Ospitalità giuridica e ospitalità etica. Prospettive storiche, letterarie e filosofiche

Introduzione

Col presente lavoro si intende fornire non solo una panoramica sul concetto, ma anche su ciò che storicamente l’ospitalità è stata in quanto istituzione: a tale scopo vengono ricostruite la genesi e l’evoluzione che nel tempo hanno avuto i termini impiegati per designare l’ospite, con particolare riferimento all’uso che dei suddetti vocaboli è stato fatto in letteratura. L’analisi si concentra sull’età antica considerata nelle sue due grandi declinazioni culturali, quella greco-latina (con focus sulla Grecia arcaica e classica) e quella giudaico-cristiana (con riferimento precipuo alla letteratura veterotestamentaria): il modello emergente nel primo caso sarà definito “ospitalità giuridica” (o di diritto), quello rilevabile nel secondo “ospitalità etica” – nonostante tale macroscopica differenza, nel corso dell’indagine sarà comunque possibile rintracciare motivi letterari comuni ad entrambe le tradizioni.

Nel seguito del testo, il registro argomentativo subirà uno slittamento di impostazione, passando da una prospettiva prettamente storica e filologico-letteraria ad una più propriamente filosofica. Tale sovvertimento è affatto intenzionale poiché funzionale rispetto a ciò che può essere considerato lo scopo principale di questo scritto: mostrare che nel corso della storia della filosofia sono state elaborate delle concezioni di ospitalità per alcuni versi sovrapponibili a quelle degli antichi. In particolare, ad essere prese in considerazione saranno le teorie di Jacques Derrida (intesa come paradigma filosofico dell’ospitalità etica) e di Immanuel Kant (considerata, per converso, emblema di una filosofia dell’ospitalità giuridica).

Infine, nella sezione conclusiva, ci interrogheremo su pregi e limiti delle suddette prospettive per tentare di stabilire cosa esse abbiano da dire in merito alle circostanze dell’oggi.

L’ospitalità: considerazioni storiche e linguistiche

Il termine latino usato per designare l’ospite è hospes, ma in età arcaica ad essere impiegato è hostis. La cosa singolare, necessariamente da sottolineare, è che in latino con hostis viene indicato anche il nemico; e non si tratta di un caso unico, in quanto la stessa cosa accade – per esempio – nel gotico, in cui il termine gasts – corrispondente di hostis – ha il medesimo ambivalente significato.1 «Per spiegare il rapporto tra “ospite” e “nemico”, si ammette di solito che l’uno e l’altro derivino dal senso di “straniero”, che è ancora attestato in latino: da cui “straniero favorevole → ospite” e “straniero ostile → nemico”».2 Per comprendere il senso di tali nozioni è opportuno ricondurle al loro contesto storico e sociale. Nella Legge delle XII tavole, hostis conserva il suo valore arcaico di “straniero”:3 la locuzione «aduersus hostem aeterna auctoritas est» è da intendere come “contro uno straniero, la rivendicazione di proprietà deve continuare eternamente”, nel senso che essa «non si abolisce mai quando è introdotta contro uno straniero».4

La parola hostis è frequentemente attestata nelle opere degli autori latini. Festo – ad esempio – dice: «eius enim generis ab antiquis hostes appellabantur quod erant pari iure cum populo Romano, atque hostire ponebatur pro aequare», cioè “si chiamavano hostes perché godevano dello stesso diritto del popolo romano e si diceva hostire per aequare”.5 Si può notare che in questo testo l’hostis non è identificato né con lo straniero né col nemico; ad essere stabilita è invece un’equivalenza tra hostire ed aequare. Plauto utilizza il verbo hostire nello stesso senso: «Promitto […] hostire contra ut merueris», “ti prometto un servizio reciproco come tu meriti”.6 Varrone impiega spesso, intendendolo in senso tecnico, il termine arcaico della lingua degli agricoltori hostus: «hostum vocant quod ex uno facto olei reficitur», “si chiama hostus la quantità di olio che si ottiene dopo una sola operazione di torchiatura”,7 dunque, in un certo senso, il prodotto come contropartita. «Un altro termine tecnico è hostorium, bastone per uguagliare il moggio in modo da assicurargli un livello costante».8 Un’ulteriore notizia riportata da Benveniste dà informazione dell’esistenza nel pantheon romano di una Dea Hostilina, che aveva il compito di «uguagliare le spighe o di fare in modo che il lavoro compiuto fosse esattamente compensato dal prodotto del raccolto». Infine, hostia, appartenente alla stessa famiglia di parole, indica propriamente la «vittima che serve a compensare l’ira degli dèi».9 Ciò che colpisce è che, se si fa eccezione per hostis così come è inteso nella Legge delle XII tavole, in tutti gli esempi citati non è presente alcun riferimento alla nozione di ostilità; anzi, è da ciò deducibile che il senso primitivo di hostire fosse aequare, “compensare, uguagliare”.

Ma allora, come è possibile ammettere allo stesso tempo la corrispondenza di hostis con i termini “nemico” e/o “straniero” e il suo rapporto con il verbo hostire? Di fronte a questa apparente difficoltà, può venirci in aiuto la già menzionata definizione di Festo – «quod erant pari iure cum Populo Romano» – da cui si deduce la relazione esistente tra hostis e hostire: “gli hostes [appunto] godevano dello stesso diritto del romani”. Un hostis non è uno straniero in generale. A differenza del peregrinus che abita al di fuori del territorio, l’hostis è «lo straniero in quanto gli si riconoscono dei diritti uguali a quelli dei cittadini romani». Questo riconoscimento presuppone una convenzione che stabilisce un legame di uguaglianza e reciprocità tra questo straniero e il cittadino di Roma, che ci conduce direttamente alla nozione di ospitalità. In base a questa rappresentazione, l’hostis è «colui che è in relazione di compenso»,10 e questo non è altro che il fondamento dell’istituzione dell’ospitalità. L’ospitalità si basa sull’idea che un uomo è legato a un altro (hostis, con valore reciproco) dall’obbligo di compensare una certa prestazione di cui è stato beneficiario.

È interessante rilevare, per inciso, che questo stesso modo di concepire l’ospitalità era diffuso anche tra le popolazioni indiane del Nord-Ovest dell’America: una fonte imprescindibile, a questo proposito, è Marcel Mauss che, analizzando la nozione di potlatch, afferma che essa corrisponde a una serie di doni e contro-doni, derivante dal fatto per cui un dono ricevuto crea sempre l’obbligo di essere ricambiato con un dono maggiore, in virtù di una specie di forza costringente..11

La stessa istituzione esiste anche nel mondo greco sotto il nome di xenia: «xénos indica delle relazioni dello stesso tipo tra uomini legati da un patto che implica degli obblighi precisi che si estendono anche ai discendenti».12 La xenia è posta sotto la protezione di Giove Xenio e prevede uno scambio di doni tra contraenti che dichiarano l’intenzione di voler legare anche i loro discendenti a tale patto. Essa è una forma di ospitalità fondata sulla reciprocità e basata su una mutua assistenza (espressa attraverso l’ospitalità concreta, cioè l’offerta di vitto e alloggio, e tramite la rappresentanza di fronte alla comunità ospitante) che viene sancita mediante lo scambio di symbola, piccoli oggetti spezzati in due, le cui metà vengono conservate dall’ospitato e dall’ospitante come strumento di riconoscimento e come prova dei legami di ospitalità anteriormente stabiliti.13 I presupposti di queste relazioni vanno ricercati nel fatto che, attraverso di esse, si voleva «evitare che lo straniero, fuori dalla propria comunità di origine e quindi privo di protezione giuridica, potesse essere oggetto del diritto di rappresaglia».14

Questo tipo di legami, in età arcaica, riguarda soprattutto le famiglie aristocratiche. Erodoto, nelle sue Storie, racconta di un patto di ospitalità stretto tra Policrate, tiranno di Samo, e Amasi, re dell’Egitto, descrivendolo in questi termini: Policrate «signore della città, aveva stretto un patto di ospitalità con Amasi il re d’Egitto, col quale scambiava doni».15 Sembra inoltre che in Grecia la regione in cui questo sistema di obblighi era maggiormente vincolante fosse la Tracia, e questo dato è ben attestato dalla storiografia. Senofonte, nell’Anabasi, opera in cui è descritto il viaggio di diecimila mercenari greci al seguito di Ciro – di cui egli stesso faceva parte – e il loro ritorno in Grecia dopo la battaglia di Cunaxa, racconta che in seguito ad una sua richiesta di concludere accordi per il vettovagliamento dell’esercito avanzata ad un consigliere del re Seute, si era sentito rispondere che se voleva stare in Tracia e avere grandi ricchezze, non aveva che da fare doni al re, perché questi in cambio gli avrebbe reso molto di più.16 Tucidide offre una testimonianza analoga riguardo un altro re trace, Sitalce, per il quale era più grave non donare quando si è sollecitati a farlo che non ricevere.17

Tornando al contesto latino, è essenziale rilevare che l’istituzione dell’ospitalità perde di forza nel mondo romano, dove essa viene a rappresentare un tipo diverso di relazioni. «Quando l’antica società diventa nazione, le relazioni tra uomo e uomo, tra clan e clan, si aboliscono; sussiste solo la distinzione tra ciò che è interno o esterno alla civitas. Per un cambiamento di cui non conosciamo le condizioni precise, la parola hostis ha assunto un’accezione “ostile” e ormai non si applica che al “nemico”».18 Di conseguenza, la nozione di ospitalità è stata espressa da un termine diverso, dove sussiste tuttavia l’antico hostis ma composto con pot(i)s, cioè hospes, forma contratta di hostipe/ot-s.19 Potis designa il “signore”, ne troviamo attestazioni nel sanscrito in cui páthi significa sia “signore” sia “sposo”, e nel greco in cui pósis, termine poetico impiegato per indicare lo “sposo”, viene poi superato dal vocabolo composto despótēs, che non denota più soltanto quello che veniva considerato il “signore della casa”, ma diventa soprattutto il qualificativo di “maestà”. In latino una grande famiglia etimologica si organizza intorno a potis: il verbo potēre rappresenta l’esempio più significativo di questa tendenza.20 Vediamo che, per estensione, il signore viene considerato come colui che può, che ha potere. Hospes viene ad indicare “chi riceve da un signore”, che è colui il quale può ospitarlo. Dunque, la storia del termine hostis riflette un cambiamento che si è prodotto nelle istituzioni romane; allo stesso modo il greco xénos, che in Omero significa chiaramente “ospite”, diventa nel tempo l’equivalente di “straniero”, di «non-nazionale».21 In età classica nel diritto attico viene istituito un procedimento penale denominato graphè xenías contro lo straniero che voleva farsi passare per cittadino;22 tuttavia il termine xénos non ha assunto il senso di “nemico” come hostis in latino.

