Conosci te stesso! Riflessioni a partire dallo stadio dello specchio in Lacan

1. Conosci te stesso

Una delle massime di maggior successo nella storia della filosofia è il celebre «Conosci te stesso», l’esortazione inscritta nel tempio di Apollo a Delfi e ispiratrice di uno dei padri della filosofia occidentale, Socrate. Questa sentenza, che ad avviso degli studiosi ha il significato principale di spingere gli uomini a riconoscere la propria limitatezza, finitezza e inadeguatezza,1 ha un profondo significato per il filosofo greco, per il quale scopo della filosofia era quello di aiutare l’uomo a venire in chiaro a se stesso, portarlo al riconoscimento dei suoi limiti e renderlo giusto. In altre parole, la filosofia greca – anche quella non direttamente d’ispirazione socratica – si pone lo scopo di insegnare all’uomo la vita buona, d’istruirlo a essere un buon cittadino. Socrate, in particolar modo attraverso la sua ironia e la sua maieutica, intende far sì che i suoi interlocutori imparino a vivere, a dialogare e in fondo anche a morire,2 tutte cose che portano «a mettere in discussione l’individuo»3, a porgli la scomoda domanda su chi egli realmente sia e su quale sia la sua decisione esistenziale: «vivere secondo la coscienza e la ragione: sì o no»4. Solo esortando gli uomini a conoscere se stessi li si può spingere a trovare una risposta a una simile questione. Sia poi notato che non a caso Socrate stesso nel Teeteto descrive il proprio metodo maieutico paragonandolo all’arte della levatrice,5 intendendo con ciò, come osserva brillantemente Pierre Hadot, che lui stesso non genera nulla ma «si limita ad aiutare gli altri a generare se stessi»6. Ma generare se stessi in questo senso filosofico vuol dire proprio conoscere se stessi. Questo ideale della conoscenza di sé ha successivamente ricoperto un ruolo centrale nel pensiero filosofico europeo, dove raggiunge il proprio apice nel cogito cartesiano,7 il quale implica un’assoluta trasparenza del soggetto a se stesso e con ciò la possibilità di una completa e indubitabile conoscenza di se stessi. Questo soggetto forte e auto-trasparente sembra corrispondere appieno all’esortazione delfica e pare poter fare della realizzazione di un tale motto la base sicura sulla quale costruire quel grandioso «discorso dell’uomo sull’uomo»8 che è la speculazione filosofica. Il pensiero filosofico antico, medievale e moderno mostrano con ciò che conoscere se stessi è effettivamente possibile. Il motto delfico si radica profondamente nella cultura occidentale, che si mostra convinta della sua possibile attuazione. Ma, richiamando la lezione di Massimo Cacciari, il quale intervistato in merito al «Conosci te stesso» lo definisce pretesa eccessiva e afferma che mai nessuno può giungere a dire veramente «mi conosco», gettando in tal modo nuova luce anche sulla ripresa socratica di tale esortazione,9 si può effettivamente porre la questione delle condizioni di possibilità di una simile autoconoscenza. Se nel mondo antico e medievale nonché in certe forme di razionalismo moderno, come nel caso del cogito cartesiano per l’appunto, pare possibile giungere a conoscere se stessi, il proprio Io autentico, possiamo considerare tutto ciò possibile anche oggi, in epoca postmoderna? È ancora possibile conoscere se stessi, giungere a una completa auto-trasparenza del soggetto a se stesso, dopo la critica kantiana?10 Si può ancora ritenere possibile una perfetta conoscenza di se stessi dopo l’irrazionalismo volontaristico di Schopenhauer e di Nietzsche, dopo l’avventura della dialettica hegeliana, dopo la scuola del sospetto, dopo l’esperienza dell’esistenzialismo sartriano esposto in L’essere e il nulla11 e dopo l’affermarsi della psicoanalisi? Apparentemente la risposta non può che essere negativa. Tutte queste scosse filosofiche e culturali hanno ormai mostrato che l’auto-trasparenza perfetta dell’Io a se stesso non è che illusione. Se l’esortazione di Delfi può dunque avere ancora un significato nell’epoca attuale, ciò può avvenire solo attraverso una mutazione del significato dell’autoconoscenza. Conoscere se stessi non può e non deve più essere considerato come un sapere incontrovertibile, definitivo e assoluto riguardo al proprio Io più profondo e autentico, come raggiungimento della totale e perfetta trasparenza dell’Io a se stesso. Conoscere se stessi deve dunque avere una diversa connotazione e dimensione di significato. Infatti, se il sogno della perfetta conoscenza di sé è, come ricorda Cacciari nella citata intervista, un volere troppo, un peccato di hybris, cionondimeno si può giungere proprio a partire da questa apparente impossibilità a una sorta di comprensione di alcuni tratti caratterizzanti il soggetto e con essi a una certa qual forma di conoscenza – anche se solo approssimativa – di sé.

