Nel De Trinitate agostiniano il tema del fondamento si annuncia in termini di relatività dell’essere principium, per analogia con la relatività dell’essere padre/figlio, analogica a sua volta con l’essere verbum-imago. La concezione generativa del linguaggio è così posta al vertice della riflessione sull’arché, che coincide evidentemente con il vertice della riflessione teologica:
Padre si dice dunque in senso relativo e ugualmente si dice in senso relativo principio e qualcosa di altro ancora; ma padre è detto in relazione al figlio, principio in relazione a tutte le cose che da esso sono. Per consequenza figlio è detto in senso relativo; in senso relativo è detta la parola e l’immagine, e in tutti questi vocaboli il riferimento è al padre.1
Se la ricerca dell’intellectus fidei conduce alle profondità dell’autocoscienza, alla riflessione sulla natura del pensiero, cui è strutturalmente insito il potere di pensare se stesso, questo obiettivo indicherà il metodo stesso della ricerca:
Come comprendere dunque che questa sapienza di Dio è Trinità? Non ho detto «come credere», (su questo, tra i fedeli, non deve esserci questione), ma se in qualche modo, per mezzo dell’intelligenza, possiamo vedere ciò che crediamo, quale sarà questo modo?2
L’itinerario della conoscenza analogica inizia dall’affermazione dell’identità, in Dio, fra l’essere e l’essere sapiente, dalla nozione di Dio che è la sua stessa sapientia, perché nella realtà assoluta essentia e sapientia non sono distinte l’una dall’altra: quia non est aliud sapientia eius, aliud essentia, cui hoc est esse quod sapientem esse.3
Nella ricerca dei diversi paradigmi trinitari, delle diverse e plurali «trinità» presenti nella struttura delle cose, e soprattutto nell’uomo, si può approdare infatti al paradigma fra tutti privilegiato, quando l’intelletto conoscente, in virtù di quello stesso potere per cui conosce le cose secondo verità, conoscerà o penserà se stesso: cum mens ipsa qua novimus quidquid nosse nos veraciter dicimus, sibi cognita est, vel se cogitat.4
Nello stesso modo in cui siamo consapevoli intimamente della presenza in noi stessi di diversi paradigmi trinitari (certissimas uidemus trinitates), nel triplice atto del ricordare, contemplare, volere, e in tutti gli analoghi «sistemi trinitari», così possiamo anche, con un atto di intellezione (intellegendo) «vedere» la Trinità divina nell’atto originario di produrre il suo proprio linguaggio, nel momento fondante del suo «dire» (ita uidemus etiam Trinitatem Deum, … tamquam dicentem) e vediamo al tempo stesso il suo Verbo e la carità che ne procede. Per Agostino questo vedere non è soltanto atto di fede, perché l’intelletto capace di comprendere il proprio pensare se stesso, di vederne la struttura trinitaria, non può pensare che il bene assoluto, come è capace di concepirlo secondo la dimostrazione fornita nel libro VIII, sia privo di questa autoconsapevolezza: «forse questa sapienza, che si definisce Dio, non comprende se stessa, non ama se stessa? Chi oserà dirlo? …O si dovrà forse ritenere che la sapienza che è Dio conosce le altre cose e non conosce se stessa, o ama le altre cose e non ama se stessa?».5
Conoscere non implica necessariamente il pensare la cosa conosciuta, ma la cosa deve necessariamente essere pensata per essere espressa, sia nel linguaggio interiore, sia nel linguaggio esteriore: «Infatti anche quando le parole non hanno suono, chi pensa parla nel suo cuore» (Nam etsi uerba non sonent, in corde suo dicit utique qui cogitat).6 I pensieri sono anzi il vero linguaggio del cuore, di cui è questione in numerosi testi scritturali.7 Nelle «locuzioni del cuore» si può comprendere la natura del verbum, della parola nel suo generarsi, al di là delle determinazioni storiche dei diversi linguaggi, il fondamento puro, «trascendentale», del processo linguistico: «Chiunqe allora può comprendere (intellegere) la parola, non solo prima che si faccia suono, ma anche prima che si considerino nel pensiero le immagini prodotte dai suoni: quello che non appartiene in realtà a nessuna lingua, a nessuna fra le lingue che si dicono delle genti, delle