L’ontologia della libertà di Luigi Pareyson. Itinerario verso una nuova mitologia?

1. Introduzione

Il contributo qui proposto prende in considerazione la filosofia di Luigi Pareyson in merito al problema del male e della sofferenza. Punto di partenza è la recezione pareysoniana della tarda filosofia di Schelling, la cui comprensione è indispensabile per comprendere il pensiero del filosofo italiano.1 La tesi proposta è che proprio a partire da tale recezione si sia sviluppato l’itinerario filosofico che ha condotto Pareyson all’ermeneutica del mito quale via d’accesso filosoficamente nuova al problema del male e della sofferenza. L’interpretazione pareysoniana dell’estasi della ragione schellinghiana sembra articolarsi nella direzione di quella ricerca di «una nuova mitologia»2 di cui parla Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco e della quale il filosofo italiano vede un’efficace rappresentazione nel romanzo moderno e specialmente nell’opera di Dostoevskij, che viene letto come apertura ad un nuovo linguaggio della sofferenza. Sarà dunque compito del seguente articolo elaborare il salto nel mito – sulla scia dell’itinerario che conduce Pareyson dall’iniziale confronto con l’esistenzialismo a Schelling e di qui all’ontologia ermeneutica – al fine di giungere ad un nuovo linguaggio della sofferenza, il quale è difficilmente accessibile attraverso i tentativi di una teodicea puramente razionale o di un approccio esclusivamente pratico al problema.

2. Il problema del male nella riflessione di Pareyson

La questione del male e della sofferenza, in altre parole la questione della teodicea, è centrale nella storia della filosofia e della teologia. Paul Ricœur la descrive come la sfida più difficile ed importante per esse.3 Pareyson sostiene che la tendenza della filosofia europea a comprendere il male come mera mancanza, non essere, privatio boni, abbia privato il male della propria essenza e del proprio peso e che di conseguenza essa rappresenti una negazione della sua realtà. Egli scrive in merito che «nell’affrontare il problema del male la filosofia si è dimostrata nel corso dei secoli straordinariamente manchevole se non addirittura insufficiente».4 La manifestazione più significativa di ciò si trova per Pareyson nel fatto che «la filosofia confina il problema del male nell’ambito dell’etica, la quale in verità è una sfera troppo ristretta per una questione così immane e sconvolgente».5 Contrariamente a questa riduzione del male a problema meramente etico, il filosofo nativo di Piasco tenta di lanciare un nuovo sguardo sulla sua realtà abissale trattandolo come problema ontologico. Non un tentativo di giustificare Dio costituisce il punto di partenza delle riflessioni di Pareyson, bensì il confronto aperto con la realtà della sofferenza e del male, a partire dal quale egli non solo giunge ad una critica di grandi linee di pensiero della tradizione filosofica e teologica europea, ma cerca anche di rendere accessibile una nuova comprensione filosofica della fede cristiana nel potere espiativo della sofferenza.

L’approccio di Pareyson consiste da un lato nell’elaborazione di un’Ontologia della libertà, la quale pone il filosofo a confronto con la storia della libertà elaborata nell’arco della filosofia moderna, e dall’altro in un’ermeneutica del mito, attraverso la quale egli cerca di arricchire tale storia di temi e prospettive nuovi e finora scarsamente esplorati. Punto di partenza delle riflessioni pareysoniane sul tema è la concezione schellinghiana dell’abisso della libertà come fondamento in Dio stesso, come qualcosa che egli deve superare per divenire Dio in senso personale. Il riferimento schellinghiano ad un simile fondamento precedente l’essere razionale nell’affrontare la questione dell’origine della libertà nonché del male testimonia che essi non sono risolvibili logicamente. Proprio su questo punto s’innesta la critica pareysoniana alle riflessioni filosofiche e teologiche che conducono o a negare l’esistenza di Dio di fronte alla presenza del male o ad una teodicea puramente razionale, la quale s’imbatte inevitabilmente in numerose obiezioni ed aporie. Questa irrisolvibilità della questione per via puramente logico-razionale – la quale viene posta in evidenza da Schelling stesso nella sua tarda filosofia attraverso l’estasi della ragione ed il passaggio alla filosofia positiva6 – è ciò che spinge all’apertura al mito. Sulla scia di Schelling, Pareyson prende in considerazione il mito quale fonte d’ispirazione per sillabare in maniera nuova tale storia della libertà e del male. Pareyson, convinto che per affrontare un problema immane come quello del male sia necessaria una nuova forma di pensiero, giunge per questa via ad un vero e proprio salto nel mito. La sua sensibilità ermeneutica lo porta ad interpretare il romanzo moderno come una nuova forma del mito (principale fonte d’ispirazione è I fratelli Karamazov di Dostoevskij, specialmente le figure di Alëša e Dmítrij, simboli del mito cristiano dell’incontro col dolore). Attraverso questa lettura ermeneutica dei contenuti veritativi del mito, Pareyson ottiene un nuovo sguardo sulla sofferenza, la quale per lui è strettamente legata al problema del male. Dalla prospettiva della speranza del mito cristiano così come Pareyson lo comprende, essa può essere letta, infatti, come una forza che nella propria piena consapevolezza e tangibilità lavora contro il male ed in questo modo ne rappresenta una sorta di capovolgimento dialettico. Per questa via egli traduce tale mito in una ragion pratica improntata ad una radicale compassione.

