: una considerazione della virtù dell’umanità sulla natura. Tale valutazione incita la forza che è in noi (e che non è natura) a ritenere come insignificanti quelle cose che ci preoccupano (i beni, la salute e la vita), a favore della sublimità della nostra destinazione. Ma come dipingere ciò? come esprimere con delle immagini quello che l’immaginazione con tutta la sua potenza non può neppure immaginare?

3.4.2 La schiena come limite

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Descriviamo un’opera che sembra tra le meno esemplari di Friedrich sebbene rappresenti bene la genialità del pittore. Si tratta dell’interno di una stanza; di fronte al fruitore c’è una finestra; davanti ad essa, girata di schiena rispetto all’osservatore, sta in piedi una donna che guarda fuori. Noi non vediamo ciò che essa osserva, scorgiamo al di là della finestra la presenza di imbarcazioni e di un po’ di cielo. Che cosa guarderà la donna? Nella stanza non vi è nulla che attiri il nostro interesse, essa è spoglia, povera. Neppure la donna presenta vesti di particolari rilievo. Al pittore non preme descrivere la stanza o la donna, e neppure il paesaggio che intravediamo dalla finestra.

Questo quadro ha poco a che vedere con la grande tradizione pittorica nordica delle scene di interno, come ad esempio i quadri di Vermeer, dove il soggetto è spesso una donna situata davanti o accanto ad una finestra mentre legge una lettera, svolge delle attività o riposa. Vermeer dipinge l’interiorità della persona, i suoi sentimenti intimi. La stanza è metafora del nostro mondo interiore, metafora della terra del nostro intelletto e della nostra sensibilità, o meglio del nostro io pensante. Fuori c’è l’oceano del reale che possiamo misurare e riprodurre attraverso mappe, cartine, mappamondi…

I quadri di Friedrich sono tutt’altro. Il soggetto dei suoi dipinti non è l’interiorità ritenuta capace di misurare il mondo intero. Dicevamo che tutto ciò che è dipinto nel quadro che stiamo interpretando non suscita particolare attenzione, non è attraente, anche la luce e i colori sottolineano la mediocrità e la quotidianità dell’ambiente. Al pittore interessa suscitare in noi il sentimento del sublime. Il soggetto (ciò che sta sotto) del quadro non è dipinto, possiamo solo immaginare ciò che la donna guarda, ma non lo sappiamo, possiamo solo tirare ad indovinare.

Il pittore non può dipingere qualcosa di sublime dato che nella natura nulla è sublime. Il sublime è un sentimento dell’animo che si può suscitare negativamente evidenziando un’insufficienza, esplicitando una sproporzione, lasciando immaginare qualcosa che non si può immaginare. Se dipingessimo un maestoso abisso questo sarebbe descritto e dunque misurato attraverso l’arte dell’uomo; non sarebbe sublime perché il sublime è una grandezza incomparabile.

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Friedrich non descrive l’abisso, ma ci presenta ad esempio una scena33 dove delle persone, ai bordi di una scogliera, chi disteso a terra guardando in giù, chi attaccato saldamente ad un albero ma tutti con le spalle rivolte verso il fruitore del dipinto, sono davanti ad un precipizio che noi non vediamo; lo possiamo solo immaginare. L’immaginazione è così stimolata ad estendersi. Però per quanto estesa possa essere non è in grado di rendere l’immagine della sublimità dell’abisso, infatti il sublime risiede altrove, ed è suscitato dal rapporto tra le persone e il precipizio. In questa proporzione si manifesta la «piccolezza insignificante (del) nostro potere di resistenza» paragonata con la potenza della natura. Questi eventi o fatti naturali così potenti hanno «un aspetto tanto più spaventevole, se ci troviamo al sicuro», gli uomini infatti si appoggiano alla terra o si sostengono alle piante, e hanno il coraggio di misurarsi «con l’apparente onnipotenza della natura».

Il soggetto dei dipinti non sono gli uomini rappresentati, non il fatto spaventevole o grandissimo (della natura), ma la sproporzione tra uomo nella sua fragilità e la potenza della natura. Da una parte vi sta la ragione e il destino dell’uomo dall’altra l’insignificanza della natura (si tratta di eventi di natura grezza, senza scopo).

La visione di schiena dei personaggi raffigurati è una delle geniali invenzioni di Friedrich. La schiena ha diversi significati nel codice delle sue pitture. La figura descritta nel quadro che stiamo analizzando è posta centralmente di fronte a noi, e impedisce che il nostro sguardo scorra oltre. Il personaggio guarda in un punto fuori dalla nostra visuale. Questi due elementi compaiono spesso nei suoi dipinti. Nel noto quadro intitolato Il monaco sulla spiaggia, vediamo un uomo di schiena, minuscolo a confronto del paesaggio; monaco che non guarda a questo o quel fenomeno (all’immenso oceano sconvolto dalla tempesta, direbbe Kant), ma alla totalità dell’immensa natura, totalità che è un’idea contenuta nella nostra ragione. È impossibile dipingere questa totalità, e infatti Friedrich non la dipinge. Il sublime è suscitato dalla sproporzione uomo — paesaggio che intensifica il sentimento dell’altra misura (sovrannaturale) che appartiene all’uomo. Non a quell’uomo, visto di schiena, ma dell’uomo in quanto tale.