quali è anche la nostra lingua latina. Ma chiunque può vedere in questo specchio e in questo enigma una qualche similitudine di quel Verbo, di cui è detto in principio erat Verbum».8 Strumento privilegiato di ogni forma di intellectus Dei, e quindi, necessariamente, di ogni intellectus Trinitatis, è per Agostino l’intima consapevolezza della natura strutturalmente creativa e produttiva di ogni intelletto, del suo essere, originariamente e fondamentalmente, linguaggio. Tuttavia, come la nostra scientia, che non si identifica necessariamente con la sapientia è per natura diversa dalla perfetta unità divina di scientia-sapientia, così la nostra parola, condannata alla dispersione nella molteplicità dei verba, non può essere la parola unica e assoluta in cui il cuore e l’intelletto si esprimono nella loro unità:9 «E dunque come al Padre l’essere non è dal Figlio, così anche il conoscere. Pertanto è come dicendo se stesso (tamquam se ipsum dicens) che il Padre ha generato il Verbo, in tutto uguale a se stesso. Egli infatti non avrebbe detto integralmente e perfettamente se stesso (Non enim seipsum integre perfecteque dixisset), se qualcosa di più o di meno che in se stesso fosse nel suo Verbo».10 Questa pronuncia eterna del Verbo divino significa per Agostino che la verità, generata da una scientia assoluta e ad essa perfettamente uguale può essere integralmente «detta», può assumere la natura progettuale e creativa dell’idea formulata nel linguaggio interiore (idea totalizzante nella sua perfetta unità), che fonda ogni possibile realizzazione,11 ma anche ogni possibile discorso di verità. Non soltanto la creazione del mondo, ma ogni possibile risposta al dubbio metodico, allo scetticismo degli Accademici, procede da questo primo e assoluto atto generativo.12
Questo «prologo» agostiniano può illuminare, per affinità e insieme per differentiam, le arditezze speculative di un contesto in cui il tema del fondamento si pone nella logica della più rigorosa teologia negativa, all’interno della quale la figura chiave per esprimere il rapporto tra fondante e fondato, in quanto la nozione di fondamento implica una sua manifestazione necessariamente inadeguata, è la figura dell’ossimoro.
Nell’Omelia sul Prologo di Giovanni13 il supremo oggetto speculativo di Giovanni Eriugena sarà, come nel De Trinitate agostiniano, il generarsi dell’assoluto divino nell’assoluto Verbum, la parola totale e, potremmo dire, la parola non alienata e non reificata della perfetta autocoscienza, che per comunicare se stessa utilizza la vox, la parola necessariamente temporalizzata, frammentata nella pluralità dei verba, la parola dell’Evangelista, capace tuttavia di esprimere, in maniera privilegiata, l’eterna dinamica generativa del fondamento divino.14
Nel Periphyseon, il cui oggetto è lo strutturarsi del linguaggio divino nell’ordine della natura, l’analogia fra il manifestarsi del fondamento assoluto e l’attività fondante che appartiene strutturalmente a ogni intelletto in quanto tale raggiunge vertici speculativi, che meritano di essere mediati in un discorso filosofico al di là dei limiti pur vasti ma spesso ad excludendum della ricerca medievistica.
Nella ricostruzione eriugeniana di un universo armonico e coerente nelle sue strutture, la prima nell’Occidente latino dopo la grande sintesi di Boezio, l’identificazione fra natura e linguaggio assume un diverso significato teoretico rispetto alla riflessione agostiniana, in cui temi e modelli linguistici attraversano l’intera opera. Se la natura in quanto tale è infatti linguaggio teofanico, manifestazione fondata sul processo di eterna generazione trinitaria, l’appartenenza all’ambito del linguaggio implica un processo di generazione, per cui l’essentia, l’ousía inconoscibile in quanto tale, diventa phýsis/natura, nella dimensione del sensibile linguistico:15 per questa ragione appartengono all’ordine della natura, cioè dell’essere, le cose che non sono, ma sono in quanto nominate e nominabili, e all’ordine della natura appartiene l’assoluto divino al di là di ogni nome, nella misura in cui entra a far parte del discorso che ad esso rinvia.