Già queste considerazioni mostrano chiaramente che nelle lingue antiche alcuni concetti che oggi appaiono indipendenti l’uno dall’altro erano invece strettamente legati. Il nemico era lo straniero, ma lo straniero in realtà poteva essere considerato un ospite. Una spiegazione che può essere addotta per tentare di fornire la ragione di questa ambivalenza è che nell’antichità la nozione di straniero non era definita con criteri costanti, come avviene invece nelle società moderne. Lo straniero in sé non esiste, ci sono sempre stranieri particolari che sono sottoposti a statuti distinti. Lo straniero poteva essere lo schiavo, che in quanto tale non era mai un cittadino (e va sottolineato che nella maggior parte dei casi gli schiavi erano prigionieri di guerra, dunque nemici); ma lo straniero poteva essere anche l’ospite di passaggio che beneficiava delle leggi dell’ospitalità. «Insomma, le nozioni di nemico, di straniero, di ospite, che per noi formano tre entità distinte – semantiche e giuridiche – presentano strette connessioni nelle lingue indoeuropee antiche».23 Lo straniero è il nemico e il nemico è uno straniero, allora proprio per questo è necessario stipulare con lui un patto reciproco per stabilire delle relazioni di ospitalità che non sarebbero concepibili all’interno della stessa comunità. Se è vero che chiunque sia fuori dalla civitas va considerato come uno straniero, è anche vero che a costui non viene negata la dignità dell’essere, per quanto il suo statuto ontologico sia quello di essere un nemico; e allora è grazie al diritto, ai riti, agli accordi che è possibile interrompere una situazione di permanente inter-ostilità tra i popoli o le città.

La dialettica amico-nemico appena descritta è presente anche nella nozione di phílos, che è da considerarsi un unicum della lingua e della civiltà greche. Phílos non può essere accostato al latino cīuis, per quanto questo sia un «termine cameratesco che implica la comunanza dell’habitat e dei diritti politici».24 Cīuis deriva dall’indoeuropeo keiwos che designa il “gruppo familare”, il “rapporto amicale”,25 ma in latino il keiwos assume il valore forte di istituzione. Tuttavia non va trascurata la possibilità che tra cīues potessero nascere legami di amicizia basati proprio sul sentimento di appartenenza alla medesima comunità e sul conseguente riconoscimento degli stessi diritti, perché allo stadio antico delle società indoeuropee il sentimento di amicizia «non si separa dalla coscienza viva dei gruppi e delle classi».26 Il termine phílos, che in apparenza non sembra problematico in quanto parrebbe designare semplicemente l’“amico”, ha in realtà una natura ambivalente: un punto di riferimento per spiegare quanto appena affermato è la letteratura omerica – di cui si dirà subito qualcosa.

L’età arcaica. L’ospitalità nei poemi omerici: phília e xenia

La fraseologia omerica mette in evidenza il legame esistente tra phílos e xénos, tra phileîn e xenízein. Un numero notevole di esempi ci permette di capire che la nozione di phílos enuncia il comportamento obbligatorio di un membro della comunità nei confronti dello xénos, dell’ospite straniero. Come già detto, questa relazione è fondamentale nella società arcaica – cioè in quella società in cui sono ambientati i fatti narrati da Omero – perché garantisce protezione giuridica all’ospite che in terra straniera ne è sprovvisto e viene per questo suggellata da un segno di riconoscimento – symbolon – che sancisce il patto: tale patto è denominato philótēs e fa dei contraenti dei phíloi, i quali sono «obbligati a quella reciprocità di prestazioni che costituisce l’ospitalità».27 Ecco perché il verbo phileîn esprime la condotta obbligatoria di colui che accoglie presso di sé lo xénos e lo tratta secondo il costume ancestrale.28

Gli eroi omerici insistono molte volte su questi legami. Antenore, ricordando una visita che Ulisse e Menelao gli avevano fatto, dice: «in casa mia li ospitai (exéinissa) [e] li trattai con ogni riguardo [secondo il diritto di ospitalità] (phílēsa)».29 Ma il poeta ionico è particolarmente abile a sottolineare il fatto che, al di là del rapporto istituzionalizzato, in questo tipo di condotta era implicata anche una certa componente sentimentale, che conferma lo stretto legame esistente tra xenia e phília. Ad esempio, nell’Odissea Ulisse, ospitato da Leodamante, è invitato a far mostra dei suoi talenti nella competizione. Egli accetta, dice che non avrebbe rifiutato nessun concorrente tranne, tuttavia, Leodamante, perché «mi ospita; e chi lotterebbe con chi l’accoglie (phíléonti)?».30 In un altro passo ancora Calipso racconta che un uomo sopravvissuto a un naufragio fu gettato sulla sua isola, parlando di lui in questi termini: «l’amavo io, lo nutrivo, dicevo che l’avrei reso / immortale ed immune per sempre dalla vecchiaia».31 Un’ulteriore testimonianza dello stretto legame tra xénos e phílos è il composto omerico philóxenos, “colui per cui lo xénos è un phílos” (qualifica associata a theoudēs, “colui che riverisce gli dèi”).32

L’importanza di questa istituzione – senza peraltro dimenticare l’aspetto emotivo di cui necessariamente si caricava – è testimoniata dal fatto che la philótēs fosse suscettibile di realizzarsi anche in circostanze assolutamente eccezionali, cioè fra combattenti. In un passo dell’Iliade è descritto il duello tra Ettore e Aiace, che però si è prolungato al punto tale che sta per calare la notte; i due vengono dunque invitati a separarsi, Ettore dice allora al suo avversario: «Su, scambiamoci ora magnifici doni tra noi, / sì che possa dire chiunque fra i Teucri e gli Achei: / «È vero che i due si sono scontrati in duello mortale, / ma poi in amicizia (philótēs) congiunti si sono divisi»».33 Per suggellare il patto i due eroi si scambiano le loro armi più preziose, Ettore offre il suo arco più bello e Aiace una magica cintura.34 La philótēs ha il potere di trasformare dei combattenti, che sono nemici e lo restano, in amici, seppur temporaneamente. Questo accordo fa cessare provvisoriamente il combattimento con mutuo consenso affinché possa essere ripreso in un momento più favorevole. L’impegno preso, col quale i due contraenti si sono legati l’un l’altro, per avere valore vincolante, prende una forma consacrata che comporta lo scambio di doni e di armi. Vediamo che il comportamento indicato da phileîn ha sempre un carattere di obbligo e sottende sempre reciprocità: «è il compiersi degli atti positivi che implica il patto di reciproca ospitalità».35

Facendo riferimento a questo contesto istituzionale è possibile capire perché il verbo phileîn significasse anche “baciare” (da cui phílēma, “bacio”). È stato già detto che la philótēs, pur essendo un’istituzione, designava un tipo di relazione che non era priva di risvolti affettivi, e l’atto di baciare aveva il suo posto nel rituale d’amicizia, come segno di riconoscimento tra i phíloi. Questa consuetudine non rappresentava una particolarità greca: Erodoto la segnala anche presso i persiani:36 per giunta, la stessa usanza è riportate da Senofonte nella Ciropedia.37 Va ricordato inoltre che in epoca cristiana, il bacio (phílēma, in latino osculum) è il segno di riconoscimento che scambiano Cristo e i suoi discepoli; nel Medioevo è il gesto che consacra l’investitura del cavaliere.38 Da queste considerazioni si vede dunque quanto quel rapporto reciproco instaurato dalla philótēs, che prevede un sistema di obblighi tra contraenti – phíloi – che includono lo scambio di doni e la concessione al phílos dell’ospitalità nella propria casa, si colori sempre più di un sentimento che va ben oltre l’istituzione. L’evoluzione della lingua conserva traccia di questo mutamento, infatti dopo Omero al posto di philótēs, inizia ad essere utilizzato un termine che indica l’amicizia in senso più astratto e che la svincola dall’idea di patto obbligante, philía..39

La Theoxenia

Perché per i Greci l’ospitalità, questa istituzione che va oltre l’istituzione, ha da sempre avuto un valore tanto importante? Rispondere naturalmente non è semplice. Si potrebbe però provare a fare riferimento alla theoxenia,40 quella credenza – particolarmente diffusa in antichità – secondo cui gli dèi erano soliti andare a chiedere ospitalità assumendo l’aspetto di viandanti per mettere alla prova gli uomini:41 trattare l’ospite con ogni riguardo era così un comportamento in uso per ingraziarsi gli dèì. La violazione delle leggi dell’ospitalità avrebbe potuto infatti scatenare una terribile vendetta divina: questo è il motivo per cui nell’Odissea Antinoo viene rimproverato per il suo comportamento inospitale da alcuni degli stessi proci;42 anche l’accecamento inflitto da Odisseo a Polifemo è da considerarsi una punizione poiché «e certo su di te ricadere dovevano i tuoi misfatti, / crudele, che osasti empiamente mangiare nella tua casa / degli ospiti, Zeus e gli altri dèi t’han punito per questo».43

Della credenza secondo la quale un dio potesse celarsi sotto le spoglie di uno straniero si trova traccia anche nel Sofista di Platone, dove Socrate dice:

Ma non è che tu, Teodoro, ci porti, senza rendertene conto, non uno straniero, ma un qualche dio come dice Omero? Egli afferma che altri dèi, sì, si accompagnano agli uomini che hanno un giusto rispetto per gli altri, in particolare soprattutto il dio dell’ospitalità, e vengono per osservare la tracotanza ed il rispetto che gli uomini hanno di fronte alla legge.44

Tale convinzione è rinvenibile altresì nella mitologia: un mito particolarmente indicativo, a questo proposito, è quello di Filemone e Bauci, che ci è noto in quanto riportato dal poeta romano Ovidio nell’ottavo libro delle sue Metamorfosi45 come exemplum46 di pietà premiata. Filemone e Bauci erano due anziani che vivevano in maniera estremamente semplice in una piccola casa e che si trovarono a ricevere la visita in incognito di Giove e Mercurio. Per quanto non fossero possidenti, si adoperarono per offrire ai loro ospiti l’accoglienza migliore possibile, che invece gli altri vicini avevano negato loro. L’epilogo della vicenda vede la distruzione del villaggio dei due coniugi, in segno di punizione per l’ospitalità che tutti gli altri abitanti avevano rifiutato. Loro due, al contrario, vennero ricompensati dagli dèi che, oltre alla salvezza, concessero loro di esprimere un desiderio che volevano vedere esaudito. I due chiesero allora di divenire sacerdoti addetti al culto del loro tempio e che la morte li portasse via nello stesso momento,47 e Giove mantenne la promessa.