2. Lacan e lo stadio dello specchio

Tra i linguaggi della (post-)modernità che maggiormente hanno contribuito al dissolversi della conoscenza certa e assoluta di sé spicca il movimento della psicoanalisi. Fin dalla trattazione freudiana dell’apparato psichico con la sua suddivisione in inconscio, preconscio e coscienza, e della strutturazione tripartita dell’inconscio stesso in Id (o Es), Io e Super-io,12 la tendenza positivistica dominante nel pensiero occidentale sembra entrare in crisi, e con essa la convinzione della possibilità da parte degli individui di una conoscenza reale e positiva di se stessi e della realtà esterna e di esercitare un controllo razionale su di essi. Un autore successivo, anch’egli psicoanalista, ha elaborato una teoria che ha ulteriormente messo in discussione la possibilità di una tale conoscenza certa e razionale di sé e di un’effettiva auto-trasparenza dell’Io: si tratta di Jacques Lacan e della sua concezione dello stadio dello specchio.13 Lo psicanalista francese, nato a Parigi nel 1901 e morto nella stessa città nel 1981, ha dedicato la propria intera opera alla costruzione di una teoria del soggetto che mettesse in evidenza la «totale irriducibilità della vita psichica all’immagine personalistica di un’autocoscienza o di una coscienza riflessiva»14. L’obiettivo della sua ricerca lo accomuna senz’altro all’impresa freudiana, e non a caso Lacan stesso sottolinea l’importanza di un ritorno al padre della psicoanalisi al fine di riconsiderare lo statuto del soggetto15 e «mette[re] a soqquadro la versione razionalistico-cartesiana della soggettività come regolata dalla funzione dell’Io»16. Uno dei primi e più importanti contributi dello psicanalista francese in tale direzione consiste, come accennato, nell’elaborazione della teoria dello stadio dello specchio, che secondo il parere di Davide Tarizzo rappresenta «il contributo più importante e innovativo di Lacan alla storia della psicoanalisi»17. La prima stesura di questa trattazione lacaniana risale al 1936, anno in cui l’autore presenta le proprie considerazioni su questo tema in occasione del quattordicesimo congresso dell’International Psychoanalytic Association a Marienbad. Tale stesura è andata perduta, sicché Lacan la rimpiazza in fase di pubblicazione con una versione più tarda, presentata a Zurigo nel luglio del 194918. Nonostante la versione data alle stampe sia più tarda pare probabile che tra le due stesure non intervengano sostanziali differenze19, cosa che pare confermata anche dalle parole introduttive dello psicanalista parigino stesso:

La concezione dello stadio dello specchio, da me introdotta al nostro ultimo congresso tredici anni or sono, più o meno entrata com’è da allora nell’uso del gruppo francese, non mi è sembrata indegna di essere richiamata alla vostra attenzione: oggi specialmente, quanto alla luce che getta sulla funzione dell’io nell’esperienza che la psicoanalisi ce ne dà. Esperienza di cui bisogna dire che ci oppone ad ogni filosofia uscita direttamente dal Cogito.20

