1. Introduzione
Nel presente contributo si intende descrivere la concezione di ospitalità elaborata da Jacques Derrida, con particolare riferimento al discorso ad essa annesso sul significato che al suo interno assumono l’arrivo dello straniero e la domanda di accoglienza da egli posta. Si tenterà in conclusione di condurre un confronto tra queste riflessioni e alcuni dialoghi platonici, al fine di poter rintracciare possibili convergenze tra il ruolo ricoperto in essi dal personaggio dello Straniero – protagonista nelle ultime opere del filosofo ateniese – e il modo derridiano di considerare lo straniero. Tuttavia, nel corso dell’analisi, sarà possibile rendersi conto che in realtà l’elemento dell’estraneità è presente nella filosofia platonica sin da sempre: lo stesso Socrate, principale interlocutore in tutti i dialoghi precedenti, per la sua eccezionalità e per la paradossalità della sua azione, può essere considerato un vero e proprio straniero tra gli uomini comuni. Ad ogni modo, prima di arrivare a sviluppare queste considerazioni, sarà necessario svolgere una breve introduzione al pensiero derridiano sull’ospitalità, il quale è profondamente connesso alla filosofia levinassiana del volto: è proprio da questa, dunque, che si partirà.
2. Ospitare il volto
La concezione di ospitalità derridiana è ampiamente debitrice della filosofia levinassiana dell’alterità, che ha come suo punto focale l’esperienza originaria dell’incontro col volto: operarne una breve ricostruzione servirà da punto di riferimento per l’analisi successiva. Partiamo dal constatare il fatto che, secondo Lévinas, la filosofia occidentale è per lo più dominata da una tendenza, quella di ridurre al Medesimo ciò che si presenta come Altro. In altri termini, si potrebbe dire – prendendo in prestito un’espressione nietzscheana – che la razionalità occidentale si è storicamente esplicata come volontà di potenza dell’io – il soggetto conoscente – che – in quanto tale –, ha sempre tentato di ricondurre l’oggetto alle sue stesse categorie conoscitive operando nei suoi confronti una violenza.1 La filosofia idealista, con la sua tematizzazione dell’opposizione tra io e non-io (o mondo), rappresenta in questo senso un caso emblematico. La sintesi hegeliana si configura come conciliazione: la contraddizione che viene generata da ciò che si oppone all’io negandolo – in quanto altro dall’io – viene superata attraverso un atto di riconduzione del non-io all’io stesso;2 l’assimilazione dell’alterità è necessaria all’autocoscienza, alla certezza di sé.3 È interessante notare che nella Fenomenologia dello Spirito Hegel non usi mai il termine uomo, neanche quando parla della dialettica servo-padrone, allo scopo di privare il suo discorso di ogni riferimento antropologico.4 Questo modo di rapportarsi al mondo ha generato un pensiero filosofico distruttore della trascendenza – che si è ostinato a voler comprendere anche ciò che per sua natura non può essere compreso. Tuttavia, un conto è avere a che fare con gli oggetti, e un altro è considerare gli altri soggetti (si potrebbe dire, gli altri io, per usare un linguaggio congeniale agli idealisti). L’atto della riconduzione al Medesimo continua ad essere possibile fintanto che un soggetto si rapporta ad oggetti, che considera strumenti, cose con cui instaurare una relazione di godimento.5 Ma cosa accade quando si trova di fronte ad altri soggetti?6
Sono responsabile d’altri, rispondo d’altri. Il tema principale, la mia definizione fondamentale, è che l’altro uomo, che di primo acchito fa parte di un insieme che tutto sommato mi è dato, come gli altri oggetti, come l’insieme del mondo, come lo spettacolo del mondo, l’altro uomo emerge in un certo modo da tale insieme precisamente con la sua apparizione come volto. Il volto non è semplicemente una forma plastica, ma è subito un impegno per me, un appello a me, un ordine per me di trovarmi al suo servizio. Non solamente di quel volto, ma dell’altra persona che in quel volto mi appare contemporaneamente in tutta la sua nudità, senza mezzi, senza nulla che la protegga, nella sua semplicità, e nello stesso tempo come il luogo dove mi si ordina.7
Imbattersi in un volto non è come imbattersi in un oggetto; il volto è ciò che per sua natura resiste ad ogni operazione di riduzione, ma, paradossalmente, è proprio in rapporto al fallimento della volontà di potenza dell’io – di fronte a questo Altro che non si lascia ricondurre al Medesimo –, che l’io può costituirsi a livello identitario come colui che ne è responsabile, responsabile «di quel volto, […] dell’altra persona che in quel volto […] appare […] in tutta la sua nudità, senza mezzi, senza nulla che la protegga».8 La nudità del volto mi ordina immediatamente di trovarmi al suo servizio; l’esperienza originaria dell’incontro col volto d’altri è etica, e nell’etica regna la gratuità, non la reciprocità, altrimenti si parlerebbe di interesse o di rapporto di scambio:
Ma, se si è in questo incontro d’altri che provo a descrivere, non si è mai colui che comprende la sua relazione ad altri come reciproca. Se si dice: «Sono responsabile per lui, ma anche lui è responsabile nei miei riguardi», in tal caso, si trasforma la propria responsabilità iniziale in commercio, in scambio, in uguaglianza. […] L’asimmetria, è in primo luogo il fatto che la mia relazione nei confronti di me stesso e le mie obbligazioni come io stesso le intendo non sono immediatamente in un rapporto tra due pari, dove altri è sempre supposto essere io stesso. Io stesso, sono prima di tutto l’obbligato, e lui, è prima di tutto colui nei confronti del quale sono obbligato. Non è affatto uno smarrimento, è la modalità essenziale dell’incontro con altri.9
L’asimmetria è la modalità che caratterizza la relazione con volto d’Altri. Qui Lévinas sta chiaramente prendendo le distanze da una morale della reciprocità – secondo la quale io «sono responsabile per lui, ma anche lui è responsabile nei miei riguardi»10 – quale può essere ad esempio quella di Martin Buber.11 Questa responsabilità asimmetrica consiste nel fatto che io sono responsabile d’Altri ancor prima di averlo scelto, è l’apparizione del volto che in quanto tale mi chiama al suo servizio, è come se fossi ostaggio dell’Altro che in quel volto mi appare.