L’età classica. La legislazione sugli stranieri

Passando ora all’adozione di una prospettiva più strettamente storica, si ritiene utile e appropriato constatare che, non solo nella Grecia arcaica di Omero, ma anche in età classica, sussistevano istituzioni e leggi a tutela dei visitatori stranieri. Parlando nello specifico del caso ateniese possiamo notare che se è vero che, da una parte, in età periclea vengono introdotte delle restrizioni per la concessione della cittadinanza,48 è anche vero, dall’altra, che Atene è generalmente considerata la città della Grecia più disponibile ad accogliere gli stranieri.49 Di questa tradizione si trova traccia per esempio nell’Edipo a Colono di Sofocle, nelle parole che lo stesso Edipo rivolge a Corifeo: «Tutti dicono che Atene è la città più devota agli dèi, che soltanto essa è in grado di soccorrere e di proteggere lo straniero oppresso».50 Non è certo questa la sede per entrare nel dibattito storiografico sull’ospitalità ateniese – gli storici si sono a lungo chiesti se si trattasse solo di un mito propagandistico o se essa corrispondesse effettivamente a realtà –, tuttavia possiamo affermare con una discreta sicurezza che Atene fosse quanto meno una città più ospitale di altre, per esempio dell’antagonista Sparta, all’interno della quale invece veniva costantemente messa in atto la pratica della xenelasia, che consisteva in un’espulsione periodica degli stranieri dal territorio della polis.51 Questo dato è riportato anche da Tucidide, che nell’epitaffio di Pericle – discorso che sarebbe stato pronunciato alla fine del primo anno della guerra del Peloponneso per celebrarne i caduti – fa dire al governatore ateniese: «La nostra città è aperta a tutti, né mai, con le espulsioni degli stranieri, escludiamo nessuno dall’apprendere o dall’esaminare anche ciò dalla cui considerazione, se non gli è impedita, qualche nemico potrebbe avvantaggiarsi».52

Ad Atene trovò particolare sviluppo un istituto – presente anche altrove in Grecia – inteso a tutelare la posizione dello straniero libero, la metoikia. Come già detto, lo straniero al di fuori della sua comunità di appartenenza non godeva di tutela giuridica – e questo valeva anche per lo straniero di stirpe greca –, il massimo a cui poteva aspirare era il conferimento di alcuni diritti (di possedere delle proprietà, di contrarre matrimonio, di esercitare il commercio); tuttavia questo non accadeva molto spesso, perché la polis era piuttosto riluttante nel fare concessioni di questo tipo. In ogni caso, allo straniero potevano essere riconosciuti solo diritti civili; quelli politici erano invece appannaggio esclusivo dei cittadini ateniesi. Chi prendeva residenza stabile in un’altra città assumeva lo statuto di meteco (metoikos). Ad Atene il metoikos aveva l’obbligo di porsi sotto la protezione di un cittadino, che ne diventava il patrono (prostates); doveva pagare una tassa (di dodici dracme all’anno) denominata metoikion; veniva iscritto in speciali registri tenuti dai demi e prestava servizio militare. Per quanto fosse escluso dalla partecipazione politica, il meteco aveva accesso ad alcune forme di espressione religiosa e culturale; riguardo la capacità processuale, invece, aveva la possibilità di ottenere tutela rivolgendosi, direttamente o tramite il patrono, al magistrato competente in materia di rapporti con gli stranieri, l’arconte polemarco.53 Vediamo dunque che Atene si prodiga affinché lo straniero resti ben distinto dal cittadino, tuttavia la città non manca di fare anche concessioni al fine di migliorarne la condizione e di favorire, se non una vera e propria integrazione, quanto meno una sicura convivenza con i cittadini. In particolare, lo straniero offre alla polis che lo ospita prestazioni utili in ambito economico (attività che ai cittadini era vietato espletare, poiché essi dovevano dedicarsi a tempo pieno alle faccende politiche). Pertanto, nonostante la relazione con lo straniero sia sostanzialmente limitata ad un rapporto di tipo contrattuale, è innegabile che la città tragga dalla sua presenza stabile sul suo territorio un vantaggio, che viene riconosciuto e ricompensato – come si diceva – con la concessione di alcuni particolari diritti.

L’ospitalità nella tradizione giudaico-cristiana

Dopo aver a lungo parlato dell’ospitalità nella tradizione greco-latina, non si può evitare di fare dei riferimenti all’altra grande tradizione della cultura occidentale, cioè quella biblica, tanto più che è possibile ravvisare tra le due dei punti di contatto (nonostante sia evidente l’esistenza di significative differenze). Va innanzitutto rilevato che, data la centralità attribuita al racconto esodico,54 la vicenda del popolo di Israele è definibile anzitutto come una storia di migrazione, come ben argomentato da Guido Saraceni:

Infatti, la comunità ebraica non definisce la propria identità a partire dal rapporto che essa intrattiene con la terra, ritenendo al contrario prioritario il legame istituito con il cielo, tramite la sottoscrizione del Patto da cui origina l’Alleanza. A maggior riprova di ciò lo stesso termine «ebreo» – ivrì – nasce dalla radice avar che significa «passare». […] Non stupisce, dunque, che una delle peculiarità dell’insegnamento biblico consista nel comandamento di amare e rispettare l’altro nella veste meno rassicurante ed accettabile, ovvero di amarlo in quanto «altro essere umano» e non in quanto membro di uno specifico gruppo sociale; a prescindere dal fatto che si tratti di un «altro familiare» o di un «altro cittadino». […] Proprio in ragione del ruolo che l’Antico Testamento riserva all’alterità, la Parola di Dio ci impone di abbandonare il vocabolario dell’appartenenza, invitandoci anche e soprattutto ad avere cura di chi sta attraversando una condizione di precarietà e di debolezza, stabilendo che l’altro al quale dobbiamo rispondere – e del quale dobbiamo rispondere – è il soggetto debole per antonomasia e dunque il soggetto per antonomasia inappropriabile ed indesiderabile. Detto in altre parole, la Parola ci suggerisce di mettere la nostra affettività al servizio di qualcuno che non ha nulla da offrire, se non, paradossalmente, la propria povertà. Senza ombra di dubbio lo straniero appartiene al novero di quei personaggi bisognosi verso i quali siamo tenuti ad essere ospitali.55

Per comprendere meglio il senso della citazione appena riportata, è opportuno analizzare alcune scene presenti nella letteratura veterotestamentaria. Un racconto di grande ospitalità è narrato nel libro della Genesi, nell’episodio in cui Lot, nipote di Abramo, accoglie in casa sua due viandanti – ignaro del fatto che fossero angeli. Era seduto alla porta di Sodoma,

non appena li ebbe visti, Lot si alzò, andò loro incontro e si prostrò con la faccia a terra. E disse: «miei signori, venite in casa del vostro servo: vi passerete la notte, vi laverete i piedi e poi, domattina, per tempo, ve ne andrete per la vostra strada». Quelli risposero: «No, passeremo la notte sulla piazza». Ma egli insistette tanto che vennero da lui ed entrarono nella sua casa. Egli preparò per loro un banchetto e fece cuocere gli azzimi e così mangiarono.56

Poco dopo gli abitanti di Sodoma bussarono alla sua porta reclamando i due stranieri per poter abusare di loro. Lot in nessun modo cedette alle richieste dei sodomiti al fine di proteggere coloro i quali stava ospitando, così fece loro una proposta: «no fratelli miei, non fate del male! Sentite, io ho due figlie che non hanno ancora conosciuto uomo; lasciate che ve le porti fuori e fate loro quel che vi piace, purché non facciate nulla a questi uomini, perché sono entrati all’ombra del mio tetto».57 La risposta di Lot, che sembra preferire che quella violenza venga esercitata sulle figlie anziché sui suoi ospiti, appare quasi disumana, tuttavia la continuazione della vicenda sembra dargli ragione. Infatti, di lì a poco Sodoma e Gomorra verranno distrutte, e tali accadimenti sono da considerare una conseguenza della – si potrebbe dire, una punizione per la – violenza dei loro abitanti.58 Gli angeli, grati per l’ospitalità ricevuta, permisero a Lot di mettersi in salvo indicandogli la strada per arrivare a Zoar, una città sicura in quanto sarebbe stata risparmiata dall’imminente devastazione.59 È possibile notare tra questa vicenda e quella di Filemone e Bauci, sopra menzionata, delle analogie. Anche in questo caso degli esseri divini si aggirano per il mondo sotto spoglie di viandanti per verificare la disponibilità degli uomini ad essere ospitali, e pure qui il disprezzo delle leggi dell’ospitalità (violate dai sodomiti) destina alla catastrofe e comporta il castigo da parte di Dio (la distruzione di Sodoma e Gomorra), mentre la loro osservanza procura dei doni inaspettati (la salvezza per Lot e la sua famiglia).

Un episodio simile a quello appena descritto si trova nel libro dei Giudici. Un levita era in viaggio verso la sua dimora, che si trovava sulle montagne di Efraim, era partito dalla casa del suocero – da Betlemme di Giuda –, la strada era molta e all’imbrunire provò a cercare un ricovero dove trascorrere la notte. Nessuno però aveva voluto ospitarlo,

quand’ecco un vecchio che tornava la sera dal lavoro nei campi. […] Alzati gli occhi vide quel viandante sulla piazza della città. Il vecchio gli disse: «dove vai e da dove vieni?». Quegli rispose: «andiamo da Betlemme di Giuda fino all’estremità delle montagne di Efraim. Io sono di là ed ero andato a Betlemme di Giuda; ora mi reco alla casa del Signore, ma nessuno mi accoglie sotto il suo tetto. […]». Il vecchio gli disse: «la pace sia con te! Prendo a mio carico quanto ti occorre; non devi passare la notte sulla piazza». Così lo condusse in casa sua e diede foraggio agli asini; i viandanti si lavarono i piedi, poi mangiarono e bevvero.60

Quel momento di gioia fu però presto interrotto dagli uomini della città che circondarono l’abitazione, bussando alla porta e dicendo

al vecchio padrone di casa: «fa’ uscire quell’uomo che è entrato in casa tua, perché vogliamo abusare di lui». Il padrone di casa uscì e disse loro: «no fratelli miei, non fate una cattiva azione; dal momento che quest’uomo è venuto a casa mia, non dovete commettere questa infamia! Ecco mia figlia che è vergine, io ve la condurrò fuori, abusatene e fatele quello che vi pare; ma non commettete contro quell’uomo una simile infamia».61

Anche in questo caso il padrone di casa, pur di difendere i suoi ospiti, è disposto ad offrire la figlia.

Infine, ancora dalla Genesi, si può citare un’ultima vicenda che vede protagonista Abramo, l’ospitale per eccellenza:62 se a Sodoma si assiste alla notte «dell’ospitalità violata», alle querce di Mamre si profila invece il grande giorno «dell’ospitalità celebrata».63 In Genesi 18 leggiamo dell’incontro tra Abramo e tre stranieri:

Poi il Signore apparve a lui alle querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «mio Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ di acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Permettete che vada a prendere un boccone di pane e rinfrancatevi il cuore; dopo, potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «fa’ pure come hai detto». Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: «Presto, tre staia di fior di farina, impastala e fanne focacce». All’armento corse lui stesso, Abramo, prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. Prese latte acido e latte fresco e li porse a loro. Così, mentr’egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli mangiarono.64

Subito dopo gli stranieri annunciarono ad Abramo e Sara che avrebbero avuto un figlio. Sara era incredula perché, essendo avanti con l’età, aveva consapevolezza del fatto che la procreazione fosse per lei biologicamente impossibile: ma Sara riceverà il suo dono, di lì a poco avrà il suo bambino – come segno di riconoscimento per l’accoglienza offerta. Anche in questo episodio biblico è possibile rintracciare dei motivi narrativi già incontrati in precedenza, quello della theoxenia e quello dell’ospitalità ricompensata.