Questa citazione mette subito in chiaro che nella formulazione lacaniana dello stadio dello specchio non sono intervenute modificazioni notevoli e, soprattutto, che seguendo la sua linea di pensiero non si può corrispondere all’esortazione citata in apertura di questo testo seguendo la via del razionalismo cartesiano. Similmente a Freud, che nelle riflessioni sviluppate in Al di là del principio di piacere21 prende ispirazione dall’osservazione del gioco infantile di suo nipote col rocchetto di filo, Lacan trae il proprio punto di partenza dalla considerazione dell’atteggiamento infantile di fronte allo specchio. In quest’età, che va dai sei ai diciotto mesi,22 nella quale il bambino «è superato nell’intelligenza strumentale dallo scimpanzè, già riconosce però nello specchio la propria immagine come tale»23. Tale riconoscimento assume nella teorizzazione lacaniana l’aspetto di un momento fondamentale nella costituzione della soggettività umana. Appare infatti immediatamente evidente che il bambino apprende qualcosa da quella proiezione speculare, qualcosa su se stesso e sull’ambiente circostante, che viene messo alla prova nella forma del gioco davanti allo specchio al fine di testare la relazione intercorrente fra l’immagine e i movimenti sdoppiati da un lato e la realtà del proprio corpo e degli oggetti che gli stanno accanto dall’altro. Un simile atteggiamento del bambino viene ricondotto da Lacan al concetto di identificazione, la quale è «la trasformazione prodotta nel soggetto quando assume un’immagine»24. Esattamente in questa identificazione si gioca il ruolo determinante dello stadio dello specchio nella costituzione del soggetto, in quanto a questo livello il soggetto «si precipita in una forma primordiale»25 che assume la valenza di un Io ideale «che sarà anche il ceppo delle identificazioni secondarie, di cui con questo termine riconosciamo le funzioni di normalizzazione libidica»26. Come puntualizza Davide Tarizzo, «l’Io di ogni persona è caratterizzato dall’identificazione con un’immagine ideale di sé, e quindi l’Io stesso, l’Io come tale si costituisce all’origine tramite un’identificazione di questo tipo»27. L’esperienza che sta alla base di questo riconoscimento di sé è costituita dalla percezione che il bambino ha di se stesso, ossia come corpo in frammenti, sprovvisto di un’immagine unitaria e di una forma totale del corpo. L’insufficienza e impotenza di questo corpo in frammenti, caotico e disunito, in cui l’Io non può ancora trovare una coerente rappresentazione e identificazione di se stesso viene fronteggiata da questa immagine speculare, che è data al bambino come «Gestalt, cioè in un’esteriorità in cui questa forma [la forma totale del corpo] è certamente più costituente che costituita»28 e che già «simbolizza la permanenza mentale dell’io»29. In altri termini, come sottolinea puntualmente Massimo Recalcati, non esiste a priori un Io che, solo in un secondo tempo, si esternalizzerebbe per riconoscersi com’era nell’immagine che gli sta davanti, ma, piuttosto, è la stessa formazione dell’Io che dipende da un’immagine extracettiva che si costituisce solo mediante l’esteriorità pura dell’immagine.30 Questo carattere costituente l’Io dell’immagine speculare ha però anche un effetto alienante. Parafrasando Paul Ricœur,31 si potrebbe infatti dire che attraverso lo specchio l’Io si costituisce come un altro, come qualcosa di esterno in cui ci si proietta e identifica e che in quanto esterno rappresenta lo spossessamento del suo stesso fondamento.32 Lacan osserva che gli effetti formativi dell’immagine riflessa dallo specchio sono osservabili anche a livello biologico in natura, citando gli esempi del piccione e della cavalletta del deserto.33 Ciò permette allo psicanalista francese di trarre la seguente conclusione: «La funzione dello stadio dello specchio si presenta quindi secondo noi come un caso particolare della funzione dell’imago, che è quella di stabilire una relazione dell’organismo con la sua realtà, – o, come si dice, dell’Innenwelt con l’Umwelt»34. A differenza degli animali, però, nell’uomo questo ruolo dell’immagine è in relazione con l’esperienza frustrante del corpo in frammenti e con quel disagio dovuto alla mancanza di coordinazione motoria e quindi a una certa incompiutezza anatomica dell’umano – tutte cose riassunte da Lacan nell’idea di una «vera e propria prematurazione specifica della nascita nell’uomo»35. Per questo l’immagine speculare acquista tanta importanza e ricopre un ruolo tanto centrale nella costituzione dell’Io: essa rappresenta un di più, un valore aggiunto, un’identità a sé, distinta dalle singole parti del corpo in frammenti, e che dunque in quanto tale ha un valore e una qualità propria e rappresenta il superamento di quella frustrazione originaria. E proprio per questo lo stadio dello specchio assume una valenza nella vita psichica che tragicizza nella sfera dell’umano quella valenza dell’immagine speculare di cui Lacan ha riferito, con richiamo a Roger Caillois, a proposito del regno animale. Scrive in merito, concludendo, lo psicanalista:

Questo sviluppo è vissuto come una dialettica temporale che in modo decisivo proietta in storia la formazione dell’individuo: lo stadio dello specchio è un dramma la cui spinta interna si precipita dall’insufficienza all’anticipazione – e che per il soggetto, preso nell’inganno dell’identificazione spaziale, macchina fantasmi che si succedono da un’immagine frammentata del corpo ad una forma, che chiameremo ortopedica, della sua totalità, – ed infine all’assunzione dell’armatura di un’identità alienante che ne segnerà con la sua rigida struttura tutto lo sviluppo mentale.36

3. Lo stadio dello specchio e Sartre

Tramite lo stadio dello specchio l’Io si costituisce in maniera simbolica sulla base del sistema percezione-coscienza.37 Questo gioco di identificazioni simboliche, dapprima con l’immagine speculare e poi con gli altri in società – identificazione secondaria che trova comunque la propria ragion d’essere nello stadio dello specchio –, permette anche di dare una nuova interpretazione di alcuni passi sartriani, i quali non vanno a ogni modo intesi come direttamente in assonanza con le teorie lacaniane. Anzi, proprio nella conclusione del suo intervento sullo stadio dello specchio lo psicanalista prende le distanze da certo esistenzialismo filosofico di stampo sartriano,38 considerato colpevole di centrare il soggetto sulla coscienza.39 I passi sartriani in questione sono quelli dedicati al tema dei comportamenti di malafede. Gli esempi addotti dal filosofo sono quelli della donna al primo appuntamento,40 del cameriere41 – il più importante al fine di un confronto con lo stadio dello specchio lacaniano – e della tristezza. Scrive Sartre di questo cameriere:

Ha il gesto vivace e pronunciato, un po’ troppo preciso, un po’ troppo rapido, viene verso gli avventori con un passo un po’ troppo vivace, si china con troppa premura, la voce, gli occhi esprimono un interesse un po’ troppo pieno di sollecitudine per il comando del cliente, poi ecco che torna tentando di imitare nell’andatura il rigore inflessibile di una specie di automa, portando il vassoio con una specie di temerarietà da funambolo, in un equilibrio perpetuamente instabile e perpetuamente rotto, che perpetuamente ristabilisce con un movimento leggero del braccio e della mano. Tutta la sua condotta sembra un gioco. Si sforza di concatenare i movimenti come se fossero degli ingranaggi che si comandano l’un l’altro, la mimica e perfino la voce paiono meccanismi; egli assume la prestezza e la rapidità spietata delle cose. Gioca, si diverte. Ma a che cosa gioca? non occorre osservare molto per rendersene conto; gioca ad essere cameriere. Non c’è qui nulla che possa sorprendere; il gioco è una specie di controllo e di investigazione. Il ragazzo gioca col suo corpo per esplorarlo, per farne l’inventario; il cameriere gioca con la sua condizione per realizzarla.42