Nel prosieguo di questo breve contributo si tenterà di ottenere, partendo dall’analisi dell’originale itinerario filosofico pareysoniano, un nuovo sguardo sul male e sulla sofferenza nella loro stretta relazione con la libertà e nel loro valore ontologico abissale, chiedendosi in che senso possa essere trovato attraverso l’incontro col mito un nuovo linguaggio capace di esprimere una simile abissalità ed ispirare una ragion pratica consofferente. Un accento ricadrà quindi sulla lettura pareysoniana del mito come linguaggio capace di toccare la sofferenza come un prius ontologico e di farne perciò un legame universale capace di esortare ad una radicale solidarietà con ogni forma di vita vulnerabile e ferita.7 Come già nella filosofia di Schelling, a cui Pareyson attinge in maniera consistente, il discorso logico s’infrange di fronte a questa problematica e si rende pertanto necessario il ricorso ad un linguaggio differente, appunto quello mitico.8 Conseguentemente si potrà lavorare sul senso in cui l’approccio pareysoniano al mito possa fornire un contributo per comprendere la necessità postmoderna di un nuovo mito.

3. La Freiheitsschrift e la tarda filosofia di Schelling

Un riferimento alle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti ad essa connessi,9 ed alla tarda filosofia di Schelling, soprattutto alla Filosofia della rivelazione10 è significativo in quanto tali scritti rappresentano un importante punto di partenza per l’Ontologia della libertà pareysoniana,11 opera in cui i pensieri ivi contenuti vengono interpretati in modo tale da ottenere una capitale importanza per la riflessione filosofica sul male, sulla sofferenza e sul mito. La cosiddetta Freiheitsschrift di Schelling, come notano studiosi autorevoli quali Xavier Tilliette, Horst Fuhrmans e Francesco Forlin, rappresenta la conclusione di una riflessione che conduce dalla comprensione spinoziana del male come problema meramente gnoseologico fino alla rappresentazione del male come problema ontologico.12 Nella Freiheitsschrift il problema del male viene posto in stretto collegamento sia con la questione della libertà umana sia con Dio. Al termine di una riflessione sulla conciliabilità di panteismo e libertà, nella quale si confronta con il sistema spinoziano e col concetto della libertà dell’idealismo tedesco, Schelling definisce la libertà come «facoltà del bene e del male»,13 il solo «concetto reale e vivente»14 della libertà. Per accostarsi alla domanda sulle relazioni tra Dio, il male e la libertà, Schelling introduce l’idea di un abisso che, per esprimersi con Pareyson, è “prima” di Dio e si lascia intendere come una differenza tra il fondamento e l’esistenza di Dio stesso15 ed in cui giace la possibilità del male. Attraverso questa interpretazione riesce a Schelling un cambiamento di prospettiva dal male inteso moralmente della tradizione filosofica ad una prospettiva metafisica. In questo abisso Dio non è ancora Dio in senso personale, bensì solamente «desiderio e brama»16 di esistere. Ciò significa che il male, in quanto possibilità presente nell’abisso, ha il proprio fondamento in Dio, il quale decide tuttavia di esistere ed in questo suo Sì all’essere-persona supera il fondamento oscuro. Attraverso la manifestazione di Dio come causa sui, come libertà assoluta, la luce trionfa sulle tenebre, le quali di conseguenza possono venir comprese come la condizione necessaria affinché Dio si realizzi come libertà. In Dio luce e tenebra sono due forze che formano un’unità indivisibile.

Il Dio così compreso è il fondamento del male, ma non il suo autore. La reale possibilità del male esiste per Schelling solo nell’uomo, che racchiude in sé «l’intera potenza del principio tenebroso e al tempo stesso tutta la forza della luce».17 Contrariamente a quanto avviene per Dio, nell’uomo questi due princìpi sono separabili. La condizione creaturale apre all’uomo la possibilità del bene (luce) come quella del male (tenebre). Se la volontà umana si separa dalla luce, allora avviene la separazione tra quelle forze. Conseguentemente, per Schelling, l’unica possibile determinazione del male è quella di essere un rovesciamento dei princìpi.18 Per spiegare come sorga nel mondo un simile rovesciamento dei princìpi, Schelling ricorre al mito religioso della caduta, già presente nel suo scritto del 1804 Filosofia e religione19 ed ulteriormente approfondito nella tarda filosofia.