Uno straordinario elenco di ossimori esprime allora il carattere del discorso fondante in quanto significante, che utilizza le strutture definite dalle leggi del linguaggio, in forme perfettamente equivalenti alle forme della corporeità. Questo carattere è quello della tensione costante, dell’eterno paradosso, dell’antitesi che introduce l’assenza, il non-essere, al cuore di ogni affermazione, dal momento che il significato procede costantemente dall’ineffabile:
Tutto ciò che si comprende e si sente non è altro che apparizione del non apparente, manifestazione dell’occulto, affermazione della negazione, comprensione dell’incomprensibile, parola dell’ineffabile, accesso dell’inaccessibile, intelletto dell’inintelligibile, corpo dell’incorporale, essenza del superessenziale, forma dell’informe, misura dell’immensurabile, numero dell’innumerabile, peso di ciò che manca di peso, fisicità dello spirituale, visibilità dell’invisibile, localizzazione del non spaziale, temporalità di ciò che non ha tempo, definizione dell’infinito, circoscrizione del non circoscritto, e tutte le altre cose che si pensano e si percepiscono nel puro intelletto, che non possono essere contenute nei meandri della memoria e sfuggono il vertice della mente.16
Se il discorso agostiniano utilizza il paradigma del procedere creativo e generativo di ogni intelletto per risalire, anagogicamente, all’eterno processo generativo e creativo divino, in Giovanni Eriugena è la natura dell’intelletto, strutturalmente ad imaginem dei,17 a porsi come trascendenza al proprio linguaggio, a ogni manifestazione propria:
Infatti anche il nostro intelletto, pur essendo di per sé invisibile e incomprensibile, si manifesta tuttavia e si comprende attraverso segni, mentre acquista fisicità nelle voci o nelle lettere o in altri cenni, come se fossero corpi, e, mentre così appare all’esterno, si mantiene sempre invisibile all’interno, e, mentre procede nelle varie figure comprensibili ai sensi, evita sempre di abbandonare lo stato incomprensibile della sua natura, e prima di farsi evidente all’esterno muove se stesso all’interno di sé. E perciò l’intelletto è silenzio e clamore, e mentre è silenzio è clamore e mentre è clamore è silenzio, e restando invisibile è visto, e mentre è visto è invisibile, e non circoscritto si circoscrive, e mentre si circoscrive permane incircoscritto, e quando vuole diviene corpo nelle voci e nelle lettere, e divenendo corpo sussiste incorporeo in se stesso.18
Il «farsi» dell’intelletto nelle forme attraverso le quali si esprime, a livelli diversi di chiarezza e definizione progressiva è evocato sempre nella sua affinità strutturale al fieri divino nel suo fondare la realtà: «Si dice dunque che si crea in tutte le cose la divina natura, che non è altro se non la divina volontà. In essa infatti non è altro l’essere e il volere, ma unico e identico è il volere e l’essere nel fondare tutte le cose che erano da fare».19
Il processo di autocreazione dell’intelletto, nel passare dal non-essere della sua trascendenza all’essere del suo esprimersi, procede da una fase in cui diviene per se stesso oggetto di conoscenza nell’unità ancora indifferenziata della memoria, al cui interno utilizza i simboli sensibili per rivelarsi a se stesso. Il livello ulteriore di definizione e chiarezza è costituito dall’utilizzazione dei signa, in particolare della scrittura e della geometria:
Infatti anche il nostro intelletto, prima di pervenire al pensiero e alla memoria, non irrazionalmente si può dire che non è; è infatti di per sé invisibile e non è conosciuto a nessuno al di fuori di Dio e di noi stessi. Quando invece sia pervenuto a formularsi in pensieri e prende forma a partire da certe fantasie, non a sproposito può dirsi che si crea. Quello che era informe prima di pervenire alla memoria, si crea infatti nella memoria prendendo forme di cose o parole sensibili, quindi riceve come una seconda formazione quando si forma con certi segni che indicano parole o con altri indizi sensibili, per potersi insinuare nei sensi di chi ascolta.20