Il primo significato della visione di schiena di molti personaggi nei suoi dipinti è quello di voler coinvolgere il fruitore. Chi osserva non è dietro al personaggio dipinto di schiena, chi guarda, idealmente, coincide con il personaggio dipinto. Questo non è un anonimo qualcuno, siamo noi stessi di fronte alla potenza della natura. Possiamo solo immaginare ciò che stiamo guardando con gli occhi del personaggio dipinto, lo possiamo fare rievocando quelle esperienze attraverso le quali abbiamo vissuto il sentimento del sublime.

Il secondo significato di questa prospettiva di schiena è simile a quello che abbiamo già espresso quando abbiamo parlato del rovesciamento del senso di limite da confine che serra la nostra terra (la costa dell’isola) a limiti dell’infinito (luogo di partenza per navigare). I nostri confini sono contemporaneamente la possibilità di «toccare» l’infinito.

La schiena rappresenta il nostro limite, sia in quanto sbarra la nostra visuale, impedendo al nostro sguardo di andare oltre, sia perché la schiena rappresenta la fragilità dell’uomo. Il volto, lo sguardo è sempre anche una possibilità di difesa; ci permette di vedere l’eventuale minaccia, di confrontarci con essa. Di schiena invece siamo esposti, senza difesa, non vediamo, non possiamo pariamo il colpo, neppure difenderci. Chi colpisce un altro alla schiena, chi accoltella alla schiena, è definito vigliacco, traditore. La coltellata alla schiena non ce l’aspettiamo, e uno sguardo può essere insidioso come una pugnalata.

La schiena non ha difese, l’uomo, osservato in questa prospettiva, è denudato, esposto, non si può preparare, non sa cosa fa l’altro. La schiena manifesta il limite della persona, la non visuale, il non volto, la debolezza. Se poi la fragilità dell’esposizione di schiena, che oltretutto toglie la visuale al nostro sguardo, è rapportata alla potenza sproporzionatamente potente della natura, il sentimento di sublime sorge spontaneo.

Il semema schiena copre molti possibili sensi. Nell’insufficienza, nella resistenza, nella fragilità, nella visone indiretta è possibile indicare il sublime. Attraverso il finito (come fragile, debole, concluso) è possibile indicare l’immensità, la totalità, l’infinità non rappresentabile. L’arte, sembra dire Friedrich a Kant, supera la natura nell’espressione del sublime. Il fine è lo stesso per Friedrich e per Kant (e per Beethoven nell’Eroica). Nell’uomo, fragile, debole, finito, mediocre, è suscitato l’eroe inteso come chi ha il coraggio di misurarsi con ciò che è oltre ogni misura; oltre i limiti della finitezza, della morte, dei bisogni della vita, al fine di asserire e testimoniare i principi ultimi dello spirito.

In questa accezione il limite è la chiave di volta per tuffarsi e naufragare nell’infinità.

3.4.3 L’infinito 1

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Come non pensare ad una delle poesie più importanti della modernità: «L’infinito»34 di Giacomo Leopardi. Il breve poema sviluppa la sproporzione tra limite ed illimitato, finito ed infinito. La siepe — verrebbe da dire la schiena — impedisce la visuale, esclude lo sguardo «da tanta parte dell’ultimo orizzonte». Noi ci troviamo di fronte a questo limite «mirando» ma in realtà non vediamo nulla, tanto meno «interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete». Questa immensità non vista, ma intuita nella finzione del pensiero grazie alla sproporzione tra il confine della siepe e quegli interminati spazi, procura quasi spavento, «per poco il cuor non si spaura». È spaventosa quella sproporzione, colta solo grazie al limite della siepe. Se guardassimo l’orizzonte libero non percepiremmo l’immensità.

Percepiamo un paradosso simile a quello espresso da Kant nelle sue definizioni di sublime come grandezza assoluta, senza proporzione; infatti per il poeta il sublime è visibile solo nel limite al visibile costituito dalla siepe, o della schiena di Friedrich; infinito silenzio percepibile solo nella voce dello stormire del vento; nel finito sovien l’eterno. Ma lo spavento è superato per il fatto che è dolce naufragare in questo mare. La terra che siamo, l’isola, la schiena, la siepe, il limite, il limite del logos, sono strade che possono condurre ad annegare dolcemente nell’immenso, nella grandezza senza confronti, nell’infinito, nel vasto oceano che circonda il limite stesso. Proprio una parte, una piccola parte, un frammento, suscitano l’eterno. Il tempo che scorre e finisce, e la complessità che si manifesta inestricabile sono percorsi verso l’eterno e il semplice.

Lungo questa sentiero, che gira attorno al sublime e in particolare calca sull’importanza del limite rovesciato a chiave d’accesso dell’illimitato, si potrebbero attraversare una buona parte dei territori artistici — poetici moderni e contemporanei.