Ciò che chiamo essere per l’altro, la parola «responsabilità» non è che un modo di esprimere questo: io sono responsabile d’altri, rispondo d’altri, e sostanzialmente rispondo prima d’aver fatto qualcosa. Il paradosso della responsabilità, è che essa non è il risultato di un atto qualsiasi da me commesso. È come se fossi responsabile prima d’aver commesso qualsiasi cosa, come se fosse un a priori e, di conseguenza, come se non fossi libero di scrollarmi da tale responsabilità, come se fossi responsabile senza aver votato, come se espiassi, come se mi comportassi come un ostaggio.12
Tale “costrizione” può essere considerata come privazione della libertà del soggetto? Lévinas senza indugi risponde a questa domanda in maniera negativa:
Pongo la domanda: come [definire] […] la libertà? Evidentemente, quando c’è costrizione, non c’è libertà. Ma quando non c’è costrizione, c’è necessariamente libertà? La libertà deve essere definita in modo puramente negativo, come assenza di costrizione, o al contrario, la libertà significa la possibilità per una persona, l’appello rivolto ad una persona a fare qualcosa che nessun altro può fare al posto suo? In tale bontà precedente ad ogni scelta che è la mia responsabilità, sono come eletto, non intercambiabile, il solo a poter fare ciò che faccio nei confronti di altri.13
Quella che potrebbe sembrare una mancanza di libertà si rivela invece la modalità essenziale dell’esistenza. Il volto non può essere ridotto a un Medesimo perché di fatto un Medesimo a cui ricondurlo non c’è, ogni volto è unico, non è una cosa e dunque non può essere tematizzato. La sua resistenza potrebbe essere ritenuta uno scacco subito dalla soggettività che, in questo modo, non può soddisfare la sua volontà di potenza. Le cose però non stanno così. Questo Altro che nel volto mi appare in quanto resistenza assoluta, è colui che con la sua presenza mi mette in questione, essendo l’assolutamente altro. L’atto di deferenza nei suoi confronti a cui sono chiamato e che non posso evitare è apertura all’altro, all’ignoto, all’estraneo – con un gioco di parole si potrebbe dire, allo straniero – è un atto di accoglienza incondizionata di un infinito nel finito che è tale proprio perché si configura come rinuncia ad ogni tentativo di tematizzazione.14 Ma in questo atto di accoglienza non ne va solo dell’Altro che viene accolto, ne va prima di tutto di me stesso, che in questo modo mi costituisco come soggettività, ne va della mia identità, perché «sono come eletto, non intercambiabile, il solo a poter fare ciò che faccio nei confronti di altri».15 La soggettività è accoglienza: se si dovessero indicare poche parole con cui riassumere il senso della filosofia levinassiana si potrebbero scegliere queste.16
3. La soggettività è ospitalità
Leggendo Addio a Emmanuel Lévinas17 si ha l’impressione di cogliere tra le due filosofie – quella derridiana e quella levinassiana – un’intimità sostanziale; si può notare come in questo luogo Derrida aderisca a una certa idea di cogito, una certa concezione della coscienza, che coincide esattamente con quella di Lévinas. È nell’Adieu che viene stabilito un nesso essenziale tra la coscienza in quanto tale e la dinamica dell’ospitalità. Secondo la definizione levinassiana – «che Derrida assume totalmente»18 – non vi è prima il costituirsi di una coscienza e poi, in un secondo momento, la sua apertura verso l’altro, cioè l’ospitalità, ma è l’apertura all’altro in quanto ospitalità a definire l’essenza stessa della coscienza; pertanto l’ospitalità non è un atto della coscienza ma è la sua stessa identità, che rende possibile ogni atto di apertura:19
Benché in Totalité et Infini il termine non sia frequente né sottolineato, questa opera ci lascia un immenso trattato sull’ospitalità, […]. L’ospitalità presuppone la ʿseparazione radicaleʾ come esperienza dell’alterità dell’altro, come relazione all’altro. […] La relazione all’altro è deferenza. Tale separazione ha lo stesso significato di ciò che Lévinas rinomina ʿmetafisicaʾ: etica o filosofia prima in opposizione all’ontologia. Questa metafisica è un’esperienza dell’ospitalità in quanto essa si apre, per accogliere, all’irruzione dell’idea di infinito nel finito.20
A sostegno delle sue tesi Derrida aggiunge delle osservazioni ulteriori. Innanzitutto afferma che quando in Totalità e Infinito Lévinas parla di ragione la intenda come ricettività ospitale. Questa equivalenza stabilita è gravida di conseguenze perché la tradizione filosofica che ha sempre associato sensibilità e passività in opposizione alla razionalità, è stata così «riorientata nel suo significato più profondo».21 A cambiare è l’accezione stessa del ricevere: «la ragione stessa è un ricevere. È un altro modo per dire – se si vuole ancora parlare all’interno della legge della tradizione, ma contro di essa […] – che la ragione è sensibilità. La ragione stessa è accoglienza in quanto accoglimento dell’idea di infinito – e l’accoglienza è razionale».22 L’ospitalità non è un’esperienza ma una condizione: «L’intenzionalità è ospitalità, afferma letteralmente Lévinas»,23 quindi non esiste un qualcosa come una coscienza che faccia, tra le altre esperienze, anche quella dell’ospitalità, ma è l’intenzionalità stessa che nella sua struttura più generale è ospitalità, accoglienza del volto, e l’etica dell’ospitalità è l’etica in generale. Pertanto quella dell’ospitalità non si configura come una regione dell’etica – e neppure come un problema del diritto e della politica –: «l’ospitalità è l’eticità stessa, il tutto e il principio dell’etica».24 Infine, dice ancora Derrida, l’ospitalità è un’interruzione di sé, perché l’ospitalità si apre come intenzionalità, ma non può diventare oggetto, cosa o tema.25
4. La questione dello straniero