Il processo di comunicazione ci fornisce in realtà la misura del valore del riconoscere all’intelletto funzione fondante, che trascende sempre il suo significarsi. Nell’assumere infatti una dimensione sensibile come veicolo non abbandona infatti la sua assolutezza, la sua dimensione di trascendenza (solus per se ipsum absolutus intima corda penetrat), per cui la comunicazione autentica avviene attraverso una forma di unione, che può senz’altro definirsi nei termini dell’unione mistica. Nonostante le suggestioni agostiniane, a proposito della funzione dei signa, l’itinerario è diverso da quello delineato ad esempio nel De magistro, perché la comunicazione non avviene nell’assoluto della verità divina, ma nella trascendenza implicita nell’essere, da parte dell’intelletto, imago dei perfetta e compiuta, fino a riprodurre il non-essere divino:
E mentre l’intelletto si fabbrica, partendo dalla materia dell’aria o delle figure sensibili, qualcosa come i propri veicoli, per poter raggiungere i sensi altrui, non appena è pervenuto ai sensi esterni di quanti intende raggiungere, abbandonando questi stessi veicoli, solo, per se stesso assoluto, penetra l’intimità dei cuori, e si fonde con gli altri intelletti, e diventa uno con quelli ai quali si unisce. E mentre compie questo percorso, sempre rimane in se stesso. E mentre si muove è stabile, e mentre è stabile si muove; è infatti mobile stare e movimento stabile. E mentre si aggiunge ad altri, non abbandona la sua semplicità.21
Per tracciare un quadro a grandissime linee, ritengo che a partire dalla Metaphysica di Aristotele si possa individuare quella che definirei forse con una formula facile una «teologia dell’intelletto», a cui la speculazione cristiana, soprattutto la speculazione trinitaria, ha fornito elementi determinanti. Ritengo ad esempio che tutta la tradizione ermeneutica sul Prologo di Giovanni riserva la scoperta di ardimenti speculativi ben lontani dall’essere recuperati in una contemporanea ermeneutica. Di questa «teologia dell’intelletto», di cui si può anche pensare che il cogito cartesiano costituisca la forma secolarizzata, Giovanni Eriugena ha formulato, con particolare coerenza, la teologia negativa, che in realtà non è altro se non lo sviluppo più consequenziale di una teologia dell’imago Dei. La direzione indicata con particolare forza di suggestione letteraria dai testi eriugeniani, elaborati in un’epoca in cui il testo scritto era valorizzato dalla sua rarità e preziosità, mi sembra particolarmente vitale all’inizio di un’epoca di comunicazione che sarà sempre più pervasiva e dilagante, minacciata costantemente dal rischio della perdita di senso: non si può raggiungere un altro intelletto, o, se preferiamo, l’intelletto dell’altro, se non si arriva a raggiungerlo nel suo essere silenzio.
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De Trinitate, V, 13, 14, «Corpus Christianorum» S: L., L, pp. 220-21: «Dicitur ergo relatiue pater idemque relatiue dicitur principium et si quid forte aliud; sed pater ad filium dicitur, principium uero ad omnia quae ab ipso sunt. Item dicitur relatiue filius; relatiue dicitur et uerbum et imago, et in omnibus his uocabulis ad patrem refertur». Su questo tema v. H. Somers, «L’image comme Sagesse. La genèse de la notion trinitaire de Sagesse», Recherches Augustiniennes, II (1963), pp. 403-414; v. anche Ch. Boyer, «L’image de la Trinité. Synthèse de la pensée augustinienne», Gregorianum, XXVII (1946), pp. 173-199, 333-352. Sulla teologia trinitaria agostiniana la bibliografia è evidentemente molto vasta; v., tra i numerosi testi, F. Cavallera, «Les premières formules trinitaires de