Nella Filosofia della rivelazione Schelling descrive l’uomo originario come un essere che è «come Dio, sarà quindi anche libero come Dio, poiché non dipende unilateralmente da alcuna delle due cause operanti nel processo, ma è un equilibrio tra le due, qualcosa di oscillante fra le due e di muoventesi liberamente».20 Attraverso la libera decisione umana, che si manifesta come autoposizione, viene infranto l’equilibrio ontologico tra le potenze (soggetto ed oggetto, spirito e materia) e con ciò l’unità dell’essere (come soggetto-oggetto) già pensata da Spinoza e Leibniz (Dio come ragion sufficiente del mondo), e la creazione è posta fuori di Dio.21 Male, sofferenza e morte sono per Schelling la conseguenza di tale caduta, la quale non riguarda solo l’uomo, bensì l’intera creazione in quanto lo spirito umano ne è la ricapitolazione (non come semplice oggetto, ma come soggetto-oggetto).22

Schelling cerca di pensare una via d’uscita per l’uomo caduto, la quale è orientata cristologicamente ed escatologicamente. Poiché con la caduta il mondo è posto fuori di Dio, esso sarebbe perduto se non ci fosse al suo interno il Figlio come rappresentante di un’unità esistente in Dio, la quale nello Spirito escatologico trascende il mondo (caduto). A differenza dell’uomo caduto, il Figlio non cerca di portare a compimento questa unificazione del mondo nel potere dell’autoaffermazione attraverso cui l’uomo pone il proprio Io al posto di Dio. Egli è piuttosto il simbolo del sacrificio dell’autoaffermazione, sacrificio attraverso il quale egli trasforma l’autoposizione dell’uomo caduto. In questo intento il Figlio si deve fare creatura in un atto chenotico, atto su cui ha posto un significativo accento l’allievo di Pareyson ed esperto di Schelling Francesco Tomatis.23 Inoltre, Dio accoglie tale agire salvifico come un sacrificio ed innalza la storia di Gesù, e con essa tutta la storia del mondo, nella propria storia divina, al di sopra della quale insedia Gesù in qualità di sovrano. L’agire del Figlio giunge a compimento nell’agire dello Spirito, il cui avvenire escatologico significa il superamento del male, della sofferenza e della morte. Lo Spirito testimonia che la creazione non è più consegnata al nulla della morte come simbolo di un mondo che ha perso la propria unità in Dio, ma che la forza creatrice del Padre è attualizzata e che la storia ha trovato il proprio inizio, il proprio centro ed il proprio fine.24 Tale escatologizzazione del pensiero implica di per sé la necessità di un mito, in quanto l’escatologia non può essere dedotta logicamente ma solo narrata.

4. L’ontologia del male e della sofferenza pareysoniana

Alla formulazione matura del suo pensiero come ontologia della libertà Pareyson giunge in conseguenza della sua recezione dell’esistenzialismo, concepito sulla scia di Kierkegaard – insieme a Pascal, Schelling e Dostoevskij una delle sue principali fonti d’ispirazione.25 – come paradossale coincidenza di autorelazione ed eterorelazione26 Proprio una simile comprensione dell’esistenza pone la questione dell’alterità e della trascendenza. Tale questione viene riassunta da Pareyson nella domanda fondamentale già formulata da Leibniz, Schelling, Heidegger e Jaspers «perché l’essere piuttosto che il nulla?».27 La meditazione su questa domanda lo mette a confronto con l’abisso della libertà da cui l’essere dipende. Tale libertà è un puro scaturire, senza perché o ragioni. Ciò rende inoggettivabile la trascendenza implicata nella concezione pareysoniana dell’esistenza e con essa il fondamento ontologico stesso. Tale inoggettivabilità spalanca le porte all’ontologia ermeneutica dell’inesauribile.28 e conduce allo Schelling maturo ed al mito, che nell’estasi della ragione in cui sfocia la logica speculativa diviene il luogo in cui «la filosofia può trovare risposte ai propri interrogativi radicali»29