In Addio a Emmanuel Lévinas, pur parlando di ospitalità, Derrida non arriva ancora ad elaborare una riflessione specifica sulla figura dello straniero e sul significato che essa può assumere all’interno di una riflessione filosofica sull’ospitalità. Queste considerazioni sono invece esplicite in Sull’ospitalità, un breve saggio curato da Anne Dofourmantelle in cui vengono riportati i testi corrispondenti a due lezioni appartenenti a un ciclo di seminari – che avevano per argomento appunto l’ospitalità – tenuto da Derrida nel 1996. È qui che è chiaramente affermato che quel volto che mette in questione, totalmente resistente all’operazione di riconduzione al Medesimo, è innanzitutto il volto dello straniero, il quale – si potrebbe dire con un gioco di parole –, proprio per il contrassegno di estraneità che caratterizza la sua stessa natura, si presenta come l’assolutamente altro per eccellenza. «La questione dello straniero non è forse la questione dell’estraneo? Venuta dallo straniero, da fuori?26». Derrida inizia il suo quarto seminario ponendo questa domanda. Può essere utile fare una precisazione di ordine linguistico. In francese non esistono due vocaboli distinti per indicare lo straniero e l’estraneo; il termine impiegato è sempre étranger, e questo stesso vocabolo è adoperato anche nella seconda parte della domanda, che in italiano può essere reso con la locuzione da fuori. Dunque in questo caso, la ricchezza lessicale della nostra lingua ci aiuta meglio a distinguere concetti che, per quanto quasi sovrapponibili, non coincidono totalmente.27 Subito dopo Derrida ci tiene a specificare che, a seconda del punto in cui viene messo l’accento, questo interrogativo può subire un piccolo slittamento di significato. Esiste certo la questione dello straniero, che deve indubbiamente essere affrontata, ma prima di trattarla è necessario fare riferimento alla questione dello straniero in quanto domanda dello straniero, rivolta allo straniero.28 Ancora una volta specifichiamo che è possibile per noi stabilire una corrispondenza tra quella che Derrida definisce la questione dello straniero e la questione, e quella che chiama la questione dello straniero e la domanda, perché in italiano esistono due termini distinti; in francese invece il termine question indica sia la questione sia la domanda.29 Questa duplicità semantica viene sfruttata dal filosofo franco-algerino che, in questo modo, istituisce una corrispondenza tra questione dello straniero e domanda dello straniero. È
Come se lo straniero fosse anzitutto colui il quale pone per primo la domanda, o colui al quale rivolgiamo la prima domanda. Come se lo straniero stesso fosse l’essere in questione, la questione stessa dell’essere in questione, l’essere-questione o l’essere in questione della questione. È altresì colui il quale, ponendo la prima domanda, mette me stesso in questione.30
È possibile rintracciare – come si anticipava in apertura di paragrafo–, uno stretto legame con la filosofia levinassiana. Quel volto che con la sua presenza mi mette in questione è soprattutto quello dello straniero: chi più dello straniero può essere considerato l’assolutamente altro? Questo straniero che viene da fuori, con la sua domanda d’accoglienza, mi mette in questione proprio per la sua estraneità. In fondo è lo stesso Lévinas che in Totalità e Infinito dice: «Il volto mi richiama ai miei obblighi e mi giudica. L’essere che si presenta in esso viene da una dimensione di maestosità, dimensione della trascendenza in cui può presentarsi come straniero, senza oppormisi, come ostacolo o nemico».31 Forse lo straniero, per questo suo misterioso potere, ha in sé qualcosa di divino come credevano gli antichi.32 È presente qui una dimensione di ambivalenza:33 lo straniero potrebbe essere il nemico che a causa della sua alterità mi si oppone e dal quale devo difendermi con un atto di guerra che porta necessariamente con sé la possibilità della messa a morte, come sostiene Carl Schmitt,34 per il quale l’inimicizia è la categoria in base alla quale distinguere quello del politico dagli altri ambiti. Oppure l’atto di opposizione da parte di questo nemico-straniero, questo nemico-venuto-da-fuori, non deve essere interpretato come una negazione del mio essere35 ma come condizione prima, la condizione che mi permette di definirmi come soggettività: l’atto di ospitalità che esercito in risposta alla domanda dello straniero è ciò che mi permette di costituirmi a livello identitario come colui che accoglie l’altro, in quanto «la soggettività è accoglienza» – come si è detto.36 Questa citazione tratta da Totalità e Infinito dovrebbe essere piuttosto esplicativa:
L’assolutamente Altro è Altri. Non è sul mio stesso piano. […] Assenza di una patria comune che fa dell’Altro lo Straniero; lo Straniero che viene a turbare la mia casa. Ma Straniero significa anche il libero. Su di lui non posso potere. Sfugge alla mia presa per un fatto essenziale anche se dispongo di lui. Non è interamente nel mio luogo. Ma io, che non ho con lo straniero un concetto comune, sono, come lui, senza genere. Siamo il Medesimo e l’Altro. La congiunzione e non indica qui né addizione, né potere di un termine sull’altro.37
Proseguendo nella direzione imboccata, restiamo nell’ottica in cui la questione dello straniero è identificata con la questione della domanda. Lo straniero pone la domanda prima – prima in senso cronologico ma anche ontologico –, che è quella dell’accoglienza, ma chi lo accoglie cosa deve fare? Deve porre a sua volta una domanda? La domanda che normalmente viene fatta in risposta a quella dello straniero concerne il suo nome. Chiedergli il nome significa da una parte perpetrare un atto violento nei suoi confronti costringendolo a rispondere in una lingua che non è la sua prima che ne sia capace,38 – e questo è paradossale, perché «Se conoscesse già la nostra lingua, con tutte le sue implicazioni, se condividessimo già tutto ciò che può essere condiviso per mezzo del linguaggio, lo straniero sarebbe ancora uno straniero e potremmo parlare di ospitalità e asilo riferendoci a lui?39» – e dall’altra porre delle condizioni all’accoglienza.40