3.5 Il sublime e la tecnica

Non è solo l’arte poetica ad essersi orientata in questa direzione. In un passo già citato Kant, per spiegare la sua definizione di sublime come ciò al cui confronto ogni cosa è piccola scrive: «E qui si vede facilmente che non può essere dato niente in natura, per quanto grande sia giudicato da noi, che non possa essere ridotto, considerato sotto un altro rapporto, all’infinitamente piccolo; e viceversa, niente di così piccolo che non si possa ingrandire per la nostra immaginazione, mediante il confronto con misure ancora più piccole, fino a diventare un mondo. I telescopii e i microscopii ci hanno fornito rispettivamente una ricca materia per la prima e la seconda osservazione».35 L’elemento tecnico, inteso come prolungamento dei sensi, trova il suo limite solo nell’infinitamente piccolo o grande. Non ha limite se non nell’illimitato, nell’immenso. Il limite, così compreso, è fatto per essere superato, è la porta per l’illimitato.

Tra le chiavi di lettura dell’orientamento moderno della tecnica vi sono certamente l’accelerazione, la velocità, la riduzione dello spazio e del tempo, la potenza oltre ogni potenza: «Nessuno può oggi dire quali rivoluzionari progressi saranno compiti in un prossimo futuro. Lo sviluppo della tecnica diventerà nel frattempo sempre più veloce, non potrà arrestarsi in nessun luogo. In ogni ambito della propria esistenza l’uomo è sempre più strettamente assediato dal potere delle apparecchiature tecniche e delle macchine automatiche. La potenza della tecnica che dappertutto, ora dopo ora, in una forma qualsiasi di impiego incalza, trascina, avvinghia l’uomo d’oggi — questa potenza è accresciuta a dismisura e oltrepassa di gran lunga la nostra volontà, la nostra capacità di decisione, perché non è da noi che procede».36 Questo Heidegger scriveva nel 1955 rivolto a chi s’illudesse di poter ridurre l’intera questione della tecnica moderna ad un livello etico di controllo della produzione e dei suoi effetti. Solo l’infinito, l’illimitato può saziare la sete del progresso tecnologico. Albert Einstein indicava il limite insuperabile della velocità della luce, la meccanica quantistica ha parlato di velocità infinite, istantanee. Poco importa poi, sembra di capire oggi, che questo in-finito sia Qualcuno o non piuttosto nulla.

L’annientamento come l’infinito di potenza sono sempre grandezze in sé, non rapportabili ad altro, al cui confronto ogni altra cosa è piccola.

3.6 Snodo

Riflettendo sulla preposizione il limite del logos abbiamo percorso velocemente alcune possibili interpretazioni del semema logos. Logos può essere caratterizzato anche come ciò che ha un limite, meglio forse che pone un limite, logos che trova proprio in questo porre e porsi dei limiti la scintilla che fa scoppiare il proprio motore, che lo fa muovere per superare ogni confine verso l’illimitato. Quest’ultima espressione ha evidentemente un esagerato sapore dialettico (quale dialettica però?), ma buona parte della storia della cultura moderna sembra essere interpretabile anche in questo modo. Il limite è posto dal logos perché il logos (astutamente) si metta in moto: il logos alimenta se stessa nel limite. Sarebbe riduttivo interpretare in chiave idealistica l’intera storia del logos, che ha una tradizione lunghissima e pregnante; logos significa anche altro. Ma altrettanto ingenuo sarebbe non considerare attentamente l’interpretazione dialettica.

Lungo tutta la grande tradizione spesso il limite è stato interpretato come porta verso l’infinito. Ciò che vale è l’infinito, e le vie per raggiungerlo spesso non possono che essere negative: attraverso la privazione, o ciò che è deficiente, sconnesso, disordinato, frastagliato, frammentario, negativo, folle. Ma cosa abbiamo detto, in questa prospettiva (che è un ampio ventaglio di prospettive per nulla riducibili l’una all’altra) del limite in sé? Accentuandolo abbiamo fatto un cenno piuttosto ad alcune possibili concezioni di logos, ma poco sul limite in quanto limite. Quale è il logos del limite?

4. Il logos del limite

Proviamo a cambiare accentazione e pronunciamo il limite del logos. L’attenzione viene portata dal limite al logos. Cosa risuona ora nella sentenza? Non il fatto che il abbia un limite, ma che il limite abbia un logos. Vi è dunque un logos del limite? O meglio ve ne sono altri rispetto a quelli fugacemente accennati? Che rilievo assume il limite in questa diversa intonazione? Questa da sola non dice abbastanza (nonostante dica di più di quanto non si ritenga normalmente), ma apre a delle possibili interpretazioni.

Se dicessimo il fine della vita è… (facendo durare la i più a lungo e in modo più acuto rispetto all’ultima vocale) sottoporremmo ad attenzione il fatto che la vita abbia un fine, comunicheremmo che l’esistenza, magari spesso travagliata, non sia un insieme casuale di impulsi, ma, per esempio, una unità tesa verso un compimento. Della vita specificheremmo il fatto che abbia un fine. Se invece dicessimo che il fine della vita è… forse, senza un’ulteriore specificazione, produrremmo un certo smarrimento. In che senso l’accento cadrebbe su vita? Vorrebbe forse dire che l’oratore parla della vita e intende comunicare che non è cosa da poco? La vita si risolve tutta nel suo fine o in sé è già anche un fine? È certamente una frase meno scontata, presuppone un discorso precedente o successivo forse inusuale.