Ci si può chiedere a questo punto: Abramo è così prodigo nei confronti dei tre visitatori perché scorge in essi un’identità celeste? Avrebbe avuto quelle premure con chiunque, oppure le sue azioni sono dettate dal timore sacro provato nei confronti degli esseri divini che si era trovato di fronte? Sembra che l’ipotesi da privilegiare non sia la seconda: «è infatti ragionevole affermare che, nei tre ospiti, egli non veda altro che uomini. I tre viandanti non sono solo stranieri, ma rimangono senza nome […]. Soltanto il lettore sa la vera identità dei tre angeli».65 Il succitato versetto «Il Signore apparve a lui alle querce di Mamre», «non si pone sul piano della comunicazione tra il narratore e i suoi personaggi, […] [ma] si pone sul piano della comunicazione tra il narratore e il lettore»,66 pertanto, quando Abramo alza gli occhi vede soltanto «tre uomini [che] stavano in piedi presso di lui». L’ospitalità che Abramo dà loro è dunque un’ospitalità assoluta, scevra di qualsiasi timore reverenziale, per niente somigliante ad un patto d’ospitalità e priva di pretese di reciprocità. Non ha nulla a che vedere «con l’ospitalità di diritto o con l’ospitalità del symbolon destinata a farsi scambio in futuro. Essa comincia con un’accoglienza incondizionata, un atto […] offerto all’anonimo. Non ci sono secondi fini. L’unico fine è lasciar dimorare presso di sé chi viene […] Dargli luogo, lasciarlo venire».67

Per capire fino in fondo il valore di questa ospitalità, vale la pena analizzarne alcuni tratti caratteristici. Abramo, nell’ora più calda del giorno (l’ora, dunque, meno adatta alle visite, che esalta le ragioni e gli imprevisti dell’ospitalità),68 riposa all’ingresso della tenda: è da qui che si accorge della presenza dei tre stranieri, e qui li condurrà per dar loro ristoro. Ma sono le azioni a rendere grandioso l’atto di ospitalità di cui il patriarca si rende protagonista. «Alzare lo sguardo introduce un vedere cosciente, pronto al coinvolgimento personale. […] Abramo non leva gli occhi perché ha percepito segnali ottici o acustici»,69 alza lo sguardo nonostante non ci sia nulla che faccia presagire la presenza degli stranieri: la sua è una dichiarazione di disponibilità. Questo sguardo vede e interpreta la presenza degli stranieri e subito si fa invito. Di fronte al silenzio dei tre stranieri in piedi presso di lui, Abramo li anticipa e offre loro di sostare presso la propria tenda.

L’intero agire di Abramo è descritto da una pluralità di verbi costitutivi dell’accoglienza: il patriarca «vede, va incontro, si prostra e supplica».70 Il suo saluto è senza condizioni71 e assolutamente distante da richieste di reciprocità. Egli chiama lo straniero con un nome relazionale, «mio signore», e a sua volta sceglie per sé un nome relazionale, «tuo servo». La scelta si rivela ricca di umanità, Abramo stesso, proprio come chi arriva, si spossessa del nome. Egli riesce ad instaurare una relazione amichevole che preserva l’asimmetria e assegna un ruolo attivo ai nuovi venuti, che saranno liberi di scegliere se accogliere o respingere l’offerta. L’ospite rimane libero di rifiutare, è lui stesso la misura dell’accoglienza.72

Ma più ancora si legge la saggezza di Abramo nella cultura della soglia. «La soglia certo separa un aldiquà e un aldilà: ma separandoli li mette in contatto. La soglia non è un muro, un confine, una cortina; è piuttosto un luogo di trapasso, di contatto»,73 è segno di relazione e allo stesso tempo di rispetto delle differenze,74 ed è il luogo del vero incontro, il luogo della vigile attesa e il luogo dell’accoglienza sincera. Abramo, infatti, una volta offerto l’invito, non conduce i suoi ospiti direttamente all’interno della tenda, ma li porta al riparo dell’albero che sta sull’ingresso. La soglia diventa il terreno intermedio – una sorta di spazio vuoto – rispettoso delle diverse soggettività. Abramo indica «l’albero perché comprende che il luogo da destinare agli stranieri sarà un autentico spazio umano dove dimorare nella libertà, solo se sarà comunicante e al contempo distinto dalla sua tenda».75 Egli sceglie dunque un posto che permetta di conservare la distanza dai suoi ospiti e che tuttavia, proprio in questo crei una vera vicinanza, una distanza che faccia vicini entrambi.76 Abramo insegna a non spalancare con sconsideratezza la tenda e a non svelare lo spazio intimo della dimora, senza per questo dover rinunciare a un’ospitalità incondizionata. Questo modello suggerisce un duplice ordine di considerazioni: ci dice che da una parte, arroccarsi in difesa dei propri privilegi e chiudersi a protezione della propria casa, compromette la capacità di accoglienza; e, dall’altra, che questa capacità di accoglienza è ugualmente compromessa se si «rinuncia all’ambiente protetto, azzerando i tratti della propria fisionomia, cancellando qualsiasi soglia: non si avrebbe alcun volto da mostrare a colui che giunge né alcuna vera dimora da offrirgli».77 «Questo modello, inoltre, dimostra che la rinuncia a rivendicare un ruolo di centro unico per la tenda o per l’albero – nucleo simbolico dell’identità e spazio intimo dell’incontro – fa nascere un’incessante corrente di rispetto, di comprensione e di doni tra questi due luoghi». L’epilogo della vicenda vede infatti scaturire «da una parte […] pani, carne e vivande per il ristoro degli ospiti sotto l’albero, dall’altra la promessa di un figlio per Sara sotto la tenda: l’ospitalità celebrata si rivelerà portatrice di frutti insperati per entrambi i luoghi che, al contrario, da soli sarebbero risultati mancanti di qualcosa».78

Gli importanti episodi biblici che sono stati appena discussi depongono certo a favore della sostanziale ospitalità del popolo ebraico; tuttavia sono «le parole di Dio a chiarire definitivamente perché l’Antico Testamento dovrebbe essere considerato come una vera e propria apologia dell’ospitalità».79 Nel XXV capitolo del Levitico Dio accoglie il popolo di Israele a Canaan, ma avvisa i suoi componenti che potranno fermarsi in quel luogo solo se rinunceranno a dire «è nostro»; nello specifico ammonisce il suo Popolo affermando: «la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini».80 Viene dunque stabilito il «divieto» di cedere alla tentazione del possesso e del radicamento: è solo restando estranei alla terra che si può essere ospiti presso Dio. «Da questa premessa dipende la cogente obbligatorietà dell’accoglienza: Israele ha avuto in dono una terra che non le appartiene, di conseguenza, deve mostrarsi caritatevole nei confronti di ogni altro essere umano. L’accoglienza è un dono originario e, al tempo stesso, un dovere fondamentale».81 L’uomo non può e non deve concepire se stesso come padrone della terra su cui vive ma deve continuare a pensarsi come ospite.

Ecco, dunque, cosa differenzia la cultura greco-latina da quella ebraica: in quest’ultimo caso, allo straniero non è semplicemente riservato un generico trattamento di favore, perché lo stesso popolo eletto «è stato straniero». Per quanto anche le divinità greche raccomandassero il rispetto e l’accoglienza del viandante, il Dio di Israele si distingue nettamente da esse, in quanto istituisce «una “nuova patria” in cui le relazioni interpersonali non vengono definite sulla base di un principio di appartenenza etnico o territoriale, ma dipendono esattamente dal principio di compassione».82

Ad ogni modo, nonostante quanto appena affermato, non dobbiamo dimenticare che anche nel vocabolario semita esistono parole diverse per identificare gli stranieri:

il termine «zar» – lo straniero che abita fuori dai confini di Israele del quale bisogna avere timore –; il lemma «nokri» – lo straniero di passaggio al quale bisogna garantire ospitalità – e la parola «gher» (o «toshaw») – lo straniero residente che gode di protezione giuridica. La simmetria fonetica e grafica che accomuna il lemma zar alla parola sar – che sta ad indicare il nemico –, risulta parecchio significativa. Così come risulta significativo che il termine gher – spesso accostato alla vedova ed all’orfano in quanto personaggio meritevole di tutela e di protezione – non debba essere propriamente tradotto con il termine italiano «straniero», risultando più opportuno il lemma «immigrato».83

La valutazione di tali aspetti è rilevante, soprattutto se consideriamo alcune regole sapienziali che sembrano contraddire l’idea di una piena e incondizionata accettazione degli stranieri da parte di Israele. Ad esempio, nel Deuteronomio è detto che nell’anno sabbatico bisogna rimettere i debiti ad un israelita ma non necessariamente anche ad un nokri84 e che re di Israele potrà essere un israelita ma non un nokri;85 una vedova priva di figli maschi potrà andare in moglie ad un cognato ma non ad uno zar;86 oppure, in un passo dell’Esodo è affermato che le funzioni sacerdotali non possono essere esercitate da uno zar..87

Israele quindi è tollerante ed accogliente, ma questo non vuol dire che non operi discriminazioni […] nei confronti degli stranieri. Ci troviamo ben oltre le regole dell’accoglienza stabilite da altre popolazioni, perché il vero criterio discriminante non è qui l’appartenenza etnico-politica che lega un soggetto ad una specifica regione dello spazio, ma una fede nella sua più intima essenza completamente sradicata dal territorio; tuttavia manca ancora qualcosa perché la ingiunzione divina di amare incondizionatamente l’altro venga completamente rispettata. Per questo motivo, alcuni sostengono che il seme dell’ospitalità, già saldamente radicato all’interno della religione ebraica, germoglierà compiutamente solo con l’avvento del cristianesimo.88

Invero, se nel Levitico è riportato il comandamento «amerai il tuo prossimo come te stesso»,89 è solo nel Vangelo che ogni riferimento alla prossimità scompare:90 un citatissimo versetto dell’evangelista Matteo recita infatti «Se voi amate soltanto quelli che vi amano, che merito avete?»91

Filosofie dell’ospitalità

Come dichiarato nella parte introduttiva di questo scritto, a caratterizzare il presente studio sarà il tentativo di rintracciare delle possibili convergenze tra le due tradizioni antiche dell’ospitalità di cui finora si è discusso e alcune filosofie dell’ospitalità. Abbiamo così a lungo disquisito della tradizione greco-latina e di quella giudaico-cristiana per arrivare a stabilire che la prima possa essere reputata un modello di ospitalità giuridica (o di diritto) – pertanto soggetta a condizioni –; viceversa, assumiamo che il paradigma rintracciabile nella seconda possa essere definito una cultura dell’ospitalità assoluta – o ospitalità etica.