L’Ontologia della libertà di Pareyson s’interroga principalmente sulla libertà, sulla sofferenza e sul male. La sensibilità di Pareyson per la sofferenza innocente lo conduce verso il problema del male, che per lui non è né logicamente risolvibile né superabile per mezzo della ragion pratica. Pareyson critica quelle posizioni filosofiche che, trattando il male come mera mancanza, ne negano la tragica profondità,30 avendo esse una portata troppo limitata e rappresentando una sorta di riduzionismo. Per Pareyson il problema del male affonda le proprie radici nella stessa natura umana e quindi solo un pensiero ontologico che riesca a rendere ermeneuticamente accessibile il linguaggio mitico potrà ottenere una visione del problema del male in tutta la sua profondità.31 La sua attenzione per il mito mostra importanti legami con la tarda filosofia schellinghiana, in particolare con l’estasi della ragione e con il passaggio alla filosofia positiva, senza la quale un’ermeneutica del mito non sarebbe possibile, o meglio sembrerebbe un’impresa acritica. Nella filosofia positiva Dio non viene più considerato semplicemente come un ideale trascendentale, ma, al contrario, viene riconosciuto come il Dio vivente e rivelantesi nella storia e quindi accessibile solo attraverso la narrazione mitica della storia della salvezza.32

Pareyson, analogamente a Schelling nella sua Freiheitsschrift, trae il punto di partenza delle proprie riflessioni sulla libertà da una concezione di Dio come causa sui, come libertà assoluta, e le sviluppa ulteriormente attraverso l’approccio ermeneutico alla narrazione biblica. Egli rimanda al versetto «ego sum qui sum».33 (Io sono chi sono), che viene interpretato da Pareyson come un modo per esprimere il concetto «Io sono chi mi pare», nel quale si mostra che l’essere di Dio dipende dalla Sua volontà. Tale verso biblico «rivendica l’estrema e illimitata libertà di Dio, anzi propone una concezione di Dio come libertà assoluta, senza ch’essa abbia da enunciarsi in termini concettuali e oggettivanti»34 La libertà divina costituisce dunque le radici dell’essere di Dio stesso e rappresenta così un prius rispetto all’essere. La cosmogonia «prosegue liberamente un cominciamento già iniziato, un inizio assoluto e primissimo, ch’è l’originarsi stesso di Dio».35

Pareyson pone ora la domanda circa il «da dove», il «prima» di Dio. Per trovare una risposta egli si riallaccia alla storia mitica per cui «“prima” dell’essere di Dio non c’è un essere: c’è il non essere»,36 c’è il caos, il nulla, l’abisso nel quale è tuttavia già attiva la volontà divina. Il nome di Dio affiora nel mito prima di tutto contestualmente al superamento del caos, in connessione con l’esperienza della libertà e della salvezza, allorché la Sua libertà, esistente nell’abisso del nulla originario, trionfa sulle tenebre del fondamento caotico e superando il nulla stabilisce la personalità di Dio. A questo punto Pareyson mostra un aspetto inquietante dell’ontologia della libertà, la quale non costituisce una “formula del mondo” o una sua comprensione noetica, bensì pone nel cuore dell’essere stesso un momento logicamente indeducibile, improvviso e non necessario, ovvero la libera decisione di esistere, decisione d’esistere che ha come suo presupposto la possibilità del nulla, del negativo, del male quale alternativa all’essere. Per negare una simile possibilità negativa scegliendo l’essere, Dio deve avere infatti una percezione del negativo, lo deve esperire, e ciò lo lega alla negatività del nulla ed al male,37 i quali vengono conosciuti e rimangono in lui come «possibilità prevedute ma scartate, e quindi ormai scordate e inattuali».38 Proprio tale permanere in Dio della possibilità del male permette a Pareyson di giungere al punto più inquietante della sua ontologia: Dio può essere compreso come il fondamento ovvero l’origine del male e l’ontologia della libertà stessa è di conseguenza interpretabile, seguendo Francesco Tomatis, come un’ontologia del male.

Dio è dunque l’origine del male, tuttavia non ne è l’autore. Dio, per Pareyson, ha scelto il bene ab aeterno, negando in questo modo il male una volta per tutte, e proprio perciò non può esserne considerato l’autore. Autore del male è solamente l’uomo, il quale ne sente la forza e si lascia tentare. L’uomo «nell’alternativa posta dalla sua propria libertà ha scelto la possibilità negativa»,39 risvegliando il male ed introducendolo nella storia del mondo. La libertà umana così utilizzata implica conseguenze catastrofiche per l’intera realtà, mostrandosi come un fallimento della creazione divina, che ora è corrotta dal peccato. Il male si mostra in questa interpretazione non come un avvenimento necessario (cosa che in ultima istanza ne rappresenterebbe una giustificazione), bensì come un atto che precede l’essere e le sue necessità logiche. Il discorso sull’abisso di Dio come sede del male, dunque, non serve tanto ad una localizzazione del male quanto piuttosto al rimando all’irrisolvibilità logica della dimensione tragica della libertà. Un simile riferimento lascia aperta la questione di come tale tragedia possa essere espressa, modalità espressiva che Pareyson identifica nel linguaggio mitico, affermando:

È del resto ormai tempo che la filosofia, lungi dal far consistere il proprio compito in una pretesa demitizzazione […] rinnovi i suoi contenuti attingendo al mito, e anzi ne tragga spunto per ritrovare se stessa recuperando la propria natura mitica originaria, ch’è pur sempre la fonte inesauribile d’ogni discorso che sia veramente importante e decisivo per l’umanità.40

L’abuso umano della libertà, introducendo il male nel mondo, provoca al tempo stesso la sofferenza, la quale per Pareyson non costituisce una punizione, bensì rappresenta l’unica forza «più forte del male».41 e capace di vincerne le catastrofiche e mortali conseguenze. Questa concezione della sofferenza come forza espiativa è profondamente ispirata da I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Soprattutto le figure di Alëša e Dmítrij sono lette da Pareyson come un simbolo del mito cristiano, come un’incarnazione del potere espiativo della sofferenza e della solidarietà universale con la creazione vulnerabile e ferita. Essi mostrano che nella rinuncia ai tentativi razionali di far fronte al male ed alla sofferenza – incarnati in maniera tragica da Ivan – e nel volgersi ad una solidarietà consofferente si può ottenere un nuovo punto di vista sulla sofferenza e sul male che permetta di prenderli entrambi sul serio nella loro profonda tragicità senza abbandonarsi alla disperazione. La creazione, resa invalida per mezzo del nulla abissale (male), necessita dell’invalido (sofferente) per ottenere un senso non accessibile logicamente. Questa visione spinge Pareyson ad una nuova comprensione della figura di Cristo come colui che introduce la sofferenza nella divinità. In Cristo, Dio assume su se stesso la tragicità della creazione, trasformando la solidarietà nella sofferenza in un prius ontologico, e rivela il proprio carattere dialettico, tanto amorevole con l’uomo quanto crudele con se stesso: Dio, infatti, vuole soffrire per espiare il peccato dell’uomo e salvarlo.42

In un passo successivo, Pareyson interpreta la speranza escatologica cristiana nel superamento finale del male nell’apocatastasi. Per lui, l’uomo sofferente che accoglie liberamente su di sé la sofferenza come espiazione per la colpa umana, espiazione che è possibile in quanto nella sofferenza c’è un legame universale fra gli esseri, diviene compagno di Cristo nella lotta contro il male. La sofferenza diviene così il luogo dell’autentica solidarietà tra Dio e l’uomo. La fede nel definitivo superamento del male nell’apocatastasi, la quale può essere compresa come l’ultimo mito, l’ultima narrazione della speranza, in cui la battaglia tra la colpa, ovvero il male, e la sofferenza assunta in amicizia con Cristo ottiene il proprio significato escatologico, rappresenta l’ultimo orizzonte di questa solidarietà universale.43

Grazie all’ermeneutica del linguaggio mitico dell’esperienza religiosa, Pareyson giunge ad una nuova interpretazione filosofica della fede cristiana, la quale, applicando la ragion pratica come una radicale consofferenza, riesce a rendere accessibile una nuova esperienza di Dio, che apre una prospettiva sulla sofferenza e sul male più fondamentale di qualsiasi spiegazione razionale dei medesimi. Nella filosofia di Pareyson si manifesta un primato della consofferenza e del mito – espressione linguistica delle esperienze di sofferenza e consofferenza – sulla spiegazione e sul logos, i quali, cercando di integrare la creazione mutilata in un tutto, corrono sempre il pericolo di disconoscere l’ultima radicalità del male.44

5. L’itinerario verso la “nuova mitologia”

In conclusione, è giunto ora il momento di riflettere sulla rilevanza del progetto filosofico pareysoniano nell’epoca postmoderna, la quale è segnata da una doppia necessità: da una parte il bisogno della riscoperta del mito,45 dall’altra la continuità con la moderna storia della libertà. Gianni Vattimo, altro illustre allievo di Pareyson, prende in merito le mosse dal suo maestro ed afferma che il problema apparentemente più urgente per la nostra società mediatizzata è quello di ridefinire la propria posizione di fronte al mito.46 Per cercare di illustrare come il pensiero di Pareyson possa soddisfare a tale necessità è necessario gettare uno sguardo riassuntivo sulle riprese da parte di Pareyson della tarda filosofia schellinghiana, accentuandone gli sviluppi ulteriori e la radicalizzazione dei temi riscontrabili nell’opera del filosofo italiano.