Per quanto riguarda invece la tristezza, osserva il filosofo:

Ma ecco un modo d’essere che concerne soltanto me: io sono triste. Questa tristezza che io sono, non la sono proprio nel modo d’essere ciò che sono? Che cosa è essa, tuttavia, se non l’unità intenzionale che raccoglie ed anima l’insieme dei miei comportamenti? È il senso dello sguardo fosco che getto sul mondo, delle spalle incurvate, della testa che si abbassa, dell’abbandono di tutto il corpo. Ma non so forse, nel momento stesso in cui tengo un certo comportamento, che potrei non tenerlo?43

Ferme restando le divergenti premesse di Sartre e Lacan, la critica lacaniana al primato della coscienza a cui si assiste nel pensiero del filosofo, il quale in certo qual modo si richiama alla tradizione cartesiana avversata dallo psicanalista,44 sembra tuttavia possibile interpretare l’esempio del cameriere e della tristezza alla luce delle considerazioni lacaniane sullo stadio dello specchio. Partendo dal cameriere, ciò che emerge immediatamente è il suo tentativo di identificarsi con un ruolo determinato dalla sua professione. Quella condotta che sembra un gioco e per mezzo della quale egli tenta di realizzare se stesso e la propria condizione investigando quasi il proprio corpo corrisponde appieno al gioco del bambino di fronte allo specchio, è un caso di identificazione con un’immagine di sé, riflessa questa volta non nello specchio ma negli occhi del cliente e – date le premesse sartriane – nella propria coscienza. Il ragazzo non si limita a fare il cameriere ma vuole essere cameriere, l’Io ideale col quale intende identificarsi è quello lavorativo. Ma in cosa consisterebbe qui la malafede di cui questa identificazione è esempio secondo Sartre? Anche in questo caso si può concludere qualcosa alla luce del pensiero di Lacan. Il cameriere è in malafede perché vuole fissare la propria identità su quella singola identificazione, vuole essere presso di sé e guarire da quell’alienazione fondamentale a cui l’Io è condannato. Il cameriere tenta di coincidere con un determinato Io invece di lasciarlo essere come un altro. Vuole riappropriarsi di quel fondamento di cui è stato spossessato dall’immagine speculare e fissarsi in esso tramite un’ipostatizzazione surrettizia simile a quella del cogito cartesiano. Anche l’esempio della tristezza addotto da Sartre è soggetto a una simile interpretazione sulla base dei principi dello stadio dello specchio lacaniano. L’individuo che si atteggia a malinconico, con le spalle incurvate e lo sguardo fosco, altro non è che un ulteriore caso di identificazione con un’immagine di sé. E come nel caso del cameriere, anche in relazione a questo esempio si può concludere che la malafede consiste proprio in tale volontà o tentativo di assolutizzare una precisa identificazione scansando le innumerevoli altre possibili, di uscire dall’alienazione per essere finalmente presso di sé in maniera assoluta e definitiva. In altri termini, in entrambi i casi si assiste a un atteggiamento di malafede in quanto sia il cameriere sia l’uomo triste altro non fanno che mentire – innanzi tutto a se stessi – illudendosi di poter conoscere se stessi, di potersi definire – «sono cameriere»; «sono triste» – e quindi, in ultima istanza, di poter guarire e liberarsi da quella struttura paranoica che invece, secondo Lacan, è caratteristica della soggettività in quanto tale. Infatti, quel soggetto costantemente alienato e costituentesi esclusivamente mediante identificazioni con un’immagine esterna è essenzialmente paranoico e non può cessare di esserlo. La guarigione secondo Lacan non è possibile perché non si può giungere al superamento di questa dicotomia tra il soggetto che si identifica (je) e l’Io ideale al quale si identifica (moi) messa in evidenza attraverso le osservazioni sullo stadio dello specchio. Illudersi o pretendere di essere guarito è menzogna o autoinganno, comunque qualcosa che nel linguaggio sartriano può essere definito come malafede.