5. Il personaggio dello straniero nei dialoghi platonici
È possibile, a questo punto, provare a condurre un’analisi di alcuni brani presenti all’interno dell’opera platonica confrontandoli con le considerazioni derridiane fin qui esplicitate. L’operazione non si presenta semplice in quanto non disponiamo nel corpus platonico di una esposizione sistematica sulla figura dello xénos,41 perché, com’è noto, Platone non è uno scrittore di trattati; tuttavia è possibile tentare di ricostruire la sua concezione andando alla ricerca di notizie e considerazioni che qui e là emergono nei vari dialoghi. Un dato indicativo – come si anticipava nel paragrafo introduttivo – è che negli ultimi scritti platonici è una nuova figura, quella dello Straniero, ad assumere quel ruolo di interlocutore principale che fino ad allora era stato riservato a Socrate.42 In realtà, gli stranieri che popolano la scena dei testi platonici sono svariati: spesso sono personaggi anonimi (come quello delle Leggi, uno straniero ateniese che dialoga, nell’isola di Creta, con un cretese, dunque un autoctono, e con uno spartano);43 qualche volta sono identificati. Nel Simposio, invece, pur essendo ancora Socrate il protagonista e pur non essendo lei direttamente presente, è grazie alla saggezza e alla concezione di ʿErosʾ di Diotima, sacerdotessa di Mantinea (e dunque straniera), che il maestro riesce ad uscire dall’impasse in cui si era ritrovato insieme ai suoi interlocutori, incapaci di dare una definizione accettabile del fenomeno amoroso.44 Nel Parmenide, poi, sono gli eleati Parmenide e Zenone (due stranieri, quindi) che occupano una posizione di rilievo di fronte a un giovane Socrate45 «cui spetta il compito di introdurre la “sua” teoria delle idee, presentata e percepita come paradossale e aliena rispetto al dibattito filosofico corrente».46 Osserviamo, in chiusura, che in effetti la paradossalità e l’estraneità rappresentano un tratto, frequentemente sottolineato da Platone, caratteristico del filosofo come tale.47 Nel V e VI libro della Repubblica viene più volte affermato ed ampiamente argomentato che proprio per la sua estraneità e alterità, il filosofo è spesso incompreso e perciò diffamato dai più; egli si rivela pertanto come uno straniero tra i suoi stessi concittadini.48 Ma il filosofo è prima di tutto lo stesso Socrate, vero e proprio straniero fra gli uomini comuni:49 è proprio da un’analisi della sua figura che pertanto si partirà.
6. Lo straniero Socrate
Socrate appare spesso strano e fuori luogo per i suoi discorsi assai divergenti dalle opinioni comuni (basti pensare alle accuse che gli rivolge Polo nel Gorgia)50 o per la sua eccezionale natura che lo rende diverso da tutti gli altri uomini (si veda a questo proposito l’elogio che ne pronuncia Alcibiade nel Simposio).51 Tuttavia, per quanto concerne lo scopo della nostra trattazione, si rivela particolarmente proficuo approfondire l’analisi di due dei tre dialoghi in cui viene presentata la sua vicenda storica: ci riferiamo nello specifico all’Apologia di Socrate e al Critone.
L’Apologia di Socrate è lo scritto in cui Platone riporta le vicende del processo subito da Socrate ad Atene, conclusosi con la sua condanna a morte. All’inizio della sua difesa Socrate si rivolge ai giudici e ai suoi concittadini perché vuole mostrare l’infondatezza dell’accusa che gli era stata rivolta, ovvero di essere un sofista o un abile oratore. Annuncia che dirà cose giuste e vere ma che lo farà senza eleganza retorica, senza ricorrere a un linguaggio elaborato. Si dichiara straniero al linguaggio delle corti, non sa parlare quella lingua delle aule di tribunale fatta di retorica, non ne ha l’abilità. Possiamo subito rintracciare un parallelismo tra questo passo platonico e quanto affermato da Derrida in Sull’ospitalità, quando viene sostenuto che rivolgere una domanda allo straniero, costringendolo a rispondere in una lingua che non è la sua prima ancora che ne sia capace, è un atteggiamento inospitale e in un certo senso violento.52 Tuttavia, a questo punto Socrate assume un atteggiamento che potremmo definire sorprendente: ribalta la situazione e chiede ai giudici di essere trattato come uno straniero per il rispetto che allora gli sarebbe dovuto. Riportiamo in citazione il lungo passo platonico in oggetto, che nel testo funge da premessa alla difesa vera e propria che subito dopo Socrate pronuncerà di se stesso:
Io non so quale sia, o cittadini ateniesi, l’impressione che avete provato nel sentire i miei accusatori. Infatti, per poco anch’io non mi dimenticavo di me stesso, così convincente era il modo in cui parlavano. Eppure di vero, per dirla in breve, non hanno detto proprio nulla. Soprattutto una delle molte menzogne che hanno detto mi ha meravigliato, ossia quando hanno affermato che voi dovevate essere circospetti in modo da non lasciarvi ingannare da me, in quanto sono straordinario nel parlare. E che non provassero vergogna nel momento in cui io li avrei subito confutati di fatto, non appena vi sarei apparso essere tutt’altro che straordinario nel parlare, questa mi è sembrata la cosa più vergognosa da parte loro. A meno che non chiamino straordinario nel parlare colui che dice la verità. Infatti, se è questo che intendono, allora potrei ammettere io pure di essere un oratore, ma non come intendono loro. Costoro, dunque, come vi ripeto, di vero hanno detto poco o niente. Invece da me voi udrete tutta la verità. Però, per Zeus, o cittadini ateniesi, voi non ascolterete da me discorsi ornati con belle frasi e con belle parole, come quelli di costoro e neanche ben ordinati. Udrete, invece, cose dette un po’ a caso con le parole che mi capitano. Infatti, sono convinto che sia giusto quanto affermo. E nessuno di voi si attenda altro da me. D’altra parte, o cittadini, non sarebbe davvero conveniente che, a questa età, io mi presentassi davanti a voi a foggiare discorsi come un giovinetto. E anzi, o cittadini ateniesi, io vi prego molto di questo e vi chiedo di essere scusato […]. La cosa sta in questi termini. È la prima volta che vengo in tribunale e ho l’età di settant’anni. Perciò io sono veramente straniero al linguaggio che si usa in questo luogo. Come, dunque, se fossi veramente uno straniero, voi avreste certamente indulgenza se parlassi in quella lingua e in quelle maniere secondo le quali sarei stato educato, così anche ora vi chiedo questo che a mio giudizio è giusto, ossia che siate tolleranti del linguaggio che userò […].53