L’ispirazione schellinghiana del lavoro di Pareyson ruota essenzialmente attorno a quattro elementi: innanzi tutto l’ontologizzazione del problema del male attraverso la rappresentazione di Dio come causa sui, come libertà assoluta che decide di esistere donandosi da sé la propria personalità, nonché l’idea dell’abisso della libertà in cui bene e male sono due possibilità compresenti; in secondo luogo la forte accentuazione della responsabilità umana per il male o, più drammaticamente, per il fallimento della creazione, la cui trattazione è ancorata alla moderna storia della libertà;47 in terzo luogo l’attenzione per l’esperienza religiosa ed il mito, nella convinzione che tentativi puramente razionali di far fronte al problema del male hanno portata troppo limitata e ne mancano l’essenza autentica; infine l’elaborazione di una cristologia filosofica e l’escatologizzazione del pensiero.

Questa ripresa dei temi schellinghiani si accompagna in Pareyson ad un’innovativa interpretazione e ad un autonomo sviluppo di tali temi. Tale sviluppo, che in ultima istanza radicalizza il pensiero schellinghiano ed attualizza gli ideali alla base de Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco, si manifesta essenzialmente in due punti.

Il primo riguarda la differente accentuazione del mito da parte di Pareyson. In Schelling il mito rimane qualcosa di ambivalente. Da un lato egli parla di un’estasi della ragione per escludere qualsiasi compimento logico dell’essere, e con ciò ogni autoposizione dell’uomo. In questo senso il passaggio alla filosofia positiva di Schelling non sarebbe un salto in un empirismo superiore, bensì il passaggio ad un mito del sacrificio (chenosi) escatologicamente connotato e divenuto storico in Cristo. Dall’altro lato s’impone però in maniera invadente la questione, sollevata da Leonardo Lotito, se questo passaggio non stia nuovamente sotto gli auspici della concettualità logica della filosofia negativa, ponendo in questo modo la religione ed il mito sotto il dominio della filosofia negativa e dei suoi concetti.48 Pareyson cerca di precisare la filosofia positiva schellinghiana come un passaggio dalla concettualità logica ad un secondo mito (post-logico), ad una mitologia della libertà sulla scia de Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco. Lo stato di una tale mitologia, la quale può essere elaborata a partire da Pareyson, richiede di essere ulteriormente sviluppato. La continuità che corre dal mito classico attraverso Schelling e Pareyson fino al bisogno postmoderno del mito si mostra non da ultimo nel fatto che si tratta qui di una narrazione che non è primariamente espressione di un Io che la produce, ma che precede costitutivamente ogni affermazione dell’identità. Non è semplicemente un Io che narra, ma al contrario ogni Io è in una certa misura già narrato.49 La differenza tra logos e mito consiste nel fatto che nel primo si ha un uso denotativo del linguaggio, che fissa significati e mira a dei risultati, mentre nel secondo – similmente a quanto accade con la poesia (per esempio in Hölderlin) – il linguaggio intende liberarsi da ogni determinazione del significato. Deve essere mantenuta una certa tensione tra logos e mito, la quale favorisce un’oscillazione che non permette più il dominio assoluto di una delle due sfere (il logos che risolve il mito ovvero il mito che sostituisce il logos). Assume quindi valore la domanda su come sia possibile un approccio a questo “tra”, su come esso possa essere reso accessibile da un itinerario speculativo. In che senso le figure dell’oscillazione in Pareyson stesso (filosofia e mito/romanzo, dialettica tra celarsi e rivelarsi del simbolo) possono contribuire a concepire questo itinerario? In questa problematizzazione il cristianesimo ottiene un significato particolare: esso si trova, per così dire, nel punto d’intersezione delle due sfere, cioè il mito e la logica, e può da un lato riflettere sul mito senza porvi teoreticamente fine e dall’altro favorisce uno sguardo sul mito senza cadere in una rimitizzazione del mondo.50

Il secondo consiste nell’elaborazione di una cristologia filosofica che, a differenza di quella schellinghiana – improntata all’agire salvifico di Cristo come superamento dell’umano delirio d’onnipotenza (chenosi) –, accentua il potere espiativo della sofferenza tanto di Cristo quanto dell’uomo. Pareyson inaugura con ciò una vera e propria mistica della (con-)sofferenza, senza che l’umanesimo (con il suo pathos rivolto alla libertà) corra il pericolo di misconoscere la dimensione distruttiva della libertà umana. La debolezza del (con-)soffrire è per Pareyson l’autentico «luogo della solidarietà fra Dio e l’uomo».51 Nella crocifissione si schiude dunque da un lato il valore essenziale dell’uomo e dei suoi miti, poiché la crocifissione stessa diviene paradigma ermeneutico alla luce del quale interpretare le moderne narrazioni – nella misura in cui esse sono in grado di fornire un linguaggio della sofferenza – come nuovi miti, il che è ciò che ha intrapreso Pareyson nei confronti di Dostoevskij. Dall’altro lato si mostra la necessità del cristianesimo di tradursi in nuove narrazioni, le quali siano capaci di rivolgersi all’umanità intera, confermando in questo modo l’interpretazione della cristologia pareysoniana offerta da Tilliette e da Tomatis52 come una cristologia laica in cui le braccia del Cristo crocifisso sono aperte per tutti gli uomini. Si forma in questo modo una solidarietà universale non solo tra l’uomo e Dio e di conseguenza degli uomini tra di loro, ma anche una solidarietà tra cristianesimo e mito, solidarietà nella quale il nome di Dio può forse essere sillabato in maniera nuova.