Argomenteremo di seguito che le teorie filosofiche meglio legantesi a tali tradizioni sono rispettivamente quella kantiana e quella derridiana. In prospettiva kantiana, infatti, è la legge ad essere determinante: il filosofo tedesco, ponendosi dal lato di chi chiede di essere ospitato, stabilisce le condizioni secondo le quali questi ha il diritto di vedere accolta la sua richiesta. Al contrario, secondo l’impostazione etica di Derrida, che assume il punto di vista di colui al quale la domanda di accoglienza viene rivolta, ad essere prescritto è il dovere incondizionato di rispondere affermativamente: per articolare meglio quanto appena affermato, partiremo proprio da quest’ultima visione.

L’ospitalità assoluta. Jacques Derrida

Per quanto concerne l’ospitalità così come è intesa nella tradizione giudaica, la filosofia che più di ogni altra sembra esserle confacente è quella di Jacques Derrida, che non a caso è un pensatore ebreo e che, tra l’altro, è da questo punto di vista profondamente influenzato dalla riflessione di un altro grande filosofo ebreo, Emmanuel Lévinas.92

Secondo Derrida è possibile parlare di questione dello straniero e identificarla con la questione della domanda.93 Lo straniero pone una domanda di accoglienza, ma chi lo accoglie cosa deve fare? Deve porre a sua volta una domanda? La domanda che normalmente viene fatta in risposta a quella dello straniero concerne il suo nome, ma chiedere il nome significa porre delle condizioni all’accoglienza. Derrida si chiede allora se l’ospitalità consista nell’interrogare il nuovo arrivato, oppure se inizi con un benvenuto incondizionato, con una doppia eliminazione, l’eliminazione della domanda e del nome.94

Chiedere il nome significa voler identificare, e identificare è un atto necessario affinché quello che ci si trova davanti possa essere considerato un soggetto, o meglio un soggetto di diritto, cioè qualcuno che ha diritto ad essere ospitato per legge. La legge rappresenta l’imposizione di condizioni, e dunque una limitazione, tuttavia l’ospitalità è una pratica che per essere ri-conosciuta come tale non può fare a meno della forza della legge.95

Il problema dell’incompatibilità – o della contraddizione – tra etica e diritto non è certo nuovo, se ne trova traccia sin dall’antichità. La vicenda più nota in questo senso è quella dell’Antigone di Sofocle,96 che esemplifica perfettamente il contrasto esistente tra legge morale e legge giuridica. Tale contrasto può essere ricondotto – per quanto riguarda il caso che nello specifico ci interessa – al conflitto esistente tra ospitalità assoluta e incondizionata – quella dell’etica –97 e ospitalità condizionata – quella del diritto, o del patto. Il diritto da una parte è la condizione che rende possibile in concreto l’offerta dell’ospitalità, che è in questo modo sancita e regolata. Ma questo stato di cose, allo stesso tempo, mette fine all’ospitalità assoluta. Questa affermazione tiene conto di quella che Derrida definisce la pervertibilità del-la legge dell’ospitalità che sembra sancire che l’ospitalità assoluta debba infrangere la legge dell’ospitalità come diritto o dovere, debba rompere il patto dell’ospitalità.

L’ospitalità assoluta richiede che io apra la mia casa e che dia non solo allo straniero (provvisto di un cognome, dello status sociale di straniero ecc.), ma anche all’assoluto, sconosciuto, anonimo altro, richiede che io gli dia un posto, che lo lasci venire, lo lasci arrivare e accomodarsi nel posto che sto offrendo senza chiedere alcuna reciprocità (senza, cioè, stringere un patto), nemmeno il suo nome. La legge dell’ospitalità assoluta impone una rottura con l’ospitalità per diritto, con la legge, la giustizia e i diritti. L’ospitalità rompe con l’ospitalità per diritto; non la condanna né vi si oppone e, al contrario può fissarla e sostenerla in un movimento perpetuo e progressivo; ma è, nei suoi riguardi, così stranamente eterogenea, come la giustizia è eterogenea alla legge alla quale è così vicina, da cui è invero indissociabile.98

La perversione – o pervertibilità – della legge dipende dal potere. Nel momento in cui quella dell’ospitalità diventa una questione politica e giuridica, colui che accoglie è da una parte autorizzato a farlo e dall’altra costretto a filtrare, a eleggere i suoi ospiti, cioè coloro ai quali decide di concedere asilo; ma scegliendo esclude ed esercita un atto di violenza. Questo è l’effetto paradossale dell’intervento della macchina dello Stato, essa rende possibile e attuabile il diritto all’ospitalità ma, così facendo, contemporaneamente rimuove il limite tra privato e pubblico non consentendo l’offerta incondizionata. Tuttavia è un fatto che la legge positiva resti assolutamente necessaria, senza di essa l’ospitalità non assumerebbe uno status, non sarebbe ri-conosciuta come tale: l’aporia è insolubile.99

È come se l’ospitalità fosse l’impossibile: come se la legge dell’ospitalità definisse questa autentica impossibilità, come se fosse possibile solo trasgredirla, come se la legge dell’ospitalità assoluta, incondizionata, iperbolica, come se l’imperativo categorico dell’ospitalità ci ordinasse di trasgredire a tutte le leggi (al plurale) dell’ospitalità, vale a dire alle condizioni, alle norme, ai diritti e ai doveri che sono imposti agli ospiti e alle ospiti, agli uomini e alle donne che danno il benvenuto, così come agli uomini e alle donne che lo ricevono. E viceversa, è come se le leggi (al plurale) dell’ospitalità, definendo i limiti, i poteri, i diritti e i doveri, consistano in una sfida, nella trasgressione della legge dell’ospitalità, la sola che imporrebbe di offrire un benvenuto incondizionato al nuovo arrivato.100

Diciamo sì al nuovo arrivato prima di ogni determinazione, prima di ogni identificazione, «che si tratti o meno di uno straniero, un immigrato, un ospite invitato o un visitatore inatteso, che […] sia o meno cittadino di un altro Paese, un essere umano, un animale o una creatura divina, una cosa viva o morta, maschio o femmina».101 In altre parole, ci sarebbe un’aporia irrisolvibile, un’antinomia non-dialettizzabile102 tra la legge dell’ospitalità illimitata (dare al nuovo arrivato tutto della propria casa e di sé, dargli ciò che si possiede, il proprio, senza chiedergli un nome, o un rimborso, o il rispetto della più banale delle condizioni) e le leggi (al plurale),103 quei diritti e doveri che sono sempre condizionati e condizionali, come sancito dalla tradizione greco-romana, da tutta la legge e tutta la filosofia del diritto. L’aporia, l’antinomia, risiede qui. Si tratta della legge (nomos). Non si tratta di un conflitto che oppone una legge a un fatto empirico, bensì dell’opposizione tra due regimi di legge, entrambi non empirici. L’antinomia dell’ospitalità contrappone irreconciliabilmente la legge, nella sua singolarità universale, a una pluralità, che non è solo una dispersione (leggi al plurale), ma anche una molteplicità strutturata, determinata da un processo di divisione e differenziazione. La tragedia è che i due termini antagonisti di questa antinomia non sono simmetrici. «C’è una inusuale gerarchia. La legge è sopra le leggi. Perciò è illegale, trasgressiva, fuorilegge, paragonabile a una legge illecita, nomos anomos,104 legge sopra le leggi e legge fuori dalla legge».105 Il paradosso sta precisamente nel fatto che, pur essendo al di sopra delle leggi dell’ospitalità, la legge le esige.

Questa richiesta è costitutiva. Non sarebbe concretamente incondizionata, la legge, se non dovesse diventare effettiva, concreta, determinata, se il suo essere non fosse un dover-essere. Rischierebbe di essere astratta, utopistica, illusoria, trasformandosi nel suo opposto. Per essere ciò che è, la legge esige le leggi, che comunque la negano, o quanto meno la minacciano, a volte corrompendola o pervertendola. E devono sempre essere in grado di farlo. Perché questa «pervertibilità» è essenziale, irriducibile, persino necessaria. La perfettibilità delle leggi ha questo prezzo. […] Viceversa, le leggi condizionate cesserebbero di essere leggi dell’ospitalità se non fossero, guidate, ispirate, motivate, richieste dalla legge dell’ospitalità incondizionata. Questi due regimi di legge, la legge e le leggi, sono sia contraddittori e antinomici, sia inseparabili.106

L’ospitalità condizionata. Immanuel Kant

Questa aporia riguardo il rapporto tra diritto all’ospitalità ed etica dell’ospitalità – limitata e contraddittoria a priori –, può essere esemplificata prendendo come riferimento due testi di Immanuel Kant. Nel 1795 il filosofo tedesco pubblica Per la pace perpetua, saggio in cui vengono formulate le condizioni per un pianeta pacificato. Si tratta di un contributo che ha la forma di testo normativo, la cui struttura si compone di tre articoli definitivi, una serie di articoli preliminari, due supplementi e un’appendice in due parti su morale e politica. I tre articoli definitivi sono i pilastri dell’edificio. Il primo articolo individua nello Stato repubblicano il fondamento della pace;107 il secondo prevede che gli stati repubblicani si leghino in una confederazione,108 e il terzo prescrive che il rapporto tra gli Stati e gli stranieri si ispiri alla logica dell’ospitalità universale.109 È proprio su questo terzo articolo che si soffermerà la nostra analisi – i passi che meritano un commento sono svariati.