Se dicessimo, facendo un esempio a prima vista più banale, che il limite di Carlo è… sottoporremmo all’attenzione di chi ascolta il fatto che Carlo abbia questo limite, che potrebbe per esempio renderlo inadatto per un determinato lavoro, che potrebbe essere il tema principale del discorso. Se invece dicessimo che il limite di Carlo è… porremmo l’accento sul fatto che Carlo, proprio Carlo abbia un limite. In questo caso Carlo sarebbe l’argomento principale del discorso. Questo ultimo aspetto risulterebbe evidente se all’affermazione seguisse una risposta del tipo: Carlo ha un limite? Non importa quale limite sia, ciò che conta è appartenga a Carlo.

La formulazione «il limite del logos: il logos del limite» mette in rilievo il logos. Ma logos non è Carlo, in questo caso la semantica ha un rilievo essenziale: significa tra l’altro, come detto, discorso o ragione. Quale è il discorso del limite, cioè cosa dice il limite, cosa parla nel limite?

La luce gettata sul termine limite, pur non accentuato, è diversa da quella discussa nella prima parte. Là il tema era che il logos possedesse un limite, e questo fosse una caratteristica essenziale del logos. Infatti in alcune interpretazioni il logos pone a sé stesso il limite come impulso della propria attività. Il limite non sarebbe altro che un nome del logos (in senso paradossale). Il limite (del discorso, dell’intelletto, della ragione, dell’immaginazione…) parlerebbe del logos, sarebbe la via per raggiungerlo, o meglio la via dello stesso logos di proseguire all’infinito. Che cosa d’altronde oltrepassare, superare, se non ci fossero i limiti? Chi ci spingerebbe ad andare oltre l’allucinante peso dell’immediato e del presente, se non proprio questo fardello?

Questo è uno tra i possibili discorsi sul logos, o del logos, ma non è certo l’unico; e neppure è detto che gli esempi discussi in precedenza vadano interpretati solo secondo tali prospettive. Dicendo il logos del limite diamo rilievo diverso e decisivo proprio a limite: il limite parla, dice, esprime un logos.

Il limite? È solo strumento (pur essenziale) del logos? È una via da seguire per raggiungere oltre ogni frammento l’eterno? È ultimamente da annullare verso un sublime oltrepassamento di ogni ostacolo verso l’infinito? Non finito che può essere tanto uno spirito assoluto, quanto e più radicalmente nulla? Quale è la fine del finito? Il limite del limite? (perché questo è il suo logos).37

Per comprendere questo mutamento di intonazione non è necessario cercare altri e nuovi autori. La diversa accentazione può farci rivisitare in modo originale ciò che abbiamo già interpretato.

4.1 L’infinito 2

Torniamo a Leopardi. Il limite dello sguardo (la siepe) viene sfondato, o meglio si rovescia spalancando l’infinito. La siepe serve per «vedere» l’infinito, per condurre in quel mare, in quell’immensità dove s’annega il pensiero, e dove è dolce naufragare. Questo sembra il messaggio principale del canto. Ogni contingenza, fine, limite, può aprire al non-finito. Questa è una possibile interpretazione.

Il pensiero di Leopardi, considerando l’insieme della sua produzione è complesso ed inquietante. C’è chi ha stimato la sua opera come un lucido svelamento del nichilismo della cultura occidentale. Tutte le cose sono inconsistenti, tutto è destinato ad annientarsi, è vano. «Il principio delle cose e di Dio stesso, è il nulla», sono parole di Leopardi (Zibaldone, 72), sulle quali poggia l’interpretazione di Emanuele Severino. Ma in che senso il principio (che è un termine che ha a che fare con logos) è il nulla? Per Severino Leopardi avrebbe svelato il senso nichilistico della cultura occidentale, e del cristianesimo, Leopardi scrive: «il cristianesimo […] ha solennemente dichiarata e stabilita, e per così dire attivata, la massima della certa infelicità e nullità della vita umana» (Zibaldone, 105). Severino commenta che «per la prima volta egli scopre la storia nascosta della tradizione occidentale».38 Il senso dell’atto poetico potrebbe essere quello di illudere al fine di consolare, per rendere sopportabile l’esistenza. La poesia creerebbe questa illusione, sarebbe cioè qualcosa che nasconde la verità.

In questa poesia accede tutt’altro: si svela sia la verità sia il vero nel loro rapporto. Sergio Givone sottolinea la connessione tra poesia e verità che vige nell’opera di Leopardi. Evidenzia ad esempio come per Leopardi il nulla non è l’esito finale di un processo di dissolvimento, ma appunto principio di tutte le cose. Secondo Givone Leopardi non getta uno sguardo sul nulla ma ha uno sguardo dal nulla. Attraverso questo sguardo le cose non vengono divorate ma si stagliano nette ed enigmatiche: «come render conto del fatto che dal nulla le cose, ben lungi dall’apparire nullificate, risultano al contrario evidenziate in tutta la loro enigmaticità e manifestano l’arcano che non si lascia esaurire e quindi annientare da nessun perché?»39