  1. Interessante la descrizione di Pareyson come «Schelling redivivus» in: Xavier Tilliette, Vita di Schelling, Bompiani, Milano 2012, p. 511. ↩︎

  2. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Friedrich Hölderlin, Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco, a cura di Leonardo Amoroso, ETS, Pisa 2007, p. 25. ↩︎

  3. Paul Ricœur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia 1993, p. 7. Sul male come motivazione dell’ateismo cfr. Lattanzio, De ira Dei, 13, 19; Georg Büchner La morte di Danton, in: Teatro, Adelphi, Milano 1966, p. 54; Gerhard Streminger, La bontà di Dio e il male del mondo: il problema della teodicea, Effeelle Cento 2006. ↩︎

  4. Luigi Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 1995, p. 151. ↩︎

  5. Ibid↩︎

  6. Cfr. Kurt Appel, Tempo e Dio. Aperture contemporanee a partire da Hegel e Schelling, Queriniana, Brescia 2008, pp. 79-97. ↩︎

  7. Cfr. soprattutto il secondo capitolo della seconda parte dell’Ontologia della libertà, specialmente i paragrafi 2-3 (Necessità del ricorso al mito: arte e religione; Interpretazione del mito come ermeneutica della coscienza religiosa), pp. 156-162. ↩︎

  8. Cfr. Kurt Appel, Tempo e Dio, cit. alla nota 6, pp. 95-97. ↩︎

  9. Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti ad essa connessi, Bompiani, Milano 2007. ↩︎

  10. Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Filosofia della rivelazione, Bompiani, Milano 2002. ↩︎

  11. Si può a margine osservare, in sintonia con Francesco Tomatis, che se oggi Schelling viene studiato e compreso in Italia, ciò è grazie a Pareyson ed alla sua scuola. Cfr. Francesco Tomatis, Friedrich Schelling. Invito alla lettura, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004, p. 9. ↩︎

  12. Cfr. Francesco Forlin, Limite e fondamento. Il problema del male in Schelling (1801-1809), Guerini e Associati, Milano 2005, p. 20; Xavier Tilliette, Schelling. Une philosophie en divenir, Vrin, Paris 1970, p. 505; Horst Fuhrmans, Schellings Philosophie der Weltalter, Schwann, Düsseldorf 1954, p. 79. ↩︎

  13. Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Ricerche filosofiche, cit. alla nota 9, p. 131. ↩︎

  14. Ibid↩︎

  15. Ivi, p. 143. ↩︎

  16. Ivi, p. 147. ↩︎

  17. Ivi, p. 155. ↩︎

  18. Schelling cita a proposito von Baader, che descrive metaforicamente il male come una malattia. Ivi, p. 161. ↩︎

  19. Tradotto in italiano da Valerio Verra per la raccolta: Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, a cura di Luigi Pareyson, Mursia, Milano 1974, pp. 33-76. ↩︎

  20. Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Filosofia della rivelazione, cit. alla nota 10, p. 581. ↩︎

  21. Cfr. Kurt Appel, Tempo e Dio, cit. alla nota 6, pp. 86-89. ↩︎

  22. Cfr. Kurt Appel, «Personalität und Alleinheit Gottes. Versuche einer Deutung der Schellingschen Vernunftekstasis», in Klaus Müller, Frank Meier-Hamidi (Hg.), Persönlich und alles zugleich? Theorien der Alleinheit und christliche Gottesrede, Pustet, Regensburg 2010, pp. 81-100. ↩︎

  23. Francesco Tomatis, Kenosis del Logos: ragione e rivelazione nell’ultimo Schelling, Città Nuova, Roma 1994. ↩︎

  24. Cfr. Kurt Appel, Tempo e Dio, cit. alla nota 6, pp. 96-97. ↩︎

  25. Cfr. Luigi Pareyson, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi, Torino 1993; Kierkegaard e Pascal, Mursia, Milano 1998; Studi sull’esistenzialismo, Mursia, Milano 2001; Esistenza e persona, Genova, 2002. Cfr. inoltre Francesco Tomatis, Ontologia del male. L’ermeneutica di Pareyson, Città Nuova, Roma 1995; Giovanni Ferretti, Filosofia ed esperienza religiosa: a partire da Luigi Pareyson. Atti del sesto colloquio su filosofia e religione, Macerata 7-9 ottobre 1993, Giardini, Pisa 1995. ↩︎