C’è un altro luogo dell’opera platonica in cui Socrate si comporta da straniero, ovvero nella celebre Prosopopea delle Leggi del Critone. Affidiamoci direttamente alle parole di Platone – poi le commenteremo:
Se mentre noi siamo sul punto di svignarcela di qui, o come altrimenti si debba chiamare questa azione, ci venissero incontro le Leggi e la Città e, fermandosi innanzi, ci domandassero: «Dimmi, o Socrate, che cosa hai intenzione di fare? Che altro pensi, con questa azione che stai per compiere, se non di distruggere noi che siamo le Leggi e tutta quanta la Città, per quanto dipende da te? O ti pare che possa ancora esistere e che non venga interamente sovvertita quella Città, in cui le sentenze emesse non hanno vigore, ma, ad opera di privati cittadini, vengono destituite della loro autorità e distrutte?». Che diremo, o Critone, a questi e ad altri simili argomenti? […] E se noi ci stupissimo di sentirle dire questo, forse le Leggi così continuerebbero a parlare: «O Socrate, non stupirti di quello che abbiamo detto, ma rispondi, dal momento che, anche tu, sei solito avvalerti del metodo del domandare e del rispondere. Di’, dunque, che cosa hai da rimproverare a noi e alla Città, dato che cerchi di distruggerci? E, in primo luogo, non ti abbiamo noi dato la vita, e per opera nostra tuo padre non sposò tua madre e ti generò? Parla, dunque; o a quelle Leggi fra noi che regolano i matrimoni rimproveri qualcosa, ritenendo che non vadano bene? […] Ma forse, a quelle che riguardano l’allevamento e l’educazione, nella quale anche tu sei stato educato? O, forse non prescrissero giustamente quelle di noi predisposte a questo scopo, comandando al padre tuo di educarti nella musica e nella ginnastica? […] E poiché fosti generato, allevato ed educato, potresti tu senz’altro sostenere di non essere nostra creatura e nostro servo, tu e i tuoi progenitori?54».
Socrate è stato condannato a morte e, in carcere, attende solo che la sua pena venga eseguita. Critone, consapevole dell’ingiustizia della sentenza pronunciata, vuole persuaderlo a fuggire. Socrate sembrerebbe pronto a lasciare la città senza averne l’autorizzazione ma alla fine si rende conto di non poterlo fare, perché le leggi della polis, quelle stesse leggi in base alle quali era stato condannato, gli si palesano e ponendogli domande retoriche (formulate con un linguaggio molto a simile a quello da cui Socrate aveva preso le distanze nell’appena citato passo dell’Apologia) lo convincono dell’inopportunità di quella decisione. Se avesse accettato di fuggire sottraendosi alla giustizia della polis avrebbe in un colpo distrutto le leggi e lo Stato e si sarebbe comportato da estraneo nella sua stessa città: il cittadino è tale grazie alle leggi, viene esplicitamente detto nella Prosopopea.55 Possiamo a questo punto chiederci: se il cittadino è tale in virtù delle leggi, allora cosa è chi vi si sottrae? La risposta è semplice: uno straniero. Ancora una volta emerge il carattere di estraneità che Socrate – e il filosofo in generale – ha rispetto agli altri. Socrate si trova nella condizione di straniero nonostante sia nella sua stessa città.
Ma perché è tanto importante rimarcare il connotato di estraneità che contrassegna Socrate? Perché da quello che sappiamo in base alle fonti, Socrate ha passato tutta la sua vita ad esercitare il ruolo di colui che mette in questione. Socrate andava in giro per la città di Atene interrogando i suoi concittadini, politici, retori e/o presunti sapienti. Partendo da una professione di ignoranza (dotta, però), riusciva a dimostrare ai suoi interlocutori di non sapere quello che in realtà pensavano di sapere.56 Le sue domande erano spiazzanti, avevano una funzione estraniante, avevano la capacità di mettere in crisi le certezze di chi pensava di detenere una conoscenza tale da potersi rinchiudere in un sapere solipsistico senza lasciare spazio all’accoglienza di ciò che invece si presenta come altro. La domanda posta da questo straniero in patria allora era insieme domanda e questione, il suo scopo era quello di creare un varco, un’apertura per l’irruzione dell’altro.57
7. La svolta del Sofista
Si è già parlato del fatto che negli ultimi dialoghi lo Straniero rimpiazzi Socrate, assumendo quel ruolo di primo piano che fino a quel momento era stato a lui riservato. C’è chi sostiene che dietro questa scelta narrativa si celi, da parte di Platone, una volontà di emancipazione dal maestro che arriva a maturazione proprio nella fase finale della sua speculazione filosofica; tuttavia l’accordo tra gli studiosi non è unanime.58 In questo ultimo paragrafo proporremo a tale riguardo un’ipotesi alternativa, figlia di una lettura derridiana, che riprende e completa quanto appena affermato a proposito della funzione estraniante esercitata dalla domanda socratica. Tale ipotesi può essere formulata a partire dall’analisi di un dialogo che per il tema che ci interessa risulta essere forse il più significativo: il Sofista.