Partiamo innanzitutto dal titolo dell’articolo, che recita: «Il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni di una ospitalità universale». Si potrebbe notare che già il fatto di parlare di diritto cosmopolitico – e dunque positivo – da una parte, e di ospitalità universale dall’altra, esponga a cadere nell’inevitabile paradosso della pervertibilità – di cui si è parlato sopra. Kant esordisce dicendo: «Qui, come negli articoli precedenti, non si tratta di filantropia ma di diritto, e quindi ospitalità significa il diritto di uno straniero, che arriva sul territorio altrui, di non essere trattato ostilmente», e poi prosegue: «Egli può essere allontanato, se ciò può essere fatto senza suo danno; ma sino a quando se ne sta pacificamente al suo posto, non va trattato da nemico».110 Già in queste poche battute emergono elementi interessanti che vanno sottolineati: il filosofo tedesco ci tiene a mettere in chiaro sin dall’inizio che sta parlando di diritto (quindi – si potrebbe aggiungere in un linguaggio derridiano – si tratta delle leggi dell’ospitalità al plurale), tant’è vero che subito dopo vengono precisate delle condizioni – di accoglienza – («Egli può essere allontanato, se ciò può essere fatto senza suo danno; ma sino a quando se ne sta pacificamente al suo posto, non va trattato da nemico»). E poco oltre si legge:

Non si tratta di un diritto di ospitalità cui egli possa fare appello […], ma di un diritto di visita, che spetta a tutti gli uomini: di unirsi cioè a una società, in virtù del diritto di comune possesso della superficie della terra, sulla quale essendo sferica, gli uomini non possono disperdersi all’infinito, ma alla fine debbono rassegnarsi a coesistere. Originariamente nessuno ha maggior diritto di un altro su una parte della terra. […] Questo diritto di ospitalità, cioè questa facoltà degli stranieri di stabilirsi momentaneamente sul territorio altrui, non mira a nulla più che ad assicurare le condizioni necessarie per tentare un commercio con gli antichi abitanti. In questo modo lontane parti del mondo possono entrare in rapporti pacifici tra loro, rapporti che col tempo divengono legali e avvicinano sempre più il genere umano a una costituzione cosmopolitica.111

Il fatto di parlare di ospitalità universale e di riferirsi allo stesso tempo ad un diritto che la regoli, ad un commercio, ci mette immediatamente di fronte a quel paradosso inevitabile individuato da Derrida. Naturalmente non è possibile pensare che un filosofo come Kant si sia contraddetto in maniera tanto ingenua: la contraddizione risiede nel cuore stesso della dialettica tra la legge dell’ospitalità universale e le leggi dell’ospitalità (al plurale).112

Tale antinomia si coglie in modo ancora più evidente se si prende in esame un altro testo kantiano del 1797 – quindi appena successivo a Per la pace perpetua –, intitolato Su un presunto diritto di mentire per amore dell’umanità. Si tratta di un breve saggio scritto da Kant in risposta a Benjamin Constant che lo aveva tirato in causa in un suo scritto edito il 30 marzo dello stesso anno sotto il titolo Delle relazioni politiche. Nell’ottavo capitolo di questo libro – Sui principi – Constant disquisisce della possibile legittimità, in precisi contesti, della menzogna. Lo scopo di tale intervento era mostrare le necessità che i princìpi universali, per essere accettati anche sul piano concreto, siano a loro volta fondarsi su princìpi definiti intermedi, tali cioè da permetterne la concatenazione con la realtà effettiva. Mentre porta avanti la sua discussione, Constant accenna, criticandolo, ad un «filosofo tedesco» che è arrivato «a pretendere che persino di fronte a degli assassini che vi chiedessero se il vostro amico, che loro stanno inseguendo, non si sia rifugiato in casa vostra, la menzogna sarebbe un crimine».113 Pur non nominandolo esplicitamente e pur non specificando in quale occasione il filosofo avesse sostenuto tale tesi, era chiaro che il riferimento fosse a Kant, che infatti non ebbe problemi a riconoscere la paternità di tale argomento e replicò scrivendo il già nominato Su un presunto diritto di mentire per il bene dell’umanità, dove si legge:

La veridicità nelle dichiarazioni che non ci è possibile eludere è un dovere formale dell’uomo verso ogni altro uomo, anche nel caso in cui ne possa derivare un grave danno a se stessi e ad altri. E se anche, con una falsa dichiarazione, non facessi alcun torto a colui che me la estorce ingiustamente, attraverso tale falsificazione, che perciò può essere definita anche menzogna (sebbene non in senso giuridico), farei tuttavia un torto al dovere stesso in generale, nella sua parte essenziale. […] Un’ingiustizia, questa, commessa nei confronti dell’umanità in generale. Alla definizione di menzogna, intesa semplicemente come dichiarazione non vera resa intenzionalmente ad altri, non occorre quindi aggiungere che essa debba recar danno ad altri, come pretendono i giuristi […]. Essa, infatti, vanificando la fonte stessa del diritto, nuoce sempre a qualcuno e, anche nel caso in cui non danneggi un altro uomo, nuoce sempre e comunque all’umanità in generale.114

Dunque per Kant l’imperativo di verità sarebbe assolutamente incondizionato. Ognuno dovrebbe sempre dire il vero, quali che fossero le conseguenze. Perché se a qualcuno fosse concesso il diritto di mentire, anche per la migliore delle ragioni, egli minaccerebbe lo stesso legame sociale, la possibilità di un contratto sociale o di una socialità in generale. Questa natura incondizionata è imposta da una prescrizione normativa. Per questo alla domanda di Constant, che si chiede se sia giusto, pur di osservare il dovere di veridicità, consegnare un amico a degli assassini che lo stanno cercando, la risposta di Kant è «sì».

Volendo commentare quanto appena affermato alla luce della discussione portata avanti nel paragrafo precedente, si potrebbe dire che il fondamento kantiano della moralità soggettiva su una legge universale dà luogo alla rimozione del confine tra privato e pubblico, e altresì alla distruzione del diritto di resistere alla richiesta della verità – richiesta che rappresenta l’essenza della legge, ma anche dello Stato stesso. In altre parole, rifiutando il fondamento di qualsiasi diritto a mentire, anche per ragioni benevole, Kant delegittima, o rende comunque secondario e subordinato, qualsiasi diritto all’ospitalità assoluta.115 Dovrei dire la verità agli assassini che mi chiedono se l’uomo che intendono uccidere è nella mia casa rischiando di consegnare il mio ospite alla morte perché, in una prospettiva come quella kantiana, è meglio infrangere il diritto di ospitalità piuttosto che il dovere assoluto della veridicità. Kant si sarebbe comportato esattamente nella maniera opposta rispetto a Lot e al vecchio del libro dei Giudici, i quali, pur di proteggere i propri ospiti, erano stati disposti ad offrire agli stupratori che avevano bussato alla loro porta le figlie vergini.

Si può dunque rendere conto della distanza riscontrabile tra le filosofie dell’ospitalità di Kant e di Derrida in riferimento al fatto che esse si rifanno a due diversi paradigmi – di cui si è diffusamente disquisito nel presente scritto –: quello del diritto, del patto e della reciprocità da una parte, e quello dell’etica, dell’assenza di condizioni e dell’asimmetria dall’altra.

Conclusione

Il tema dell’ospitalità, oggetto d’indagine nel presente saggio, è stato analizzato secondo prospettive differenti: operare delle scelte è stato inevitabile, poiché l’ampiezza dell’argomento sancisce l’impossibilità di realizzarne un’indagine esaustiva. Si è così deciso, attraverso un esame filologico, di ricostruire il significato originariamente attribuito al concetto di ospitalità, tentando, parallelamente, di spiegare in cosa consistesse tale prassi dal punto di vista istituzionale. È stato così possibile constatare l’ambivalenza semantica dell’etimo impiegato per designare l’ospite: egli infatti, nel mondo latino e parimenti in quello greco, essendo uno straniero, era sia guardato con sospetto sia beneficiario di sistemi di tutela. Per converso, la veste istituzionale assunta dalla suddetta pratica faceva sì che l’ospitalità fosse concepita in senso reciproco e vincolante, per cui, chi ne aveva goduto, era perciostesso obbligato a contraccambiare non appena ne avesse avuto occasione: questi rilievi, come si è visto, incontrano altresì il sostegno della letteratura dell’epoca – dei poemi omerici in primis.

A questo primo modello, che definisce l’ospitalità in senso giuridico e la lega all’idea di patto, ne è stato «contrapposto»116 un secondo, rintracciabile nell’altra grande tradizione della cultura occidentale, quella giudaico-cristiana. L’analisi di alcuni noti racconti veterotestamentari ha mostrato l’eccezionale ospitalità del popolo di Israele che, in ragione della peculiarità della sua vicenda storica, vale a dire, per la sua condizione di popolo ospitato, non ha mai concepito se stesso sulla base del radicamento tellurico e ha invece eletto l’erranza a cifra della propria esistenza. Pertanto, avendola ricevuta anzitutto come dono originario, il popolo eletto ha da sempre considerato l’ospitalità un dovere fondamentale, e l’ha perciò declinata nel senso dell’asimmetria e dell’assenza di condizioni, svincolandola così da qualsiasi relazione di compenso e concependola in senso esclusivamente etico, come atto offerto all’anonimo con l’unico fine di lasciar dimorare presso di sé chi viene. Abbiamo poi (solo) brevemente accennato (per una questione di economia del testo) al fatto che, per quanto fosse già saldamente radicato all’interno della religione ebraica, il seme dell’ospitalità è germogliato compiutamente in seguito, con l’avvento del cristianesimo.

Ma, come sopra dichiarato, lo scopo del presente saggio era soprattutto quello di rinvenire un legame tra modelli storico-letterari e teorie filosofiche dell’ospitalità. Ci siamo così dedicati alla discussione delle visioni di Immanuel Kant e di Jacques Derrida, istituendo un parallelismo rispettivamente con il paradigma giuridico del mondo greco-latino e la cultura etica dell’universo giudaico-cristiano.117 Ciò detto, queste due macro-prospettive vanno intese in senso oppositivo? Vale a dire, siamo necessariamente costretti a scegliere, a schierarci dalla parte di Kant o da quella di Derrida – soprattutto quando chiamati ad esprimerci sulle circostanze dell’oggi? Nelle righe che seguono tenteremo di fornire una risposta a questi interrogativi.

Lo stato di cose attuale rende urgente un ripensamento radicale del concetto di ospitalità (non è certo un caso che il tema sia attualmente tanto dibattuto, sia dentro che fuori dalle aule accademiche): il panorama socio-politico odierno sembra infatti essere caratterizzato da fenomeni considerabili ormai strutturali, come le crisi migratorie, la diffusione di populismi basati su logiche dell’esclusione dell’altro e la costruzione di muri che separano i popoli. Quale paradigma dell’ospitalità, allora, potrebbe oggi rivelarsi adeguato? In letteratura viene spesso evidenziata la necessità di ripensare l’ospitalità sul terreno proprio dell’etica, evitando di ridurre il dibattito sull’accoglienza ai suoi soli aspetti politici e giuridici, in quanto l’ospitalità predisposta entro le misure del diritto diventa paradossalmente uno strumento per limitare la responsabilità di accogliere colui che viene: è per questo che la prospettiva di Jacques Derrida riscuote tanto consenso ed è spesso preferita a quella di Immanuel Kant.