Se interpretassimo l’essenza dell’arte come un’illusione estetica che finge l’esistenza di un mare (che sarebbe nulla) in — finito (non ente) entro cui sarebbe dolce naufragare dimenticando il finito che esclude ogni sguardo, non comprenderemmo L’infinito. Nella poesia non emerge solo la sproporzione finito — infinito che svela ciò che è assolutamente grande. Il limite che «il guardo esclude» non è solo occasione per suscitare il sentimento dell’infinito, non è una contingenza da negare e superare. Proprio il limite, il finito si esprime, enigmatico e glorioso, in questa poesia. Sullo sfondo dell’infinito (del non ente, del ni — ente) il finito si svela nella sua gratitudine, nel suo essere dono (presente). Questa è la gloria, la doxa, la stima, la ricchezza espressa dal rapporto finito — infinito. Ciò che è caro, che conta, che è ricco, non è l’immenistà ma l’ermo colle, che è solo, è solo un colle. Un sentimento di tenerezza (come una carezza) è suscitato per la siepe nel suo escludere; per lo stormir del vento; per le stagioni che si susseguono; per le morte stagioni presenti (donate) nella memoria.

Il limite ha un logos, parla, ha voce, dice in quanto limite che scopriamo solo perché lo sfondo lo svela. Sfondo che non è qualcosa, non è nulla di vero (come invece lo è il colle, la voce del vento, la siepe). Il limite si vede solo a faccia a faccia con l’interminato; l’uomo si svela solo in rapporto al sovrumano; la voce risuona solo (e sola) nel silenzio. Non si tratta di una contrapposizione tra opposti, neppure di una dialettica negativo — positivo. Il finito non va superato, è in qualche modo insuperabile perché appartiene all’infinito, ma in un senso diverso rispetto a quelli citati in precedenza.

Per limite si intenda ora differenza, alterità, confine. Non vi è da una parte l’isola del determinabile e dall’altra il mare, o l’oceano tempestoso dove nebbie grosse e ghiacci, prossimi a liquefarsi, danno a ogni istante l’illusione di nuove terre. Non è neppure fondamentale la contrapposizione tra certo e incerto, noto e ignoto. Ciò che è più ignoto nei quadri di Friedrich, è la schiena piuttosto che i maestosi paesaggi. Il mistero non risiede unicamente nel fatto che nel fragile essere umano sorga l’idea del sublime, vi sia la ragione, enigmatico è l’evento per cui il fragile essere umano, nella sua forma (confine, limite, figura) non debba essere, eppure è presente (nel senso di dono). L’ignoto non risiede unicamente nella sproporzione tra finito e infinito, abita tanto nel mare quanto nella schiena, nella siepe, nel finito, nel limite. Il logos del limite, il discorso e il principio del limite, sono la gratuità enigmatica di tutto. Ciò rende care e tenere le cose, come una carezza.

La verità, come apertura che svela un mondo, e il principio e il logos di questo svelamento sono lo s-fondo sul quale si stagliano le cose nella loro fragilità. Come detto non si tratta di una opposizione (tra verità e vero). Dello sfondo fa parte l’altro, l’alterità, la differenza. Il logos del limite è la differenza (il limite segna la differenza e l’alterità) perché la differenza (gratuita, senza perché) appartiene al logos, è il logos del logos.

Givone, nell’indagare il principio del logos di Leopardi (il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla) esplicita uno dei possibili sensi del senza perché, del senza ragione ribadita dal poeta: «Nessuna cosa è assolutamente necessaria […] non v’è ragione assoluta — e commenta Givone — Non c’è ragione. Non c’è ragione perché qualcosa che è non sia così com’è o non sia assolutamente».40

Il logos è anche ragione, il logos, come ragione non è sciolto da tutto. Vi è un limite in esso una differenza originaria la quale è fonte del dono (nel dono qualcuno dona qualcosa a qualcuno, sono almeno tre gli argomenti del verbo donare, e per analogia semantica tre sono gli argomenti del presente). Non si tratta di limiti posti astutamente dal logos per mantenersi attivo, ma di una differenza originaria costitutiva. Non vi è una identità assoluta da una parte e un’apparenza di alterità che vada superata e magari riassorbita nel nulla originario dall’altra. Non vi è una privazione di identità originaria che sarebbe l’arcano di questo mondo decaduto. In quest’ultima prospettiva l’identità originaria andrebbe riconquistata (poca importa se dal basso o dall’alto). L’enigma è invece nel logos, la cui identità è una differenza, non rispetto ad altro da sé, ma innanzitutto a sé. Dove c’è limite c’è limite (differenza, alterità), nel logos c’è limite, nel limite c’è logos.

4.2 L’altra via presente nelle opere di Friedrich

Il dipinto di Friedrich che abbiamo guardato può essere a sua volta visto e osservato con un altro sguardo. José Saramago, uno dei più importanti scrittori portoghesi contemporanei, inizia il suo stupendo romanzo intitolato Cecità con una citazione dal Libro dei consigli: «Se puoi vedere, guarda. Se puoi guardare, osserva». Le stesse cose osservate a fondo non sono mai le medesime. La prima forma dell’opera è l’intenzione dell’autore, ma la forma dell’opera è più ricca delle intenzioni, dice anche molto altro.