Il protagonista straniero è eleate di nascita e appartiene alla cerchia di Parmenide e Zenone, ed è immediatamente descritto come «un autentico filosofo».59 È interessante notare che sin dall’inizio quest’uomo è presentato e percepito come altro, come diverso; la tradizione esegetica infatti ha sempre ritenuto non casuale la connessione tra l’estraneità dell’origine e il ruolo «di riformatore delle tesi eleatiche e [quindi] di esponente in qualche modo eterodosso dell’eleatismo»60 che a questo personaggio è attribuito. Subito viene avanzata l’ipotesi – già menzionata a proposito della tradizione della theoxenia –61 che lo Straniero sia in realtà un dio – e precisamente il dio che tutela l’ospitalità degli stranieri – un dio confutatore venuto a mettere alla prova i discorsi; questa ipotesi – adombrata da Socrate con una certa ironia – viene subito ridimensionata: lo Straniero non è certo un dio, ma è di sicuro un uomo divino, qualifica che invero compete a tutti gli autentici filosofi.62 Lo Straniero a questo punto prende in mano la discussione e ne conduce lo svolgimento; la sua alterità è «a un tempo “geografica” e “dottrinaria” e, dunque per questa via, si apparenta alla sfera del divino: egli è “straniero” per città, “diverso” per dottrina e, in ultima analisi, “altro” per la divina eccezionalità della sua natura genuinamente filosofica».63
Non è difficile cogliere il nesso tra il carattere di estraneità di tale personaggio e la tesi che argomenta via via nel dibattito. Al cuore dell’indagine si situano le nozioni di essere e non essere. Lo scopo del dialogo è dimostrare la plausibilità dell’affermazione del falso,64 perché solo in questo modo diventa possibile distinguere il filosofo dal sofista65 (ecco spiegato anche il titolo dello scritto). Attenendosi ai divieti eleatici, questa dimostrazione non sarebbe possibile. Per Parmenide solo l’essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere, in quanto egli instaura una piena corrispondenza tra non essere e nullità ontologica. Il non essere non è, è il nulla, e in quanto tale non può essere né pensato né detto, perché necessariamente può essere detto e pensato solo ciò che, ontologicamente parlando, è, cioè l’essere. Ma, stanti le cose in questo modo, ci si imbatte in una difficoltà logica: il falso non può essere detto, perché dire il falso significherebbe dire ciò che non è – che, in ottica eleatica, è impossibile.66 Tuttavia, viene notato e argomentato nel corso del dialogo, dire il falso è possibile: «Teeteto […] vola»67 infatti è per certo una dichiarazione falsa. La possibilità della falsità è data dal modo in cui vengono associate le idee, che può essere corretto o sbagliato.68 Questo significa che il falso non corrisponde necessariamente al nulla ontologico. Il significato della negazione ʿnonʾ può infatti essere ambivalente. Il non può indicare il non essere in senso radicale, assoluto, quindi il semplice contrario dell’essere, oppure può individuare il non essere in senso relativo. In questa seconda accezione il non essere non corrisponde al nulla assoluto, ma al diverso,69 all’altro: dire il non essere (e quindi il falso) è possibile in questo secondo senso, perché dire il non essere significa dire qualcosa di altro, di diverso rispetto all’essere. Del resto questa è la condizione di esistenza di tutte le cose che sono, che sono identiche a se stesse e diverse dalle altre, incluso lo stesso essere70 (in un’ottica monista come quella di Parmenide, che non concepisce una pluralità di entità ma un unico essere, questo discorso non varrebbe). «In altre parole, la fondazione ontologica del diverso e la sua rigorosa elaborazione svelano fra gli esseri la “forma del non essere” dotata di una natura sua propria».71
Non è un caso che all’interno di questo dialogo si parli di parricidio:72 lo Straniero si è reso colpevole di tale delitto perché è un seguace di Parmenide. La sua azione allora si configura come messa in questione del Medesimo da parte dell’Altro. Ma è noto che Platone stesso deve molto alla filosofia eleatica, pertanto si può supporre che pure lui in prima persona si macchi di tale misfatto. Mettendo in questione Parmenide quindi, Platone mette in questione, in un certo senso, anche se stesso e le basi su cui poggia la sua filosofia. Si capisce dunque perché il personaggio di Socrate in questo contesto diventi secondario: attraverso Socrate Platone aveva messo in questione gli altri, ma per mettere in questione se stesso deve ricorrere ad un personaggio che si presenti come altro rispetto a sé: e chi meglio di uno straniero? Platone non avrebbe potuto mettersi in questione attraverso la figura di Socrate perché non sarebbe stato rispetto a lui l’Altro, ma sarebbe stato il Medesimo. Pertanto è probabile che la circostanza per cui Socrate negli ultimi dialoghi sia stato rimpiazzato dallo Straniero non sia da leggere come una presa di distanza di Platone nei confronti del maestro, ma come un’evoluzione, come il naturale esito a cui la missione del filosofo – cioè di colui che mette in questione – è alla fine approdata. Il fatto che lo Straniero sia accolto dai vari personaggi – appartenenti alla cerchia socratica – con tanti riguardi, che sia lasciato libero di prendere in mano le redini del discorso e di negare ciò che fino a quel momento appariva innegabile, rappresenta un atto di ospitalità che potremmo definire incondizionata: lo Straniero viene accolto – pur rimanendo anonimo –73 perché portatore di un’alterità che è insieme spiazzante e foriera di insegnamenti:74 è infatti attraverso questo atto di apertura all’alterità che Platone può cogliere l’aspetto più caratterizzante della sua speculazione e pervenire alla natura più autentica della sua filosofia.75
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Per approfondimenti si rimanda a E. Levinas, «La Philosophie Et L’idée De L’Infini», in Revue De Métaphysique Et De Morale, vol. 62, no. 3, 1957, pp. 241–253. JSTOR, https://www.jstor.org/stable/40900134. Precisiamo che il termine «violenza» nell’articolo citato non è presente in quanto ripreso dal lessico derridiano; Cfr. J. Derrida, Violenza e metafisica, op. cit., pp. 99-198. ↩︎
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Cfr. G. W. F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano 2000, pp 261-273. ↩︎
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Per approfondimenti su questa linea interpretativa della filosofia hegeliana cfr. J. Derrida, Violenza e metafisica, op. cit., pp. 138 e sgg.. ↩︎
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Questo giudizio sulla filosofia hegeliana è espresso da J. Derrida in Violenza e metafisica, p. 164. Per approfondimenti sulla dialettica servo-padrone si rinvia a G. W. F. Hegel, op. cit., pp. 275-291. ↩︎
