Recensione a Giuseppe Modica, Una verità per me. Itinerari kierkegaardiani

Giuseppe Modica, Una verità per me. Itinerari kierkegaardiani, Vita e Pensiero, Milano 2007, 259 pp., € 20,00.

Gli itinerari kierkegaardiani tracciati da Giuseppe Modica sono una eccellente sintesi della compresenza, nel testo in questione, dell’aspetto teoretico e della fedele aderenza ad un autore che continua a saper parlare alla contemporaneità. Il percorso compiuto è una puntuale analisi critica e interpretativa volta a sottolineare come le categorie kierkegaardiane rappresentino una linfa vitale anche per autori che le condividono solo per contrappunto (Stirner, Levinas, Pareyson, Dreyer).

Modica sottolinea come il grande contributo del filosofo danese stia nell’aver posto il soggetto tra un infinito incommensurabile e un finito che lo limita. In questo rapporto, che si esprime fondamentalmente come relazione verticale con Dio, si schiude però anche la possibilità della relazione orizzontale che apre il soggetto stesso all’altro da sé. È la trascendenza, dunque, che ripara tanto dall’ipertrofia di un soggetto chiuso nella propria speculazione astratta, quanto dalla deriva solipsistica. Alla luce di questo assunto Modica dimostra come il dialogo critico con Stirner, Levinas e Pareyson consenta di evitare la riproposizione della polarità soggetto-oggetto tipica della metafisica tradizionale. La verità kierkegaardiana si presenta così attraverso la dialettica della singolarità, il tema dell’inter-esse, la funzione del dialogo e dell’ironia; categorie, quest’ultime, che sfuggono a qualsiasi ipostatizzazione oggettivistica. In questa prospettiva l’autore si affaccia anche sulla dimensione della fede, mostrando come, in Kierkegaard, essa non sia mai separabile da un salutare e laico esercizio del dubbio.

A partire da un discorso serrato tra la prospettiva kierkegaardiana e il filosofare socratico, Modica sottolinea come l’esistenza sia diretta verso la realizzazione di sé mediante l’essere-tra le dimensioni del finito e dell’infinito. La condizione di possibilità di questa realizzazione è il peccato, il quale, rappresentando la «determinazione di qualità» del singolo, si volge in paradosso costringendo il pensiero a riconoscere l’inesplicabile. Il peccato, come Modica mostra leggendo il Concetto dell’angoscia, rappresenta infatti una barriera per la ragione umana giacché esso è interpretabile come colpevolezza ontologica — ossia come presupposto costitutivo dell’esistenza umana e non come esercizio del vizio —, ma nello stesso tempo è la condizione situativa del porsi dinanzi a Dio. E tuttavia, anche se la realtà del peccato risulta insondabile alla ragione umana, è proprio lì che si snoda la possibilità del riscatto, della conciliazione e si schiude un’etica nuova.

Rileggendo la dialettica della libertà teorizzata da Kierkegaard anche nel grande Diario, l’autore evidenzia che per diventare singolo l’uomo deve fuggire l’ordinario per accogliere lo straordinario, e spostare il suo baricentro fuori di sé, in quel donatore irrelato che è Dio. L’uomo riceve il dono della possibile relazione nell’unico modo in cui può riceverlo e cioè nella incomprensibilità — il cui esito non è però lo scetticismo — e nella libertà — il cui esito non è però il capriccio ma la scelta, l’appropriazione di sé e del mondo. In questo modo l’esteriorità si capovolge in interiorità e l’irrelatività in relazione. La singolarità kierkegaardiana, realizzandosi precisamente in una relazione teandrica, si risolve così in un compito inesauribile che arricchisce di tonalità etico-religiose il valore ontologico dell’esistenza.

L’apporto più fecondo del filosofo danese consiste, pertanto, nella rivalutazione dell’etica sia come punto di partenza sia come punto di arrivo della singolarità, zona di convergenza della indiscutibile condizione di finitezza dell’esistenza ma, nello stesso tempo, della possibile apertura dell’esistenza alla trascendenza. La specificità di una nuova filosofia della prassi, che comprende una sorta di analitica esistenziale prospettata sulla dimensione religiosa, è la via soggettiva alla verità che può darsi solo come testimonianza; a questo proposito risultano quali chiavi di volta il peccato e la morte in quanto sigilli della finitezza e cicatrici dell’infinità: cifre in grado di ridisegnare le priorità dell’esistenza.

Modica sottolinea infine quanto — a proposito del paradosso — sia peculiare il contributo dell’arte di Dreyer, la quale evidenzia la peculiare contraddittorietà dell’esistenza, che risulterebbe altamente tradita da un linguaggio concettuale e comprensivo, e che, invece, viene rispettata dal linguaggio visivo — l’immagine in movimento — che rinvia al contenuto lasciando, però, uno scarto attraverso il quale è possibile intravedere la trascendenza di ciò che viene raffigurato. Ancor di più risulta significativa, in questo contesto, la preghiera — particolare registro linguistico —, che assume il valore della differenza, poiché mette in risalto la difficoltà della relazione con un Dio incommensurabile, aprendo la condizione umana all’Assoluto: l’uomo è collocato così nella dimensione dell’ascolto e della scelta, grazie a cui gli è possibile ritrarsi per rendere parlante il silenzio di Dio.