Friedrich, nella descrizione della stanza, della schiena, della finestra, pensava ad una grandezza assoluta. Questa non appartiene esclusivamente alla sproporzione e all’infinito, ma anche a ciò che è piccolo e posto semplicemente davanti ai nostri occhi, a portata di mano. Quel limite, quella schiena, quella siepe che «il guardo esclude» è lì da vedere, anche se non la guardiamo, o la guardiamo come strumento per vedere altro, come segno indicatore. Non lo osserviamo come ciò che avvicina i differenti, come cosa che dona il logos. La nostra attenzione può però cadere sul limite, sul suo logos: il logos della differenza, del limite. Differenza che appartiene alla verità che svela le cose, che abita nelle cose così fragili come quelle osservate dal pittore con tenerezza.

Non vi è nulla di speciale da vedere nel quadro di Friedrich, non solo oltre il limite, ma anche dentro esso. Se l’attenzione cade su questo «nulla di speciale» esso diviene enigmatico ed ignoto, forse più che l’oceano oltre l’isola (il mare oltre la finestra). L’ignoto è tale quando diviene il logos dell’ordinario e del finito. Il mare non può essere contenuto dalle coste o dai bastioni che erigiamo su di esse per difenderci dalle tempeste, questa è un’illusione. L’ignoto appartiene alle cose più semplici, nella loro differenza e alterità (già solo per questo), nella vicinanza tra i differenti che non possono essere fusi in un’uguaglianza spirituale o materiale (tutto o nulla che sia).

Jacques Derrida commentando un passo di Emmanuel Levinas sulla questione dell’ignoto e scrive: ««Ignoto» non rappresenta il limite negativo di una conoscenza. Questo non-sapere è l’elemento dell’amicizia o dell’ospitalità per la trascendenza dello straniero, la distanza infinita dall’altro».41 L’altro è assolutamente altro, il limite che separa l’uno dall’altro è insuperabile, la separazione è infinita: «[…] il rapporto all’altro suppone una separazione infinita, un’interruzione infinita in cui appare il volto».42 Questa interruzione, questo limite è in-finito nel senso che non è superabile (è un finito che non è mai finito nel senso che non troviamo da nessuna parte una via d’uscita, non troviamo la fine della fine). Questa differenza però appartiene anche all’intimo di noi stessi, e costituisce la complessità interiore.

4.3 Uno specchio asimmetrico

L’espressione il limite del logos: il logos del limite, che formalmente rappresenta un chiasmo dato che sono disposti specularmente dei segmenti testuali non è, a livello semantico, uno specchio simmetrico. Si tratta di un incrocio, che culmina nei due punti, ma le vie sono distinte, conducono altrove non solo al di là di esse ma anche entro l’oscillazione fra andare e tornare per esse che ha caratterizzato la nostra interpretazione. Il rapporto tra limite e logos, è andato via via modificandosi. Non si tratta solo di trovare nuovi significati abbandonando quelli vecchi, non vi sono vecchi significati! l’aggettivo è improprio. I significati sono o non sono. E per venire alla luce, per essere scoperti dobbiamo trovare dei paragoni, delle differenze che li evidenzino, e questo lavoro è ogni volta originale. I significati non si danno se non nello sforzo e nel rischio dell’interpretazione.

Potremmo tornare alla prima accentazione: il limite del logos, e troveremmo un senso inaspettato, pur se velatamente presente (donato) dall’inizio. I due punti segnano una pausa, un limite, una distinzione la quale non può essere tenuta fuori dai confini dei sintagmi e delle parole e dei significati in gioco. I due punti simboleggiano il doppio movimento, l’oscillazione della nostra interpretazione. Ad ogni sconfinamento in una delle due parti l’altra si modifica, anche se l’intero sintagma dice sempre la stessa cosa. È come uno specchio che non riproduce ciò che sta di fronte, ma l’altro di ciò che si specchia.

Il nostro tema è sempre stato lo stesso, il limite, e l’obiettivo era quello di indicare, accennare all’essenza del limite, o meglio al logos del limite, al più proprio del limite. E per seguire questa via è indispensabile vedere il limite, vederlo in sé, o meglio prima guardarlo, osservarlo descrivendolo.

5. Conclusione

Inizialmente abbiamo detto che spesso uomini di pensiero di questo secolo hanno scoperto ed indicato i limiti di diverse e dominanti concezioni di logos che si erano precedentemente imposte. L’unico modo di tradurre logos nella propria lingua, esperienza, esistenza, cultura, è nei nomi che di volta in volta ha preso (anche il termine logos è uno di questi nomi). Nelle riflessioni di Kant, che sintetizzano lo spirito fondamentale presente in tutta la modernità che lo precede e lo segue, il nome di questo logos, il nome più essenziale è trascendentale. Questa parola esprime il nucleo centrale del suo pensiero.