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Sulla dinamica del godimento si veda E. Lévinas, Totalità e Infinito, Jaca Book, Milano 1998, pp. 109-153. ↩︎
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Precisiamo, per esattezza, che il termine soggetto è stato qui propriamente adoperato in accordo con un linguaggio tipicamente idealista. Lévinas preferisce invece parlare di soggettività, perché quella di soggetto rappresenta una categoria di quella tradizione filosofica da cui vuole prendere le distanze. Tuttavia, quando disquisisce della relazione tra soggetti, il filosofo franco-lituano utilizza i termini Medesimo e Altro. ↩︎
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E. Levinas, (a cura di J. Hansel), «L’asimmetria del volto. Un’intervista», in Dialegesthai rivista telematica di filosofia, anno 13 (2012), https://mondodomani.org/dialegesthai/articoli/emmanuel-levinas-01. In questo articolo è riportato il testo di un’intervista realizzata nel 1986 da France Guwy per la televisione nederlandese; si tratta di un contributo notevole anche perché ha il pregio di essere particolarmente chiaro. ↩︎
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Cfr. Citazione a blocco precedente. ↩︎
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E. Lévinas, «L’asimmetria del volto. Un’intervista», op. cit.. ↩︎
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Cfr. Citazione a blocco precedente. ↩︎
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Per un confronto tra Buber e Lévinas circa il concetto di responsabilità si rinvia a F. Miano, La responsabilità per l’altro. Martin Buber e Emmanuel Lévinas, in Responsabilità, Guida, Napoli 2009, pp. 87-109, consultabile a questo indirizzo: https://www.chiesadinapoli.it/laicato/wp-content/uploads/sites/4/2020/01/Responsabilit%C3%A0-5.pdf. ↩︎
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E. Lévinas, «L’asimmetria del volto. Un’intervista», op. cit.. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Cfr. E. Lévinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano, pp. 199-209. ↩︎
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Cfr. Citazione a blocco precedente. ↩︎
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In Totalità e infinito Lévinas ripete incessantemente che la soggettività è accoglienza. La parola accoglienza è una delle più frequenti in questo testo; le occorrenze del termine ospitalità, invece, sono poche. Tuttavia tra i vocaboli accoglienza e ospitalità può essere stabilita un’equivalenza: questa, come avremo modo di vedere nel prossimo paragrafo, è esattamente l’operazione esegetica compiuta da Derrida in Addio a Emmanuel Lévinas. ↩︎
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Addio a Emmanuel Lévinas è un’opera-tributo scritta da Jacques Derrida dopo la morte del collega e amico Emmanuel Lévinas. Si tratta di un testo in cui il filosofo franco-algerino si dedica al commento di una delle opere maggiori di Lévinas, Totalità e Infinito, definendola «un immenso trattato sull’ospitalità»; Cfr. citazione a blocco successiva. ↩︎
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S. Petrosino, L’umanità dell’umano o dell’essenza della coscienza, in Addio a Emmanuel Lévinas, Jaca Book, Milano 1998, p 38.. ↩︎
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Cfr. Ibidem. ↩︎
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J. Derrida, Addio a Emmanuel Lévinas, Jaca Book, Milano 1998, pp. 83; 109-110, corsivi originali. ↩︎
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Ivi, p. 87. ↩︎
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Ivi, p. 88, corsivo originale. ↩︎
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Ivi, p. 113. ↩︎
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Ivi, p. 114. ↩︎
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Cfr. Ivi, p. 112. La questione dell’impossibilità della tematizzazione non viene qui ulteriormente approfondita in quanto già trattata nel paragrafo precedente. ↩︎
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J. Derrida (a cura di Anne Dofourmantelle), Sull’ospitalità: riflessioni di uno dei massimi filosofi contemporanei sulle società multietniche, Baldini e Castoldi, Milano 2000. In questo contesto, tuttavia, è presa come riferimento l’edizione inglese Of Hospitality. Anne Dufoumantelle invites Jacques Derrida to respond, Standford University Press, Standford 2000, p. 3, traduzione mia. ↩︎
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La stessa possibilità di distinzione esiste anche in inglese, lingua in cui lo straniero è indicato come foreigner e l’estraneo come stranger. Cfr. R. Bowlby, Translator’s note, in Of Hospitality, op. cit., p. IX. ↩︎
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Cfr. J. Derrida, Of Hospitality, op. cit., p.3. ↩︎
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Osserviamo per completezza, visto che la versione che abbiamo preso come riferimento è quella in lingua inglese che, anche se il termine question nell’inglese non ha la stessa ambivalenza di significato che ha nel francese, tuttavia il forte legame tra questione e domanda sussiste: la question infatti indica proprio la domanda. ↩︎
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J. Derrida, Of Hospitality, op. cit., p. 3, traduzione mia, corsivi originali. ↩︎
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E. Lévinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 220, corsivo mio. ↩︎
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Si fa qui riferimento alla cosiddetta theoxenia, ossia quella credenza di origine mitologica, radicata nell’antichità classica ma anche nella tradizione biblica, secondo la quale la divinità usava assumere le sembianze di viandanti e andare a domandare atti di ospitalità agli uomini per metterli alla prova. Per approfondimenti si rimanda a E. Kearns, «Theoxenia», in Oxford Classical Dictionary, 2016, March 07, https://doi.org/10.1093/acrefore/9780199381135.013.6380. Segnaliamo, infine, che tracce di questa tradizione sono presenti anche, per esempio, nel Sofista di Platone, di cui si parlerà nel paragrafo conclusivo di questo scritto. ↩︎
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A tal proposito si rinvia a E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indo-europee, Einaudi, Torino 1976, pp. 64-75. ↩︎
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Cfr. Schmitt C., Il concetto di ʿpoliticoʾ, in Le categorie del ʿpoliticoʾ, Il Mulino, Bologna 2013, pp. 116 e sgg.. ↩︎
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Questa stessa prospettiva, seppur declinata in termini diversi, può essere rintracciata, oltre che in Schmitt, anche nell’idealismo tedesco. Cfr. Supra, § 2. ↩︎