saint Augustin», Bulletin de littérature ecclésiastique, XXXI (1930), pp. 97-123; A. Segovia, «Estudios sobre la terminologia trinitaria el la epoca postnicena», Gregorianum, XIX (1938), pp. 3-36; Id., «Natus est-Nascitur. La eterna generación del Hijo de Dios y su enunciación verbal en la literatura patrística», Revista Española de Teologia, VIII (1948), pp. 385-407; I. Chevalier, «La théorie augustinienne des relations trinitaires. Analyse explicative des textes», Divus Thomas, XVIII (1940), pp. 317-384; K. Rahner, «Bemerkungen zum dogmatischen Traktat De Trinitate», in Schriften zur Theologie, Einsiedeln, IV (1964), pp. 103-133; O. Du Roy, L’intelligence de la foi en la Trinité selon Saint Augustin. Genèse de la théologie Trinitaire jusqu’en 391, Paris, 1966. ↩︎
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Ibid., p. 472: «Hanc ergo sapientiam quod est Deus, quomodo intelligimus esse trinitatem? Non dixi: “Quomodo credimus?” (nam hoc inter fideles non debet habere quaestionem), sed si aliquo modo per intelligentiam possumus uidere quod credimus, quis iste erit modus?». ↩︎
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Ibid., XV, 6, 9, p. 471. ↩︎
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Ibid., XV, 6, 10, p. 473: «Cum mens ipsa qua nouimus quidquid nosse nos veraciter dicimus, sibi cognita est, vel se cogitat». L’analogia tra autocoscienza e conoscenza della relazione trinitaria è centrale nella bibliografia su questi temi. Tra i numerosi studi, v. A. Gardeil, La structure de l’âme et l’expérience mystique, Paris, 1927/2; Id., «La mens d’après st. Augustin et st. Thomas d’Aquin», Revue de Sciences philosophiques et théologiques, XIII (1924), pp. 145-161; J.Stiglmayr, «Zur Trinitätspekulation und Trinitätsmystik des hl. Augustinus», Zeitschrift für Aszese und Mystik, IV (1929), pp. 168-172; E.Müller, Augustins Lehre von der Einheit und Dreieinheit für Sein und Erkennen, Erlangen, 1929; R. Tremblay, «La théorie psychologique de la Trinité chez saint Augustin», Etudes et Recherches, VIII (1952), pp. 83-109; G. Verbeke, «Connaissance de soi et connaissance de Dieu chez saint Augustin», Augustiniana, IV (1954), pp. 495-515; v. soprattutto M. Schmaus, Die psychologische Trinitätslehre des hl. Augustinus, Münster i.W., 1927; Id., Die Denkform Augustins in seinem Werk “De Trinitate”, München, 1962. Sul rapporto tra Agostino e Mario Vittorino, v. P. Hadot, «La structure de l’âme, image de la Trinité chez Victorinus et chez Augustin», Studia Patristica, VI (1962), pp. 409-442; v. anche P. Henry, «The Adversus Arium of Marius Victorinus», Journal of Theological Studies, I (1950), pp. 42-55. ↩︎
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De Trinitate, XV, 6, 10, pp. 473-74: «Num enim sicut certissimas uidemus trinitates, siue quae forinsecus de rebus corporalibus fiunt, siue cum ea ipsa quae forinsecus sensa sunt cogitantur; siue cum illa quae oriuntur in animo…manifesta ratione cernuntur et scientia continentur; siue cum mens ipsa qua nouimus quidquid nosse nos ueraciter dicimus sibi cognita est uel se cogitat; siue cum aliquid quod ipsa non est, aeternum atque incommutabile conspicit; num ergo sicut in his omnibus certissimas uidemus trinitates, quia in nobis fiunt vel in nobis sunt, cum ista meminimus, aspicimus, uolumus, ita uidemus etiam trinitatem deum quia et illic intellegendo conspicimus tamquam dicentem, et uerbum eius, id est patrem et filium, atque inde procedentem caritatem utrique communem, sanctum scilicet spiritum? …Conspicere autem nos immutabile bonum quod nos non sumus liber octauus ostendit…Cur itaque ibi non agnoscimus trinitatem? An haec sapientia quae Deus dicitur non se intellegit, non se diligit? Quis hoc dixerit? Aut quis est qui non uideat ubi nulla scientia est nullo modo esse sapientiam? Aut uero putandum est sapientiam quae Deus est scire alia et nescire se ipsam, uel diligere alia nec diligere se ipsam? Quae siue dici siue credi stultum et impium est. Ecce ergo trinitas, sapientia scilicet, et notitia sui et dilectio sui». ↩︎