Kant, infatti, nell’elaborare le condizioni per una pace perpetua, finisce col sottrarre validità all’ospitalità sul piano dell’etica,118 in quanto, come egli stesso dice, non si tratta di filantropia ma di diritto: l’ospitalità nella sua prospettiva ha dunque una formulazione prettamente giuridica (non è infatti casuale l’impiego, da parte del filosofo tedesco, del termine commercio). L’ordine di tale commercio è soggetto a particolari limitazioni, le stesse che definiscono le frontiere e le nazioni, lo Stato e lo spazio pubblico: per questo si dà la distinzione tra diritto di visita, imprescindibile e inalienabile, e diritto di residenza, limitato invece alla disposizione di Trattati particolari tra Stati. L’ospitalità è allora definita in termini negativi, come dovere di astenersi dalla pratica di comportamenti ostili verso lo straniero che entra nel proprio territorio. Come già più volte sottolineato, il discorso kantiano non lega l’ospitalità a un principio universale, ma a condizioni politiche particolari, essa non trova un fondamento etico ma giuridico-politico: Kant ha di fatto «riformulato, attraverso categorie giusnaturalistiche, il tema dell’ospitalità a partire dalla tradizione cosmopolita greca [e] latina».119

L’edificazione di un’etica dell’ospitalità sembrerebbe allora dover passare necessariamente attraverso una riproposizione del paradigma derridiano, per cui «lo straniero è un concetto assoluto che si definisce soltanto al di fuori di ogni contesto». Tuttavia, «Considerata in modo concreto e pragmatico tale posizione è esigente»,120 in quanto, chiunque non aprisse la porta della propria casa a tutti coloro che ivi si presentano, sarebbe in disaccordo con l’etica dell’ospitalità. Il problema della teorizzazione derridiana è pertanto rintracciabile nella costruzione di un imperativo etico totalmente staccato dalle contingenze, e altresì nella moralizzazione di una questione essenzialmente sociale, giuridica e politica.

Entrambe le prospettive, allora, presentano punti di forza e altresì debolezze. La formulazione giuridico-kantiana è per certi versi molto realistica:121 infatti, l’auspicio del filosofo tedesco riguardo la possibilità di spostarsi e condividere uno stesso mondo appare essersi effettivamente realizzato, così come la libertà di circolazione è generalmente riconosciuta come condizione prima della cittadinanza del mondo. È però innegabile che il paradigma kantiano necessiti di un aggiornamento, in quanto, risalendo a oltre due secoli addietro, presenta il limite di essere inscritto in una prospettiva stato-nazionale – oggi chiaramente in via di superamento. Tuttavia, dovendo cercare una via effettivamente politicamente percorribile nel presente momento storico, questa opzione sembra quella verso cui è più sensato propendere. L’opzione giudaico-derridiana, per converso, resta eticamente preferibile. Cionondimeno, essa può trovare applicazione esclusivamente nell’ambito della scelta individuale quale ideale a guida dell’azione, fermo restando che, data la varietà delle contingenze, una sua totale osservanza sarà molto difficile in concreto.

Trattandosi di due domini diversi, non è dunque necessario fare una scelta: una risposta di tipo istituzionale passerà inevitabilmente per il recupero della via giuridico-kantiana; viceversa, l’opzione giudaico-derridiana dovrebbe essere il principio ispiratore della condotta dei singoli individui quotidianamente chiamati ad accogliere l’altro. Ponendo la questione in questi termini è possibile rendere conto anche della contraddizione individuata dal filosofo francese tra la legge universale dell’ospitalità e le leggi dell’ospitalità (al plurale), che può essere ulteriormente dipanata rilevando l’inesistenza di una totale sovrapponibilità semantica tra i termini accoglienza e ospitalità: mentre la prima è sempre e comunque limitata da condizioni storiche, giuridiche e politiche determinate, la seconda è sempre incondizionata.122


  1. Cfr. E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino 1976, I vol., pp. 64-68 (ed. or. Le vocabulaire des institutions indo-européennes, Les Editions de Minuit, Paris 1969). ↩︎

  2. Ivi, p. 68. ↩︎

  3. Le Leggi delle XII tavole sono un corpo di leggi compilato nel 450-451 dai decemviri legibus scribundis, contenenti regole di diritto privato e pubblico che rappresentano una delle prime codificazioni scritte del diritto romano. Non se ne conosce il testo completo. Per una lettura del testo citato si rimanda a M.F. Cursi (a cura di), XII tabulae: testo e commento, ESI, Napoli 2018. ↩︎

  4. Cfr. E. Benveniste, op. cit., p. 68. ↩︎

  5. S.P. Festo, De verborum significatu. L’opera, andata in gran parte perduta, ci è in giunta in forma estremamente frammentaria grazie a Paolo Diacono. Per una lettura del frammento citato si rinvia a P. Diaconus, Excerpta ex libris Pompei Festi de verborum significatu, ALIM, 1913 http://www.alim.dfll.univr.it/alim%5Cletteratura.nsf/(volumiID)/AD64C37238193877C1257EEC005BBD77!opendocument&vs=Titolo↩︎

  6. T.M. Plauto, Asinaria, pref. di C. Questa, intr. di G. Paduano, trad. di M. Scàndola, Rizzoli, Milano 2004^4^, p. 132, v. 377. ↩︎

  7. M.T. Varrone, De re rustica, in Id., Opere, a cura di A. Traglia, UTET, Torino 1974, p. 652 (I 24.3). ↩︎

  8. E. Benveniste, op. cit., p. 68. ↩︎

  9. Ivi, p. 69. ↩︎

  10. Ibidem↩︎

  11. Cfr. M. Mauss, «Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés archaïquès», pp. 30-186, in L’Année Sociologique, 1923, I vol. JSTOR https://www.jstor.org/stable/27883721↩︎

  12. E. Benveniste, op. cit., p. 69. ↩︎

  13. Cfr. C. Bearzot, Manuale di storia greca, Il Mulino, Bologna 2011, p. 36. ↩︎

  14. Ibidem↩︎

  15. Erodoto, Storie, in Storici Greci, a cura di L. Rossetti, U. Bultrighini, M. Mari, A.L. Santarelli, intr. di L. Rossetti, trad. di Id, Newton Compton, Roma 2007, p. 205 (libro III, § 39). ↩︎

  16. Cfr. Senofonte, Anabasi, in Storici greci, cit., intr. di D. Musti, trad. di U. Bultrighini, M. Mari, A.L. Santarelli, p. 1442 (libro VII, § 3, X 10). ↩︎

  17. «Prendere piuttosto che dare – al contrario che nel regno di Persia – era qui la regola istituita dai maggiorenti; e portava più pregiudizio alla onorabilità di un suddito opporre un rifiuto che non a un nobile ricevere una ripulsa». Tucidide, La guerra del Peloponneso, in Storici greci, cit., intr. di L. Canfora, trad. di P. Sgroj, p. 725 (libro II, § 97). ↩︎

  18. E. Benveniste, op. cit., p. 70. ↩︎

  19. Cfr. Ibidem↩︎

  20. Cfr. Ivi, p. 65. ↩︎

  21. Ivi, p. 71. ↩︎

  22. Cfr. Ibidem↩︎

  23. Ivi, pp. 276-277. ↩︎

  24. Ivi, p. 258. ↩︎

  25. Cfr. Ivi, p. 256. ↩︎

  26. Ivi, p. 259. ↩︎

  27. Ivi, p. 262. ↩︎

  28. Cfr. Ibidem↩︎

  29. Omero, Iliade, a cura G. Mario, intr. di A. Aloni, trad. di V. Monti, Newton Compton, Roma 2016^3^, p. 107 (canto III, v. 207). ↩︎

  30. Omero, Odissea, a cura G. Mario, intr. di A. Aloni, trad. di I. Pindemonte, Newton Compton, Roma 2016^3^, p. 831 (canto VIII, v. 208). ↩︎

  31. Ivi, p. 779 (canto V, vv. 135-136). ↩︎

  32. Cfr. Ibidem (canto VI, v. 121). ↩︎

  33. Omero, Iliade, cit., p. 215 (canto VII, vv. 209-302). ↩︎

  34. Cfr. Ibidem (vv. 303-305). ↩︎

  35. E. Benveniste, op. cit., p. 264. ↩︎

  36. «Quando s’incontrano nelle strade c’è un segno da cui si riconosce se quelli che s’imbattono sono della stessa condizione sociale: invece di salutarsi si baciano sulla bocca. Se invece uno dei due è di poco inferiore si baciano sulle guance. E se uno è di nascita molto più bassa s’inginocchia e adora l’altro». Erodoto, op. cit., p. 72 (libro I, § 134). ↩︎

  37. «Si narra che al momento della partenza e dei saluti, i parenti di Ciro, nel congedarsi da lui, lo baciavano (philoûntas) sulla bocca, attenendosi a un costume persiano ancora oggi in vigore in Persia». Senofonte, Ciropedia, in Storici greci, cit., intr. di D. Musti, trad. di U. Bultrighini, M. Mari, A.L. Santarelli, p. 1495 (libro I, § 4.27). ↩︎

  38. Cfr. E. Benveniste, op. cit., p. 264. ↩︎

  39. Cfr. Ivi,p. 267. ↩︎

  40. Per approfondimenti sul tema della theoxenia si rimanda a E. Kearns, Theoxenia, voce dell’Oxford Classical Dictionary, 2016, https://oxfordre.com/classics/view/10.1093/acrefore/9780199381135.001.0001/acrefore-9780199381135-e-6380↩︎

  41. Gli dèi spesso «somigliando a stranieri d’altre contrade, / s’aggirano per le città assumendo gli aspetti più vari, / per vedere l’arroganza o la moderazione degli uomini». Omero, Odissea, cit., p. 1039 (canto XVII, vv. 485-487). ↩︎

  42. «Antinoo, non hai ben agito colpendo un ramingo infelice; / povero te, se mai fosse egli proprio un nume del cielo!». Ibidem (vv. 483-484). ↩︎

  43. Ivi, p. 865 (canto XVII, vv. 477-479). ↩︎

  44. Platone, Sofista, in Platone. Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, trad. di C. Mazzarelli, Bompiani, Milano 2000, p. 264 (216 A-B). ↩︎

  45. P.N. Ovidio, Metamorfosi, libro VIII, in Storia e testi della letteratura latina, a cura di A. Perutelli, G. Paduano, E. Rossi, trad. di G. Paduano. Zanichelli, Bologna 2010, II vol., pp. 76-79. ↩︎

  46. Per approfondimenti sulla tradizione dell’exemplum nella letteratura latina si rinvia a C. Delcorno, «Nuovi studi sull’exemplum», in Lettere Italiane, 1984, XXXVI vol., n. 1, pp. 49-68. JSTOR, https://www.jstor.org/stable/26263365↩︎

  47. Cfr. P.N. Ovidio, op. cit., vv. 707-708. ↩︎

  48. Per approfondimenti si rinvia a C. Bearzot, op. cit., pp. 126-127. ↩︎

  49. Cfr. Ivi, p. 127. ↩︎

  50. Sofocle, Edipo a Colono, a cura di F. Ferrari, trad. di Id. Rizzoli, Milano 2018, p. 277 (vv. 260-266). ↩︎

  51. Cfr. C. Bearzot, op. cit., p. 127. ↩︎

  52. Tucidide, op. cit., p. 694 (libro II, § 39). ↩︎

  53. Cfr. C. Bearzot, op. cit., p. 127. ↩︎

  54. Cfr. C. Di Sante, Lo straniero nella Bibbia. Saggio sull’ospitalità, Città Aperta, Troina (En), 2006^2^, pp. 24 e sgg. ↩︎