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Cfr. Supra, § 3. ↩︎
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E. Lévinas, Totalità e Infinito, op. cit., p. 37, corsivi originali. ↩︎
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Questo stesso discorso verrà ripreso discutendo la vicenda di Socrate che, in tribunale, dice di essere costretto a parlare in una lingua che non è la sua. Cfr. § 6. ↩︎
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J. Derrida, Of Hospitality, op. cit., pp. 15; 17, traduzione mia. ↩︎
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Cfr. Ivi, p. 27. ↩︎
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Cfr. a questo proposito H. Joly, La questione degli stranieri. Platone e l’alterità, Et al, Milano 2010, p. 5. ↩︎
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Henri Joly parla a questo proposito di una prima rivoluzione che sarebbe avvenuta nell’ultima filosofia di Platone; la seconda sarebbe da individuare invece nel parricidio consumatosi nel Sofista. Cfr. H. Joly, op. cit., pp. 7-8. Sul parricidio compiuto nel Sofista si rimanda al prossimo paragrafo questo scritto. ↩︎
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Cfr. Platone, Leggi, in G. Reale (a cura di), Platone. Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 2000, pp. 1460-1744. ↩︎
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Cfr. Platone, Simposio, in Platone. Tutti gli scritti, op. cit.: il discorso di Diotima si trova a pp. 509-518, (201 D- 212 C). ↩︎
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Cfr. Platone, Parmenide, in Platone. Tutti gli scritti, op. cit., pp. 378-416. ↩︎
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F. Fronterotta, «Platone e lo straniero: un visitatore nella città e un ospite nel dialogo», in Aronadio F. – Palumbo L. – Serra M. (a cura di), Lo straniero e le voci della città, IISS PRESS, Napoli 2020, p. 104. ↩︎
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Cfr. Ibidem. ↩︎
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Cfr. Platone, Repubblica, in Platone. Tutti gli scritti, op. cit., pp. 1184-1237, (libri V-VI, 449 A - 511 E). ↩︎
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Cfr. F. Fronterotta, op. cit., p. 104. ↩︎
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Cfr. Platone, Gorgia, in Platone. Tutti gli scritti, op. cit., p. 892, (480 E). ↩︎
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Cfr. Platone, Simposio, op. cit., pp. 525-526, (221 C - 222 A). ↩︎
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Cfr. Supra, § 4. ↩︎
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Platone, Apologia di Socrate, in Platone. Tutti gli scritti, op. cit., p. 24, (17 A - 18 A), corsivo mio. ↩︎
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Platone, Critone, in Platone. Tutti gli scritti, op. cit., p. 60, (50 A-E). ↩︎
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Cfr. anche J. Derrida, Of Hospitality, op. cit., p. 31. ↩︎
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Cfr. G. Cambiano, op. cit. pp. 55-58. ↩︎
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In queste considerazioni viene proposta una interpretazione della figura socratica figlia di una lettura derridiana. Nel prossimo paragrafo di questo scritto la stessa operazione esegetica sarà diretta a un altro dialogo platonico, il Sofista. ↩︎
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Per una panoramica generale delle opinioni degli studiosi riguardo la funzione esegetica esercitata dalla figura di Socrate nei dialoghi platonici si rinvia a F. Trabattoni, «Alcune considerazioni generali sul Socrate di Platone», in Rivista Di Storia Della Filosofia (1984-), vol. 51, no. 4, 1996, pp. 895–906. JSTOR, https://www.jstor.org/stable/44023259. ↩︎
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Platone, Sofista, in Platone. Tutti gli scritti, op. cit., p. 264, (216 A). ↩︎
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Cfr. F. Fronterotta, op. cit., p. 105. ↩︎
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Cfr. Supra, § 4. ↩︎
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Platone, Sofista, op. cit., p. 264, (216 A-C). ↩︎
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F. Fronterotta, op. cit., p. 106. ↩︎
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La dimostrazione viene condotta in Platone, Sofista, op. cit., pp. 302-306, (258 E - 264 B). ↩︎
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Cfr. Ivi, p. 264, (217 A). ↩︎
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Cfr. Ivi, pp. 281-282, (236 D - 237 D). ↩︎
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Ivi, p. 305, (263 A). ↩︎
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Cfr. Ivi, p. 297, (253 E); pp. 302-306, (259 E - 263 D). ↩︎
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Cfr. Ivi, pp. 300-302, (257 A - 258 D). ↩︎
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Cfr. Ivi, pp. 302-306, (259 E - 263 D). ↩︎
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F. Fronterotta op. cit., p. 108. ↩︎
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Cfr. Platone, Sofista, op. cit., p. 286, (241 D). ↩︎
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Cfr. Supra, § 4. ↩︎
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L’idea di una saggezza straniera, presente anche nelle Leggi – Cfr. Platone, Leggi, op cit., p. 1730, (953 D-E) –, era particolarmente diffusa nelle città greche. «Pur sotto varie forme culturali ed esistenziali, dionisismo, orfismo, pitagorismo esprimono una stessa infatuazione per lo straniero; a essi andrebbe aggiunto il movimento cinico che, nei fatti e nelle azioni, insegna a vivere e comportarsi da straniero nella propria città. Si sa che l’origine di queste correnti religiose è, più o meno miticamente ma significativamente, collocata all’estero». H. Joly, op. cit. pp. 49-50, corsivi originali. Nel Sofista «è come se solo un filosofo straniero fosse anche in grado di filosofare in un altro modo». Ivi, p. 76. ↩︎
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Precisiamo però che tale svolta nei dialoghi platonici non deve essere interpretata, a nostro avviso, come una revisione della teoria delle idee, come alcuni studiosi sostengono. In accordo con Franco Ferrari riteniamo piuttosto che Platone abbia semplicemente voluto prendere le distanze dalla filosofia di Parmenide, che ai suoi occhi ormai appariva sempre più come un riduzionismo banalizzante. Cfr. F. Ferrari, Introduzione a Platone, Il Mulino, Bologna 2018, pp. 88-89. Aggiungiamo che grazie a questo diniego sono stati portati a compimento quegli esiti che in realtà erano impliciti nella speculazione platonica sin da sempre. ↩︎