4. Come conoscersi?

In conclusione, si può tornare a porre la questione con cui questo testo si è aperto. Come rispondere all’esortazione delfica «Conosci te stesso» dopo le esperienze filosofiche e più in generale culturali citate e – soprattutto – alla luce della tematizzazione dello stadio dello specchio in Lacan? Se queste parole del dio Apollo e divenute tanto importanti per una lunga fase del pensiero filosofico occidentale possono avere ancora un senso, come connotare questa conoscenza di sé? Conoscere se stessi non è certo più possibile nel senso della conoscenza certa, precisa e razionale del cogito cartesiano. Alla luce delle argomentazioni lacaniane emerge una struttura fondamentale in cui percezione e coscienza si intrecciano in un continuo gioco di identificazioni. La soggettività non preesiste alle identificazioni ma si costituisce tramite esse e non si ferma mai presso di sé, bensì rende l’Io essenzialmente alienato e spossessato del proprio fondamento. Conoscere se stessi dunque, come ricordato anche da Cacciari nella citata intervista, non è possibile nei termini di una conoscenza certa e definitiva. Lo stadio dello specchio rivela un soggetto che si sottrae alle categorizzazioni concettuali, che non può più essere catturato col pensiero e che non può costituire in alcun modo una sintesi della personalità pura, una sfera libera da conflitti che preesiste e permane sempre identica. Il soggetto si plasma nell’immagine e per questo si costituisce in maniera simbolica identificandosi con immagini esterne, che svolgono così una funzione morfogena.45 Riconoscere ciò può rappresentare già un primo punto nel tentativo di corrispondere all’esortazione delfica: conoscere se stessi significa ammettere una struttura soggettiva «debole», bisognosa di identificazione e di riconoscimento – cosa, questa, che potrebbe anche fornire spunti interpretativi importanti in merito alla moda dei selfies e della sovraesposizione della propria immagine tramite i social networks, ricerca disperata di affermarsi come individui attraverso il gradimento suscitato dalla propria figura. Un secondo punto è rappresentato dalla constatazione che in questa dicotomia tra je e moi, tra soggetto (inconscio) e Io (conscio), non si giunge mai a un punto ultimo, fermo e stabile. Non ci può dunque mai essere un’identificazione definitiva. Questo comporta un’apertura e un’estroversione del soggetto, che non è mai chiuso in se stesso e fermo su di sé, ma sempre proiettato all’esterno, da dove riceverà nuove immagini e occasioni d’identificazione e sulla base di queste una dimensione sociale.

Ma se la personalità e la stessa vita intersoggettiva si basano su questo perpetuo gioco di identificazioni, come conoscersi? Abbandonando le illusioni di un’assoluta auto-trasparenza del soggetto a se stesso, conoscersi può significare riconoscere la propria struttura aperta a sempre nuove identificazioni e la rinuncia alla fissazione di sé attraverso categorie puramente logiche e razionali – e in quanto tali assolutamente trasparenti e definitive. Significa sapersi come il lato buio di una riflessione speculare e la consapevolezza di non coincidere mai appieno con questa riflessione, con questo Io ideale. Significa rendersi conto di non essere – o non essere solo – un cameriere perché si è aperti a innumerevoli altre identificazioni. Significa, insomma, ammettere l’esistenza di alcunché che si sottrae alla riduzione a schema e alla fissazione nella trasparenza dell’immagine e che in quanto simbolico è sempre aperto a un’ulteriorità e alterità che non permettono mai di giungere alla parola definitiva sul Sé. Se dunque non è più possibile corrispondere all’esortazione delfica nel senso di una conoscenza certa e definitiva, rimane tuttavia possibile conoscersi nel senso del riconoscimento della propria apertura verso gli stimoli esterni e della propria irriducibilità a una dimensione universale, astratta ed evidente, ossia a un significato univoco. C’è sempre qualcosa che si sottrae a questa fissazione e che permane dinamico, e questo è proprio la struttura del soggetto che attraverso le immagini si costituisce identificandosi con esse. Conoscersi significa accettare questo statuto e rinunciare alla pretesa di definitività. Conoscere se stessi significa interpretarsi, proporre un’ermeneutica delle proprie identificazioni simboliche, tenendo fermo il principio dell’inesauribilità e irriducibilità del simbolo e quindi dell’interpretazione stessa.46 La precedente gnoseologia ontica con cui si supponeva di poter isolare l’Io si trasforma ora in ermeneutica esistenziale. Se pertanto bisogna rinunciare alla certezza di una certa forma di conoscenza, l’esortazione delfica rimane tuttavia ancor oggi un invito valido e una sfida affascinante.