  55. G. Saraceni, Ospitalità. Un valore giuridico fondamentale, Cedam, Padova 2012, pp. 17-18. ↩︎

  56. D. Manetti, S. Zuffi (a cura di), Genesi, in La Bibbia. Antico Testamento, Mondadori, Milano 2006, I vol., p. 44 (19, 1-3). ↩︎

  57. Ivi, p. 45 (19, 7-8). ↩︎

  58. Va specificato che «La colpa dei sodomiti non è da ricercare nel loro abuso sessuale ma nella violazione dell’ospitalità». C. Di Sante, op. cit., p. 23. ↩︎

  59. Cfr. D. Manetti, S. Zuffi (a cura di), Genesi, cit., p. 45 (19, 15-26). ↩︎

  60. D. Manetti, S. Zuffi (a cura di), Giudici, in La Bibbia, cit., p. 328 (19, 16-21). ↩︎

  61. Ibidem (19, 22-24). ↩︎

  62. Cfr. C. Di Sante, op. cit., p. 106. ↩︎

  63. L. Di Pinto, Ospitare lo straniero. Cultura e teologia dell’ospitalità nella Bibbia, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2020, passim. ↩︎

  64. D. Manetti, S. Zuffi (a cura di), Genesi, cit., p. 43 (18, 1-9). ↩︎

  65. F. Piantoni, Per un’etica dell’ospitalità, QiQaJon, Magnano (BI) 2017, p. 58. ↩︎

  66. L. Di Pinto, op. cit., p. 22. ↩︎

  67. F. Piantoni, op. cit., p. 59. ↩︎

  68. Cfr. L. Di Pinto, op. cit., p. 28 ↩︎

  69. Ivi, p. 30 (corsivo aggiunto). ↩︎

  70. C. Di Sante, op. cit., p. 108. ↩︎

  71. Cfr. L. Di Pinto, op. cit., p. 40. ↩︎

  72. Cfr. F. Piantoni, op. cit., pp. 62-63. ↩︎

  73. M. Zupi, Per un’ontologia della soglia. Una lettura di Totalità e infinito e Altrimenti che essere di Emmanuel Lévinas, Associazione culturale piccola barca, Roma 2017, p. 219. ↩︎

  74. Cfr. L. Di Pinto, op. cit., p. 28. ↩︎

  75. Ivi, p. 49. ↩︎

  76. Cfr. F. Piantoni, op. cit., pp. 63-64. ↩︎

  77. L. Di Pinto, op. cit., p. 36. ↩︎

  78. F. Piantoni, op. cit., p. 65. ↩︎

  79. G. Saraceni, op. cit., p. 20. ↩︎

  80. Manetti D., Zuffi S. (a cura di), Levitico, in La Bibbia, cit., p. 171 (25, 23). ↩︎

  81. G. Saraceni, op. cit., pp. 20-21. ↩︎

  82. Ivi, p. 23. ↩︎

  83. Ibidem↩︎

  84. Cfr. D. Manetti, S. Zuffi (a cura di), Deuteronomio, in La Bibbia, cit., p. 248, (15, 3). ↩︎

  85. Cfr. Ivi, p. 257 (23, 21). ↩︎

  86. Cfr. Ivi, p. 259 (25, 5). ↩︎

  87. Cfr. D. Manetti, S. Zuffi (a cura di), Esodo, in La Bibbia, cit., p. 124, (30, 33). ↩︎

  88. G. Saraceni, op. cit., pp. 24-25. ↩︎

  89. D. Manetti, S. Zuffi (a cura di), Levitico, cit., 163 (19,18b). ↩︎

  90. In realtà, non tutti gli studiosi concordano su questa interpretazione, ritenendo che il comandamento dell’amore per il prossimo sia invero da ritenersi come un comandamento all’amore per il nemico. Per approfondimenti si rinvia a L. Di Pinto, op. cit., pp. 90-91 e sgg.; mi sia consentito di rinviare anche a M.G. Caraceni, Sull’amicizia. Considerazioni filosofiche a partire dal pensiero di Jacques Derrida, in «Filosofia e nuovi sentieri», 2021 https://filosofiaenuovisentieri.com/2021/07/04/sullamicizia-considerazioni-filosofiche-a-partire-dal-pensiero-di-jacques-derrida/ (si veda soprattutto l’ultimo paragrafo). ↩︎

  91. AA. VV., Vangelo di Matteo, in Il nuovo Testamento, ELLE DI CI, Torino 1976, p. 11 (5, 46). ↩︎

  92. Cfr. E. Lévinas, Totalità e infinito: saggio sull’esteriorità, a cura di S. Petrosino, trad. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 2004^2^ (ed. or. Totalité et infini. Essai sur l’extériorité, The Hague, 1971). Riguardo l’influenza di Lévinas sulla filosofia dell’ospitalità di Derrida si veda J. Derrida, Addio a Emmanuel Lévinas, a cura di S. Petrosino, trad. di M. Odorici, Jaca Book, Milano 1998 (ed. or. Adieu à Emmanuel Lévinas, Éditions Galilée, Paris 1997). Si rimanda inoltre a S. Petrosino, L’umanità dell’umano o dell’essenza della coscienza. Derrida lettore di Lévinas, in J. Derrida, Addio a Emmanuel Lévinas, cit.; mi sia concesso di rinviare anche a M.G. Caraceni, «Per una lettura derridiana dello Straniero platonico: modelli di ospitalità a confronto», in Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia [in linea], anno 23 (2021) https://mondodomani.org/dialegesthai/articoli/maria-giorgia-caraceni-02 (si vedano in particolare i §§ 2-4). ↩︎

  93. Cfr. J. Derrida, Of Hospitality, Anne Dufourmantelle invites Jacques Derrida to respond, trad. en. Rachel Browly, Stanford University Press, Stanford 2000, p. 27 (ed. or. De l’hospitalité: Anne Dufourmantelle invite Jacques Derrida à répondre, Calmann-Lévy, 1997) – i passi che di quest’opera verranno citati in italiano sono frutto della mia traduzione. Si noti che nella lingua madre del filosofo, il francese, il termine question indica sia la questione sia la domanda. ↩︎

  94. Cfr. Ivi, pp. 27; 29. Si noti inoltre la corrispondenza tra queste dichiarazioni derridiane e l’atteggiamento abramitico sopra descritto. ↩︎

  95. Ci troviamo di fronte ad un paradosso che coincide con ciò che Derrida definisce lo spergiuro da cui nasce la giustizia. Per approfondimenti si rimanda a J. Derrida, Addio a Emmanuel Lévinas, cit., pp. 94-95. ↩︎

  96. Cfr. Sofocle, Antigone, a cura di F. Ferrari, trad. di Id., Rizzoli, Milano 2018. ↩︎

  97. Tale legge incondizionata dell’ospitalità è concepibile come «una legge senza imperativo, senza ordine e senza dovere». G. Coccolini, «L’etica come ospitalità in Jacques Derrida», in Rivista di teologia morale, n. 129, 2001, p. 8. ↩︎

  98. J. Derrida, Of Hospitality, cit., pp. 25; 27. ↩︎

  99. Cfr. Ivi, p. 65. ↩︎

  100. Ivi, pp. 75; 77. ↩︎

  101. Ivi, p. 77. ↩︎

  102. Cfr. J. Derrida, Addio a Emmanuel Lévinas, cit., p. 188. ↩︎

  103. Per approfondimenti sulla distinzione tra la legge dell’ospitalità e le leggi dell’ospitalità (al plurale), Cfr. J. Derrida, Of Hospitality, cit., pp. 77 e sgg. ↩︎

  104. Per una lettura alternativa di tale paradosso si rimanda a C. Resta, «Il diritto dell’ospitalità. Cittadini e stranieri nell’età globale», in Bollettino Filosofico 34 (2019), pp. 138-139, per la quale l’intenzione di Derrida sarebbe invece quella di affermare la necessità di tradurre, attraverso una «negoziazione» (e quindi, in un certo senso, un tradimento), l’incondizionatezza nella condizionalità politica e giuridica di leggi dell’ospitalità. ↩︎

  105. J. Derrida, Of Hospitality, cit., p. 79. ↩︎

  106. Ivi, pp. 79; 81. ↩︎

  107. Cfr. I. Kant, Per la pace perpetua, a cura di L. Tundo Ferente, trad. di M. Montanari, L. Tundo Ferente, RCS, Milano 2010, p. 24 (ed. or. Zum Ewigen Frieden Ein Philosophischer Entwurf von Immanuel Kant, 1795). ↩︎

  108. Cfr. Ivi, pp. 28 e sgg. ↩︎

  109. Cfr. Ivi, pp. 34 e sgg. ↩︎

  110. Ivi, p. 34. ↩︎

  111. Ivi, pp. 34-35. ↩︎

  112. Nel paragrafo conclusivo tenteremo di dimostrare, invece, che una tale antinomia è, in verità, apparente. ↩︎

  113. B. Constant, Sui principi, in Il diritto di mentire, a cura di S. Mori Carmignani, Passigli, Bagno a Ripoli (FI), pp. 29-30 (ed. or. Des Principes, Genève 1982). ↩︎

  114. I. Kant, Su un presunto diritto di mentire per il bene dell’umanità, in Il diritto di mentire, cit., pp. 37-38 (ed. or. Über ein vermeintes Recht aus Menschenliebe zu lügen, Berlin 1968). ↩︎

  115. Cfr. J. Derrida, Of Hospitality, cit., p. 71. ↩︎

  116. Mettiamo il termine «contrapposto» tra virgolette perché, come avremo modo di argomentare a breve, concepire la relazione tra questi due diversi paradigmi in senso puramente oppositivo, non è, ad avviso di chi scrive, propriamente corretto. ↩︎

  117. Come facilmente intuibile, tale operazione ha altresì preso la forma di una correlazione tra antichità e modernità. ↩︎

  118. T. Marci, «L’etica dell’ospitalità nell’era della globalizzazione», in Studi Di Sociologia, vol. 39, n. 2, 2001, pp. 241-244; 248 http://www.jstor.org/stable/23004965↩︎

  119. Ivi, p. 256. ↩︎

  120. M. Agier, Lo straniero che viene. Ripensare l’ospitalità, Raffaello Cortina, Milano 2020, p. 40 (ed. or. L’étranger qui vient. Repenser l’hospitalité, Édtions di Seuil, 2018). ↩︎

  121. Ivi, 104. ↩︎

  122. Cfr. A. Di Chiro, «L’estraneo sulla soglia». Per una filosofia dell’ospitalità, in «Revista Portuguesa de Filosofia», 78 vol., n. 4, 2022, p. 1334. ↩︎