Rigobello sostiene che «il criticismo, a rigore, non è solo un discorso sui modi in cui la ragione è limitata, ma una discussione sul significato di questi limiti».43 In parte abbiamo parlato di questa concezione di limite, accentuando la nostra espressione: i limiti del logos. Questa riflessione sul significato del limite è cruciale: «La filosofia critica, cioè il criticismo kantiano, non è infatti una semplice enunciazione delle forme trascendentali, ma discorso sul limite del conoscere, un discorso che precede la fissazione delle strutture formali e continua anche dopo averne fissato i limiti. La filosofia critica, dopo aver scoperto i limiti, tiene aperto il discorso di un loro superamento, poiché questo superamento, o comunque la sua ricerca, è connaturato alla condizione umana. Lo stesso andare oltre il fenomeno è sì, per Kant, una illusione, ma è «illusione trascendentale» universale quindi e necessaria».44

Il concetto di trascendentale è ambiguo, e le sue interpretazioni hanno in parte determinato l’evoluzione del pensiero successivo, come quello idealistico: per l’idealismo il trascendentale è l’unica attività assoluta. Rigobello nel volume intitolato I limiti del trascendentale in Kant (1963), ha indicato i limiti, nel senso di insufficienza, di privazione, di mancanza, del dell’idea kantiana. Il giudizio di Rigobello è netto: «La logica trascendentale, cogliendo la logica formale nel suo momento genetico e nella sua applicabilità esclusivamente a priori, affonda le sue radici in una complessità interiore che l’Io penso, il plesso dei giudizi trascendentali determinanti eludono».45 Nella prospettiva trascendentale non vi può essere, al fondo, al fondamento, una complessità interiore. Ed è questo uno dei maggiori limiti anche delle filosofie che sviluppano il concetto di trascendentale. «La crisi dl trascendentale idealistico si determina su di un piano esistenziale e su di un piano fenomenologico. In sede esistenziale ciò avviene per l’emergenza di istanze derivanti dalla singolarità dell’esistenza, irriducibili nell’assolutezza anonima del vincolo dialettico e il cui dominio non può essere respinto nel dominio dell’insignificante empiria. È questa la critica etico — pratica. In sede fenomenologica la revisione viene imposta per l’emergenza di un orizzonte di dati immediati che, pur rientrando nella coscienza, non si piegano all’onnicomprensività di una struttura dialettica lasciando insoluto il problema della loro deduzione. È questa la critica teoretico — coscienziale».46 Così, nel 1956, Rigobello evidenziava i limiti del trascendentale. È proprio sulla complessità interiore che l’indagine filosofica di Rigobello, si è sviluppata, ricordiamo in particolare Autenticità nella differenza (1989) e la nozione di estraneità interiore presente anche nei suoi studi più recenti.

Le indagini di Paul Ricœur sfociate nel volume intitolato Soi-même comme un autre (1990), che per molti aspetti prende spunto dalle analisi di Heidegger in Sein und Zeit, e le vie seguite da Emmanuel Levinas con sua forte sottolineatura dell’Alterità evidenziano degli aspetti analoghi. Si tratta di itinerari speculativi, in particolare quelli di Ricœur e di Rigobello, che attestano appunto una complessità interiore. Non si tratta di una complicazione dovuta alle difficoltà di pervenire alla semplicità, ma ad una complessità originaria, ad un’alterità insuperabile perché costitutiva.

Proprio il senso di limite viene a modificarsi in questi percorsi. Il limite, come ciò che segna una differenza, un’alterità insuperabile, è tutt’uno col più proprio dell’io, dell’identità, della stessità. Il limite appartiene a questa identità; il limite — inteso come differenza, alterità, estraneità — è proprio all’identità. Ciò che viene ad emergere è dunque il limite (la complessità, l’estraneità, la differenza tra ipse e idem…), questo è un logos del limite.

Come detto non si tratta però di uno specchio che semplicemente riflette ciò che gli sta di fronte, in questa riflessione mutano la comprensione e l’interpretazione delle cose, della realtà, dell’io. La luce gettata sul finito ne modifica radicalmente la interpretazione, pur dentro una millenaria tradizione che rimane fonte inesauribile di pensiero.

Individuare i limiti del trascendentale, i limiti del logos nel nome che di volta in volta assume, non è opera meramente negativa. Non si tratta di decostruire un pensiero solo per la paura che vengano a ricostruirsi nuovi e forti pensieri dell’identità. È importante gettare una diversa luce sul limite per cercarne il logos nel modo in cui questo si offre alla nostra indagine.

Questa fedeltà al finito, che accomuna molti autori (filosofi, artisti), che hanno attinto a piene mani dalla tradizione, anche se in sensi mutati e inaspettati (spesso grazie ad uno spostamento di accenti), non riduce il finito ad essere parte di un sistema, non lo restringe a strumento o segno di un’idea o di un progetto. Inchioda lo sguardo sul limite (viene da pensare Efesto che fissa Prometeo dinanzi ai nostri occhi) senza possibilità di oltrepassarlo (come la schiena e la siepe).

In questa prospettiva è come dovessimo rinunciare a superare il limite, ma tale rinuncia apre prospettive originali. La fedeltà è alla complessità, ad un logos del limite; un logos che evidenzi il limite nella sua singolarità (nell’essere solo in rapporto alla verità) e nel suo rapporto col mondo che di volta in volta si instaura attorno ad esso.