  1. Cfr. Giovanni Reale, Socrate. Alla scoperta della sapienza umana, Rizzoli, Milano 2007, p. 49. ↩︎

  2. Si pensi specialmente al dialogo Fedone, nel quale Socrate discute coi discepoli della morte e dell’immortalità dell’anima e giunge a esprimere la richiesta di sacrificare un gallo ad Asclepio, mostrando in tal modo un esempio di buona morte. Cfr. Platone, Fedone, tr. it. di Manara Valgimigli, in Platone, Opere complete, Laterza, Roma-Bari 1980. ↩︎

  3. Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, tr. it. di Arnold I. Davidson, Einaudi, Torino 2005, p. 98. ↩︎

  4. Ibid↩︎

  5. Cfr. Platone, Teeteto, tr. it. di Manara Valgimigli, in Platone, Opere complete, Laterza, Roma-Bari 1980, 149a. ↩︎

  6. Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit. alla nota 3, p. 97. ↩︎

  7. «Ma subito dopo mi resi conto che nell’atto in cui volevo pensare così, che tutto era falso, bisognava necessariamente che io che lo pensavo fossi qualcosa. E osservando che questa verità, penso dunque sono, era così salda e certa da non poter vacillare sotto l’urto di tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici, giudicai di poterla accettare senza scrupolo come il primo principio della filosofia che cercavo.», René Descartes, Discorso sul metodo, tr. it. di Maria Garin, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 45. ↩︎

  8. Luigi Pareyson, Esistenza e persona, Il nuovo melangolo, Genova 2002, p. 15. ↩︎

  9. Alla base del metodo socratico sta infatti l’ammissione d’ignoranza. Per cui anche in merito all’invito a conoscere se stessi Socrate potrebbe rappresentare ironicamente l’assenza di una simile conoscenza. La risposta di Cacciari nel corso di tale intervista può essere consultata in rete all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=Y_H87VEyG-Y (ultima visualizzazione in data 28 giugno 2016). ↩︎

  10. «[…] per ciò che riguarda l’intuizione interna, noi conosciamo il nostro proprio soggetto solo come fenomeno, ma non già per quel che esso è in se stesso. […] Al contrario, io ho coscienza di me stesso, nella sintesi trascendentale del molteplice delle rappresentazioni in generale, e perciò nell’unità sintetica originaria dell’appercezione, non come io apparisco a me, né come io sono in me stesso, ma solo che sono.», Immanuel Kant, Critica della ragion pura, tr. it. di Giovanni Gentile e Giuseppe Lombardo-Radice, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 123-124. ↩︎

  11. Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla. La condizione umana secondo l’esistenzialismo, tr. it. di Giuseppe del Bo, Net, Milano 2002. ↩︎

  12. Cfr. Sigmund Freud, Compendio di Psicoanalisi, in Opere, vol. XI, ed. it. di Cesare Luigi Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 2006. ↩︎