  26. Luigi Pareyson, Esistenza e persona, il nuovo melangolo, Genova 2002, p. 13. ↩︎

  27. Luigi Pareyson, Ontologia della libertà, cit. alla nota 4, p. 353. ↩︎

  28. Oltre alla già citata Ontologia della libertà cfr. Luigi Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1971. Cfr. anche Martin Weiß, Hermeneutik des Unerschöpflichen. Das Denken Luigi Pareysons, Lit, Münster 2004. ↩︎

  29. Francesco Tomatis, Ontologia del male, cit. alla nota 25, p. 82. ↩︎

  30. Luigi Pareyson, Ontologia della libertà, cit. alla nota 4, p. 154. ↩︎

  31. Ivi, p. 156. ↩︎

  32. La letteratura filosofica relativa all’estasi della ragione nel pensiero di Schelling è sterminata, mi limito qui pertanto ad indicare alcuni testi che a mio avviso si adattano particolarmente all’interpretazione avanzata in questo articolo: Kurt Appel, «Schellings U-Topie», in Kurt Appel, Wolfgang Treitler, Peter Zeillinger (Hg.), Vernunftfähiger - vernunftbedürftiger Glaube. Festschrift zum 60. Geburtstag von Johann Reikerstorfer, Herder, Frankfurt [u.a.] 2005, pp. 133-191; id., Tempo e Dio, cit. alla nota 6; id., «Personalität und Alleinheit Gottes», cit. alla nota 22; Albert Franz, Philosophische Religion: eine Auseinandersetzung mit den Grundlegungsproblemen der Spätphilosophie F.W.J. Schellings, Rodopi, Amsterdam – Atlanta 1992; Francesco Tomatis, Kenosis del Logos, cit. alla nota 23. ↩︎

  33. Es 3,14. ↩︎

  34. Luigi Pareyson, Ontologia della libertà, cit. alla nota 4, p. 122. ↩︎

  35. Ivi, p. 129. ↩︎

  36. Ivi, p. 132. ↩︎

  37. Ivi, p. 179. ↩︎

  38. Ibid↩︎

  39. Ivi, p. 187. ↩︎

  40. Ivi, pp. 156-157. ↩︎

  41. Ivi, p. 476. ↩︎

  42. Ivi, p. 199. ↩︎

  43. Sul tema della colpa e della solidarietà umana nella sofferenza mi permetto di rinviare ai miei articoli «La cristologia filosofica come paradigma ermeneutico per il superamento della sofferenza», in Theologica & Historica, 2011, XX, pp. 185-196; «Colpa ed espiazione. La cristologia filosofica di Luigi Pareyson», in Rosmini Studies, 2015, 2, pp. 161-170. ↩︎

  44. Similmente si esprime Johann Baptist Metz, Memoria passionis. Un ricordo provocatorio nella società pluralista, Queriniana, Brescia 2009. ↩︎

  45. Cfr. Mattia Coser, «Fame del mito. Riflessioni sul successo del genere fantasy», in Parola e Tempo, 2012, XI, pp. 350-360. ↩︎

  46. Gianni Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano 2011, p. 42. ↩︎

  47. Cfr. in merito Rüdiger Safranski, Il male, ovvero il dramma della libertà, Longanesi, Milano 2006. ↩︎

  48. Leonardo Lotito, «Introduzione», in Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Introduzione filosofica alla filosofia della mitologia, Bompiani, Milano 2002, p. XL. ↩︎

  49. Ciò sembra accordarsi con le riflessioni di Roland Barthes sulla lingua e sul linguaggio, che secondo il semiologo francese ci avvincono strutturalmente prima ancora che noi possiamo riempirli di contenuti. Cfr. Roland Barthes, Il brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988; id. Variazioni sulla scrittura / Il piacere del testo, Einaudi, Torino 1999. Questo concetto è stato formulato anche in chiave teologica da Johann Baptist Metz nel suo Memoria passionis, cit. alla nota 44. ↩︎

  50. Cfr. Gianni Vattimo, Oltre l’interpretazione, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 53-71. ↩︎

  51. Luigi Pareyson, Ontologia della libertà, cit. alla nota 4, p. 478. ↩︎

  52. Xavier Tilliette, Che cos’è cristologia filosofica?, Morcelliana, Brescia 2004, p. 125; Francesco Tomatis, Ontologia del male, cit. alla nota 25, p. 107. ↩︎