La fedeltà, e la tenerezza per il limite, non è l’apoteosi del male (infatti il limite può anche essere il male), neppure intende essere ostentazione della separazione. È ri-conoscenza di una differenza che intuiamo fondamentalmente buona; è ri-conoscenza per un dono (un presente): il dono della differenza che attestiamo come ricchezza per cui valga la pena rischiare di perderci «e il naufragar mi è dolce in questo mare».47


  1. Platone, Fedro, 244a-c. ↩︎

  2. A. Rigobello, Kant. Che cosa posso sperare, Roma 1983, p. 52. ↩︎

  3. A. Rigobello, Perché la filosofia, Brescia 1979, pp. 19-23. ↩︎

  4. M. Heidegger, «Logos», in Vorträge und Aufsätze, Pfullingen 1954; trad. it. G. Vattimo, Saggi e discorsi, Milano 1985, p. 142. ↩︎

  5. Ibidem, p. 147. ↩︎

  6. Il sistema grafico della lingua è una funzione fonetica, traduce il linguaggio orale, simboleggia il significante. Le componenti segmentali sono quelle che hanno un corrispondente grafico, come ad esempio le varianti timbriche, quelle sovrasegmentali non hanno un sistema organico di stabilizzazione e perciò si possono difficilmente trasmettere nel codice scritto, mentre sono universalmente comprese in quello orale. ↩︎

  7. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, 1781; trad. it. G. Gentile e G. Lombardo-Radice riveduta da V. Mathieu, Critica della ragion pura, I, Roma-Bari 1985, p. 243. ↩︎

  8. Ivi. ↩︎

  9. Ivi. ↩︎

  10. Ibidem, p. 244. ↩︎

  11. Ibidem, p. 245. ↩︎

  12. Ibidem, p. 244. ↩︎

  13. Ibidem, p. 256; 150. ↩︎

  14. Ibidem, p. 257. ↩︎

  15. Ibidem, p. 258. ↩︎

  16. Ibidem, p. 243. ↩︎

  17. L. Wittgenstein, Wörterbuch für Volksschulen, Wien 1926; trad. it. D. Antiseri, Dizionario per le scuole elementari, Roma 1978, p. 22. ↩︎

  18. Ibidem, p. 24. ↩︎

  19. I. Kant, Kritik der Urteilskraft, 1790; trad. it. A. Gargiulo, Critica del Giudizio, Roma-Bari 1982, p. 91. ↩︎

  20. Ibidem, p. 92. ↩︎

  21. Ibidem, p. 93. ↩︎

  22. Ibidem, p. 98. ↩︎

  23. Ibidem, p. 99. ↩︎

  24. Ibidem, pp. 101-102. ↩︎

  25. Ibidem, p. 104. ↩︎

  26. Ivi. ↩︎

  27. R. Descartes, Meditationes de prima philosophia, 1642; trad. it. M. Gargano e U. Perone, Meditazioni metfisiche. Ed estratti dalle Obiezioni e Risposte, Torino 1992, p. 73. ↩︎

  28. Kant, Critica del Giudizio, op. cit., p. 104. ↩︎

  29. Ibidem, p. 104. ↩︎

  30. Ibidem, p. 105. ↩︎

  31. Ibidem, p. 112. ↩︎

  32. Ibidem, p. 112. ↩︎

  33. «Die Kreidefelsen Von Rügen». ↩︎

  34. Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / e questa siepe, che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. / Ma sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo; ove per poco / il cor non si spaura. E come il vento / odo stormir tra queste piante, io quello / infinito silenzio a questa voce / vo comparando: e mi sovvien l’eterno, / e le morte stagioni, e la presente / e viva, e il suon di lei. Così tra questa / immensità s’annega il pensier mio: / e il naufragar mi è dolce in questo mare. ↩︎

  35. I. Kant, Critica del Giudizio, pp. 98-99. ↩︎

  36. M. Heidegger, Gelassenheit, Pfullingen 1959; trad. it. A. Fabris, L’abbandono, Genova 1983, p. 35. ↩︎

  37. Questo «gioco» di parole e di accenti può sembrare un eccesso linguistico, o peggio ancora una cattiva imitazione dello stile heideggeriano. L’individuazione del senso e dello spirito di qualsiasi testo non possono essere affidati esclusivamente a nessuna struttura linguistica, ciò non toglie che proprio una piccola modifica testuale possa essere determinante per la comprensione di questo senso. Le difficili scienze della comunicazione e dell’interpretazione devono tenere in considerazione tutti i fattori in gioco. ↩︎

  38. Emanuele Severino, Pensieri sul cristianesimo, Bergamo 1995, p. 261. ↩︎

  39. Sergio Givone, Storia del nulla, Bari 1995, p. 137. ↩︎

  40. Ibidem, p. 142. ↩︎

  41. Jacques Derrida, Adieu à Emmanuel Levinas, Paris 1997; trad. it. S. Petrosino e M. Odorici, Addio a Emmanuel Levinas, Milano 1998, p. 63. ↩︎

  42. Ibidem, p. 64. ↩︎

  43. A. Rigobello, Kant. Che cosa posso sperare, op. cit., p. 55. ↩︎

  44. Ibidem, pp. 55-56. ↩︎

  45. A. Rigobello, «Un itinerario speculativo», in AA. VV., Estraneità interiore e testimonianza. Studi in onore di Armando Rigobello, a cura di Antonio Pieretti, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1995, p. 13. ↩︎

  46. A. Rigobello, «La crisi del trascendentale estetico», in Atti del II congresso internazionale di estetica, ed. «Rivista di estetica», Venezia 1957, p. 122. ↩︎

  47. Questo mare che è prima di tutto interiore, a me, al colle, al vento, alle stagioni, alla siepe, alla schiena. ↩︎