  13. Scrive significativamente in merito Massimo Recalcati: «Il passo inaugurale dell’insegnamento di Lacan consiste nel mettere in scacco la nozione di Io e ogni supposizione di padronanza che essa comporta.», Massimo Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Cortina, Milano 2012, p. 1. ↩︎

  14. Ibid↩︎

  15. Cfr. Jacques Lacan, La cosa freudiana. Senso del ritorno a Freud in psicoanalisi, in Jacques Lacan, Scritti, a cura di Giacomo Contri, Einaudi, Torino 1974. ↩︎

  16. Massimo Recalcati, Jacques Lacan, cit. alla nota 13, p. 2. ↩︎

  17. Davide Tarizzo, Introduzione a Lacan, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 12. ↩︎

  18. Cfr. Jacque Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, in Jacques Lacan, Scritti, cit. alla nota 15. ↩︎

  19. Cfr. Davide Tarizzo, Introduzione a Lacan, cit. alla nota 17, p. 12. ↩︎

  20. Jacques Lacan, Lo stadio dello specchio, cit. alla nota 18, p. 87. ↩︎

  21. Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere, in Sigmund Freud, Opere, vol. IX, cit. alla nota12. ↩︎

  22. La stessa età del nipote di Freud all’epoca del suo gioco col rocchetto. ↩︎

  23. Jacques Lacan, Lo stadio dello specchio, cit. alla nota 18, p. 87. ↩︎

  24. Ivi., p. 88. ↩︎

  25. Ibid. ↩︎

  26. Ibid. ↩︎

  27. Davide Tarizzo, Introduzione a Lacan, cit. alla nota 17, p. 13. ↩︎

  28. Jacques Lacan, Lo stadio dello specchio, cit. alla nota 18, p. 89. ↩︎

  29. Ibid. ↩︎

  30. Massimo Recalcati, Jacques Lacan, cit. alla nota 13, p. 23. ↩︎

  31. Paul Ricœur, Sé come un altro, tr. it. di Daniella Iannotta, Jaca book, Milano 1993. Va qui segnalato che di un Io come un altro parla anche Sartre nel suo testo La trascendenza dell’Ego. Una descrizione fenomenologica, tr. it. di Rocco Ronchi, Marinotti, Milano 2011. ↩︎

  32. Cfr. Massimo Recalcati, Jacques Lacan, cit. alla nota 13, p. 24. ↩︎

  33. Cfr. Jacques Lacan, Lo stadio dello specchio, cit. alla nota 18, pp. 89-90. ↩︎

  34. Ivi., p. 90. ↩︎

  35. Ivi., p. 91. ↩︎

  36. Ibid. ↩︎

  37. Cfr. ivi., p. 93. ↩︎

  38. Non a caso Lacan parla di «filosofia contemporanea dell’essere e del nulla». ↩︎

  39. Scrive Lacan: «Sfortunatamente questa filosofia la coglie solo nei limiti di un’autosufficienza della coscienza che, iscritta com’è nelle sue premesse, lega ai misconoscimenti costitutivi dell’io l’illusione di autonomia in cui confida.», Jacques Lacan, Lo stadio dello specchio, cit. alla nota 18, p. 93. ↩︎

  40. Cfr. Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, cit. alla nota 11, pp. 90-92. ↩︎

  41. Cfr. ivi., p. 95. ↩︎

  42. Ibid. ↩︎

  43. Ivi., p. 97. ↩︎

  44. Cfr. Jean-Paul Sartre, La liberté cartésienne. Dialogo sul libero arbitrio, tr. it. di Nestore Pirillo, Marinotti, Milano 2007. ↩︎

  45. Cfr. Jacques Lacan, Discorso sulla causalità psichica, in Jacques Lacan, Scritti, cit. alla nota 15, p. 185. ↩︎

  46. Cfr. in merito Luigi Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1970; Id., Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 1995; Paul Ricœur, Il simbolo dà a pensare, tr. it. di Ilario Bertoletti, Morcelliana, Brescia 2002. ↩︎