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Ibid., XV, 10, 17, p. 484. ↩︎
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Ibid., XV, 10, 18, p. 484: «Quaedam ergo cogitationes locutiones sunt cordis ubi et os esse dominus ostendit, cum ait: Non quod intrat in os coinquinat hominem; sed quod procedit ex ore, hoc coinquinat hominem (Matth., 15, 11)». ↩︎
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Ibid., XV, 10, 19, p. 485: «Quisquis igitur potest intellegere uerbum non solum antequam sonet, uerum etiam antequam sonorum eius imagines cogitatione uoluantur (hoc enim est quod ad nullam pertinet linguam, earum scilicet quae linguae appellantur gentium quarum nostra latina est), quisquis, inquam, hoc intellegere potest, iam potest uidere per hoc speculum atque in hoc aenigmate (I Cor., 13, 12) aliquam uerbi illius similitudinem de quo dictum est: In principio erat uerbum, et uerbum erat apud deum, et deus erat uerbum (Ioh., 1, 1)». ↩︎
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Ibid., XV, 13, 22, p. 495: «Propter hoc sicut nostra scientia illi scientiae dei, sic et nostrum uerbum quod nascitur de nostra scientia dissimile est illi uerbo dei quod natum est de patris essentia». ↩︎
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Ibid., XV, 14, 23, p. 496: «Et ideo patri sicut esse non est a filio ita nec nosse. Proinde tamquam se ipsum dicens pater genuit uerbum sibi aequale per omnia. Non enim se ipsum integre perfecteque dixisset si aliquid minus aut amplius esset in eius uerbo quam in ipso». ↩︎
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Cfr. su questo tema O. Perler, «Der Nus bei Plotin und das Verbum bei Augustinus als vorbildliche Ursache der Welt», in Vergleichende Untersuchung, Freiburg i.Br., 1931. ↩︎
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Per la presenza dell’Hortensius ciceroniano, e quindi dei temi scettici, nel De Trinitate, cfr. G. Madec, «L’Hortensius de Cicéron dans les livres XIII-XIV du De Trinitate», Revue des Etudes augustiniennes, XV (1969), pp. 167-173. ↩︎
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Cfr. Jean Scot, Homélie sur le Prologue de Jean, éd. É. Jeauneau, S.C., CLI, Paris, 1969; Giovanni Scoto, Il Prologo di Giovanni, a cura di M. Cristiani, Milano, 1987 (a cui rinvio per la bibliografia essenziale. Per la bibliografia successiva, sarà sufficiente segnalare: É. Jeauneau, Études Érigéniennes, Paris, 1987, raccolta di studi; D. Moran, The Philosophy of John Scottus Eriugena, Cambridge, 1989; J.J. O’Meara, Studies in Augustine and Eriugena, ed. b. Th. Halton, Washington D.C., 1992, raccolta di studi; W. Beierwaltes, Eriugena. Grundzüge seines Denkens, Frankfurt a. M., 1994, raccolta di studi; G. d’Onofrio, Giovanni Scoto Eriugena, in Storia della Teologia nel Medioevo, vol. I, Casale Monferrato, 1996, pp. 243-303). ↩︎
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Per la teologia trinitaria di Giovanni Scoto, oltre a M. Cristiani, Introduzione, in Omelia sul Prologo, cit., cfr. Ead., Itinerari e potenzialità del pensiero cristiano in età carolingia, in Giovanni Scoto nel suo tempo. L’organizzazione del sapere in età carolingia (Atti del XXIV Convegno storico internazionale), Spoleto, 1989, pp. 337-363; W. Beierwaltes, Unity and Trinity in East and West, in East and West, ed. b. B. McGinn — W. Otten, Notre Dame-London, 1994, pp. 209-231. ↩︎
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Non posso fare a meno di rinviare a M. Cristiani, Nature-essence et nature-langage. Notes sur l’emploi du terme «natura» dans le «Periphyseon» de Jean Erigène, in Sprache und Erkennntnis im Mittelalter, hrsgg. v. A. Zimmermann, Berlin-New York, 1981, II. B., pp. 707-717. ↩︎
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Periphyseon, III, 4, PL CXXII, col. 633AB; ed. E. Jeauneau, CCh, C.M., CLXIII, p. 22: «Omne enim quod intelligitur et sentitur nihil aliud est nisi non apparentis apparitio, occulti manifestatio, negati affirmatio, incomprehensibilis comprehensio, ineffabilis fatus, inaccessibilis accessus, inintelligibilis intellectus, incorporalis corpus, superessentialis essentia, informis forma, immensurabilis mensura, innumerabilis numerus, carentis pondere pondus, spiritualis incrassatio, inuisibilis uisibilitas, illocalis localitas, carentis tempore temporalitas, infiniti diffinitio, incircumscripti circumscriptio, et caetera quae puro intellectu et cogitantur et perspiciuntur et quae memoriae sinibus capi nesciunt et mentis acies fugiunt». Su questi temi cfr. soprattutto W. Beierwaltes, Negati affirmatio: Welt als Metapher — Zur Grundlegung einer mittelalterlichen Aesthetik durch Johannes Scotus Eriugena, in Jean Scot Erigène et L’Histoire de la Philosophie, éd. R. Roques, Paris, 1977, pp. 263-276 (riprodotto in Id., Eriugena, cit., pp. 115-158). Sui temi della formulazione metaforica, cfr. Begriff und Metapher. Sprachform des Denkens bei Eriugena (Vorträge des VII. Internationalen Eriugena-Colloquiums), hrsgg. v. W. Beierwaltes, Heidelberg, 1990. ↩︎
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Ibid., col. 633D; p. 23: «Et multa alia quae mirabiliter et ineffabiliter de natura quae ad imaginem dei facta est excogitari possunt». ↩︎
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Ibid., col. 633B; p. 22: «Nam et noster intellectus, cum per sit inuisibilis et incomprehensibilis, signis tamen quibusdam et manifestatur et comprehenditur, dum uocibus uel litteris uel aliis nutibus ueluti quibusdam corporibus incrassatur. et dum sic extrinsecus apparet, semper intrinsecus inuisibilis permanet; dumque in uarias figuras sensibus comprehensibiles prosilit, semper statum suae naturae incomprehensibilem non deserit; et priusquam exterius patefactus fiat, intra se ipsum se ipsum mouet. Ac per hoc, et silet et clamat, et dum silet clamat, et dum clamat silet. Et inuisibilis uidetur, et dum uidetur inuisibilis est. Et incircumscriptum circumscribitur, et dum circumscribitur incircumscriptum perseuerat. Et dum uult, uocibus et litteris incorporatur; et dum incorporatur incorporeus in se ipso subsistit». ↩︎
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Ibid., I, 12, col. 453D; ed. E. Jeauneau, CCh, C.M., CLXI, p. 20. ↩︎
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Ibid., col. 454B; pp. 20-21: «Nam et noster intellectus, priusquam ueniat in cogitationem atque memoriam, non irrationabiliter dicitur non esse; est enim per se inuisibilis et nulli praeter deum nobisque ipsis cognitus est. Dum uero in cogitationes uenerit et ex quibusdam phantasiis formam accipit, non immerito dicitur fieri. Fit enim in memoria formas quasdam accipiens rerum seu uocum sensibilium qui informis erat priusquam in memoriam ueniret, deinde ueluti secundam formationem recipit dum quibusdam uocum signis seu aliis sensibilibus indiciis formatur, per quae audientium sensibus insinuari possit». ↩︎
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Ibid., III, 4, col. 633CD; CCh, C.M., CLXIII, p. 23: «Et dum sibi ueluti quaedam vehicula, quibus ad aliorum sensus possit prouehi, de aeris materia uel sensibilibus figuris efficit, mox ut ad sensus exteriores eorum peruenerit, ipsa uehicula deserens solus per se ipsum absolutus intima corda penetrat aliisque intellectibus se miscet, et fit unum cum his quibus copulatur. Et cum hoc peragat, semper in se ipso manet. Et dum mouetur stat, et dum stat mouetur; est enim status mobilis et motus stabilis. Et dum aliis adiungitur, suam simplicitatem non relinquit». ↩︎